Scarica fede e società. Introduzione all'etica cristiana e più Appunti in PDF di Teologia solo su Docsity! Fede e società. Introduzione all’etica sociale di Monti e Combi PARTE PRIMA - I FONDAMENTI BIBLICI DEL PENSIERO SOCIALE CRISTIANO
Capitolo 1 - Per un approccio alla Sacra scrittura La sacra scrittura costituisce l’orizzonte interpretativo ultimo della vita cristiana, personale e sociale. La Bibbia non è un catechismo sociale ma è innanzitutto testimonianza e annuncio del Regno di Dio. Tuttavia la rivelazione biblica ha rilevanza sociale, in quanto propone un messaggio da vivere nell’esistenza quotidiana, il Vangelo poi vuole trasformare ogni realtà. La Sacra scrittura non contiene esplicita dottrina sulla società, ma varie visioni che sono legate alla cultura e al momento storico-salvifico vissuto dai diversi autori. Nella rivelazione ebraico cristiana Dio si manifesta nelle vicende umane, incarnando il suo messaggio trascendente nelle forme storiche del tempo. È la vicenda di Gesù di Nazareth che deve essere usata come criterio interpretativo. Nell’umanità pienamente realizzata di Gesù di Nazareth si dà anche il senso della vita sociale. La Sacra Scrittura è rivelatrice non di un messaggio ideale, astratto ma della vicenda unica e irripetibile dei rapporti tra Dio e il suo popolo. Capitolo 2 - Fede e società nell’Antico Testamento Possiamo suddividere in tre momento la vicenda d’Israele e delle tensioni fede-società: 1. il momento costitutivo del popolo d’Israele, dove possiamo vedere l’esodo-alleanza come momento salvifico originario; 2. il momento del messaggio della predicazione profetica sulla nuova esperienza storica vissuta da Israele; 3. la riflessione sapienziale. 2.1. Le istituzioni storico-salvifiche: Alleanza e Legge. Il costruirsi delle prime grandi istituzioni d’Israele, alle quali viene affidato il compito di mediare la presenza salvifica di Jahve presso il popolo, fa sì che l’esperienza originaria d’Israele sia resa possibile anche alle generazioni successive. 2.1.1. L’Esodo-Alleanza. L’Esodo diviene paradigmatico con la liberazione dalla schiavitù faraonica. Il dono della liberazione offerto al suo popolo da Jahve. La liberazione dall’oppressione politica e la salvezza-redenzione divengono termini che si richiamano a vicenda. La celebrazione della Pasqua diviene espressione di una comunità religiosa libera anche politicamente, poiché la liberazione portata da Jahve è integrale. Solo un popolo libero può celebrare il vero culto, mentre quello schiavo ricade nell’idolatria delle divinità dei vincitori. Il binomio idolatria-schiavitù e fede-libertà è inscindibile. L’Alleanza mosaica serve a conservare immutata la propria fedeltà al Dio dell’Esodo. La celebrazione rituale dell’Alleanza sinaica diventa quadro di riferimento della coscienza d’Israele come popolo di jahve. Questo porta due implicazioni di cui la prima riguarda l’Alleanza che per Israele significa riconoscere che l’unità, la pace, la libertà di un popolo non sono immediato risultato del proprio impegno, oggetto di conquista progettata e deliberatamente raggiunta. Questi traguardi sono realizzati in pienezza soltanto perché dono di Dio. Israele sperimenta la gratitudine grazie all’intervento unilaterale, gratuito, ispirato da Jahve. La seconda implicazione riguarda la percezione che Israele ha di sé come popolo, come interlocutore collettivo di Jahve. Israele si trova a decidere solidalmente in ogni tappa del suo camino se rimanere fedele a Jahve o servire altri dei. L’Esodo, l’Alleanza sono donati ad un popolo che unitariamente si dispone ad esservi fedele, e altrettanto unitariamente sarà ritenuto responsabile delle sue infedeltà. Da Jahve Israele ha ricevuto anche la sua identità di popolo. In Egitto era non-popolo, con l’Esodo-Alleanza è stato messo in grado di servire liberamente il so Dio. 2.1.2. La Legge. La Legge rappresenta la modalità che consente ad Israele di mantenere perennemente presente la salvezza promessa e realizzata dal Dio dell’Esodo. L’Esodo è frutto dell’iniziativa gratuita di Jahve, e per far si che l’esperienza continui occorre rispettare la Legge. La Legge non è il prezzo che il popolo di Dio deve rendere in cambio della liberazione ottenuta da Jahve, ma rappresenta un’istruzione, una guida che indica la giusta direzione. Per questo la Legge è dono. La legge è data al popolo perché giunga al possesso pieno della terra, perché viva non solo di ciò che è alla portata della sua esperienza immediata ma di tutto ciò che “esce dalla bocca del Signore”, cioè della sua Parola. La legge non è criterio del bene e del male è Dio solo che indica la via della promessa. Obbedire al codice dell’Alleanza significa essere disposti a camminare non secondo criteri propri, ma secondo quelli di Jahve. Solo nella fede, Israele riconosce che la Legge è portatrice della promessa di Dio, che la meta cui essa conduce è la comunione con Lui e con l’altro. La legge si presenta come unitaria perché proveniente dall’Unico Dio che l’ha affidata al popolo. Le “dieci Parole” dicono le dieci grandi possibilità affidate all’uomo. Il decalogo afferma sia ciò che l’uomo è chiamato a compiere, sia il fatto che la legge è da prendere in considerazione integralmente. La Bibbia suggerisce che per compiere il bene, occorre essere totalmente buoni. L’alleanza è comunitaria, in quanto adesione di fede di tutto il popolo all’iniziativa gratuita di Dio ed essa fa da orizzonte di significato dell’intera legge. L’alleanza richiede un consenso libero e fiducioso di tutto il popolo, senza il quale rimane “lettera morta”. Ogni legge sussiste per indicare una meta, non immediata; una meta comune, che solo mediata dal libero consenso di tutti gli associati, può sussistere e trovare senso. Ad esplicitare la legge abbiamo: Il codice dell’alleanza (Es 20,22 -23,33); Il Codice Deuteronomico (Dt 12-26), il Codice di Santità (Lv 17-26). 