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Estetica - Sbobinature di tutte le lezioni, Appunti di Estetica

Sbobinature di tutte le lezioni tenute dal prof. Desideri per il corso di Estetica nell'anno accademico 2020-2021. Gli appunti sono presi parola per parola (grazie anche all'ausilio delle registrazioni), evidenziando i termini importanti e schematizzando i concetti principali. Utilissimi per chi non ha potuto assistere alle lezioni in diretta o in differita e vuole dare l'esame al più presto.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 06/05/2021

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Scarica Estetica - Sbobinature di tutte le lezioni e più Appunti in PDF di Estetica solo su Docsity! Sbobinature lezioni di Estetica Prof. Fabrizio Desideri, a.a. 2020/2021 Lezione 1 Tre autorevoli testimonianze per cominciare. Primo è Luis Borges, scrittore argentino molto legato all’Italia che, oltre ad avere una scrittura di fertilissima immaginazione, ha una scrittura caratterizzata da profondità teologico filosofica straordinaria. Passo tratto da un testo straordinario di Borges. “La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; questa imminenza di una rivelazione che non si produce è forse il fatto estetico”. Prima riflessione su questo passo: l’ampia gamma di fenomeni che dal punto di vista di Borges appartengono alla dimensione dell’estetico, al campo concettuale dell’estetico, vi appartengono designando un fatto. La sfera dell’espressività artistica per eccellenza, cioè la musica, prodotta per arte, poi gli stati eccezionali dell’esperire, (oscillazione costitutiva di cosa è estetica, tra arte e sfera del diretto esperire), la mitologia (altro elemento costitutivo dell’estetica che risuona in modi diversi, es. Vico, la prima forma della ragione umana è poetica, sta nel modo con cui il mito è inventato a partire dall’esperienza e interpretazione della natura), i volti scolpiti dal tempo (il volto non è solo umano, ma fatto estetico è il volto umano attraverso la profondità espressiva che il tempo ha lasciato su questo volto, volto come epitome dell’identità umana colto nella sua ricchezza di anni), certi crepuscoli e certi luoghi (non solo l’umano, non solo l’artistico, non solo l’interno esperire, ma anche certi modi con cui da noi è colta la natura o il paesaggio, la localizzazione dello spazio, il luogo, la familiarità che instauriamo con certi luoghi e la capacità che questi hanno di innestarsi nella nostra memoria; il mutare della luce del Sole con i suoi differenti colori): tutti questi fenomeni vogliono dirci qualcosa, sono espressivi e dunque lo sono in quanto un linguaggio li caratterizza, perché non c’è espressività se non presupponendo un linguaggio, una differenza tra interno ed esterno (ex-primere, pensiero di Benjamin)! Borges è ancora più sottile, non è un generico voler dire, ma è anche il dire, l’aver detto qualcosa che sentiamo e avvertiamo come irrinunciabile, come qualcosa che non avremmo dovuto perdere, di cui sentiamo lato la fuggevolezza, la caducità per pochi istanti (es. durata di un crepuscolo). Dopo aver detto che tutti questi fenomeni vogliono dirci qualcosa o hanno voluto dirci qualcosa, indicando l’unicità del dire, con carattere di evento, vediamo come tutto questo connota le fondamenta della struttura estetica: carattere espressivo e carattere di evento (temporalità e memorabilità, i ricordi giocano un ruolo costitutivo). Borges dice che altrimenti questi fenomeni ci stanno per dire qualcosa: ciò che si presenta e che viene connotato come estetico ha il senso di un’imminenza che non si produce, quel momento di “stare per”, denso di una dimensione di promessa. L’estetico ha anche questa capacità di essere promessa e di aggettare il futuro (uno dei tratti sorgivi di ciò che chiamiamo estetico, dimensione strutturale dell’anticipare). Qui il senso dell’anticipazione ha valore in sé: l’estetico ha il senso di una promessa di rivelazione che ha valore in quanto promessa, la quale non ha senso solo per ciò che accade. Il senso dell’imminenza, dal punto di vista estetico, l’accadere o meno non ha rilevanza (II Wittgenstein, il promettere è una forma in sé della espressività linguistica che ha valore di per sé e non attende di essere realizzato o meno). La rivelazione che si produce è qualcosa che pertiene alla sfera peculiare del religioso, ma l’imminenza di una rivelazione che non si produce appartiene all’autonomia dell’estetica. Tutto questo è forse il fatto estetico. Riflettendo solo su questo inanellarsi di forme di eventi che però comprendono una gamma di fenomeni tra loro eterogenei, noi abbiamo forse percezione della peculiarità e distinzione dell’estetico rispetto ad altre forme e dimensioni dell’esperire umano. Secondo è Friedrich Nietzsche, “Aesthetica”, frammento di quelli postumi di Nietzsche del 1887 (oltre periodo illuministico della trilogia di aforismi, Umano troppo umano/Aurora/Gaia scienza, ultimo periodo poco prima dei Biglietti della follia). Egli si riferisce evidentemente all’opera che inaugura l’estetica come disciplina filosofica, che è l’Aesthetica del 1750 di Baumgarten. “È questione di forza (di un individuo o di un popolo) se e dove si pronunci il giudizio <<bello>>. Il senso di pienezza, di forza accumulata (per cui è permesso accogliere coraggiosamente e di buon animo molte cose di fronte a cui il debole è preso da brividi) – il senso di potenza pronuncia il giudizio bello anche su cose e stati che l’istinto dell’impotenza può trovare solo odiose, brutte. Il fiuto di ciò contro cui ci sentiremmo pressappoco di spuntarla, se ci venisse incontro materialmente, come pericolo, problema, tentazione – questo fiuto determina anche il nostro sì estetico. <<Ciò è bello>> è un’affermazione”. Questo passo è straordinariamente importante, perché da un lato riprende un aspetto centrale della questione estetica, cioè il suo gravitare a partire dall’esperienza di oggetti di aspetti peculiari, situazioni, volti eccetera, il gravitare attorno anche alla questione del giudicare. L’esperienza estetica, e questo non è Baumgarten ma Kant, culmina nel giudizio, nella sfera del giudicare. L’estetico non riguarda unicamente i fatti interni, cioè le emozioni e gli stati soggettivi (certo, questi sono un elemento costitutivo che si annoda ad ogni esperienza estetica), c’è anche un elemento che rende universale la mia esperienza estetica (aspetto cognitivo), e tutto questo viene a giorno nel giudicare. L’esperienza estetica porta ad un giudizio estetico, che, per Kant, non è riducibile ad altri tipi di giudizi: questo aspetto di un vedere che diventa riconoscere è al centro della riflessione di Nietzsche, il quale sottolinea che il giudicare implica la forza di giudicare. Qui egli non tradisce Kant, ma lo intende alla lettera, perché nella CDG tutto gravità intorno alla Urteilskraft, alla capacità del giudizio, alla facoltà. Il termine non si traduce in facoltà come nelle altre due critiche, ma indica l’esercizio: non c’è giudicare se non c’è esercizio di tale. Nietzsche porta a giorno una dimensione implicita nel senso stesso del termine tedesco che indica la capacità di giudicare, perché Kraft indica la forza del giudizio, l’energia del giudicare. Allora è questione di forza quando si pronuncia il giudizio estetico: c’è una forza che si accumula in questo (Nietzsche ultimo, quello dell’amor fati, della capacità di dire sì a tutto ciò che sembra annientare la compattezza del soggetto). Questo è anche un giudicare qualcosa come bello: è il senso di potenza che pronuncia il giudizio bello anche su cose che l’istinto dell’impotenza trova odiose e brutte. Questo indipendentemente, senza andare ad approfondire le questioni dell’ultimo Nietzsche; l’elemento da prendere come tesoro è che egli con questo passo introduce il tema del rapporto tra estetica ed energetica, cioè la dimensione estetica è l’espressione di un sovrappiù, una dimensione che oltrepassa la normale condizione dell’umano, è qualcosa che eccede l’esperienza. È l’eccezione, l’istante felice nell’eterno ritorno: memoria di questo istante felice è la forma stessa del giudicare. Là dove c’è giudizio estetico, là si esprime in fatto che qualcosa su di me ha agito in maniera tale da non lasciarmi indifferente, qualcosa ha reclamato la mia attenzione. Il giudizio sul bello implica che indugiamo nel percepire, perché guardare l’oggetto è fine in sé della percezione (Kant): la percezione estetica è autotelica, ha telos in se stesso. Di tutto questo c’è traccia nel passo di Nietzsche. Terzo passo è quello di Walter Benjamin, passo tratto dal testo più celebre dell’autore “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (saggio di estetica più influente della seconda metà del Novecento – l’opera non è più esemplare unico e irripetibile ma è destinata ad essere riprodotta in serie, con la fotografia e il cinema, l’opera è per principio riproducibile, non è falso o copia). In questo contesto egli sostiene che così viene a decadere l’aura dell’opera d’arte tradizionale: per aura egli intende il fatto che l’opera d’arte tradizionale è caratterizzata da un qui ed ora, un’unicità e irripetibilità. L’aura è cifra peculiare di ogni esperienza estetica. “Che cos’è, propriamente, l’aura? Un singolare intreccio di tempo e spazio: apparizione unica di una lontananza per quanto vicina essa possa essere. Seguire, nella quiete di un pomeriggio estivo, il profilo dei monti all’orizzonte o un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, finché l’istante o l’ora hanno una parte nel loro apparire – ciò vuol dire respirare l’aura di questi monti, di questo ramo”. Unicità, apparizione, fenomeno, presentarsi unico anche nell’estrema prossimità è estremamente distante, inappropriato, irraggiungibile. Qui egli coglie l’essenza dialettica dell’esperienza estetica: gioco continuo tra riguardarmi dell’oggetto prossimo e il suo sottrarsi a qualsiasi impulso acquisitivo, l’oggetto estetico è ciò di cui mai ci appropriamo. È e non è quello che si presenta e se lo è lo è in quanto rivela una distanza che sopravanza ogni conoscere ed ogni acquisire. Dialettica inesauribile tra prossimità e distanza connota l’aura dell’esperienza estetica e ha i caratteri del respiro: c’è il tempo che lo attraversa, l’istante, la misura dell’esperienza estetica è l’istante, il tempo che non scorre ma sta lì, e si trattiene in se stesso. Tutto questo ha a che fare con il respiro. Lezione 2 sensibilità, del sistema delle arti belle ricondotte ad un unico principio, che non hanno finalità esterna ma che riguardano la sfera del sentire. Questo si diffonde ben presto, dato che pochi decenni dopo il primo conio dell’estetica di Sulzer appare nell’Enciclopedia. Tutto questo va incontro alla ricerca del sublime in area anglo-scozzese, dunque è già maturato in varie istanze e tradizioni un nuovo approccio alle questioni della bellezza. Bisogna chiarire cosa significa conoscenza sensibile, perché l’estetica, questa nuova scienza, è definita come gnoseologia inferior. Conoscenza sensibile è di fronte a tutto quel complesso di rappresentazioni che restano sotto la soglia della distinzione: in pratica, conoscenza superior razionale si ha non solo con la chiarezza ma anche con la distinzione, mentre la conoscenza estetica può arrivare ad un grado di chiarezza ma mai a quelle che sono le articolazioni concettuali, le idee distinte. Non c’è distinzione sensibilità-ragione, ma condivide con Leibniz e Wolff il principio di un continuum tra sensibilità e ragione: la ragione non è che il progressivo chiarificarsi della sensibilità. Bellezza è perfezione della conoscenza sensibile, cioè un modo dell’organizzazione dell’oggetto che giunge ad un massimo grado di chiarezza, fino ad acquisire per analogia alcuni caratteri della conoscenza razionale. “L’estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, arte dell’analogo della ragione) è scienza della conoscenza sensibile”: questa è la definizione del 1750. Teoria delle arti liberali, che poi saranno le arti belle (esempi che lui fa sono quasi esclusivamente di ordine letterario), gnoseologia inferiore, arte del pensare in modo bello, cioè la retorica (estetica include teoria delle arti, una dimensione peculiare della conoscenza, cioè quella sensitiva, poi dare una forma non di pura argomentazione ma organizzazione retorica), arte dell’analogo della ragione (tra sensibilità e ragione vi è continuità, ponte dell’analogia in cui estetica fa da raccordo per contenere analogicamente alcuni caratteri della ragione e della verità razionale). L’estetica con tutto questo è la scienza della conoscenza sensibile. L’inferior e il superior si coappartengono: vi è un transito dato dalla nozione di bellezza, che Baumgarten declina come perfezione della cognitio sensitiva. Il significato intensivo della perfezione, cioè cognitio estensive clarior, conoscenza di qualcosa in senso esteso che ha il carattere di vividezza, in cui la conoscenza è più luminosa di altri. Ad esempio, nel caso di un poema, esso può avere dei tratti che pertengono alla conoscenza razionale, come ad esempio il rapporto tra varietà dei fenomeni e coerenza del tutto (la riflessione di Baumgarten non è l’unica di questo genere). Mentre nella conoscenza razionale si riconduce la molteplicità ad un unico concetto che la definisce, qui abbiamo un contemperarsi del massimo della varietà che risponde a criteri di unità e coerenza che stanno per un verso sotto la soglia della distinzione logica e dall’altro gettano un ponte analogico con la cognizione razionale. Una bella rappresentazione sarà una rappresentazione da un lato complessa e dall’altro coerente, caratterizzata da un rapporto di armonizzazione tra varietà, unità e vivacità. Sarà una rappresentazione il più possibile determinata di molteplicità senza perdere unità del tutto. Kant infliggerò un colpo definitivo a questa definizione di bellezza come perfezione, mostrando come sia una contraddizione in termini, perché per Kant un oggetto è perfetto solo nella misura in cui contiene al massimo tutte le determinazioni che pertengono al concetto di esso. C’è bisogno di un concetto per far sì che l’oggetto sia perfetto, ma la bellezza per Kant non è un concetto e la definizione di Baumgarten è contraddittoria. Baumgarten con la sua opera sblocca e apre la questione della nuova disciplina di nuovo ordine rispetto alle questioni etiche e cosmologiche, dall’altro lato però rappresenta una posizione definita che di lì a poco sarà oggetto di contestazioni e prese di posizione, soprattutto quella di Kant (40 anni dopo). La dimensione estetica è comunque conoscenza per Baumgarten, è conoscenza sensibile ed è conoscenza, non è l’unica versione di estetica possibile (Hume). Questa dinamica del conoscere inferior nasce da disposizioni naturali, per cui si tratta di naturalismo della prima parte dell’Estetica di Baumgarten. Estetica è naturale innata perché è complesso di disposizioni che hanno a che fare con la natura di ognuno: immaginare, riconoscere con memoria, prevedere, riconoscere un gusto raffinato. Egli coglie un’altra questione importante che tornerà dell’analitica del bello di Kant, e cioè come sia centrale, per questa dinamica connessa al percepire e alla sensibilità, l’esercizio. Baumgarten insiste sulla centralità dell’esercizio estetico: da un lato c’è una dimensione disposizionale che ha a che fare con un senso innato dell’estetico, dall’altro la trasformabilità del gusto, problema che Kant si pone nella CDG quando pone la questione del sensus esteticus communis, se questo sia innato naturale o acquisito: Kant dice che il gusto sta al confine tra l’essere qualcosa di innato e di socialmente edificato. Schiller, educazione estetica. L’esercizio estetico è fondamentale per il diversificarsi del gusto. In questo quadro ci sono