Scarica Elaborato sul proemio degli "Annales" di Tacito e più Tesine di Maturità in PDF di Latino solo su Docsity! Liceo Classico Galileo Matteo Giachi, VF Intellettuali e potere Tacito, Annales,I, 1 1] Urbem Romam a principio reges habuere; libertatem et consulatum L. Brutus instituit. dictaturae ad tempus sumebantur; neque decemviralis potestas ultra biennium, neque tribunorum militum consulare ius diu valuit. non Cinnae, non Sullae longa dominatio; et Pompei Crassique potentia cito in Caesarem, Lepidi atque Antonii arma in Augustum cessere, qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis sub imperium accepit. sed veteris populi Romani prospera vel adversa claris scriptoribus memorata sunt; temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia, donec gliscente adulatione deterrerentur. Tiberii Gaique et Claudii ac Neronis res florentibus ipsis ob metum falsae, postquam occiderant, recentibus odiis compositae sunt. inde consilium mihi pauca de Augusto et extrema tradere, mox Tiberii principatum et cetera, sine ira et studio, quorum causas procul habeo. Roma in origine fu una città governata dai re. L'istituzione della libertà e del consolato spettò a Lucio Bruto. L'esercizio della dittatura era temporaneo e il potere dei decemviri non durò più di un biennio, né a lungo resse la potestà consolare dei tribuni militari. Non lungo fu il dominio di Cinna né quello di Silla; e la potenza di Pompeo e Crasso finì ben presto nelle mani di Cesare, e gli eserciti di Lepido e di Antonio passarono ad Augusto, il quale, col titolo di principe, concentrò in suo potere tutto lo stato, stremato dalle lotte civili. Ma, storici di fama hanno ricordato le vicende, nel bene e nel male, del popolo romano dei tempi antichi e non sono mancati chiari ingegni a narrare i tempi di Augusto, sino a che, crescendo l'adulazione, non ne furono distolti. Quanto a Tiberio, a Gaio (Caligola), a Claudio e a Nerone, il racconto risulta falsato: dalla paura, quand'erano al potere, e, dopo la loro morte, dall'odio, ancora vivo. Di qui il mio proposito di riferire pochi dati su Augusto, quelli degli ultimi anni, per poi passare al principato di Tiberio e alle vicende successive, senza rancore e senza appassionato favore, essendo i motivi dell’uno e dell’altra lontani dal mio spirito. Il seguente passo costituisce l’incipit degli Annales, una delle due opere storiografiche scritte da Tacito, il più grande tra gli storici latini. L’opera narra il periodo della dinastia giulio-claudia, dalla morte di Augusto nel 14 a quella di Nerone nel 68. Originariamente gli Annales contenevano circa sedici libri, ma ce ne sono giunti solo i primi sei, dedicati al principato di Tiberio, e quelli dall’undicesimo al sedicesimo, relativi agli anni dal 47 al 68. Lo schema adottato per la composizione dell’opera è quello annalistico tradizionale: ogni anno è contrassegnato dal nome dei consoli e all’interno di ciascun anno il racconto si sposta, anche più volte, dalle vicende interne a quelle esterne. Rispetto alle Historiae, l’altra opera storiografica di Tacito, si nota tuttavia un’accelerazione del racconto: i libri a noi pervenuti abbracciano da un minimo di due a un massimo di nove anni ciascuno. Inoltre, con lo schema annalistico Tacito combina unità compositive più ampie, corrispondenti ai singoli regni, ciascuno dei quali strutturato attorno alla figura dell’imperatore, vero centro della narrazione, come si deduce con evidenza dalla sola sezione giuntaci quasi per intero, quella dedicata a Tiberio. Accanto alle figure degli imperatori compaiono molti altri personaggi, alcuni dei quali assumono grande rilievo, senza tuttavia mai assurgere al ruolo di protagonisti: le loro azioni e le loro vicende sono perlopiù considerate nella misura in cui interferiscono con quelle del principe, influenzandone il comportamento e comportandone le reazioni. Gli Annales si aprono con una prefazione molto breve, che comprende uno stringato sommario di storia costituzionale romana che va dalla monarchia alla libertas repubblicana, fino ad arrivare al principato. In seguito, Tacito si lascia andare ad un giudizio di condanna sugli storici del principato, le cui opere sono guastate o dall’adulazione o dall’odio nei confronti degli imperatori stessi. Quindi enuncia la sua intenzione di “trattare brevemente gli ultimi tempi di Augusto e poi il principato di Tiberio e gli avvenimenti successivi”. Questa piccola archeologia istituzionale di Roma è un paradigma dello stile di Tacito. Gli strumenti espressivi della