2.2. Il giudizio profetico: l’appello all’impegno etico. Il momento originario del costituirsi d’Israele suppone l’esperienza grata del dono liberatore di Jahve, al quale si accompagna la fiducia del popolo nella valenza salvifica delle proprie istituzioni. La storia fa sperimentare ad Israele il rischio dell’infedeltà, Israele comincia a fare esperienza che è possibile disobbedire a Dio. Il popolo d’Israele deve continuamente scegliere di seguire jahve. 2.2.1. La critica all’istituzione monarchica. La strutturazione politica d’Israele. Tra il VIII-VII secolo a.C. abbiamo l’affermarsi della monarchia in tutto Israele. All’epoca dell’insediamento di Canan (1200-1000 a.C.) non esistevano particolari strutture politiche, dal momento che il popolo costituiva una sorta di confederazione tribale con un centro culturale e con ampie autonomie regionali. Le tribù erano guidate dai Giudici. Il popolo d’Israele nella sua fase iniziale non ha un re, perché riconosce la signoria di Jahve. L’intervento dell’istituto monarchico si ha intorno al 1000 a.C. con il regno di Saul seguito da quello di Davide e Salomone. Poi però si rivelerà fragile e verrà diviso prima tra Assiri e Babilonesi e poi provincia dei vari imperi che ad essi succederanno. In tutto l’Oriente le grandi religioni erano politiche, l’istituzione politica era intesa come stabilita direttamente da Dio. Il detentore del potere politico era considerato persona divina. Il popolo d’Israele venuto a contatto con questa ideologia comincia a sentire una forte tensione. Israele finirà con il chiedere a Jahve che un re lo governi. Il giudizio profetico sulla monarchia. Nella Bibbia abbiamo due testimonianze relative alla monarchia. La prima espressa nei libri di Samuele. Essa evidenzia come la monarchia sia sorta per atto d’insubordinazione del popolo di Jahve. Abbiamo secondo questa prima visone un giudizio negativo. Questo perché si va contro il giudizio d’uguaglianza…L’altro giudizio rappresentato dalla corrente favorevole che vuole la nascita della monarchia come espressione della volontà stessa di Jahve. 2.2.2. L’impegno etico in ambito sociale ed economico. La profezia svolge la prima missione !2 della dominazione romana. I sadducei sono la classe che ha i maggiori interessi economici e politici da difendere, hanno una posizione più compromessa col potere romano e non riconoscono la contraddizione tra il potere romano e le istituzioni di Israele. Da ultimo, la corrente degli esseni, che propongono un'osservanza estrema della Legge e teorizza la più assoluta separazione dal mondo (Non sono a contatto con le istituzioni romane e quindi non hanno intendimenti rivoluzionari, né collaborazionistici: perseguono la separazione più assoluta). Ciò che accomuna tutte queste correnti è una concezione teocratica del governo del popolo di Dio: l'ideale monarchico messianico come attesa di un Re restauratore dell'ordine e della giustizia. I comportamenti di Gesù. Egli non assume una posizione di rifiuto netto, né del Sinedrio, né del potere romano. Non costituisce i suoi discepoli come un gruppo di puri (come volevano gli esseni che giudicano quasi dall'esterno la storia) né si mescola con i gruppi rivoluzionari o riformatori (come gli zeloti). Il punto di partenza della missione e della predicazione di Gesù è accettazione del quadro sociale esistente. Il giudizio espresso da Gesù muove sempre da un coinvolgimento con la realtà sociale, non da una separazione da essa, perciò si può parlare di una presenza critica. Egli rifiuta che la propria autorità spirituale sia intesa anche come autorità politica e sociale. Gesù, rifiutando questo tipo di attesa messianica, lascia che la sua posizione continui a suscitare stupore, prima di tutto nei suoi stessi discepoli. 3.1.1. La "Legge nuova”. Risultano qui centrali le categorie di superamento e di compimento. Il suo è un superamento che va inteso come pienezza, realizzazione di quanto espresso dall'AT: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti: non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto” (Mt 5.17-18). In positivo, si va nella direzione del superamento della Legge Antica: l'unica possibilità autentica per l'uomo perché si realizzino in lui quei cambiamenti allusi nella stessa Legge Antica è l'accoglienza del Regno nella persona di Gesù: occorre perciò farsi discepoli di Gesù. Quindi non si tratta di un approfondimento, né di un aggiornamento: farsi discepoli del Regno vuol dire che la legge può essere inverata a partire dalla novità annunciata dall'evento Gesù. Gesù non è venuto a riformare le nostre leggi, ma a suscitare la conversione personale al Regno: esige cuori rinnovati, non leggi più estese e dettagliate. A questo proposito è sintomatico il capovolgimento de prospettiva nel racconto del buon samaritano, proposto da Gesù proprio in risposta a colui che “volendo giustificarsi" chiedeva una definizione precisa del prossimo, nei confronti del quale doveva ritenersi obbligato ad applicare la legge dell'amore (Lc 10,29-37). Nella parabola del giudizio finale: il criterio di ammissione nel Regno non è la conformità a delle norme, oppure a un modello astratto, ma all'effettiva conformità alla testimonianza offerta da Cristo e precisamente all'atteggiamento tenuto verso i bisognosi. Il racconto della moltiplicazione dei pani fa trasparire la volontà del Signore di educare i discepoli a farsi carico dei bisogni della folla, a condivide gli altri. La condivisione sociale, economica, spirituale, è presentata da Paolo come adempimento della "legge di Cristo" che insegna a portare gli uni i pesi degli altri. 