riflessioni di Baumgarten sull’impeto estetico: coglie una dimensione che ha a che fare con il genio, l’ispirazione, la mania divina. L’impeto è il bello slancio, l’infiammarsi della mente, l’entusiasmo, il soffio divino. E qui il cerchio in parte si apre in parte si chiude: siamo partiti dalla questione del respiro e della dinamica dell’inspirare/espirare e giunti al soffio del divino. È importante che Baumgarten includa queste dimensioni che solitamente poi gli studiosi non considerano. Egli include anche qualcosa che noi abbiamo appreso tramite Nietzsche, cioè la questione della forza. L’estetica per lui ha a che fare con l’energia e la forza del giudicare, così che bisogna avere coraggio di cogliere bellezza anche nel fenomeno che i deboli considerano turpe, però in Baumgarten stesso c’è una connessione tra forza ed essenza: la sostanza stessa è leibnizianamente attività, attività della monade, attività rappresentativa e capace di informare il tutto e riflettere il tutto, monade come centro energetico che si propaga e comunica con altre monadi in virtù della sua vis repraesentativa. Nell’universo leibniziano ci sono differenze tra maggiore/minore chiarezza con cui le monadi percepiscono il tutto così come vi è differenza tra maggiore e minore chiarezza nelle piccole percezioni. Versante ontologico dell’estetica in Baumgarten, nozione poetico-retorica dell’ordine, connessione tra le parti capace di splendore, ordine lucente (Oratio), in questo risplendere si accende la conoscenza o la dinamica percettiva dell’estetica. Centralità della nozione di tensione espressiva, cioè un tendere, un aspirare all’espressività, un tendere verso la chiarezza, un modo di declinare il senso leibniziano di possibilità di exigentia existendi, ciò che è possibile esige e aspira all’esistenza. Il passo di Nietzsche è un modo per interpretare l’estetica di Baumgarten. Estetica come forza di Nietzsche è prodromo alla tensione di un ordine splendente che caratterizza certe pagine baumgarteniane. In entrambi i casi vi è il senso dell’eccesso dell’estetico, di un sopraggiungere di una dimensione che per la sua forza non si lascia ricondurre alle arti. Lezione 3 Eone deriva dall’aion greco, termine chiave del linguaggio delle lettere paoline (etimo significa verità in greco, ricerca etimologica è ricerca della verità). Estetica come dottrina della percezione (Benjamin), analisi della percezione che ha una sua peculiarità. Ma non è solo una percettologia (M. Ferraris), ma una risonanza di percezioni. Baumgarten conferisce autonomia alla dinamica della percezione dal punto di vista della sensibilità, denominandola gnoseologia inferior: questa conoscenza sensibile non è solo qualcosa di accessorio, ma fa parte dell’edificio della conoscenza. Estende la questione del gusto dei francesi al termine ta’am nel senso di conoscere e gustare. Egli coglie così la risonanza interna tra sapere e sapore, una dimensione del sapere che pertiene alla sensibilità in stretto rapporto con il gustare, cioè un discriminare, un rifiutare o rallegrarsi rispetto ai cibi. Comunque sia, spesso quando parliamo di arte intendiamo quella che ha valenza estetica, mentre c’è un secondo senso di arte quale fare degli artigiani. Nell’estetica, dunque, ci sono le arti belle, la retorica (critica di Platone ai Sofisti che nascondono la verità con la retorica, nell’ultima parte del Fedro, retorica dev’essere ancorata alla dialettica), fino ad includere l’arte dell’analogo della ragione. Conoscenza sensibile e intellettuale con relazioni analogiche fra di loro: questa loro proporzionalità tra piani diversi è affidata alla bella rappresentazione, alla bellezza che contiene il principio della varietas e della coerenza e talvolta della vivacità. La peculiarità della bella rappresentazione è di avere una ricchezza di determinazioni possibili delle sfumature della vita che rispondono ad un progetto coerente (come la ragione sussume il particolare sotto il concetto universale). Kant critica questa concezione della bellezza come perfezione: la bellezza non è un concetto e per avere un giudizio estetico di un qualsiasi oggetto non è necessario passare attraverso la mediazione del concetto dell’oggetto. Per dire che un oggetto è perfetto, questo deve contenere tutte le determinazioni che pertengono al concetto, altrimenti non lo si può dire. Baumgarten è attento alla dimensione naturale/naturalista dell’origine naturale dell’estetica e il fatto che, perché vi sia sviluppo di un’attitudine estetica, si deve presupporre un complesso di disposizioni che funzionano al meglio. Delle qualità che corroborano e alimentano la percezione come la disposizione a immaginare, il rapporto tra memoria e percezione, il riconoscere affinità tra passato e presente, capacità di riconoscere il novum (esperienza estetica è conferma da un lato e attesa del novum dall’altro): tutte queste nostre attitudini sono innate in noi. Problema che il gusto raffinato è forse non qualcosa che pertiene alle disposizioni naturali, ma all’educarsi di esse e quindi al lato delle trasformazioni, dell’educazione culturale e complesso di esperienze. Per l’esperienza estetica, però, è fondamentale l’esercizio: per Kant, come per Baumgarten, il giudizio è una facoltà incentrata sulla capacità di esercitarla. Non è possibile pensare una facoltà di giudizio senza la capacità di discernimento (CRP). Infine Baumgarten insiste sulla forza, dimensione presente in Nietzsche, perché l’estetico ha a che fare non solo con il giudicare quotidiano, ma ha anche a che fare con il bello slancio, l’infiammarsi della mente, l’essere dell’animo in Dio, l’entusiasmo e ispirazione divina (questione respiro/inspirare). Posizione che oscilla tra una concezione cognitivista dell’estetica e anche un’attenzione alle origini naturali, sintesi di Baumgarten tra cognitivismo (leva su estetica come conoscenza sui generis che comunque appartiene al genere del conoscere) e naturalismo (leva su disposizioni innate). Non c’è però un’unica possibilità di definire il senso dell’estetica come disciplina filosofica: non c’è un solo modo per definirla come gnoseologia inferior. La dinamica del conoscere comprende sempre due poli: un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto, dunque la visione di Baumgarten non è puramente soggettivista, né relativista, al contrario di altre concezioni, come quella dell’emotivismo, concezione che ritiene che il proprio dell’esperienza estetica, il criterio del giudicare e il senso stesso dell’estetica sta nel provare certe emozioni, concezione molto influente più presente nel senso comune. Spesso si pensa che come criterio di verità estetica il fatto che un’opera ci abbia emozionato. La verità è il criterio, non tanto la relazione estetica in questo senso, ma ciò che si prova (posizione inconsistente secondo il Desideri, difetta del pensare le conseguenze con effetti indesiderati). Per caratterizzare l’emotivismo in estetica, come una posizione sicuramente alternativa rispetto a Baumgarten o a Kant, partiamo da David Hume. Egli è un filosofo scozzese di grandissimo livello che insiste sui limiti della ragione e si fa propugnatore di empirismo radicale, criticando qualsiasi validità dell’a priori e della stessa possibilità di definire in modo certo le leggi della natura (egli abbatte il principio di causalità). Posizione di radicale scetticismo in ambito epistemico, tanto che le idee o le categorie che in Kant sono a priori, in Hume non sono altro che effetti secondari dell’accumularsi di impressioni. Centralità del sentimento: “Non inferiamo che una qualità sia virtuosa perché ci piace, ma nel sentire che ci piace in un certo modo particolare, sentiamo che in effetti è virtuosa. Ciò accade anche nei nostri giudizi su ogni genere di bellezza, gusti e sensazioni. La nostra approvazione è implicita nel piacere immediato che tutte queste cose ci danno”. Questo passo è nel Trattato sulla Natura Umana (1740), in cui viene assegnato al sentimenti suscitato da qualcosa il ruolo fondamentale dell’esperienza estetica. Hume mette sullo stesso piano il cogliere una qualità come virtuosa, quindi etica, con il cogliere una qualità estetica, cioè non siamo di fronte in entrambi i casi ad una inferenza. Non siamo di fronte ad un’argomentazione che passa attraverso la mediazione di un concetto! Noi attribuiamo certe qualità ad un’azione in base appunto al corrispondere questa azione ad una norma etica che condividiamo, oppure ad una definizione di virtù. Egli critica l’inferenza, dicendo che è il sentire che ci piace che decide della virtuosità; questo può portare a conseguenze indesiderate, come per esempio ad un’etica di tipo utilitaristico e così via. A decidere della virtuosità dell’azione è il fatto che sentiamo che ci piace in modo particolare: analogamente procediamo in riguardo ad ogni genere di bellezza, gusti e sensazioni. Non facciamo derivare il nostro giudizio circa le qualità estetiche di qualcosa da un criterio, non vi è una regola data precedentemente. È il piacere immediato che decide se qualcosa è bello o meno. Hume qui sta, in qualche modo, espungendo e riconducendo il giudizio all’interno delle dinamiche del sentire: lo rende in qualche modo irrilevante come atto perché è il sentire che discrimina. È il piacere immediato, è l’immediatezza dei sentimenti che conta. Questo è un punto di grande differenza poi tra Hume e Kant nel §9, paragrafo più importante della facoltà di giudizio, che è la chiave dell’intera opera: egli critica la posizione di rendere irrilevante l’atto del giudizio rispetto al piacere immediato. Egli si chiede: dobbiamo dire che vi è prima il piacere dell’oggetto (Hume) e poi da esso deriviamo il giudizio oppure il contrario? Nella risposta a questa questione sta la chiave del Con Kant superiamo la sterile distinzione naturalismo e culturalismo, poiché un’altra delle contraddizioni con cui l’estetica deve fare conto è il fatto che da un lato essa si incarna in prospettive culturali definite, Leopardi: disconvenienza degli uomini intorno al bello, non c’è un bello in sé. Cultura cinese (Li Zhou). Lezione 4 Abbiamo cominciato a vedere le principali posizioni in estetica, tenendo fermo il filo della teoria ma cercando di esemplificarla attraverso figure filosofiche assolutamente esemplari. Posizione del Desideri non è relativistica né scettica. Emotivismo è concezione grezza e naif, contempla estetica solo nel versante interno. Kant prende il discorso alla larga per dimostrare il senso universale dell’esperienza estetica, anche nel rapporto e nel rispetto delle altre dimensioni dell’esperienza. L’opera in cui Kant affronta il problema estetico che rappresenta una svolta radicale di approccio critico è la Critica della Facoltà di Giudizio (1790), in cui ritroviamo la forza del giudicare nel titolo originale (Urteilskraft, forza del giudicare). “Critica” è di per sé uno spostamento dell’asse discorsivo, perché l’opera di Kant porta a compimento la trilogia delle altre due critiche: quella di Kant non è una teoria estetica diretta, ma un’indagine sulle condizioni di possibilità di giudicare, come nella CRP si guardano alle condizioni a priori della possibilità stessa dell’esperienza e della volontà in quanto ragione nella sua applicazione pratica possa dirsi buona nella CRPratica. Quando Kant pubblica l’opera ha alle spalle due opere fondamentali, che hanno creato un terremoto filosofico, una rivoluzione assoluta nella scena. Non siamo più in un piano speculativamente metafisico ma critico e trascendentale, che riguarda le condizioni a priori della conoscenza, dell’azione buona e qui del giudicare. Nell’introduzione celebre all’opera, Kant dice che il terreno dell’esperienza, per come la filosofia lo indaga trascendentalmente, è diviso in due domini: uno teoretico, che riguarda la conoscenza della natura e le condizioni a priori di essa, e che sottostà alla legislazione della facoltà dell’intelletto (perché esso produce spontaneamente le dodici categorie che, con le forme pure della sensibilità – intuizioni di spazio e tempo, e il loro intessersi reciproco con l’immaginazione, costituiscono la tessitura dell’esperienza e la possibilità di giudizi sintetici a priori), mondo fenomenico, e poi quello pratico, in cui non si tratta di conoscere i fenomeni della natura e le condizioni di essi, ma si tratta di incidere nel tessuto del mondo in virtù di un’azione libera, di una volontà, non si guardano a trasformazioni di leggi, ma all’operare delle trasformazioni a motivo dell’agire, che è di un essere razionale in quanto solo egli contiene il principio del volere e non volere una certa azione (principio della libertà). Il secondo dominio allora è governato non più dall’intelletto, ma dalla ragione. Tertium non datur: non c’è altro dominio. Problema: due mondi con diverse legislazioni, nel secondo mondo infatti si guarda al fine dell’agire, visto dalla ragion pratica. Dobbiamo rassegnarci alla scissione tra questi due piani, quando sono riconducibili ad uno stesso soggetto? Oppure non dobbiamo pensare qualche rapporto tra il regno delle leggi della natura e quello della libertà che ci caratterizza come esseri razionali? Anche se non volessimo porci questo problema (Kant è lucidissimo e coglie quando è costretto dai presupposti del suo discorso a intraprendere una strada), ce lo pone già l’esistenza stessa del secondo dominio, perché il dominio pratico implica un’azione sul primo mondo dei fenomeni della natura. Non si sta parlando solo di propositi, ma di azioni e fini che guidano l’azione. Il problema, il grande problema di Kant (da qui si comprende il filo del discorso kantiano e tutta la forza che assegna alla dimensione del giudizio dell’estetico etc) è capire se e come sia possibile superare quello che egli chiama l’insuperabile, immensurabile abisso che separa i domini. L’ambito speciale dell’estetico non è un dominio di mezzo! Si deve pensare un rapporto tra questi due domini che non sia dato da un terzo dominio, poiché i domini sono questi (dominio è territorio in cui una facoltà è legislatrice). Kant a questo punto traccia una distinzione fondamentale che mai aveva tracciato prima nell’ambito dei giudizi possibili: se noi siamo in questo impasse, e allo stesso tempo non possiamo rassegnarci ad essere una natura scissa (perché è il dominio pratico che presuppone un collegamento con il primo, altrimenti sarebbe solo dominio delle pie intenzioni e non dell’azione), allora ci dev’essere qualcosa che lega i due domini, una forma del pensare che congiunge ed esercita una connessione. Strutturalmente è il giudizio, cioè ciò che connette anche nelle forme più elementare questo oggetto all’essere di un certo colore etc. Il giudizio predica una proprietà di qualcosa, cioè opera una congiunzione. Kant ora traccia una distinzione fondamentale tra giudizi: se noi possedessimo già il concetto capace di connettere i due domini, non vi sarebbe alcun problema, poiché il nostro giudizio sarebbe in qualche modo vincolato al possesso del concetto, però determinerebbe il rapporto tra teoretico e pratico o a favore del teoretico o a favore del pratico. Questo se il giudizio connettesse a partire da un concetto già dato: sarebbe un semplice sussumere all’interno di una legge. Concetto = regola per unificare molteplicità di fenomeni. Distinzione, dunque, tra giudizi: - Determinanti = di fronte a un fenomeno non fanno altro che ricondurlo ad una legge, cioè a un concetto che già possiedono. Giudizi che determinano l’oggetto secondo un concetto. Non può essere questo il ponte di una libera costruzione; - Riflettenti = di fronte a fenomeni di cui non possediamo concetto ma di fronte a cui non possiamo fermarci. Quando avviene che le singole parti rispondono al funzionamento del tutto e non a cause determinate? In tutto ciò che è prodotto del fare umano in virtù della sua