brevitas tacitiana, che riesce a condensare in poche righe tutti i punti principali di un tema che potrebbe occupare capitoli, sono la frase nominale, l'uso di endiadi (libertatem et consulatum), l'ellissi pressoché continua di termini della frase. Ad essere impliciti non sono solo elementi marginali della frase, ma anche le connessioni logiche dei periodi, che vengono lasciate alla fantasia del lettore. Oltre a ciò, Tacito gioca su vocaboli di senso pregnante come potestas, dominatio, imperium, adulatio. Si nota inoltre, l’uso della desinenza -ere per la terza persona plurale del perfetto indicativo (habuere: habuerunt; cessere: cesserunt; defuere: defuerunt), molto utilizzato anche da Livio, al quale, soprattutto nei discorsi e nelle descrizioni di luoghi e di battaglie, Tacito si ispira in particolar modo. Da Sallustio invece, il poeta riprende la predilezione per termini rari, che conferiscono una certa coloritura arcaica alla lingua. Il vocabolario è molto ricco, ma anche severamente e curiosamente selettivo. Lo storico evita, infatti, l’uso di termini volgari, ma anche di tecnicismi e grecismi, che sostituisce con perifrasi. Come si può evincere anche dalla lettura del proemio, però, la peculiarità più vistosa della prosa tacitiana è costituita dalla costruzione delle frasi, cui struttura sintattica e procedimenti retorici conferiscono una brevitas e una concisione ben superiori di quelle del modello sallustiano. Tacito, infatti, integra agli espedienti sallustiani quali l’ellissi di sum, asindeti, infiniti descrittivi e abbondanza di costrutti participiali, un uso assai più libero, rispetto alla prosa classica, del participio, del gerundio (dicendis) e dell’ablativo assoluto (gliscente adulatione e florentis ipsis). Le norme e gli schemi che in questo proemio Tacito si promette di rispettare sono anch’essi propri di Sallustio e Livio, a partire dai fondamentali principi della veridicità e dell’imparzialità (sine ira et studio). Tali principi, tuttavia, sono attuati dallo storico in un modo peculiare, che costituisce uno dei caratteri originali della sua arte. Egli presenta frequentemente più interpretazioni di un fatto, senza prendere apertamente posizione di una o dell’altra; la stessa tendenza lo porta a citare spesso rumores (“dicerie”), che egli inserisce con incredulità e scetticismo, in quanto provenienti perlopiù dagli strati più bassi della popolazione. Lo scrupolo di registrare tutte le versioni finisce così per tradursi in un racconto ambiguo che, pur senza giungere ad alterare i fatti, ne orienta implicitamente l’interpretazione in una determinata direzione. Avvalendosi inoltre del diritto-dovere rivendicato dagli storici antichi di valutare gli eventi, Tacito formula severi giudizi di condanna su difetti, vizi e debolezze dei personaggi, cui non sfugge quasi nessuno. Dalle opere di Tacito emerge una concezione profondamente pessimistica della natura umana, una tendenza a scorgere o a sospettare di ogni atto le motivazioni meno nobili, ad accreditare o a suggerire, tra molte, quasi sempre l’interpretazione più sfavorevole. Negli Annales e nelle Historiae inoltre troviamo una nuova impostazione che non fa più dei grandi eventi militari e civili il centro della narrazione: i temi che interessano maggiormente lo storico sono lo scadimento della classe senatoria, gli intrighi di corte, le lotte per il potere. La componente politica e morale, che aveva già assunto grande risalto soprattutto in Sallustio, viene accentuata ed esasperata e diviene l’elemento portante della narrazione storica. La visione dell’impero per Tacito negli Annales è data dalle seguenti parole: “alla discordia della patria non c’era stato altro rimedio che il governo di uno solo”, in cui la metafora del remedium evoca l’idea di un intervento necessario, ma doloroso. Dunque, riprendendo e approfondendo la linea della storiografia sallustiana, Tacito prende atto della profonda crisi che ha portato alla fine della repubblica, della degenerazione della classe senatoria e della scomparsa del popolo come entità politica; si rende conto che il processo è irreversibile, ma d’altra parte non può aderire con entusiasmo e convinzione al principato, e anzi concentra la sua attenzione sugli aspetti negativi e oscuri dell’operato dei principi. Proprio da questa posizione lucidamente disincantata deriva il fascino di uno storico che non ha ideali né soluzioni da proporre, ma che non per questo rinuncia a giudicare con severità, e spesso con ferocia, la realtà che rappresenta.