3.1.2. Il giudizio su povertà e ricchezza. L'atteggiamento di Gesù. Per comprendere il messaggio di Gesù sui beni materiali è utile raccogliere, anzitutto, la testimonianza che il Signore ci ha trasmesso con lo stile della sua vita che fu povera e nomade. Le ragioni di questa scelta si trovano nella sua incondizionata fiducia nel Padre e nella volontà di possedere la maggior libertà possibile per dicarsi alla missione. Un altro rilevante aspetto della testimonianza di Gesù è la sua frequentazione dei poveri di ogni genere a cui ha annunciato il Regno. Egli è dalla parte dei poveri e degli esclusi per difenderli e privilegiarli nella rivelazione del Regno. D'altra parte il Signore frequenta anche uomini ricchi di beni, di cultura e di autorità, ma appare chiaro che li incontra in quanto persone, e come tali amati da Dio e invitati alla salvezza. Gli insegnamenti sui beni materiali. Gli insegnamenti espliciti di Gesù sui beni materiali, fanno riferimento anzitutto al rapporto tra ricchezza e salvezza eterna. Da una parte, in continuità con la linea sapienziale, il Signore riconosce la bontà delle cose create da Dio: usa i beni materiali, è amico !5 anche di ricchi, proibisce il furto, apprezza il lavoro svolgendolo personalmente ed esortando a farlo. Dall'altra parte, Gesù sviluppa in modo ampio la linea profetica. “Nessuno può servire due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona”; “la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto” (Mt 6,24.13,22). Il possesso di beni, specialmente di molti beni, tende a spadroneggiare sull'uomo, a renderlo schiavo, perché la ricchezza ha il potere di vincolare la ricchezza della persona. “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni” (Lc 12,15). In questo orizzonte va considerato il rapporto tra i beni terreni e la salvezza eterna. Nell’episodio evangelico dell’uomo ricco lo possiamo riscontrare. “Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!”” (Mc 10,23). A causa dei suoi beni l’uomo ricco fatica a abbracciare la via indicata da Gesù. L'ambiguità della ricchezza emerge non solo nel rapporto tra ricchezza e salvezza eterna, ma anche tra i beni materiali e la qualità del l'esistenza quotidiana dell'uomo. In un passo significativo del discorso della montagna (Mt 6,19-34); Gesù parla della giustizia del discepolo, ma insieme propone il volto di un sano umanesimo. Gesù osserva il modo comune di vivere degli uomini, assillati da ogni sorta di affanno e svela la profonda menzogna esistenziale sottesa a questo diffuso atteggiamento. L'affanno non è il semplice lavorare, né l'essere previdenti e neppure l'affaticarsi, ma significa essere nell'angoscia, nell’agitazione perennemente, col fiato sospeso: è un modo di vivere stolto. Questa fatica, infatti, lascia intatto il problema di fondo dell'uomo che è l'essere sconfitti dalla morte: “Chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita?” (Mt 6.27). Inoltre si tratta di una fatica vana, perché cerca sicurezza in cose che non possono darla. Cosi Gesù vuol far capire che i beni materiali sono esigenti: li cerchi come un mezzo per assicurarti la vita, la libertà, ma essi si erigono a padrone, ti prendono tutto e il mezzo si tramuta in fine. Alla base di questo affanno c’è la mancata sfiducia in Dio. Chi non si fida di Dio cerca sicurezza altrove, nell'accumulo, e cade nella spirale dell'affanno. Alla radice dell'affanno c'è una profonda menzogna esistenziale, cui occorre reagire recuperando la gerarchia dei valori: “Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33). L'insegnamento sulla povertà. Partiamo del episodio che parla della richiesta di un uomo della folla che vuole coinvolgere Gesù in una questione di eredità (Lc 12.13-14). Il Maestro mette anzitutto in guardia dalla cupidigia dell'accumulo dei beni e poi prosegue con la parabola sull'uomo che ha dedicato l'intera esistenza ad accumulare dei beni, nei quali ripone tutta la sua fiducia, ma muore proprio la notte in cui ha finito di lavorare. Gesù conclude lapidariamente: “Cosi è chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” (Le 12.21). La stoltezza sta nell'accumulare "per sé". Se l'accumulo per sé stesso è stoltezza, la condivisione dei beni è vera sapienza. L’uso dei beni, come condivisione con l’altro come vere ricchezza per i credenti e non come nel caso della parabola del ricco Epulone (Le 16,19-31) che non si rende conto nemmeno dei bisogni dell’altro. Molto spesso vivere da ricco rende ciechi. Questi insegnamenti raggiungono il loro vertice nelle parole di Gesù sulla beatitudine della povertà. Chi cercherà la giustizia in questo mondo si troverà povero, assetato di giustizia, ma troverà un compimento nel Regno. “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5.3). In questo verso si comprende l'aspetto propositivo dell'annuncio. Il “Regno inaugurato da Cristo perfeziona la bontà originaria del creato e dell'attività umana, compromessa dal peccato”: ogni credente animato dallo Spirito può continuare di Gesù, cioè "rendere giustizia ai poveri, affrancare gli oppressi, consolare gli afflitti, ricercare attivamente un nuovo ordine sociale”. La parabola dei talenti (Mt 25,14-30), invece, sollecita una buona amministrazione dei doni ricevuti (anche dei doni materiali): questa è un'opera di giustizia verso se stessi e gli altri. Se ci si dedica con fede, speranza e carità cristiana anche l'economia e il progresso possono essere trasformati in luoghi di salvezza e santificazione. 