libertà, capacità di produrre un ente artificiale in base a un progetto, un disegno. In questo caso, cosa accade quando all’organismo applichiamo il paradigma dell’opus frutto dell’azione libera del soggetto razionale? Avviene che questo lo facciamo in virtù di una riflessione, in cui in qualche modo sentiamo che la soluzione fa al caso nostro. Se da un lato abbiamo giudizi determinanti, in cui il nostro imbattersi in dei fenomeni significa assumerli dentro concetti e regole che già possediamo, dall’altro abbiamo giudizi in cui non possediamo in anticipo le regole e i concetti, e quindi facciamo riferimento unicamente alla capacità riflessiva del nostro intelletto. Questi giudizi riflettenti sono quei giudizi in cui non si possiede la regola in anticipo; in qualche modo la dobbiamo escogitare e prenderla i prestito da altro. Questo risponde in virtù di un sentimento di piacere: mentre i determinanti hanno a fondamento il concetto e la sua definizione, i riflettenti, in ultima istanza, si fondano su un sentimento soggettivo di piacere o dispiacere. Nel caso dell’organismo cui applichiamo il paradigma dell’opera dell’arte, o nel caso dell’organizzarsi delle leggi particolari della natura secondo delle regole come principi di economia, cosa facciamo? Non facciamo altro che applicare alla natura, definita dal punto di vista dal dominio delle leggi dell’intelletto, un principio che pertiene al secondo dominio, che è quello di finalità. Kant sta dicendo che già nell’attribuire un come se, l’essenza della finalità, noi abbiamo, applichiamo al primo dominio teoretico il principio di finalità che è proprio del secondo dominio, in quanto alla radice di questo c’è la ragione pratica, cioè la libertà. È la libertà di porre un fine, di organizzare il suo agire secondo un fine anziché un altro (dopo si ragiona sulla bontà o meno del fine). Nell’applicare in virtù di un principio che nasce dal bisogno, il principio di finalità, assistiamo già ad un interagire dei due domini: assistiamo già ad un passaggio in re, qualcosa come un ponte si è mostrato effettivo nella sua possibilità a priori! Però, in questo caso, comunque, i giudizi che formuliamo, l’introduzione di un principio di finalità nel primo ordine (introduzione libera, senza necessità, altrimenti i due domini collasserebbero in uno, si perderebbe il rapporto di effetto reciproco tra l’ordine della natura e quello della libertà), i giudizi riflettenti rispondono sempre ad un’esigenza determinata di estendere la nostra conoscenza verso fenomeni della natura che sfuggono alle leggi a priori. Kant si pone il problema di un giudizio riflettente che sia dato unicamente per il piacere di darsi; che in qualche modo accolga un fenomeno, lo saluti come se venisse incontro a me, come se fosse fatto per mettere in un buon rapporto le mie facoltà conoscitive. Questo è il giudizio estetico e qui avviene il rovesciamento metodologico. Si parte dalla questione dei giudizi riflettenti non estetici che con il principio di finalità estendono la nostra conoscenza della natura, per poi porre la nostra esigenza di analizzare quel tipo di giudizi in cui il sentimento di piacere non ha altro scopo che se stesso, nella connessione che in qualche modo è gratificante e che si scopre nel tessuto del mondo. Rovesciamento: la Critica della Facoltà del Giudizio si divide in una critica della facoltà estetica di giudizio (dove il giudizio riflettente, che per essere tale si fonda unicamente nelle capacità riflessive dell’intelletto e ha un arresto, un fondamento nel piacere, che sentiamo nell’analizzare i giudizi estetici) e teleologica di giudizio (questo riguarda il principio di finalità, che lo applichiamo non all’arte). I giudizi estetici sono caratterizzati dal principio di finalità ma scevro da ulteriori scopi, mentre nel giudizio teleologico il principio di finalità serve a progredire nelle conoscenze. Kant sta individuando un ambito del giudicare estetico che ha scopo in se stesso e non è servo di niente, non ha funzione determinante, meta funzionalità dell’estetico, la forza e il carattere che ha la dimensione estetica nel tracciare la nostra identità sta nel fatto che è priva di funzioni determinate, soddisfa se stessa, si alimenta ed è generativa in se stessa (nesso tra l’estetico e l’erotico). Struttura dell’opera: - Introduzione + 2 parti: I Critica della facoltà estetica di giudizio, II Critica della facoltà teleologica di giudizio; - Prima parte, prima sezione: Analitica della facoltà estetica, I libro: Analitica del bello, II libro: Analitica del sublime; - Prima parte, seconda sezione: Dialettica della facoltà estetica di giudizio; - Seconda parte: I Analitica della facoltà teleologica di giudizio, II Dialettica della capacità di giudizio teleologica; - Appendice: Dottrina del metodo della facoltà teleologica di giudizio. La terza critica kantiana va ben oltre le sole questioni estetiche, ma noi tratteremo solo quelle. Qui cogliamo il carattere rivoluzionario del testo, perché il termine analitico significa scomporre un concetto nei suoi elementi, sciogliere. Uno si aspetterebbe che l’analitica del bello fosse un sezionare, sciogliere il concetto di bello: niente di tutto questo. Kant riconduce alla questione dell’analitica del bello non un atteggiamento puramente descrittivo che ci dice cos’è il bello e in cosa consiste, cosa sono i criteri per riconoscerlo. Ma Kant non può dire una cosa del genere, perché se offrisse le condizioni necessarie e sufficienti per riconoscerlo, andrebbe incontro ad una soluzione puramente cognitivista tale da dissolvere la stessa questione estetica. Sono condizioni che pertengono all’essenza e al concetto, ma il bello non è concetto! È come se aprisse radicalmente il terreno dell’esperienza, “la fertile bassura dell’esperienza”, radicalmente alla questione estetica. Non individua criteri, ma momenti strutturali che definiscono il bello, perché il bello non è concetto (critica a Baumgarten). Il bello non si può cogliere se non nella relazione con il soggetto: fuori di esso è nulla, ma non significa che ha ragione Hume. In cosa consiste allora l’analitica del bello? Consiste nell’analizzare il giudizio estetico puramente, che non ci sta fornendo delle regole empiriche, seguendo il trattato plotiniano dedicato al bello: lì Plotino critica appunto una concezione del bello come simmetria o bella proporzione esteriore tra le parti tra loro. Così noi non coglieremmo la bellezza del singolo suono, del colore nella sua purezza. Il discorso plotiniano conduce all’idea del bello che riluce nell’oggetto che mi riguarda. Momenti essenziali dettati dalle quattro macrocategorie, i quattro gruppi in cui si definiscono nei loro rapporti le dodici concetti puri: - Qualità - Quantità - Relazione - Modalità Rispetto alla tavola delle categorie nella CRP, dove Kant critica Aristotele per aver incluso tra le categorie tempo e luogo, che per Kant sono intuizioni, qui troviamo una novità significativa, perché nella CRP si parte dalla quantità, mentre qui dalla qualità. Ognuno di questi gruppi è costituito da gruppi di tre, dove il terzo è sintesi dei primi due (es. quantità = unità, pluralità, totalità). Qui si parte dalla qualità! Nel primo momento Kant si pone il problema del rapporto tra un oggetto qualsiasi e il piacere e dei tipi diversi di giudizio a seconda di come si intende tale rapporto. La distinzione sta tra quei casi in cui qualcosa è giudicato piacevole, indipendentemente da qualsiasi conoscenza di esso, in virtù unicamente della sensazione che provoca (il piacevole – esempio del vino delle Canarie). Il piacevole è il primo link della mera sensazione, anzi, talvolta può risultare piacevole qualcosa che ad esempio ci fa male o può essere sgradevole qualcosa che ci fa bene. Allora lì interviene un altro tipo di piacere, legato alla conoscenza dell’oggetto: ma allora serve la mediazione di un concetto e i giudizi riguardano la bontà o meno di qualcosa. Io dico che questo è un buon oggetto non perché mi provoca una sensazione di piacevolezza, ma perché paragono la sua consistenza effettiva e il suo funzionare con il concetto dell’oggetto stesso. Giudizi di bontà; piacevolezza immediata legata a emozione positiva, senza concetto, no universalità ma sensibilità e soggettività di ognuno, bontà ha bisogno di sapere, passa attraverso un concetto, è mediata, e ha universalità. Il giudizio del bello non passa attraverso il concetto dell’oggetto ma non può essere assimilato funzionale corrisponde al suo scopo e questo lo possiamo cogliere confrontandolo con il concetto di esso. Il concetto contiene la funzione. Siamo in una conformità a scopi oggettiva e il piacere è vincolato all’oggettività in determinati oggetti che svolgono scopo determinato, come un ombrello. Se non ho una scala mi posso servire di una sedie: ma l’uso non è uno scopo oggettivo ma soggettivo e legato a un bisogno. Associazione di un piacere in quanto un oggetto risponde ad uno scopo determinato ma soggettivo perché indipendentemente dalla funzione risponde a un bisogno del soggetto ed esigenza pratico- pragmatica. Come si differenzia il rapporto con lo scopo di quell’oggetto bello, cioè come si differenzia, quanto al piacere, rispetto alla conformità a scopi soggettiva/oggettiva? Si distanzia da entrambi, perché la tesi di Kant è di questo tenore. Nel caso del gdg noi non passiamo attraverso la mediazione di un concetto, dunque non passiamo da uno scopo determinato, né oggettivo né soggettivo, ma consideriamo la forma dell’oggetto come se fosse fatto per instaurare un libero gioco tra le nostre facoltà conoscitive. Salutiamo volentieri un oggetto bello come se venisse incontro ad una esigenza universale dell’armonia tra facoltà umane, come se qualcuno o qualcosa l’avesse fatto apposta per noi. Allora il gdg p la rappresentazione di una conformità a scopi formale (legato alla forma dell’oggetto) e soggettiva (in relazione al soggetto, causa il libero gioco) e senza scopo determinato (paradosso). Per capire i vari momenti dobbiamo abituarci ad una struttura logicamente paradossale: principio di finalità, conformità a scopi libera da scopi determinati, una finalità senza scopo. Bellezza allora non può essere perfezione perché: 1) Il gdg non appartiene alla cognizione, non è un tipo di conoscenza e semmai simula e incorpora il gioco tra le facoltà conoscitive e anticipa la conoscenza; 2) La finalità del gdg è connesso unicamente alla forma, come se fosse fatta apposta per, in quanto innesca il gioco di armonizzazione, no concetto. Bellezza vaga, pulchritudo vaga in quanto percepita a prescindere da qualsiasi concetto, bellezza aderente ad un concetto di un oggetto, pulchritudo adherens, rispetto a certi oggetti. Quarto momento del gdg secondo la modalità. La modalità ha sottocategorie che si riferiscono a modo di essere di un qualsiasi oggetto, cioè possibilità, realtà e necessità. Kant si pone il problema del rapporto tra il giudizio connesso al piacere e un qualsiasi oggetto. Di un qualsiasi oggetto ci può essere il piacere connesso al giudicarlo; visto che non abbiamo regole a priori relative al bello, tutto ciò che esiste ha una relazione di possibilità con il piacere, tutto è suscettibile di essere giudicato con piacere. Tutto ciò che diciamo piacevole ha un rapporto di realtà con il piacere, mentre quando parliamo del gdg non vi è solo possibilità e non basta la realtà (rapporto che potrebbe contenere la validità per qualcuno e non per qualcun altro), ma necessità! Nel gdg vi è un legame necessario con il piacere, ma bisogna capire il tipo di necessità. Non è una necessità di tipo logico, perché non riposa su un concetto determinato; la necessità che caratterizza il gdg è soggettiva, cioè dal punto di vista del soggetto, ma in che senso? Nel senso che è necessario in quanto dà voce alla presupposizione di un senso comune: figura logica che ritorna, che non è quella del fondamento, ma quella della presupposizione. Ciò che si presuppone è ciò che si ipotizza o si anticipa. Noi non possiamo fare altro che presupporre l’idea di un sensus communis, un senso che scaturisce dall’accordo di proporzione tra facoltà che si ingranano l’una nell’altra e da questo felice meccanismo scaturisce il gdg. Tutto questo assegna così un vincolo, una necessità soggettiva al giudizio estetico. Il sensus communis non è un altro senso, ma è l’effetto; nella genesi, la natura dell’estetico sta in uno con il suo effettuarsi (differenza sottile), la dimensione estetica è emergente nell’umano, poiché espressione di un effetto, di un gioco, di un felice rapporto tra facoltà conoscitive che porta a connessione reciproca i due domini. Solo con la presupposizione di un effetto del libero gioco fra le nostre facoltà può essere pronunciato il gdg. La forma dell’oggetto innesca una felice armonia fra facoltà, rapporto per me favorevole e saldato con il piacere, espressione ed effettuazione stessa nel sigillo del piacere, tutto questo mi porta a legittimare un analoga esigenza di armonizzazione in ognuno, armonizzarsi bilaterale con la forma dell’oggetto e con le facoltà interne. Si comunica universalmente il sentimento di esso, dell’effettuarsi di un rapporto, di un ponte che si getta tra i due domini. Questo ponte si lascia alle spalle immensurabile abisso, non lo toglie in assoluto ma lo attraversa. Questa necessità soggettiva ha i caratteri dell’esemplarità. Necessità soggettiva esemplare, perché ogni gdg ha valore di exemplum, di effettuazione di una regola che sfugge da ogni determinazione concettuale, norma indeterminata di un senso comune da noi presupposto. Novitas dell’argomentare kantiano a proposito del gdg e della sua paradossalità; è l’effettuazione non di una norma determinata, ma indeterminata, libero schematismo che di volta in volta porta libertà e responsabilità e necessità del giudicare estetico. Per giocare con i paradossi, siamo di fronte ad una necessità paradossalmente libera, che non riposa u un vincolo razionale normativo, ma sul presupporre una legge comune, che è effetto del libero gioco. Circolo virtuoso tra estetico ed effetto della sintesi, no solo lato emozionale, estetica non è semplicemente una psicologia. Se il sensus communis fosse una facoltà naturale, il problema dell’abisso sarebbe annullato con l’annessione dell’uno all’altro. Presupposto necessario che vincola all’universale del gdg, ma è universalità della libera riflessività del soggetto. Giudizio riflesso che ha i caratteri della pubblicità, idea della ragione come qualcosa di privato ripugna lo stesso concetto. Esigenza dell’accordo, pretesa. Interagire dei due domini anche relativamente all’arte nel senso stretto. Analitica del Sublime §43, Kant enuncia la distinzione tra ciò che l’arte in generale (non come la intendiamo oggi) ha e ciò che appartiene alla natura. Come distinguiamo concettualmente oggetti dell’arte e oggetti della natura? Modo di procedere aristotelico. Nel caso della natura, i fenomeni e gli oggetti sono effetti di connessioni causali ad essi immanenti e perché ogni effetto è causa di altri fenomeni. Gli oggetti che si assegnano all’ambito della natura sono effetti, cause ed effetti sullo stesso piano. Quando invece siamo di fronte a qualcosa che appartiene all’ambito generale dell’arte gli oggetti sono opere, opus, che presuppongono una causa esterna ad essi che non è sullo stesso piano, ma trascendente l’esistenza dell’oggetto, che pone in essere quanto può anche non porla in essere. L’opera presuppone un principio poietico, come qualcosa che può essere e non essere. Le opere, in quanto prodotti dell’arte, le opere esprimono una produzione mediante libertà. Qui ritroviamo il caso dello scopo, libertà di porre uno scopo che si può realizzare o meno. L’arte presuppone un soggetto che può incidere sulla realtà e che può produrre qualcosa che non è in natura, praxis