3.1.3. Il giudizio sull'autorità civile. !6 Gesù e l'autorità civile. Gesù rifiuta il potere oppressivo e dispotico dei capi sulle Nazioni e la loro pretesa di farsi chiamare benefattori, ma non contesta mai direttamente le autorità del suo tempo. Nel vangelo di Luca troviamo un passo che recita: “Egli disse: "I re delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia cosi: ma chi è il più grande tra voi di venti come il più piccolo e chi governa come colui che serve"” (Lc 22,25-26). Il potere è esposto al pericolo di divenire asservimento dell’altro. Gli insegnamenti delle autorità. La narrazione del processo di Gesù davanti al procuratore romano contiene importanti spunti sulla visione dell’autorità politica (Gv 18,28 -19,16). Questo brano mette in luce la differenza tra il mondo e tutto quanto lo rappresenta, ed il piano di Dio. Gesù non nasce nella storia, e non è circoscrivibile nelle realtà terrene. Il regno di Dio cerca di trasfigurare questo mondo salvandolo. Nel brano Gesù risponde alla domanda dei farisei che gli chiedono se i tributi sono da pagare a Cesare. Gesù dice che sulle monete c’è la faccia di cesare e di restituirli a Cesare. Ciò che è di Cesare va restituito a Cesare, e cosi ciò che ha immagine e somiglianza di Dio è di Dio (l’uomo stesso appartiene a Dio). Questo testo non intende postulare due regni sovrapposti, o semplicemente sovrapposti l’uno all’altro. 3.2. La predicazione apostolica. La chiesa dell’epoca apostolica vive in una situazione nuova rispetto quella di Gesù Cristo. La comunità dei credenti si va lentamente strutturando, nasce la Chiesa come comunità di persone aggregate da una motivazione religiosa, ma pure inserite nella più ampia aggregazione sociale del tempo. L’insegnamento di Dio implica una radicale uguaglianza tra tutti gli uomini, in nome dell’unica redenzione compiuta da Cristo. 3.2.1. Il lealismo nei confronti dell’istituzione sociale. Nei confronti dell’istituzione sociale e dell’autorità politica, l’orizzonte generale delle comunità neotestamentarie è l’accettazione del rapporto con la società e l’obbedienza all’autorità politica. L’orientamento Generale. Partiamo dall’analisi della lettera ai Romani. Paolo invita tutti i cristiani a sottomettersi alle autorità in carica perché esse vengono da Dio, quindi resistervi è resistere a Dio, all’ordine da Lui stabilito. Parlando di questo argomento possiamo prendere in considerazione anche quella che è l’opinione di K. Barth che dice che l’unica signoria è solo quella di Dio e che soltanto l’obbedienza a Dio può produrre la vera rivoluzione della storia; pensare invece ad un progetto di riforma delle realtà terrene per cercarle di conformarle alla volontà di Dio è controproducente. Quanto alla corrente che vede il radicamento di Dio nelle autorità deve essere contestualizzato nella prospettiva giudaica dove si vede in ogni accadimento il realizzarsi di un corso preordinato da Dio, al di là della consapevolezza dei protagonisti e del loro valore. Motivazioni e forme specifiche del lealismo. Una particolare sottolineatura del lealismo è presente nell'insegnamento di Pietro (1Pt 2,13-17) che invita alla sottomissione “ad ogni istituzione umana per amore del Signore”, aggiungendovi la motivazione apologetica: è “volontà di Dio: che, operando il bene, (obbedendo alle autorità) voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti”. L’autorità è ridimensionata: si obbedisce, ma nel quadro della più ampia obbedienza a Dio; l’autorità non è più vista come voluta espressamente da Dio. L'appello rivolto a Timoteo (1 Tim 2,1-8) di pregare per l'autorità è importante, perché tale preghiera raccomandata da Paolo durante le persecuzioni, indica esplicitamente ciò che l'autorità politica deve garantire: una vita calma e tranquilla da trascorrere con tutta pietà e dignità. La motivazione profonda non è però da intendere nella prospettiva puramente politica e sociale, ma investe la fede: Dio vuole che tutti gli uomini giungano alla conoscenza della verità, cioè della salvezza, per questo è necessario siano garantiti spazi attraverso i quali la comunità possa testimoniare ed annunciare. È sempre la motivazione di fede a connotare gli insegnamenti de lettere pastorali. Il lealismo cristiano nei confronti dell'Impero è un fenomeno che ha motivi storici precisi, emergenti anche dall'analisi globale del NT: dagli Atti degli Apostoli e dai racconti sinottici del processo a Cristo, si conferma la tendenza irenica nei confronti dell'Impero. Quindi il lealismo non è un'indicazione relativa solo ai singoli cristiani, ma è un aspetto della fisionomia che le comunità cristiane, come tali, vogliono assumere nei confronti dell'autorità imperiale: vogliono presentarsi come comunità non !7 rivelazione biblica evidenzia i valori fondamentali della vita associata che devono guidare le scelte politiche concrete: giustizia, liberta, pace, solidarietà. In questa linea, il messaggio profetico mostra l'esigenza di un forte impegno etico senza il quale le stesse istituzioni di Israele non possono sostenere la pretesa di essere mediatrici della giustizia e della pace promesse al popolo da Jahve. La sapienza biblica conduce alle radici del bene e del male che è presente o minaccia le relazioni sociali: il cuore dell’uomo. Ponendosi sotto il profilo dell'esperienza individuale (universale, proprio perché di ogni uomo), la sapienza ammonisce che non è sufficiente neppure l'appello etico: senza la guarigione profonda del cuore dell'uomo, non è possibile accedere alla verità, alla pienezza di senso che i rapporti sociali, come ogni realtà dell’uomo, portano in loro stessi, ma modo nascosto. È questa la prima grande verità che ad ogni credente è chiesto di accogliere e di testimoniare con un impegno etico personale. Dall’altra parte, l’ambiguità di ogni realtà umana che porta l’uomo a ricercare nel rapporto con l’altro un proprio vantaggio egoistico. L’AT mostra la relatività ed il valore dell’organizzazione politica chiamata a promuovere la giustizia nel rispetto della libertà del singolo. Il credente deve cercare questa libertà. L’esistenza umana ha una meta qualitativamente diversa dai progetti politici e sociali terreni, anche se non estranei ad essi. 4.2. Servitori dell'uomo per amore di Dio. La dissociazione tra Regno di Dio e regni terreni, insieme alla coscienza della relatività e permanenza della politica, generano nel NT, due atteggiamenti prevalenti: uno orientato alla lealtà e all’obbedienza ed uno critico orientato alla libertà che giunge ad affermare il rifiuto delle istituzioni sociali e chi ne esercita il potere. La rivelazione biblica sottolinea l'unità della famiglia umana che trova il proprio compimento nel Signore Gesù, vera immagine di Dio e prototipo dell'umanità nuova. La testimonianza d’amore, manifestata nella croce di Cristo, abbatte tutte le barriere d'inimicizia e consente ai credenti di vivere le differenze razziali e culturali senza farne motivo di divisione. Infatti, lo Spirito svela alla Chiesa il disegno divino di riunificare l'intero genere umano e la rende strumento affinché la famiglia umana riscopra la propria unità, riconoscendo la ricchezza delle differenze, fino a giungere alla "piena unità in Cristo". In quest'orizzonte “la pace è molto più della semplice assenza di guerra: essa rappresenta la pienezza della vita ... è il traguardo della convivenza sociale, come appare in maniera straordinaria nella visione messianica della pace (CDSC 431.489-490). La Sacra Scrittura afferma l'unica Signoria di Dio che relativizza tutte le altre. Nella prospettiva biblica la fede non conosce zone d'ombra: la sua luce e il suo giudizio si estendono ovunque. Non esiste un'area d'assoluta autonomia, della quale solo Cesare sarebbe padrone: tutto è unificato nelle mani di Dio, proprio per questo si obbedisce a Dio anche rispettando l’autorità. “Il messaggio biblico ispira incessantemente il pensiero cristiano sul potere politico, ricordando che esso scaturisce da Dio ed è in parte integrante nell’ordine da lui creato. Tale ordine è percepito dalle conoscenze e si realizza, nella vita sociale, mediante la verità, la giustizia, la libertà e la solidarietà che procurano la pace…. La Chiesa annuncia che Cristo, vincitore della morte, regna sull’universo che Egli stesso ha riscattato. Il suo regno si estende anche nel tempo presente e finirà soltanto quando tutto sarà consegnato al padre e la storia umana si compirà con il giudizio finale” (CDSC 383). La logica della rivelazione biblica è quella dell’incarnazione, della solidarietà con la vicenda dell’uomo. La fedeltà a Dio potrà portare la Chiesa a scelte difficilmente conciliabili con la mentalità comune, ma non all’estraneazione, con il rischio di creare una doppia morale: una per i credenti ed una per tutti gli altri. Nell’AT e nel NT è proposta una giustizia più elevata che quella presente nelle forme concorrenti del vivere sociale: anche questo è un modo per affermare la necessità dell’annuncio del Regno di Dio. L’autentica giustizia non può essere pensata come aggiuntiva, né può essere ricostituita a partire dalle forme storiche correnti. Per accedere in pienezza alla “giustizia del regno” occorre farsi discepoli del Regno. La Sacra Scrittura esercita la propria missione rivelativa sulle realtà sociali prevalentemente nella forma di giudizio. Su questo versante il messaggio mira soprattutto a svelare l’ambiguità insita entro le strutture sociali esistenti, nelle quali facilmente si annida la tentazione idolatrica, !10 caratteristica delle realtà terrene. La Bibbia intende restituire queste realtà alle libertà dell’uomo. La salvezza rivelata dalla Bibbia, è realtà che appartiene a Dio solo. I cristiani sono chiamati ad immergersi nel mondo del servizio a servizio del Regno di Dio, quindi ad abitare la “città” per illuminare i sentieri comuni di costruzione di un autentico umanesimo, ma anche per denunciare ingiustizie e idolatrie che si oppongono allo sviluppo integrale e solidale dell’uomo. D’altra parte i credenti in Cristo sanno che nessuna forma di società è capace di realizzare pienamente il senso della storia umana e perciò essi abitano la “città”, ma non riducono mai il Vangelo ad umanesimo, a progetto storico: hanno infatti la loro “cittadinanza” nei cieli. L’uomo non è mai considerato come individuo isolato ma sempre legato ad altri (Dio, il prossimo, la famiglia, il popolo). In quest’ottica, la rivelazione biblica fa intravedere, alla riflessione teologico morale, alcune dimensioni costitutive della realtà umana: personale, associata, e istituzionale, che si intrecciano nel vissuto quotidiano e in modo articolato sollecitano la responsabilità etico-sociale dei credenti. PARTE SECONDA - LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA Capitolo 1 - La dottrina sociale della chiesa 1. Evoluzione storica e metodologica. 1.1. Presentazione e impostazione del tema. La DSC (Dottrina Sociale della Chiesa) è una forma di sapere credente riguardo la società fondata nella “Rivelazione biblica e nella Tradizione della Chiesa”. Essa rappresenta la coscienza progressivamente acquisita dalla Chiesa circa la vita sociale. Una coscienza che si è costituita soprattutto a partire dalla fine del XIX secolo. Questo insegnamento può essere interpretato in due modi: • in senso lato dove la chiesa si è espressa in molti modi in relazione ai diversi fenomeni sociali (es. iniziative contro l’utilizzo ingiusto delle ricchezze o contro la schiavitù); • in senso stretto dove la chiesa non interviene più mediante pronunciamenti frammentari elaborati occasionalmente, ma attraverso una serie di testi di alto spessore dottrinale. Si identificano le grandi tappe di sviluppo della DSC, a ciascuna della quali corrisponde una precisa immagine identificabile in un determinato contesto storico ed ecclesiale. 