e poiesis. I due campi, della natura e dell’arte, vengono di nuovo a interagire successivamente e per capire questo bisogna richiamare la distinzione tra arti meccaniche ed estetiche. - Meccaniche = quelle che assimiliamo alla nozione di tecnica, complesso di azioni necessarie alla produzione di un certo oggetto secondo certe regole, oggetto che risponde a un bisogno determinato, economia dei mezzi; - Estetiche = idea ampia di arte estetica, perché fa parte anche l’arte puramente piacevole che mira al suscitare piacere (es. carta da parati), no valenza funzionale, riguarda orizzonte delle sensazioni di piacevolezza, musica. Oltre a questo, nell’arte estetica troviamo anche l’arte che non è legata solo il gioco delle sensazioni, ma degna in sé. L’opera d’arte bella è quell’opera che noi sappiamo benissimo essere un prodotto dell’arte e di un sapere di tecniche determinate, qualcosa che pertiene all’ambito dell’arte in generale, ma mentre sappiamo questo ci appare come se fosse fatta dalla natura e avesse cancellato la parte di produzione, come se scaturisse dalla natura. Qui Kant introduce la figura del genio. L’opera d’arte bella sembra fatta dalla natura ed è opera solo del genio, genium, come attitudine innata con cui la natura dà la regola all’arte. La natura non è più come effetto di cause, ma è natura quasi noumenica; il genio non padroneggia le regole del produrre l’opera d’arte, perché a questo proposito Kant spiega quelle che sono le facoltà dell’operare del genio, cioè facoltà immanenti dell’esercizio del gusto e ha anche una marcia in più, il Geist, lo spirito come accelerazione interna che trasforma l’immaginazione dalla semplice produzione di forme già viste a qualcosa di assolutamente creatore. Non è proprio una facoltà, ma quella capacità di convertire in senso creativo il fare dell’immaginazione. Anche nel caso che l’arte nel senso stretto vediamo l’oltrepassare la distinzione tra arte e natura, perché l’arte bella è come se fosse fatta dalla natura. Anche qui lo schema implicito al prodursi della natura e dell’arte vengono a determinarsi reciprocamente e l’arte bella è sintesi di questo gioco. Lezione 6 Come ogni altra disciplina filosofica, l’estetica è questionabile nel suo profilo essenziale, cioè intorno alla sua stessa definizione teorica si accendono le dispute, c’è un conflitto di interpretazione. L’estetica ha senso in quanto vi è un campo concettuale e un terreno dell’esperienza che si possono chiamare estetici. Vi sono determinati tipi di esperienze e determinate concettualità che rimangono irriducibili ad altro. Questo è uno dei tratti del pensiero kantiano: non vi è un dominio dell’estetico in sé, perché raccordo fra domini, ma d’altra parte egli riflette sulla irriducibilità del giudizio estetico, rendendolo specifico. Kant, come abbiamo visto, osserva come nell’arte bela assistiamo a un interagire di paradigmi: da un lato siamo di fronte a un prodotto dell’arte per l’esercizio della tecnica, ma dall’altro l’arte che diciamo bella ha l’apparenza della natura, è come se scaturisse dalla natura stessa. Viene introdotta la figura del genio, che ha una marcia in più rispetto agli artisti: lo spirito, quel quid, talento innato che imprime una forza particolare all’immaginazione che diventa creatrice. Egli produce opere irriducibili ad un concetto. In rapporto al fare geniale e alla nozione di arte bella, si guarda all’arte del linguaggio stesso, cioè la poesia. Per Platone vi è differenza radicale tra poesia e musica e le arti figurative. Il termine poesia deriva dal greco poiesis, cioè produzione: è capacità di produrre ciò che non è in natura, ciò che può tanto essere quanto non essere (sovrapposizione Platone Aristotele). Platone rileva questa comunanza e appartenenza tra il comporre versi e il comporre suoni alla dimensione generica del produrre, però viene a giorno il senso stesso del produrre con una sua peculiarità. Passo di Platone dal Simposio: “Tu sai che la creazione è qualcosa di molteplice […]”. La produzione poetica e musicale viene a designare una chiave della sfera generale del poiein, del produrre come far venire ad essere qualcosa che può non essere. La poesia non è mera copia dei sentimenti e delle emozioni. Croce insiste su più riprese sul fatto che la poesia non è semplice espressione dei sentimenti, ma crea un contenuto autonomo che ha a che fare anche coi sentimenti ma a partire dal dar forma al linguaggio stesso, vi è un lavorare un tessuto e una materia per ricondurlo a una forma. Vi è una peculiarità della poesia rispetto alle altre arti per il nesso tra poesia e il linguaggio in generale. Riflessione di linguista Roman Jakobson sulla teoria delle sei funzioni comunicative del linguaggio. La poesia c’è nella misura in cui c’è una funzione poetica del linguaggio, cioè anche in contesti ordinari il linguaggio si mette in funzione poeticamente. Sei funzioni: 1) Funzione informativa (“Oggi piove”); 2) Funzione emotiva (“Sono triste”); 3) Funzione imperativa (“Dammi l’ombrello”); 4) Funzione del contatto (“Mi state sentendo?”); 5) Funzione relativa al codice (riflettere sul linguaggio con il linguaggio, come la traduzione, “Poiesis è produzione”); 6) Funzione poetica (relativa al messaggio stesso, non è relativa al contenuto di esso ma alla forma) = la combinazione dei termini, il piano sintagmatico non può essere sostituito da altri paradigmi. Non si può sostituire a piacimento i termini con il loro equivalente, perché si perde il nocciolo stesso della questione poetica. Il messaggio è concentrato su se stesso, incastro tra significati e significanti, che nel discorso normale tendiamo a sostituire senza problemi, incastro tra suoni e segni che non si può sostituire è la poesia. Dimensione autoriflessiva dell’opera poetica. Core concept dell’estetica secondo il Desideri: l’estetica è una connessione attiva tra dimensione emotive e cognitive dell’esperienza, c’è un intreccio, una sintesi densa delle dinamiche percettive, sia nel discriminare aspetti del mondo, sia nel fatto che queste proprietà risuonano dentro di noi, non ci sono indifferenti. L’estetico è un termine che non usiamo per la percezione pura e semplice e si parla di una connessione nel percepire tra la dimensione emotiva e cognitiva, senza essere per forza di fronte a conoscenze determinate, ma siamo di fronte ad anticipazioni della forma del conoscere in cui il piacere gioca un ruolo fondamentale (libero gioco tra facoltà cognitive, ispirazione kantiana), felice mescolanza e felice sintesi, consonare tra interno vita mentale ed esterno del mondo, armonizzazione di reti cerebrali. L’estetico implica la dinamica qualitativa dell’aisthesis; Kant non inizia con la quantità come nella CRP, ma dalla qualità perché non è l’esperienza percettiva in genere che configura l’estetica, ma è una sua certa qualità dello scambio sette anni più grande, che aveva pubblicato da poco un testo fondamentale, Spirito dell’utopia, insieme a Destino e carattere, in cui affronta il rapporto tra destino e il proprio ego. Agli scritti di filosofia del linguaggio Benjamin ora affianca scritti di filosofia politica; il suo pensiero si sviluppa in diverse direzioni, ma rimane uno sfondo di riflessione teologica per cui gioca un ruolo essenziale l’amicizia con Scholem. Citiamo un saggio del 1921, Il compito del traduttore, saggio che egli premette ad una sua traduzione di un poeta con cui avrà un rapporto per tutta la vita, cioè Charles Baudelaire. Benjamin traduce una parte dei I fiori del male ed è un saggio filosofico del compito etico teologico del traduttore, muove dalla differenza storica delle lingue naturale, condizione post-babelica, pluralità di lingue, ma egli affronta questa situazione anche dal punto di vista della tensione messianica di costituire un’unità originaria del linguaggio e un movimento di reciproca traducibilità. Il compito del traduttore non è annessione delle lingue, ma deve risaltare nella propria la ricchezza e la differenza di quella che traduce. Lato etico del tradursi delle lingue e di riuscire a intendersi sebbene le differenze. Saggio politico del ’21 pubblicato nell’Archivio per le scienze sociali e politiche sociali, rivista ispirata a Weber, e si intitola Per la critica della violenza: saggio influenzato da Sorel, in cui si affronta il rapporto mai pacificato tra la sfera umana del diritto, che ha a che fare con la normatività, e la sfera della giustizia, che ha a che fare con Dio stesso e che trascende sempre la prima sfera. Contestualmente a questo citiamo un altro Frammento teologico-politico (1921? Controversa datazione, aneddoto per cui Benjamin intorno al ’35 a Sanremo incontrò Adorno e sua moglie e lesse questo frammento come se fosse un testo scritto da pochissimo, ma come sappiamo Benjamin amava questi scherzi e forse voleva difendere l’unità dell’influenza messianica, carattere giovanile di questo testo, riferimenti tedeschi allo Spirito dell’utopia di Bloch), in cui egli critica l’impostazione blochiana che pone il processo storico animato da sogni e fermenti diversi in un unico vettore processuale. Secondo Benjamin, nel processo storico vi è divaricazione essenziale, il Messia irrompe nella storia e non è fine della storia. Rapporto tra teologia e critica antitetica a Bloch. 1922-25: Benjamin comincia a pensare a un grande libro e tenta l’abilitazione all’Università di Francoforte; argomento di un’analisi dei drammi tedeschi barocchi nell’epoca del Siglo de Oro, lavoro di studio di questi drammi poco letti allora e ne interroga l’origine filosofica. Questo è un lavoro che porterà all’Origine del dramma barocco tedesco, (Trauelspiel, dramma del lutto). Fallimento di questo tentativo di abilitazione, che gli avrebbe procurato stabilità in vita. Amicizia con protestante Rang, fondamentale per la genesi di questo lavoro che sostiene la tesi per cui il dramma moderno trova nel Trauelspiel ed è irriducibile alla tragedia classica. Questo è un periodo in cui Benjamin, con Rang, entra in rapporto con Hofmannstahl, con cui pubblicherà il saggio più importante mai scritto, il Saggio su “Le affinità elettive” di Goethe che pubblica in due parti. 1922, l’annuncio della rivista Angelus Novus: breve testo perché così capiamo anche il titolo di questa antologia. Questa rivista che egli progetta non vedrà mai luce e trae il nome da un dipinto di Paul Klee, acquistato da Benjamin nel 1920, dipinto da cui non si separerà mai. Dal commento di questa immagine proviene l’ultima opera di Benjamin. Egli vuole mirare alla vera attualità, non segnata dal senso del pubblico, presa di distanza dai temi di moda, alla ricerca di cogliere lo spirito della propria epoca aldilà delle mode. Il punto di riferimento è l’Athenaeum. Questa rivista doveva restituire alla critica la sua autorità e prende le distanze dalla letteratura di impronta espressionista (scimmiottatura della grande tradizione pittorica). Benjamin non nuota controcorrente ma non si cura di seguire le mode e ne vede le fragilità. Idea di una critica, già anticipata nel suo lavoro di tesi, che costituisce non un giudicare esterno ma uno sprofondamento nell’opera. Idea di affrontare la crisi della poesia tedesca come una crisi della stessa lingua tedesca: poesia e crisi della lingua vanno di pari passo, attenzione alla lingua nel suo divenire, ruolo conferito al lavoro di traduzione, privilegiando il presentare un’opera con il testo a fronte. Nelle battute finali dell’Annuncio allude all’opera di Klee, sottolineando come il carattere effimero della rivista non costituisse un qualcosa di negativo. “Con ciò è stato toccato il carattere effimero di questa rivista, di cui essa p consapevole. Esso è il giusto prezzo per la ricerca di una vera attualità. On sono forse perfino gli angeli creati secondo una leggenda nuovi in ogni istante in schiere innumerevoli così che dopo aver cantato al signore svaniscono. La rivista ha esistenza effimera e innalza la sua voce per poi cessare e svanire”. Attualità capace di critica del presente. Testo molto celebre che già ci dà l’idea di come Benjamin avesse iin mente di svolgere un lavoro di intervento sulla scena culturale perché il progetto di una rivista significa divenire voce pubblica e non solo individuale. Altra questione è che nel ’22 egli fa visita a Francoforte al filosofo Franz Rosenzweig, che aveva scritto la Stella della redenzione, filosofo ebreo gravemente malato che fu studente di Hegel. Egli indaga la sua stessa origine in cui mette in rapporto ebraismo, cristianesimo e islam, testo che Benjamin avvalorerà nel suo lavoro di Trauelspiel. Saggio goethiano è importantissimo per la capacità di penetrare il romanzo di Goethe e rivoluzionare l’approccio ad esso. Importante perché egli prende distanze dal metodo per cui per intendere l’opera di un autore bisognasse guardare al suo Erlebnis sostenendo che l’opera fosse espressione dell’autore. Egli critica approccio empatico per cui la critica è rivivere vissuto dell’autore. Radicale rifiuto; inadeguatezza dell’idea dell’espressione del vissuto, opera riducibile alla psicologia. Prima parte dunque dedicata a distinzione commento e critica e questione sul contenuto reale dell’opera, necessità di analisi oggettiva dell’opera in tensione con il contenuto di verità. Unità del problema di cui l’pera è messa a giorno e nesso che si sviluppa dall’impossibilità di rappresentarla adeguatamente tra dimensione apparenza estetica e la sua verità, tensione dialettica e negatività. Questo viene colto con interpretazione originale del concetto platonico di bellezza, non come apparenza secondaria ma apparenza necessaria destinata a dissolversi di fronte alla verità, bellezza come velo necessario che non si può togliere a piacimento. Trascendere dimensione estetica a favore del bene stesso, con figura di Ottilia, protagonista del romanzo. 1924: anno importante, Benjamin sta scrivendo la sua dissertazione sul dramma barocco tedesco e lo fa in un soggiorno a Capri, dove all’epoca si trovavano molti intellettuali europei. In quel periodo si avvicina al convegno internazionale di filosofia a Napoli. Fa una conoscenza della regista lettone Asja Lacis in un episodio del tutto casuale: Benjamin si innamora, periodo in cui la crisi del matrimonio con Dora era andata avanti. Il saggio sulle affinità elettive è contestuale alla crisi del matrimonio con Dora, si erano innamorati di comuni amici. Crisi definitiva con Asja e divorzio formale solo nel 1930. 1925, anno in cui il tentativo di abilitarsi a Francoforte fallisce, al punto che Hans Cornelius lo invita a ritirare il suo libro prima di essere respinto. In questo rifiuto del testo benjaminiano giocò ruolo Horkheimer, che tenne nascosto per tutta la vita. Rifiuto del lavoro sul Trauelspiel perché Cornelius confessò di non averci capito niente e Benjamin non poteva essere un buon docente; opera doveva la differenza ontostorica tra forma della tragedia e dramma moderno (Trauerspiel, dramma dell’afflizione). In questa analisi egli mette in campo l’origine della soggettività moderna, secondo lui; la tragedia è confronto tra eroe e dei del cosmo classico, il dramma moderno la concezione cristiana della storia conosce un secolarizzarsi dell’escatologia, rapporto tempo storico e regno di Dio. L’escatologia barocca si contrae nello spazio immanente della corte, dove il sovrano tiranno diventa la figura di Cristo e così via. Questo testo di Benjamin è fondamentale. Premessa critico conoscitiva che mette in campo la sua concezione della filosofia, teoria delle idee in rapporto al linguaggio, tesi della verità non come oggetto di conoscenza ma essere realtà di non intenzione, le idee si danno nel linguaggio in quanto nomi, compito della filosofia è restituire potenza simbolica di nuovi nomi, porre da capo il problema dell’interpretazione, interrogando un nome idea nella sua origine. Interrogando l’origine del Trauerspiel lui interroga il senso dell’arte moderna e della soggettività moderna. L’arte ed espressività barocca è correttivo a priori del classicismo, perché la forma espressiva del barocco è l’allegoria, e un'altra polarità che contraddistingue quest’opera è la tensione tra simbolo (concezione mistica in cui tempo è l’istante mistico) e allegoria (tempo è rimuginare e pluralità di significati in cui si disperde il senso dell’opera, sentimento malinconico del limite e dell’impotenza). Critica all’estetica neoclassica, opera come totalità organica e interezza simbolica, al posto di concezione opera d’arte quale frammento. Guardare trama di affinità elettive. Con il fallimento dell’abilitazione francofortese, Benjamin si pose il problema di come vivere e sostenersi. Diventa così critico letterario e interviene su analisi di mostre. Collezionista di libri dell’infanzia, come nella recensione dedicata alla mostra dei libri d’infanzia. Critico presso giornali e riviste; ricezione di Benjamin che crede che lui sia un critico letterario. Benjamin fa di necessità virtù o di virtù necessità: non è un’attività a cui egli manchino le cartucce. Scrive saggi straordinari e acquisisce notorietà nel periodo di Weimar, critico seguito come scrittore. Ma lui non è critico letterario e basta! Critica anche classici della letteratura francese; periodo in cui viaggia a Parigi e entra in una relazione intensa con la cultura francese (surrealismo etc). Il rapporto con Asja si intensifica, è un amore contrastato e tormentato, ma è anche un rapporto decisivo per una svolta del pensiero di Benjamin in senso storico materialistico: egli prende contatto con gli ambienti di sinistra legati alla Russia dei soviet. Viaggia a Mosca per visitare la città del socialismo, ma anche per visitare Asja, che si trovava in una casa di cura, perché soffriva di grande depressione. Attività letteraria intensa e fa amicizia con figure centrali con cultura di sinistra come Bertolt Brecht, autore che inventa il teatro epico e un nuovo tipo di recitazione no più basato su identificazione personaggio ma nello sviluppo della distanza e di estraniamento, come se sulla scena vi fosse colui che riflette, sviluppare commozione ma anche riflessione critica sulle condizioni del presente. 1928: Benjamin pubblica la sua dissertazione, l’Origine del dramma barocco tedesco, insieme a Strada a senso unico, libro di carattere nuovo che non è un saggio, non è un’opera critica ma un insieme singolare di testi, aforismi, riflessioni in forma di tesi sulla condizione del lavoro intellettuale in epoca del capitalismo. Viaggio nella crisi tedesca. Forma di scrittura benjaminiana delle immagini di pensiero, protocolli di sogni, analisi da fenomeni del tutto secondari: Benjamin che esercita pensiero non solo su problemi filosofici ma anche sulle figure meno appariscenti della vita quotidiana (es. omini di marzapane nelle vetrine). Critico profondo e aspro di certi atteggiamenti che questa crisi della Repubblica di Weimar rende possibile. Viene pubblicato insieme al libro sul dramma barocco, che contiene il senso del lavoro precedente degli scritti teologici, prima filosofia ritrova una forma esemplare nel dramma sul senso barocco. Strada a senso unico è dedicato ad Asja; senso dell’ultima fase della riflessione dell’opera benjaminiana (poi si suicida). Ultimo periodo è decennio ’30-’40, periodo in cui si fa difficile collaborare con riviste e quotidiani di lingua tedesca, collaborazioni valide solo con pseudonimi. Si intensifica l’amicizia di sinistra e progetta rivista che non vedrà mai la luce, Krisis und Kritik. Idea è pensare la connessione intima e terminologica tra termine crisi e critica; Benjamin rende conto in una filosofia marxista della critica teologica del mondo delle immagini. Una rivista del genere avrebbe portato alla distruzione degli idoli, infigurabilità divina e impronunciabilità del nome di Dio. Egli non abbandona mai ispirazione teologica. Progetto di una grande opera sui Passages Parigini (già pensata dal 1927), ma ben presto il senso di un progetto da dedicare ai quei corridoi all’interno di isolati della città del XIX secolo in cui vi erano caffè, prostitute, e in cui si passeggia, si assiste alla fotografia e primi diorami. L’idea di Benjamin è prendere questa figura architettonica, forma intermedia tra costruzione e via di passaggio, a emblema sia della vita culturale parigina sia dell’intero XIX secolo. Passages come forma emblematica della modernità, epoca in cui la forma merce esplica il suo dominio, governa l’economia, ed è ciò che impronta le coscienze, idea del feticismo della merce, cioè assegnare alla merce un potere magico come si assegna in certe religioni a feticci e oggetti. Primo libro del capitale, quello che sembra un movimento autonomo non è che la cifra di rapporti sociali produttivi, Marx. Benjamin vuole partire dalla ricerca dei materiali dell’epoca, passi giornalistici, riviste: non voleva fare un’opera di sole citazioni (idea che si era fatto Adorno). C’è una parte dedicata anche all’intelaiatura teorica di questo lavoro che non riuscì mai a portarla a compimento. Egli pensava ad una sorta di pendant con il lavoro sul dramma barocco, dove lì vi è la questione dell’allegoria, qui alla merce in relazione all’apparire sociale. Analisi delle nuove figure sociali, come la prostituta, dialettica dell’essere soggetto in attesa di riscatto e corpo-merce. A questo fine egli cercherà dei finanziamenti, assicurati da Adorno con la rivista della ricerca sociale. Questo progetto sui passages accompagna tutti gli ultimi anni della vita di Benjamin; periodo dell’esilio parigino in cui Benjamin trascorre giornate alla biblioteca nazionale. Quest’opera non troverà mai forma compiuta; abbiamo il resumè, il progetto dedicato alla Parigi del XIX secolo. Dalla costola di questo lavoro prende corpo e la II metà degli anni ’30, a partire dal ’37, l’idea di almeno pubblicare in forma di libro la parte su Baudelaire e anche questo darà vita a varie discussioni epistolari con Adorno e Horkheimer. Tutto questo condurrà Benjamin a una riscrittura e a pubblicare uno dei saggi straordinari, Di alcuni motivi in Baudelaire. Nelle pieghe di questo lavoro, nel ’35 scrive forse il suo saggio più celebre in assoluto come una sorta di prosecuzione in senso attuale del progetto sui passages parigini: l’Opera d’arte nell’epoca della su riproducibilità tecnica. Saggio di Estetica più influente nel ‘900 e anche dei nostri anni, tradotto in tutte le lingue. Durante la vita di Benjamin fu pubblicato solo in francese e sulla rivista della ricerca sociale. Alla limite della discorsività in cui non si comunica più nulla e la lingua si comunica. Rivela l’unità mostrando un momento di massima tensione. Il nome di ognuno ci identifica in un modo dialettico perché ci identifica al confine stesso del nostro essere nel linguaggio, portando il linguaggio fuori di sé, punto in cui la lingua comunica se stessa. Qui Benjamin definisce il rapporto tra la sua teoria del linguaggio e il linguaggio della rivelazione. Mentre nel linguaggio umano vi è comunque tensione tra i due poli dell’essere spirituale e l’essere linguistico, nel linguaggio della rivelazione si ha paradossale coincidenza tra espresso e inesprimibile. Questo perché il nominare divino è creazione, con il nominare divino le cose acquistano il proprio essere insieme al nome. Il nome divino è privo di significato. Nome come totalità intensiva in cui la lingua contiene se sessa come punctum di divergenza e convergenza trova sviluppo in un linguaggio della rivelazione in cui vi è coincidenza mistica tra espresso e inesprimibile. Il nome di Dio è impronunciabile e senza significato. È nella misura in cui si fa esperienza dell’inesprimibilità del nome di Dio che si rivela il respiro dell’essenza spirituale delle lingue dell’uomo. C’è una sorta di memoria, di una condizione paradisiaca del linguaggio in cui vi è un circolo tra il nome di Dio e il nominare delle cose da parte degli uomini così che queste manifestano respiro della loro essenza. Abbiamo qui una prima traduzione che in qualche modo rammemora l’unità di ogni lingua alla luce dell’inesprimibilità del nome di Dio, è in questa prima traduzione che al lingua è medium immediato e non mero strumento. Solo a questa condizione la lingua si fa simbolo del non comunicabile; idea di Benjamin per cui l’essenza della lingua è essere simbolo del non comunicabile, porta attenzione ad una tensione tra spirituale e linguistico. Rispetto a questa dimensione in cui si ha memoria dell’inesprimibilità del nome divino, condizione di movimento denominante, la caduta dello stato paradisiaco della lingua divine il peccato originale del linguaggio, cioè il perdere la condizione di simbolo del non comunicabile e tutto vuole essere portato a comunicazione con una concezione strumentale del linguaggio. Questa caduta genera il fraintenderci, la ciarla, la chiacchiera (Kierkegaard). Nel cadere del linguaggio a mera vanvera la parola diventa esteriormente comunicante e da unità simbolica dialettica comunicabile e non comunicabile diventa mero segno, perché si crea una scissione incolmabile, un abisso tra i significanti e i significati, una scissione che egli analizzerà anche nella parte dell’allegoria moderna (= condizione di abisso tra significati e significanti, allegorista è nel mezzo, afflitto da uno stato di melanconia per impotenza di sintesi tra i piani, trionfo di soggettività vuota) rispetto a quella medievale nel lavoro sul dramma barocco tedesco. Questa grandiosa riflessione sull’allegoria moderna che diventa una cifra per comprendere l’arte moderna e contemporanea. Si delinea lo stato paradisiaco e quello lapsario in cui la parola non ha forza simbolica ma ha mero segno, è guscio vuoto. Una delle conseguenze con cui Benjamin avrà a che fare è la confusione babelica delle lingue, perché la lingua non è luogo dell’intendersi ma del fraintendersi. Crisi del linguaggio; descrizione di una confusione babelica in cui rispetto alla vita linguistica che eleva a vita spirituale abbiamo il dominio del principio dell’astrazione e purezza logico concettuale del significato. Benjamin vede l’apoteosi di questo linguaggio come mero segno nel momento puramente giudicante, l’illusione di una conoscenza che vuole sottrarsi alla creaturalità della lingua e si fa giudizio, possesso del criterio di discernimento tra il bene e il male. Sostituirsi del principio dell’astrazione e del mito di una purezza logica che dominano nel momento in cui le parole sono gusci vuoti. Pretesa di contenere nel giudizio umano il verso discernimento tra bene e male risuona la cacciata dal paradiso terrestre del linguaggio come chiacchiera, no rispetto per la creaturalità della lingua. Rispetto alla dimensione della lingua a strumento, pura convenzione, si capisce come il compito etico dell’uomo sia quello di restaurare e ripristinare la forza simbolica del linguaggio e delle parole, restaurare una potenza simbolica che mostra ciò che nel linguaggio non è comunicato. Il non comunicabile non si può tagliar via, ma va reso simbolicamente. La condizione del comunicare è l’inesprimibile, quanto non si può dire e quanto non si può mostrare. Il compito del traduttore è una prosecuzione e approfondimento, 1921; Benjamin è consapevole della valenza teorica di questo saggio e del fatto che gli autori di riferimento per la sua formazione filosofica non gli sono affatto d’aiuto, come leggiamo in una lettera a Scholem (avrebbe potuto trovare aiuto in Schleiermacher). Nell’ultimo curriculum steso nel ’40 a Lourdes da Benjamin, egli parla di questo saggio come primo esito delle sue riflessioni sulla teoria della lingua. La prima conseguenza della riflessione teologico filosofico linguistica è costituita da una teoria della traduzione. Nel titolo si riverbera la disposizione etica che per Benjamin costituisce il presupposto necessario per ogni riflessione sulla lingua. Il rapporto con il linguaggio è anche un rapporto etico, della giustizia e della redenzione. Prima tensione a instaurare giustizia su questa Terra è rispetto alla lingua stessa, forma della caduta quando non si onora la dimensione creaturale del comunicarsi della lingua stessa. Die Aufgabe, del compito, compito a cui noi dobbiamo corrispondere responsabilmente, perché dobbiamo essere letteralmente responsabili in quanto contiene un imperativo, un comando. Etica ed estetica per Benjamin non sono la stessa cosa ma si coappartengono nella loro differenza. Dove è chiamato a svolgersi il compito del traduttore? Il suo lavoro è nello spazio intermedio tra le lingue e nello spazio delle loro pure differenze. Il traduttore non lavora nelle lingue che traduce, ma nell’intermezzo: non deve negare le differenze di ogni lingua ma deve armonizzarle nel movimento stesso della traduzione, che divine storico e linguistico. In questa condizione instabile risuona il senso dell’originaria unità; spostamento teorico significativo rispetto al saggio sulla lingua in generale, perché lì in qualche modo la lingua strumentale e nominale differivano in una frattura insanabile, mentre qui non abbiamo illusoria conciliazione, abbiamo l’espressione di un movimento tra le lingue. Il senso del tradurre è dinamico, tensione a superare quella condizione babelica della pura confusione come una sorta di pendant della chiacchiera che domina la lingua come mero strumento. Scarto teorico tra le due opere di Benjamin. In perfetta coerenza e sintonia con l’eticità del compito del tradurre è l’iniziale ribadire da parte di Benjamin il valore in sé dell’opera linguistico letteraria. Nell’incipit, Benjamin si oppone all’estetica della ricezione, concezione dell’arte per cui il senso dell’opera sta nei differenti modi in cui questa viene recepita. Per Benjamin l’opera ha senso di per sé e non per come la si riceve; concezione strumentale degradante, il senso dell’opera d’arte non sta nel piacere al pubblico. L’esistenza dell’opera non è legittimata dall’attenzione dell’uomo! Spesso diamo importanza ad un’opera nel suo funzionare con il pubblico. Nessuna poesia è rivolta al lettore, nessun quadro all’osservatore e nessuna sinfonia all’ascoltatore – grande radicalità, piazza pulita di concezioni tradizionali e banalizzanti. Tesi iniziale che sconvolge i modi tradizionali di approccio all’opera d’arte con cui Benjamin chiarisce il compito del traduttore; l’etica del tradurre si chiarisce come un rendere giustizia alla lingua e non un inseguire la trasmissione comunicativa e l’appianamento delle differenze o difficoltà. Tensione dell’ascolto del traduttore all’opera originaria a cui egli deve rendere giustizia. L’esistenza dell’opera non è in funzione del destinatario e lo stesso vale per la traduzione, che ha senso nel rapporto che instaura con l’originale. In virtù di questo, il tradurre è forma linguisticamente autonoma, anche se ha dlele sue peculiarità e non sarà mai un far gara con l’originale. L’autonomia del tradurre è relativa perché l’esistenza del tradurre deriva dalla traducibilità delle opere stesse che attendono di essere tradotte. Con il testo a fronte capiamo sempre qualcosa dell’originale. Si instaura una sorta di differenza storico ontologica tra la sopravvivenza dell’opera (trascende la vita storica perché legittima la traduzione) e la vita della traduzione (storica). Il senso dell’opera trascende la finalità della vita, tensione tra traduzioni in cui si comunica e il loro permanere in sé. In questo l’opera non esiste ma sovraesiste in una dimensione sovraessenziale. Il traduttore vuole esprimere il rapporto più intimo tra le lingue, poiché non esalta solo le differenze ma anche le convergenze, non si parla di una banale annessione che cerca di migliorare l’originale, ma si parla di rendere giustizia nella propria