1.2. Il contesto genetico della DSC. 1.2.1. Il dramma del conflitto tra capitale e lavoro: la “questione sociale”. Il contesto nativo della DSC va rintracciato nel quadro socio-istituzionale creatosi in Europa tra la fine del 700 e l’inizio dell’800, in seguito alle grandi rivoluzioni in campo politico (rivoluzione francese), in campo scientifico-tecnologico (settore chimico, fisico), industriale (nascita dell’industria moderna), agrario (nuovi metodi di coltivazione) e demografico (incremento della popolazione). In questa fase, ai forti progressi nei diversi ambiti si affiancano costi sociali altissimi, che solo dopo molti decenni porteranno ad un effettivo elevarsi del tenore di vita in larghi strati della popolazione. Inoltre sotto il profilo ideologico abbiamo da un lato i principi del liberalismo dall’altro invece abbiamo forti correnti di ispirazione socialista. I presupposti del liberalismo politico intrecciati con quelli del liberalismo economico possono essere così riassunti: • individualismo dove al bene complessivo della società si perviene favorendo e incrementando al massimo grado i singoli beni privati; • utilitarismo dove il fine della vita sociale è incrementare ciò che è utile; • libera concorrenza dove l’obiettivo è la creazione di uno mercato il più possibile libero da vincoli di natura politica, sociale e fiscale; • limitato intervento dello Stato, le cui funzioni dovrebbero riguardare semplicemente la supervisione della vita economica e sociale. !11 La composizione dell’area socialista può invece essere ricondotta a due correnti principali: • socialismo utopico dove si teorizzava una società ideale fondata sulla piena uguaglianza e solidarietà tra tutti i suoi membri; • socialismo scientifico (di Marx e Engels) basato non solo su presupposti ideali, ma anche sullo studio scientifico, cioè sull’interpretazione in chiave storica dei problemi sociali. Inoltre rivelava tra la classe imprenditoriale e quella operaia, il segno di una contrapposizione molto profonda e radicale. A partire dalla pubblicazione del Manifesto del 1848, il socialismo iniziò a diffondersi in tutta l’Europa industrializzata, costituendosi come partito politico rivoluzionario teso a ribaltare l’assetto istituzionale esistente al fine di realizzare un’unica società internazionale priva di classi. Secondo Marx, il sistema economico e sociale proposto dal liberalismo politico e liberalismo economico sarebbe un giorno crollato in quanto la libera concorrenza avrebbe portato ad un progressivo ridursi dei profitti d’impresa fino a rendere sempre meno conveniente l’attività produttiva stessa. Questi sono due sistemi ideologici che hanno avuto un ruolo notevole nel disegnare il panorama economico, sociale e politico. Tuttavia, nell’immagine di uomo e società di cui sono portatori, risiede la loro intrinseca debolezza. Un’immagine riduttiva, incapace di affermare in modo soddisfacente il primato irrinunciabile della persona. Incapace, allo stesso modo, di disegnare un quadro istituzionale giusto, in grado di creare condizioni di maggiore equità per tutti. 1.2.2. La risposta della Chiesa: Leone XIII e la “Rerum Novarum”. Si inserisce in questo quadro la risposta della Chiesa tesa a far fronte al dilagare delle sempre più estese forme di povertà. Si crearono le condizioni per la nascita della prima grande enciclica sociale: la Rerum Novarum. Scritta da diversi precursori che daranno vita a numerose iniziative di sostegno al mondo del lavoro e di riflessione attorno alle grandi questioni dell’epoca. L’azione di questi precursori si distinse sia a livello di riforma della vita delle imprese e della società (es. assegnazione di contributi per far fronte agli oneri familiari), sia a livello di ricerca di soluzione appropriate a livello giuridico e politico-istituzionale per affrontare in modo sempre più articolato i problemi più frequenti (es. determinare il giusto salario, determinare i diritti e gli oneri della proprietà privata). L’enciclica di Leone XIII sulla “questione operaia” e sui conflitti tra capitale e lavoro, intende opporsi alla falsa soluzione socialista riguardo la questione operaia, tendente a diffondere l’odio e la divisione tra le classi, sostituendo di fatto una forma conflittuale ad un’altra. In sintesi la Rerum Novarum propone un modello di società nella quale il singolo e le sue aggregazioni fondamentali (famiglia, impresa, ecc.) concorrono al bene comune dell’intero organismo civile. Per l’attuarsi del progetto sono additati principi, valori e norme. Tra questi emergono il primato della persona umana e della famiglia nei confronti dell’istituzione statale, la dottrina riguardo la legittima titolarità della proprietà privata, l’insegnamento del giusto salario. Per la soluzione al conflitto sociale, emerge il ruolo delle varie parti in causa: • Chiesa, disponibile a offrire il proprio contributo; • Stato, che deve intervenire sul piano legislativo ed istituzionale; • imprenditori, chiamati sempre più ad avvicinarsi ed associarsi. L’enciclica termina con l’appello a praticare in ogni ambito la carità, che deve presiedere ad ogni modalità del rapporto sociale. 1.3. L’epoca classica. 