lingua di quella originale e la lingua propria si trasforma. Questo movimento del tradurre suppone il senso di un’affinità a priori delle lingue che is contrappone ad una vaga ed estrinseca somiglianza tra significati. Il tradurre dispiega un potenziale critico; la forma autonoma del tradurre sta in uno con il potenziale critico che il traduttore deve mettere in evidenza tra lingue diverse. Il senso dell’originale non è fissato e morto, in Benjamin vi è maturità postuma delle opere e delle parole, crescere del senso originale che è compresso e di volta in volta portato a giorno dal traduttore. Egli deve rendersi conto di ciò che va abbandonato e preservato della lingua originale e questo diviene più difficile quando le lingue si somigliano; differente tempo in cui espressione e significati vivono e quello che può sembrare fresco per l’autore non lo è nell’epoca della traduzione e l’originale si trasforma e si rinnova come il vivente, vita intima dell’originale che viene tradotto non in un’astratta fissità e traduzione è rivelazione della vita postuma dell’originale. La traduzione è destinata ad uscire di scena perché mentre l’originale aspetta di essere rinnovato, questa invecchia a un certo punto. Lezione 9 Rapporto profondo che il pensiero di Benjamin forma con le forme letterarie e la loro autonoma dimensione linguistico formale. Oltre a proseguire le riflessioni generali di filosofia del linguaggio, Benjamin nel saggio sul compito del traduttore definisce nella sua autonomia la forma letteraria della traduzione, non come una semplice attività secondaria e funzionale alla pura trasmissione di opere. Egli fa vedere come, nell’attività e nel compito etico filosofico del traduttore, viene a giorno un carattere delle lingue nel loro rapporto reciproco, a partire anche dal rapporto che ogni traduzione instaura con l’originale. In questo rapporto infatti noi vediamo il carattere inevitabilmente transitorio di ogni traduzione, poiché ogni traduzione è destinata a invecchiare, ma allo stesso tempo si afferma il carattere non statico dell’originale ma un suo trasformarsi e rinnovarsi. La traduzione è funzione e rivelazione del rinnovarsi e trasformarsi del senso dell’opera originario, questo a partire dal carattere mutevole della lingua in cui il traduttore traduce. Infinito approssimarsi del lavoro del traduttore che non può che trovare forme transitorie consegnate al tempo; questa dimensione temporale si rivela nel fatto che il senso dell’opera originale si trasforma. Mentre la parola del poeta sopravvive nella sua lingua, la parola del traduttore è destinata ad essere assorbita e abbandonata dalla lingua. La traduzione dipende dall’originale ed è fragile; la traduzione peggiore è quella che mira a sostituirsi all’originale, senza curarsi delle imperfezioni. La traduzione deve rivelare l’autonomia dell’originale in un senso transitorio. La molteplicità delle traduzioni contribuiscono a rivelare aspetti e latitudini dell’originale che in qualche modo rimanevano celati. In che direzione va allora il lavoro del traduttore? Il tradurre, nel carattere paradossale del luogo in cui si situa il traduttore, cioè al confine tra le lingue, prende la direzione di rivelare l’affinità delle lingue tra loro, perché la possibilità del tradurre indica una coappartenenza tra le lingue e non un’estraneità assoluta. Senso etico di questa dimensione del tradurre: le lingue nel loro carattere storico naturale e non sono estranee e il tradurre mostra la loro affinità. L’affinità non è contingentemente storica ma è metastorica perché oltrepassa le parentele storiche delle lingue naturali. Tesi forte della filosofia del linguaggio: tutte le lingue convergono nell’unità dell’inteso. Esempio del pane; questa unità dell’inteso non è accessibile alla singola lingua nel suo differire dalle altre, ma solo alla totalità delle loro intenzioni reciprocamente complementari. Pura lingua pre-babelica originaria che non conosce ancora la divisione e il regno della confusione linguistica. Pura lingua non dipende da mitologia ingenua: qui Benjamin suppone qualcosa che anche le ricerche linguistiche scientifiche intendono, cioè l’unità originaria del linguaggio nel suo presentarsi. I riferimenti di Benjamin non hanno solo valenza storico genetica ma anche filosofico teologica, perché in virtù del tradurre la constatazione di divergenze linguistiche mostra un’affinità che non nega tali differenze ma in qualche modo respira in esse. Senso etico filosofico del discorso benjaminiano, perché l’idea di pura lingua e dello stare al confine tra lingue non sopprime il divergere dei significati, di cui pura lingua è punctum di convergenza, armonia, limite del dire, di ciò che nella lingua si manifesta. La lingua è simbolo del non comunicabile. Pura lingua contiene ciò che non si può dire in nessun altra lingua, cioè l’inteso, che si traduce in ogni lingua ma non è risolto da nessuna di esse e si costituisce nella possibilità del tradurre. La fine messianica della storia delle lingue è il loro convergere: idea di un limite storico in cui la condizione post-babelica cessa. Lavoro del tradurre si alimenta della tensione verso questo punto, tra eterna sopravvivenza delle opere e infinita reviviscenza delle lingue. Condizione di sospensione che fa i conti con l’estraneità delle lingue: evidente risvolto etico e profonda attualità di questo discorso in un’epoca in cui il senso di reciproca estraneità tra culture sono all’ordine del giorno. Le soluzioni che si possono trovare sono soluzioni temporali e provvisorie e storicamente non possono che essere così. Questo conduce Benjamin a sostenere che, in quanto consapevole della transitorietà e della sospensione, il lavoro del traduttore necessita di un carattere d’ironia romantica, cioè di consapevolezza del perire del proprio lavoro. Principio di regalità e maestà nell’originale. Rapporto tra il senso dell’opera e la lingua dell’originale è assimilabile a quello tra il frutto e la scorza, quello tra il contenuto e la lingua che lo ospita è paragonabile a un mantello regale che lo avvolge in A. Secondo le sue parole: La critica coeva delle Affinità elettive, La favola della rinuncia; B. Secondo la sua vita: i. L’olimpo ovvero le forme di vita mitiche dell’artista: Il rapporto con la critica, Il rapporto con la natura; ii. La paura ovvero le forme di vita mitiche nell’esistenza dell’uomo: Il demoniaco, La paura della morte; iii. La paura della vita. La prima parte dunque è una sorta di preliminare in cui Benjamin definisce quello che è il commento di un’opera e la critica vera e propria, stabilendo che questo riguarda poi alla tensione di ogni opera tra il suo contenuto reale e il suo contenuto di verità e il commento si deve occupare del contenuto, della lettera. Nell’ordine mitico della natura c’è una lettura del significato che assumono gli elementi nel romanzo, individuando in questi, acqua e uomini, una dimensione che sta sotto la superficie, che ha un principio di movimento del tutto autonomo (no inconscio di Freud). Nella parte del destino, la nozione di destino per Benjamin è fin dai primi scritti filosofici legata all’idea di esistenza in balia del mito come condanna alla ripetizione, archetipo dell’accadere mitico come il mito di Sisifo, figure inchiodate alla ripetizione quale condanna, nesso colpevole del vivente nella misura in cui sottostà alle potenze del mito e l’emancipazione da questo è un tema trattato da Benjamin. Nome come sigillo dell’esistenza, che risale al primo saggio e alla teoria del linguaggio benjaminiano. Nel nome di ognuno vi è tensione tra destino e libertà. Benjamin legge in chiave tragica il romanzo di Goethe e intende come motivo di speranza la stessa morte di Ottilia. In “Secondo le sue parole”, Benjamin analizza la critica alle Affinità elettive e poi la favola della rinuncia, il ruolo del mito dell’esistenza di Goethe come pura e semplice rinuncia. Idea che allora si era imposta di Goethe come figura olimpica nel quadro del classicismo di Weimar, oltre questo nasce il culto della figura di Goethe che ha la forza di un classico greco, l’unico che ha la stessa forza. Seconda parte legata alla paura, in relazione alle potenze mitiche. - Seconda parte: La redenzione come antitesi: qui si affronta la questione del nesso tra critica e biografia, presa di distanza di Benjamin di una critica dell’opera a partire dalla biografia dell’autore. Qui se la prende con un critico importantissimo di allora, Gundolf: coraggio di Benjamin poco più che trentenne che attacca il critico più celebre (difficoltà di pubblicazione dell’opera, radicalità che solo Hofmannstahl poteva capire): 1. Critica e biografia A. L’interpretazione tradizionale I. L’analisi delle opere 2. L’esposizione di essenza e opera B. L’interpretazione eroicizzante II. Goethe di Gundolf (vero e proprio libro) A. Debolezza metodica (smonta il libro di Gundolf che gravita la nozione di eccezionalità ella biografia goethiana, anche con qualche ragione) 1. Il poeta nella scuola di George A. Come eroe B. Come creatore 2. La vita come opera 3. Mito e verità B. Debolezza oggettiva, il vecchio Goethe III. La novella A. Sua necessità nella composizione (riflessione sulla forma di romanzo e forma di novella, opera nell’opera che instaura tensione con quello che viene affrontato) I. La forma di romanzo delle Affinità elettive II. La forma della sua novella B. Suo significato oggettivo I. Le corrispondenze in particolare II. Le corrispondenze nel complesso - Terza parte: La speranza come sintesi (parte filosofia più importante dell’intero saggio, nesso tra critica filosofia e critica verità): 1. Critica e filosofia 2. La bellezza come apparenza (analisi di Ottilia) A. La verginità B. L’innocenza i. Nella morte ii. Nella vita C. La bellezza i. Il motivo di Elena (Faust) ii. L’evocazione iii. Il privo di espressione (Das Ausdruckslose) = il saggio di Benjamin sulle affinità elettive definisce con maggior forza la nozione del privo di espressione, che diviene condizione stessa del significato e ha valenza come cesura o pausa nelle poesie; iv. La bella apparenza 3. L’apparenza della riconciliazione A. Conciliazione e commozione (conciliazione a partire dalla morte di Ottilia) i. Armonia e pace ii. Passione e affetto a) Ottilia, Luciana, la fanciulla della novella b) Gli amanti c) Il matrimonio nel romanzo d) La trilogia della passione B. La salvezza (bellezza che si spegne e sublime etico) i. La scossa a) L’apparenza che si spegne b) L’involucro della bellezza c) Il denudamento (del cadavere di Ottilia) ii. La speranza Lezione 10 Abbiamo dato uno sguardo in conclusione alla complessità dello schema soggiacente al saggio di Benjamin dedicato alle affinità elettive di Goethe. Benjamin, in queste pagine non accluse alla pubblicazione originaria del saggio, articola in tre parti (schematismo dialettico elementare: tesi del mitico sull’esistenza umana, che riguarda protagonisti del romanzo, antitesi dedicata alla redenzione, che riguarda protagonisti della novella, sintesi della speranza, parte in cui Benjamin dà fuoco a tutto il suo potenziale filosofico nell’analisi del romanzo, perché tratteggia nella maniera più completa una teoria estetica e dialettica del rapporto bellezza verità). L’incipit del saggio è dedicato ad una distinzione strategica che egli traccia nell’opera (o in qualsiasi opera d’arte letteraria) e nell’approccio di questa: da un lato distingue commento e critica e dall’altro contenuto reale e contenuto di verità. Questi due piani dell’opera sono in qualche modo intrecciati nel arsi dell’opera e nella sua forma finale, ma sono anche destinati in qualche modo a separarsi nella misura del durare dell’opera e dell’instaurarsi molteplici letture di essa. “Ma con ciò, contenuto reale e contenuto di verità, uniti nella giovinezza dell’opera, si separano nel corso della sua durata, poiché il secondo continua a restare nascosto, mentre il primo viene alla luce”: il compito della critica è di portare a rivelazione il contenuto di verità dell’opera che in qualche modo rimane custodito. La condizione è analizzare con onestà e responsabilità il contenuto reale; complementarietà tra le figure del commentatore e del critico, che possono risiedere nella stessa persona, ma delineano due verità diverse. “Si può paragonare il critico al paleografo, davanti a una pergamena il cui testo sbiadito è ricoperto dai segni di una scrittura più forte che si riferisce a esso. Come il paleografo deve cominciare dalla lettura di quest’ultima, così il primo atto del critico ha da essere il commento”: allora il commento deve occuparsi del contenuto reale, di quello che effettivamente è in gioco, l’intreccio, le questioni sollevate. Non c’è in Benjamin l’idea di relativizzare e non considerare il piano della lettera per privilegiare un’interpretazione spiritualista. Il piano della lettera è fondamentale per penetrare il contenuto di verità. Benjamin usa un’ulteriore metafora, quella del chimico e dell’alchimista: idea che l’opera conosce una storia, la sua durata non è un conservarsi intatto ma un trasformarsi in cui si separano i piani e da cui può emergere la figura del suo contenuto di verità. “Se si vuol concepire, con una metafore, l’opera in sviluppo nella storia come un rogo, il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come l’alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l’altro solo la fiamma custodisce un segreto: quello della vita. Così il critico cerca la verità la cui fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del vissuto”: è alta la prosa di Benjamin e non trascura toni solenni, sta definendo la figura del critico. Nella terza parte chiamerà il rapporto tra critica e filosofia. Tutto questo carica della massima responsabilità la funzione critica che deve interpretare l’opera facendo emergere il contenuto di verità per conoscere così la natura dell’autore e non il contrario! Dall’interpretazione noi veniamo a conoscere l’autore, sequenzialità logica e fenomenologica che rovescia anche Gundolf. Benjamin nega che il vero oggetto dell’opera sia solo il matrimonio. Per avvicinarsi al contenuto reale, Benjamin chiarisce la posizione di Goethe rispetto all’epoca dell’Illuminismo in cui domina la filosofia di Kant e una certa concezione dell’esperienza; “Poiché quasi nello stesso tempo in cui l’opera kantiana giungeva a termine e si poteva considerare tracciata la carta dei sentieri attraverso lo scheletrico bosco del reale, cominciò la ricerca goethiana di un seme di eterno sviluppo. “Poiché […] Humboldt”: si annuncia con Goethe e non solo con cui un’altra concezione della natura, fin dai primissimi scritti di Goethe, idea differente di quella che si traccia negli scritti di Kant. Humboldt è grande linguista, fondatore della linguistica moderna che sviluppa idea di un linguaggio con forma interna che omologa il pensiero di un popolo. Schiller, altro protagonista del classicismo weimariano. Il confronto è tra l’epoca di Kant e l’epoca di Goethe, illuminismo e romanticismo: qui si mette a fuoco il tema del matrimonio, che non è il vero focus del libro ma comunque ne parla. “Quanto fosse […] reali”: rispetto allo spirito analitico kantiano che vedremo rispetto al matrimonio dà una definizione giuridica, con Goethe abbiamo l’intuizione del limite di questo approccio ad una delle manifestazioni oggettive più caratteristiche della vita umana. Qui Benjamin parte non per ridicolizzarlo, ma dalla definizione kantiana del matrimonio nella Metafisica dei costumi, definizione che penetra nel rapporto reale infinitamente più a fondo di ogni sofisma sentimentale. Definizione pagina 166. Da un lato Kant penetra nel rapporto reale più di ogni sofisma, dall’altro ha sbagliato perché pensava di dedurre da questa definizione giuridica la possibilità e necessità etica del matrimonio, che per Benjamin è assolutamente improponibile. Accosta la lettura kantiana a quella alternativa di Mozart, quello del Flauto Magico: da un lato, così, abbiamo la definizione giuridica, dall’altro, nell’opera lirica, emerge l’amore coniugale, non tanto il desiderio degli amanti ma la costanza degli sposi è il contenuto dell’opera. Momenti chiaramente massonici nell’opera di Goethe, ma per quanto la massoneria possa dissolvere i legami oggettivi, rimane la fedeltà. Da un lato abbiamo la concezione giuridica del matrimonio come contratto indifferente a qualsiasi sentire, dall’altro abbiamo l’affermazione della potenza dell’amore come costanza del tempo e fedeltà. Si chiede se in questi due estremi di Kant e Mozart, Goethe non sia più vicino al contenuto reale di entrambi. Confronto di questo trio che Benjamin vede sullo sfondo del romanzo, nell’intuizione della complessità del contenuto reale del matrimonio stesso. Figura del narratore, si avverte la presenza di qualcuno che sta narrando nel romanzo, non c’è realismo diretto. Intreccio che inclina verso la tragedia. Di questa complessità Benjamin coglie come ci sia una parodia nel romanzo, cioè la figura di Mittler, che è l’unico che si presenta con il l’inespresso che parla la parola morale stessa. Il rapporto del bello con il bene si afferma. Questa parte è pervasa di una ripresa e rilettura tra le più forti della filosofia platonica. Inespresso riferimento al superiore. Inespresso è potenza critica, ciò che non permette l’opera a divenire totalità e rimane frammento. Holderlin, cesura del metro come interruzione antiritmica (pagina 222). Il senso dell’inespresso non è quello di spezzare un flusso narrativo, ma quello che permette di coglierlo nella sua unità di immagine: senza questa funzione dell’inespresso e della cesura non si darebbe tutto questo. La bellezza condensata simbolicamente in Ottilia si spinge al limite del suo apparire e significare. Il senso di questo limite è dato da questa ambivalenza dell’acqua: riflette la luce e inghiotte nell’oscurità. Conciliazione apparente, conciliazione offerta dalla bellezza stessa, e rapporto con la conciliazione vera. Emergere degli affetti, sciogliersi dell’uomo dalla potenza delle passioni. Il nesso dei protagonisti è quello del rapporto tra affinità ed elezione; problema, cioè che si erge innanzi e contro cui si cozza, è il fatto che il piano dell’affinità, che indica il piano della parentela, è il fatto che il conflitto che si instaura tra lato oscuro dell’illuminismo e Bildung e potenze naturali. Si giunge a un superamento della stessa bella apparenza e apparenza di conciliazione che essa rappresenta. Qui si parla di una commozione che si dà come scossa, non è commozione che scuote il sentire, ma è scossa in virtù della quale la bellezza apparente trapassa nella sfera del sublime nel momento del suo tramontare. Apparenza che si rivela nella bellezza di Ottilia è apparenza di una bellezza che si spegne. Tutto questo viene a disegnare un concezione dell’opera d’arte come dialettica costitutiva tra apparenza estetica e l’inespresso. Qui bisogna stare attenti a non banalizzare questo nesso tra bellezza e apparenza. Benjamin non sta dicendo che bellezza come apparenza è mera illusione, no psicologizzazione del belo: la bellezza è platonico puro, non è fenomeno ma idea che nei fenomeni diviene sopportabile alla vista perché riluce nel fenomeno. Non è banalizzazione della bellezza. Bellezza resta nella sua dimensione di eidos sostanziale sotto un involucro; la bella apparenza è involucro di ciò che è necessariamente velato. La bellezza al di fuori del soggetto è nullo, dice Kant: Benjamin insiste sul carattere di relazione con la bellezza necessario con l’apparenza, ben oltre ogni psicologia. Penetrare questo involucro non è scoprire l’essenza del bello ma portarlo al suo tramonto. Custodire il segreto tramite la critica, che non banalizza questa dimensione di segreto nell’opera, tantomeno si traduce nell’immedesimarsi in essa. Si capisce bene qui come per Benjamin non c’è accesso solo cognitivo alla verità e non c’è nemmeno accesso psicologico che si traduce in puro immedesimarsi in essa. Questo sta in linea con la critica dell’estetica dell’empatia, immedesimazione dell’autore di Gundolf. Benjamin fa vedere come la figura della speranza si rifletta nell’atto stesso del narrare, riflesso dialettico che contempla quello che accade e ciò che succede anche a Ottilia stessa. Speranza che spicca il suo volo e che chiude il saggio di Benjamin. Lezione 11 Di alcuni motivi in Baudelaire, saggio celebre non solo per il suo oggetto, cioè la figura di Baudelaire come figura emblematica a partire dalla sua poesia dell’intera modernità, ma è celebre anche per lo strumentario concettuale che Benjamin qui impiega, perché è un saggio dedicato al rapporto arte in genere ed esperienza, in particolare poesia lirica ed esperienza. Egli apporta chiarimenti alla nozione di esperienza che lo impegna sin dai primissimi scritti (Saggio giovanile sul programma di una filosofia futura). Riflessione sulla latitudine e profondità dell’esperienza umana, qui attraverso la poesia di Baudelaire nella sua eco storica. Qui egli distingue la nozione di esperienza vissuta, interiorizzata e metabolizzata dalla coscienza (Erlebnis, vissuto) e l’Erfahrung, esperienza nel suo impatto immediato con la realtà, articolazione reale ed effettiva. Questa distinzione per Benjamin sarà essenziale per mettere a fuoco la poesia e la figura di Baudelaire come lirico d’eccellenza. È un saggio tardo che verrà pubblicato l’anno stesso della morte di Benjamin; Baudelaire e la sua opera è un oggetto privilegiato e prediletto della riflessione benjaminiana perché è un autore tra i più amati e verso cui è impegnata la sua riflessione fin dagli anni giovanili (il compito del traduttore, ’21, ha anche la funzione, oltre che esporre la riflessione benjaminiana del linguaggio, di introdurre la sua traduzione dei Tableaux parisiens, sezione dei Fleur du mal. Impegno di Benjamin nei confronti alle questioni relative a una teoria della poesia dell’età moderna; nel periodo in cui egli matura un progetto sui passages parigini, egli riprende a occuparsi di Baudelaire in maniera sistematica e analitica. In questo conteso Baudelaire ritorna al centro della riflessione benjaminiana ed è qui che si chiarisce il lavoro di Benjamin. La prima formulazione di un lavoro sui passages viene a Benjamin nel ’27, inizialmente come saggio breve legato alla sua frequentazione del surrealismo (’29, saggio sul surrealismo come ultima istantanea dell’intellettualità europea) ma è nel corso degli anni ’30 che l’opera si ingrandisce e diventa un lavoro che costituisce il vero pendant del libro sul Trauerspiel. I passages come forma architettonica indecisa tra costruzione e luogo di transito, un passaggio: Benjamin assume questo luogo della moderna metropoli come figura emblematica, come cifra espressiva e significativa dell’intera modernità (Baudelaire è importante saggista e riflette sull’arte moderno e sui tratti dell’epoca moderna, modernitè e die moderne). Passages vengono definiti da Benjamin riprendendo da una guida illustrata (autore vietnamita) di Parigi: “Questi passages, recente invenzione del lusso industriale, sono corridoi ricoperti di vetro e dalle pareti rivestite di marmo, che attraversano interi caseggiati, i cui proprietari si sono uniti per queste speculazioni. Sui due lati di questi corridoi, che ricevono luce dall’alto, si succedono i più eleganti negozi, sicché un passaggio del genere è una città, anzi un mondo in miniatura”. Sono qualcosa di simile alle nostre gallerie di Napoli e Milano, ma a Parigi ve ne erano molti e oggi rimangono. I passages divengono un mondo in miniatura di un‘epoca e sono scelti da Benjamin per analizzarli perché sono luoghi di mostra in vetrine della merce, di puro passeggio, di pura flanerie (= bighellonare, andare a zonzo – Baudelaire è considerato come il flaneur). Nei passages la merce secondo Benjamin, con la forma smagliante, esplica il suo potere sulle coscienze: l’obiettivo di Benjamin con questa analisi è offrire una rappresentazione critica della modernità. Egli si propone anche una forma nuova di esposizione. Pensa a un lavoro articolato in sezioni e composto essenzialmente di materiali e documenti dell’epoca (testimonianze, riviste, osservazioni) per produrre un’opera che consiste in un montaggio di materiali. L’amico Adorno aveva ritenuto il Passageswerk doveva consistere unicamente in citazioni, come una sorta di mega opera ispirata al surrealismo che aveva proiettato il principio del montaggio a cardine. Non è così, però; noi possediamo tutti questi materiali (600 pagine) ma innanzitutto c’era il principio di montaggio, mai innocuo rispetto ai materiali. Ritmo espositivo più che narrativo. C’è una gamma di riflessioni dedicate all’intelaiatura teorica, come dice Benjamin, cioè i concetti cardine che dovevano fare da giuntura a questa struttura di ferro. Benjamin è consapevole del fatto che il progetto doveva approdare a un libro di una mole più grande, ma quel che cambiava dal Trauerspiel è che non si analizzano testi letterari ma un’intera epoca storica, con l’assunto che la Parigi del II Impero doveva essere considerata capitale del secolo. Approfondimento di singole figure; un aspetto considerato fino ad allora marginale e da allora si sviluppa anche in maniera critica le forme del moderno. I passages si trasformano agli occhi di Benjamin in forma simbolica che contiene in sé lo spirito della modernità perché condensano in tutto ciò che si svolge l’intreccio tra ritmica dlele forme storiche (dall’esplicarsi della forma merce sulle coscienze) e le modalità dell’appercezione di questa ritmica nella coscienza dei contemporanei. È da qui che Benjamin doveva lasciar sviluppare tutte le altre figure nelle quali l’intera opera si sarebbe dovuta articolare. Dai passages si sviluppano le altre figure in cui l’architettura dell’opera si sarebbe dovuta articolare, come le strade, costruzioni in ferro, Esposizioni Universali etc. Agli occhi di Benjamin ognuna di queste figure (prostituta, flaneur, vetrina), all’interno di una sorta di collage, precisa diagnosi epocale e concetti storico politico teologici, si trasforma in un’immagine dialettica, cioè un’immagine che contiene in sé elementi di contraddizione e di risveglio delle coscienze dal sogno in cui era avviluppata la società (come il progresso infinito della tecnica). Forma dell’oggetto storico che per Benjamin soddisfa le esigenze che Goethe pone per l’oggetto di un’analisi: mostrare una vera sintesi, lasciare intuire una vera sintesi. Abbiamo già trovato accenni al pensiero di Goethe come capace di un’intuizione sintetica dei contenuti reali dell’epoca. Benjamin, mentre lavora al progetto sui passages dal ’34-35 riprende il pensiero goethiano e trasforma e sostiene che una nozione fondamentale del Goethe naturalista, cioè quella di fenomeno originario, intuizione di un singolo fenomeno nella natura (es. struttura della pianta), da queste forme germinali si sviluppa la natura. Benjamin riprende dunque tutto questo e lo applica alla storia, per cui una figura come passages, immagine dialettica, acquisisce valore originario della storia, cioè assume i caratteri di una figura che da sé lascia sviluppare altre forme. Intento benjaminiano di instaurare una sorta di doppio movimento tra la penetrazione critico analitica del materiale onirico collettivo di cui è intessuta la storia, e quella che è la rammemorazione del potenziale di senso rimosso nella sua rappresentazione mitica. La modernità non è semplice separazione e taglio rispetto ai suoi presupposti più remoti, ma il moderno instaura sempre una sorta di dialettica con l’antico e con l’arcaico, che ha a che fare con il mito. Intento benjaminiano con quest’opera è quello di giungere ad una critica dei miti che impedivano alla coscienza moderna di svegliarsi dai processi di reificazione e alienazione intorno alla forma merce e valore di scambio. È un’opera in cui confluisce sia l’origine teologica del suo pensiero, cioè la fase iniziale del linguaggio, e quanto ha sviluppato nel Trauerspiel, sia la svolta materialista del suo pensare, quindi idea di sviluppare una diagnosi critica dell’epoca. Benjamin, quanto si propone, è critica dell’apparenza storica da un analisi di Marx del feticismo della merce. Originalità di questo progetto è che in Marx il feticismo della merce è sviluppato mostrando come essa occulti l’apparente autonomia del muoversi della merce, come avesse le proprie gambe e fosse soggetto autonomo, in direzione di un occultamento di rapporti sociali, dimenticando che il motore del capitalismo è scambio ineguale. Analisi della sottostruttura e sovrastruttura ideologico culturale; la peculiarità di Benjamin è dimostrare come questo feticismo della merce esplica potere sulle coscienze, alimentando sogni dal suo volto seducente e abbagliante che essa assume quando esposta nelle vetrine. Estrema attenzione al ruolo e significato della moda nel capitalismo, della pubblicità e figure che sono connesse con la merce, come la prostituta, merce soggetto allo stesso momento, immagine dialettica importante nelle poesie di Baudelaire, ma anche lo straccivendolo, il mendicante e il flaneur. Critica dell’apparenza storica, concezione dialettica sui generis. Il motto che Benjamin sceglie è “Non ho nulla da dire, solo da mostrare”: fa parlare i materiali stessi, ciò implica che questi abbiano forza autonoma ma che dietro vi sia un sapiente principio di costruzione necessario all’opera, alimentazione teorica. Tutto questo progetto porta a un rapporto significativo con il surrealismo; nella fase iniziale, nell’idea di un saggio breve del’27, doveva essere di spirito surrealista, ma quando Benjamin ingrandisce l’opera, egli dice di aver abbandonato il carattere rapsodico e la forma illecitamente poetica della fantasmagoria dialettica iniziale. Rapporto di complessa mediazione nei confronti della filosofia della scrittura del surrealismo, che per lui è uno dei movimenti culturali più significativi. Tentativo di fissare l’immagine di una storia nelle cristallizzazioni meno appariscenti della sua esistenza, superamento delle immagini del surrealismo, rimane però spirito di sprofondare in un pensiero che si rivolge a fenomeni secondari e mai considerati. Critica alle linee di tendenza dell’epoca. Una delle riflessioni portanti di questo progetto è relativo alla nozione di storia e consiste in una complementarità tra la brama di una novità assoluta, nel nesso tra forma merce e pubblicità e moda, ricerca della novità, idea di progresso, e complementare l’eterno ritorno dell’uguale. Variazione di un tempo infernale, tempo moderno come tempo che vuole espungere da sé il principio della moda, e in questo vede la sua condanna. Tempo di un passages senza fine, tempo condannato a non finire, tempo di un transito senza fine, passaggio senza esito che inchioda nel tormento di un’immanenza assoluta. Solidale con questo tempo è il ritmo pervasivo della moda: in questa si legge il tempo dell’inferno, che non ci attende nel futuro, ma in questa vita qui come moderno rituale. “In ogni moda […]” passa da analisi del feticismo della merce al feticismo sessuale senza conoscere opera di Freud. La moda diventa capace di esprimere il movimento storico di un’epoca nella sua pura apparenza, necessario complemento del feticismo moderno. La vita cosciente in questa ricerca spasmodica della verità abbandona la cosa stessa; il vettore seduttivo della moda è giocato sul consegnarsi all’apparenza per disinnescare il principio stesso della fine del tempo. Il feticcio adorato da questa perversione erotica della coscienza è presentarsi come apparenza di se stessa (feticismo sessuale oggetto è libido erotica, qui è pura apparenza senza