1.3.1. Chiesa e “dottrina sociale” di fronte ai regimi totalitari: Pio IX. Tra la Rerum novarum e il successivo intervento pontificio in materia sociale, la “Quadragesimo anno, trascorrono 40 anni, nei quali il mondo conosce il sorgere di diversi regimi totalitari di diversa matrice, oltre alla presenza del forte sviluppo della società industriale e all’acuirsi del conflitto sociale in tutta l’area occidentale. A tal proposito Pio XI, espone nella Quadragesimo anno i trattati di un “ordine sociale” radicato nella giustizia e nella carità, in cui la persona e i gruppi intermedi trovano riconoscimento e tutela in un’autorità pubblica le cui !12 3. Elaborazione da parte della Chiesa dei principi, criteri, direttive che offrono alla comunità credente gli strumenti interpretativi idonei ad elaborare con oggettività un giudizio etico-sociale il più possibile coerente con la fede cristiana; 4. In quest’ultima fase è possibile discernere le scelte e gli impegni che si profilano urgenti e necessari entro le singole situazioni. Questo è un metodo consapevole della complessità e del pluralismo attuali, che richiede tuttavia una adeguata capacità di analisi e interpretazione dei fenomeni sociali. 1.5.2. Giovanni Paolo II: Chiesa e società post - moderna. Di Giovanni Paolo II vanno ricordati diversi interventi importanti in area sociale, nei quali è frequente il riferimento alla sua prima enciclica, la Redemptor hominis, dove l’uomo diviene la prima e fondamentale via che la Chiesa è chiamata a percorrere, perché tracciata da Gesù Cristo stesso. Ci sono poi degli insegnamenti che che emergono nelle sue tre grandi encicliche sociali: • la Laborem exercens dove è sviluppato il tema del lavoro umano nelle sue dimensioni personali (il lavoro ha l’uomo come soggetto), sociali (il lavoro come opera comune) e teologiche (il lavoro come strumento di benedizione); • la Sollicitudo rei socialis dove è sviluppato il problema di un’umanità contesa tra la piaga del sottosviluppo che affligge gran parte dei paesi del Terzo mondo e le grandiose possibilità dischiuse da economie ormai intercomunicanti a raggio globale. Evidenziando quindi la disuguaglianza esistente tra Nord e Sud e tra Est e Ovest. Successivamente il pontefice passa ad esprimere la nuova consapevolezza ecclesiale riguardo la DSC, dove la prospettiva unificante è legata alla specifica missione evangelizzatrice della Chiesa: essa non dispone di soluzioni tecniche ai problemi sociali, ma dà il proprio contributo alla soluzione delle questioni sociali che via va ogni tempo manifesta, proiettando su di esse la luce della verità cristiana. • la Centesimus annus dove si delinea il nuovo quadro politico ed istituzionale venutosi a creare con il crollo dei grandi sistemi ideologici che hanno dominato il XX secolo (es. crollo del Comunismo). Ci si trova quindi in un contesto caratterizzato da un’intera società complessa, frammentata e mutevole, in ricerca di un senso e di modalità nuove per un agire sociale costruttivo nei vari ambiti. In una seconda parte poi si esaminano i grandi temi relativi all’economia (proprietà, lavoro, impresa, ambiente) e alla politica (società e Stato, democrazia), culminando nell’ultimo capitolo nel riferimento all’uomo come fulcro dell’intera dinamica della vita sociale. 1.5.3. Giovanni Paolo II e il metodo della mediazione antropologica: fede cristiana e società post - moderna. Mettendo al centro di tutto l’uomo, ogni discorso di fede implica un discorso sull’uomo e viceversa. Le principali conseguenze di questa prospettiva nell’ambito della DSC sono rintracciabili nei seguenti punti: • compito principale della comunità cristiana è: annunciare, celebrare e testimoniare la fede in Cristo; • la Chiesa può offrire al mondo la sua luce e il suo servizio in dialogo con tutti gli uomini di buona volontà. Il nuovo criterio di giudizio riguarda l’immagine di uomo. Infatti è l’uomo, che la fede illumina singolarmente, il terreno comune a partire dal quale è possibile il dialogo e l’incontro tra prospettive sociali differenti. Quindi il confronto critico si risolverà in un confronto tra l’immagine di uomo soggiacente ai vari progetti politici, economici e sociali proposti nell’oggi e l’immagine di “uomo nuovo” emergente dalla comprensione cristiana. Si vuole dare quindi creare un progetto di uomo e società coerente con la fede cristiana. I valori antropologici nei quale è richiesta la massima coerenza in sede di decisione sociale e politica sono: la tutela della vita, della famiglia, la libertà di educazione, la tutela sociale dei minori, la libertà religiosa, la pace. Questi valori antropologici inoltre rappresentano una sorta di “terreno comune” tra credenti e non credenti. 1.6. La DSC oggi: identità e missione. 1.6.1. Identità. La DSC presenta un’identità singolare per almeno due ragioni: !15 • è l’unico caso in cui una serie di interventi del magistero si richiamano l’un l’altro fino a costituire un “corpus dottrinale” a sé stante; • si tratta dell’unico caso in cui il magistero ha preceduto nel tempo dei diversi decenni, una riflessione teologica circa la società. Nel corso della sua storia, la DSC ha conosciuto diverse denominazioni: “Dottrina sociale” (Pio XI), “Insegnamento sociale” o “Magistero sociale” (Chiesa). Gradualmente la DSC si è costituita come un vero e proprio corpus dottrinale ovvero come sapere coerente, organico, unitario, mediante il quale la Chiesa esprime il proprio progetto per una crescita sociale autentica (ruolo di annuncio), e sottopone a costante critica la realizzazione dei progetti esistenti (ruolo di denuncia). La DSC va riconosciuta come dottrina sistematica, organica e complessiva sulla società e le sue istituzioni il cui soggetto è la Chiesa intera. “La dottrina sociale è della Chiesa perché la Chiesa è il soggetto che la elabora, la diffonde e la insegna. […] I contributi molteplici e multiformi, sono assunti, interpretati e unificati dal Magistero, che promulga l’insegnamento sociale come dottrina della Chiesa” (CDSC 