simulacro in cui la coscienza reificata affida ogni sentire). Per un lavoro del genere Benjamin è alla ricerca di un finanziamento, di un sostegno che permetta di condurre a termine tuto questo. Sono anni di solitudine per l’esistenza e un minimo gli venne dalla rivista per la ricerca sociale dell’istituto. Nel 1935 Benjamin scrive un Exposè, una sorta di profilo riassuntivo della struttura stessa dell’opera; Benjamin ne scriverà un secondo nel ’39 sempre alla ricerca di un finanziamento privilegiata tra esperienza vissuta e opera poetica. Il vissuto doveva trovare una forma congeniale e peculiare nell’espressione poetica. Oltre a Dilthey, Benjamin cita anche uno dei filosofi più influenti dell’epoca, cioè Bergson (“Materia e Memoria”) nel rapporto tra temporalità e coscienza umana, opposizione tra tempo proprio dell’esperienza, qualitativo e soggettivo, durata, e tempo spazio, quantitativo e misura. Critica di Benjamin a Dilthey e Bergson: l’esperienza autentica non è interna alla soggettività della coscienza, ma è un fatto di tradizione che porta a compenetrare la vita collettiva e quella privata. Benjamin critica il modello individualistico e soggettivistico dell’esperienza che torva in Bergson colui che lo legittima più di tutti. L’esperienza è dati accumulati e inconsapevoli: Bergson, in questa concezione, si oppone a un’esperienza che fa i conti con la storia. Critica di espellere dalla sua nozione di esperienza umana autentica la determinazione storica dell’esperienza, cioè l’Erfahrung in Benjamin. Lezione 12 Saggio di Baudelaire di architettura complessa e mirabile, uno dei più costruiti da Benjamin e in cui egli riesce a far arrivare il suo pensiero filosofico a un pubblico più vasto. Egli precisa il peculiare rapporto tra Baudelaire e pubblico: il poeta conta su un pubblico nuovo, non quello che tradizionalmente legge poesia lirica. Baudelaire rappresenta un punto di svolta tra modernità e lirica e per questo Benjamin insiste sull’incipit del Fleurs du Mal (Ipocrita…), calcolo lungimirante di Baudelaire, perché troverà pubblico di massa nell’epoca seguente. Le Fleur du Mal sono il primo successo di massa e qualcosa di paragonabile lo abbiamo solo in Germania con il Libro dei Canti di Heine). A fine di questa esposizione il poeta che compone è un poeta consapevole che gli è caduta l’aureola; non è più il vate ufficiale della nazione o di un popolo in un’epoca. Baudelaire voleva essere compreso e per questo motivo ciò che viene messo a fuoco nella sua poesia è il nesso tra trasformazione ed esperienza storica, profondità storica con trasformazione della lirica. Benjamin parte dal fatto che da fine Ottocento la filosofia e gli intellettuali sono alla ricerca di un’esperienza autentica al riparo dalla meccanicizzazione e frammentazione individuale. Riferimento a Dilthey, tema della comprensione delle opere dello spirito come un rivivere; Erlebnis di Lessing, Goethe, Novalis e Holderlin. Benjamin lascia la scena della filosofia della vita per andare ad un altro filosofo più influente in questo passaggio, Bergson, Metière et Mèmoire, ’96, concezione del tempo autentico come tempo qualitativo puramente soggettivo dove la temporalità è esperita nel continuum, esperienza della durata, che si oppone al tempo spazio, quello degli orologi che è suscettibile di essere quantificato. Critica di Benjamin: in realtà l’esperienza (Erfahrung e non Erlebnis), non è un fatto solo individuale ma di tradizione, dove la dimensione della vita collettiva si fonde con quella privata, critica al modello individualistico di Bergson. Mattoni concettuali che assumeranno precisa fisionomia. L’esperienza non consiste di singoli eventi fissati nel ricordo ma di dati accumulati inconsapevolmente e fissati nella memoria. Bergson non coglie lo spessore storico sia dell’esperienza che della memoria. Da analisi biologica a soggettività non attraversata dai processi storici. Bergson evita di avvicinarsi a quell’esperienza da cui è sorta la sua stessa filosofia: nasce come reazione alla sua epoca storica (industrializzazione) ma non si avvicina alla storia. Senso della soggettività che faceva da argine all’esperienza storica segnata dalla grande industria. Benjamin poi introduce un altro attore del discorso, cioè Proust, Ricerca del tempo perduto, in cui il rapporto con Bergson è evidente e esplicito. Proust, con il suo colossale romanzo come tentativo di salvare il tempo individuale come tempo perduto con scrittura, egli traduce in scrittura la concezione bergsoniana dell’esperienza come esperienza di un tempo interno omogeneo e qualitativo (la durèe). Da parte di Proust, senza smentire il nesso bergsoniano, vi è anche introduzione di un fattore critico dato dalla autoriflessione proustiana del rapporto tra tempo e memoria, rapporto che presuppone una distinzione all’interno del concetto di memoria: memoria volontaria (che scava e ritorna intenzionalmente all’oggetto di un ricordo) e memoria involontaria (che viene destata da minime esperienze sensoriali, all’origine della recherche c’è l’esperienza del ritorno del sapore della Madeleine). Critica di concezione privatistica dell’esperienza secondo Benjamin, in Proust si vede aporia costitutiva di questo tentativo eroico, sfida contro le potenze dell’oblio. Riflessione di Benjamin muove da un’analisi dell’esperienza nella sua contemporaneità che in certi versi è ancora la nostra; un privatizzarsi rende l’esperienza sempre più povera e meno espressiva ed è dovuta ai mezzi di informazione (giornali per esempio). Egli fa riferimento a Kraus, austriaco che si opponeva all’uso linguistico dei giornali che aveva portato alla paralisi dell’immaginazione. Cifra dell’esperienza storica moderna è atrofia progressiva e non espansione, scissione tra ciò che si dà tra privato povero e piano dei processi collettivi. Opera di Proust come sforzo immane per restaurare la figura del narratore in un’epoca in cui questo viene meno. Rapporto tra romanzo moderno e crisi figura del narratore è al centro di un saggio pubblicato nel ’36 da Benjamin, in cui il narrare come atto di trasmissione orale implica fusione tra individuale e collettivo nella memoria, cioè ciò che nell’epoca moderna viene meno. Benjamin espande poi la platea dei protagonisti perché chiama in causa Freud, Al di là del principio del piacere: da questo saggio del ’21 egli prende il rapporto tra memoria e coscienza. Idea che la presa di coscienza nella memoria di un evento passato costituisce già una razionalizzazione della traccia mnestica nella sua configurazione originaria. Benjamin gioca contro il nesso memoria coscienza quello tra memoria volontaria e memoria involontaria. La memoria involontaria per Freud è sostituita dall’inconscio, ciò che si sottrae alla coscienza; per Freud la coscienza non accogli e le tracce mnestiche nella loro forza primigenia, ma esercita una funzione protettiva nel loro carattere di shock: nesso memoria coscienza è un disinnescare shock. Benjamin vuole far vedere come da una parte vi è la memoria essenzialmente conservatrice, mentre dall’altra vi è l’involontario ricordo distruttivo che porta alla luce il rimosso (allievo di Freud, Reik), nozione del principio di shock. Benjamin cita Valèry, da testo in cui si mette in evidenza il carattere di sorpresa della sensazione. Forza autonoma della sensazione come qualcosa che buca la corazza protettiva razionalizzante della coscienza. Su queste premesse Benjamin pone il problema di una poesia lirica fondata su un’esperienza in cui la ricezione di shock è divenuta la regola. A questo problema risponde la poesia di Baudelaire, in cui lo shock non è neutralizzato ma incorporato. Questo nesso tra esperienza lirica e esperienza storica nei suoi tratti accecanti porta Baudelaire ad assumersi come compito la ricerca di una lirica che mettesse a fuoco la dimensione dell’esperienza storica in tutta la sua negatività. Baudelaire vede degli spazi vuoti nella produzione intellettuale in cui egli inserisce le sue poesie. La metafora militare eroica attraverso all’analisi che Benjamin fa delle poesie. Eroismo della lirica di Baudelaire sta nell’incorporare il principi odi shock nella composizione di verso. Da un lato abbiamo difesa dallo shock, allocazione dell’evento che viene neutralizzato, esperienza vissuta, e poi Erlebnis nella sua nudità nel processo storico. Si entra nel vivo dell’analisi. Sapienza di orchestrazione di entrata in scena di Baudelaire. Il lavoro poetico di Baudelaire fa spesso metafora della scherma (poesia Le soleil): incorporare principio dello shock si traduce in questa metafora militaresca dello schermidore. Intimo rapporto tra immagine dello shock e il contatto con le grandi masse cittadine: Benjamin precisa che non è questione di una classe o collettività articolata, ma le masse che stringono un’oggettiva solidarietà strutturale di una folla amorfa, i passanti che brulicano per le vie parigine. “Questa folla […]”: non cerchiamo nelle opere dei momenti descrittivi o epici delle folle cittadine, ma l’esistenza della massa è interna al verso, senza mai essere esplicitata. I colpi dello schermidore aprono un varco nella folla; la massa della metropoli come presenza costante percepibile e non visibile nella poesia baudelairiana. Benjamin inizia ad affrontare il tema della folla oltre la lirica di Baudelaire; nell’Ottocento la folla comincia ad organizzarsi come in pubblico. In Benjamin di questi anni i è da un lato la critica del moderno e all’altro la messa a fuoco di mutate condizioni di letteratura e poesia dal punto di vista della ricezione (folla è soggetto e pubblico, letteratura diventa di massa). Benjamin cita un passo di Engels su Londra dall’opera “Situazione delle classi lavoratrici in Inghilterra”: tutti hanno in comune molte cose ma non si incontrano mai come se fossero stranieri fra loro. Contestualmente a questa analisi di Engels, Benjamin cita anche una lettera di Hegel a proposito della sua prima visita a Parigi, che non coglie l’alienazione. Benjamin osserva come la Londra di Engels sia qualcosa di diverso nel rapporto tra massa e processi di massificazione rispetto a Parigi, in cui vi sono ancora delle oasi tradizionali, motivo per cui Baudelaire può scrivere le sue poesie come un flaneur sul limite del processo storico. In virtù di questa rinuncia di una poesia descrittiva, ogni sua poesia, anche quelle apparentemente più lontane dalla folla, evocano la presenza della massa. Massa è velo fluttuante con cui Baudelaire vede Parigi; Benjamin analizza in quest’ottica la poesia Une Passante, in cui il tema è il poeta che sta bighellonando e incrocia in modo repentino una bella passante, esperienza di una bellezza fuggitiva paradigmatica per l’abitante della metropoli, incorporazione del principio di shock, bellezza che si dà e fugge dallo sguardo. La stessa condizione di possibilità che si dia questa apparizione repentina è assicurata dalla folla, messa a fuoco improvvisa. La passante ha tratti classici, bellezza del passato che i Greci esperivano. Non c’è solo esaltazione acritica o facile lirismo della modernità, ma c’è una percezione della dialettica temporale che nel culmine della modernità si accende tramite emozioni subitanee. Schema di uno shock, di una catastrofe: la bellezza fuggitiva si dà come uno shock che apre profondità temporale. Descrizione di una esperienza erotica al sommo grado, un attimo di incanto e un congedo per sempre. L’adempimento non gli è rifiutato ma risparmiato. Tema della folla approfondito dal §6, ampiezza dei confronti che Benjamin mette in campo tra Baudelaire e autori a lui congeniali (lavoro di Baudelaire come traduttore di racconti di Poe); muove dall’analisi di un racconto di Poe tradotto da Baudelaire, L’uomo e la folla, descrizione di esperienza londinese in cui il protagonista si siede in un pub ad osservare le scene al di fuori della folla. Dietro le finestre vede la folla che passa. Folla tetra e confusa come la luce a gas in cui si muove; con questo commento al passo di Poe Benjamin osserva come la coscienza dal carattere disumano della folla non abbandona mai Baudelaire, in cui da un lato egli è attratto dalla folla come flaneur ma nello stesso tempo si pone ai margini della società ed esercita un certo disprezzo, ambivalenza del fascino e del disprezzo. Differenza di Parigi da Londra: l’uomo della folla sintomaticamente osserva da un punto statico, non è flaneur che cammina al confine di un processo storico. Margine di libertà al movimento del flaneur. Benjamin approfondisce il tema della folla della metropolitana e cita Ensor, pittore belga che aveva prodotto “L’ingresso di Cristo a Bruxelles”, fola di spettri in cui è problematico cogliere la figura di Cristo. Benjamin agli occhi di un Poe o di un Ensor vede la folla come angoscia, ripugnanza e spavento. Fissare in volto significa saperla restituire in scrittura (Poe) o in pittura (Ensor), confronto tra Poe e Hoffman, scrittore romantico, “La finestra d’angolo del cugino”, diversa percezione di ciò che si svolge al di fuori. Analisi di Benjamin è di approfondire tratti sinistri della folla metropolitana per giungere a maggiore determinazione storica del principio dello shock. Questo è visto come un’esperienza tipica dell’abitante della moderna metropoli e di colui che vive nel dominio dell’industria. Benjamin mostra come il dominio della tecnica sviluppi un tipo di risposta gestuale nell’uomo moderno e contemporaneo; egli muove da Valèry in cui si osserva l’uomo civilizzato ricadere in uno stato selvaggio e d’isolamento. Quello che assicura la vita sociale è lo stesso meccanismo dell’organizzazione. Ci sono dispostivi automatici dell’organizzazione sociale e i tempi tecnici concitati della vita cittadina, analisi sull’opera d’arte nella sua riproducibilità tecnica, vivere come gesti bruschi e repentini. Si passa dal girare la manovella a staccare il ricevitore del telefono o lo scatto del fotografo. Differenza tra immagine fotografica che restituisce la realtà senza alone di desiderio e quadro pittorico che corrisponde infinitamente a un desiderio dell’uomo. Risposte convulse a cui l’uomo si è adattato diventano cifra del metropolitano, in cui si evitano scontri e si parano colpi. Benjamin ora giunge alla critica centrale, per cui la tecnica sottopone il sensorio dell’uomo a un training complesso, che riprogramma le sue risposte. Per capire meglio basta riflettere alla questione di simulazioni di semplici videogiochi: training della sensibilità nel suo funzionamento che abitua a certe risposte prima dlele riflessioni. Critica di economia politica, Benjamin chiama in causa Marx che analizza le trasformazioni del lavoro nel Capitale. Differenza tra operaio non specializzato e operaio specializzato: in quello specializzato l’esercizio è abilità, mentre in quello non specializzato la connessione è autonoma e oggettiva e non è un esercizio come antico mestiere ma tirocinio in cui l’operaio viene educato a una determinata serie di operazioni meccaniche che si vengono a inserire nell’ingranaggio della macchina umana. Uniformità di comportamenti che fa da pendant a uniformità di espressioni e modi del vestire, adattamento e omogeneizzazione indotta dai processi di massificazione. Siamo di fronte a un tipo di lavoro dell’opera non specializzato che diviene impermeabile all’esperienza. All’esperienza dello shock nella folla corrisponde quella dell’operaio della macchina. Sarebbe invano cercare in Baudelaire descrizioni di tutto questo e Benjamin lo sa, per cui nel §9 istituisce un’omologia strutturale tra il meccanismo riflesso che la macchina mette in moto nell’operaio e quello all’opera nell’ozioso la cui esperienza è risucchiata nel gioco d’azzardo. In Baudelaire manca la descrizione della prima realtà ma è osservatore attentissimo di quanto avviene nel gioco d’azzardo. Convergenza tra intento