79). La Chiesa recepisce e rielabora le riflessioni sulla società prodotte nelle sedi più varie, “la DSC si giova di tutti i contributi conoscitivi, da qualunque sapere provengano, nessun sapere è escluso”. Il Magistero dunque svolge un compito di discernimento: solamente ciò che viene ritenuto idoneo ad essere proposto ai vari livelli del magistero ecclesiale entra a far parte della dottrina ecclesiale. Il nucleo essenziale della DSC è costituito da un esercizio particolare del magistero ecclesiale il quale è incaricato costantemente di recepire, rielaborare e rilanciare quanto può contribuire all’edificazione della società secondo il Vangelo orientando il comportamento cristiano a suo riguardo. La DSC ha una natura teologico-morale in quanto essa riflette i tre livelli dell’insegnamento teologico-morale: • fondativo, delle motivazioni; • direttivo, delle norme del vivere sociale; • deliberativo, delle coscienze chiamate a mediare le norme. 1.6.2. Missione. La chiesa possiede una missione evangelizzatrice, missione affidatale da Cristo stesso che la chiama a servire l’uomo in ogni sua condizione e in ogni suo aspetto, inclusa la vita sociale. L’uomo infatti, non può essere pensato esclusivamente come individuo; egli possiede una dimensione sociale. La Chiesa ha finalità di ordine religioso e morale; essa coopera attivamente a tutto ciò che può favorire lo sviluppo integrale dell’uomo, anche nella sua dimensione sociale, compiendo ogni sforzo perché questo agire rimanga costantemente aperto al Regno di Dio. La DSC ha come sua prima destinataria la Chiesa stessa in quanto l’evangelizzazione riguarda in primo luogo tutti i suoi membri; essa non è però riservata alla sola comunità cristiana, ma si rivolge ed entra in dialogo con tutti gli uomini sinceramente disposti a collaborare per il bene dell’uomo. La DSC, in un’ottica di continuità e rinnovamento, contribuisce ad una interpretazione della società finalizzata alla sua crescita integrale. Capitolo 2 - Le idee - chiave: principi e valori permanenti. 2.1. Presentazione del tema: la DSC, un progetto unitario e articolato. La DSC è portatrice di un progetto unitario riguardante la società. Essa appare come un insieme di principi guida, orientamenti, nozioni, cui attingere in modo occasionale, in relazione alla singola situazione che si vorrebbe illuminare. La DSC individua il fondamento di tutta la vita sociale: il principio personalista, dal quale si irradiano e si sviluppano tutti gli altri grandi principi della DSC. I principi permanenti della DSC, i quali costituiscono i veri e propri cardini dell’insegnamento sociale e cattolico sono: • principio della dignità della persona umana; • principio del bene comune; !16 • principio della sussidiarietà e della solidarietà. Proprio a causa del loro radicamento nella dignità della persona umana, i principi della DSC “devono essere apprezzati nella loro unitarietà, connessione e articolazione” (CDSC 162). Questi principi hanno un carattere generale e fondamentale poiché riguardano la società nel suo complesso. La Chiesa li indica come il primo e fondamentale parametro di riferimento per l’interpretazione e la valutazione dei fenomeni sociali (CDSC 161). I quattro grandi pilastri attorno ai quali si è strutturata e consolidata la DSC sono: 1. personalità 2. sussidiarietà 3. solidarietà 4. bene comune Questi ultimi, delineano sinteticamente un’immagine di società al cui fondamento sta la persona e al vertice l’autorità incaricata primariamente di realizzare il bene comune. I due grandi principi regolatori dei rapporti tra persona e società sono rispettivamente la sussidiarietà e la solidarietà i quali rappresentano l’asse verticale e orizzontale dell’intero sistema sociale. Ai quattro grandi pilastri si aggiungono altri principi regolatori della vita sociale: partecipazione e destinazione universale dei beni. I principi si pongono al massimo livello di astrattezza normativa, soddisfano all’esigenza di oggettività morale e tendono al bene. Anche l’appropriazione personale dei valori (la virtù), tende al bene. Punto d’arrivo e culmine del progetto della DSC è la carità, in quanto “criterio supremo e universale dell’intera etica sociale”. 2.2. Il principio personalista: l’uomo “soggetto”, fondamento e fino della vita sociale. 2.2.1. Fondamenti, sviluppi e definizione caratteristica: da un’antropologia individualistica ad una relazionale. Il principio personalista è quello più importante di tutta la DSC, tale da costituirne il punto di riferimento irrinunciabile e costante. Severino Boezio definì la nozione di persona come “sostanza individuale di natura razionale”, dove l’aspetto di individualità e di razionalità rimangono preminenti. Nel definire il concetto di persona/personalità distinguiamo tra: • pensiero moderno: enfatizza l’individualità rispetto alla relazionalità interpersonale e orientato a proporre un’immagine del rapporto individuo-società su basi essenzialmente concorrenziali. • pensiero contemporaneo: si articola in una vasta gamma di posizioni, dall’estremo del collettivismo marxista ai presupposti dell’individualismo liberista. Grazie agli sviluppi del recente personalismo, all’uomo è stata restituita la sua identità di persona in quanto singolarità cosciente costituita dalla propria relazionalità-socialità. Ritorna l’esigenza di comprendere la singolarità dell’uomo a partire dall’intreccio delle sue dimensioni essenziali, la storicità e la socialità aperte alla trascendenza. “L’uomo rappresenta il cuore e l’anima dell’insegnamento sociale cattolico. Tutta la DSC si svolge infatti, a partire dal principio che afferma l’intangibile dignità della persona umana” (CDSC 107). Entro l’attuale contesto culturale, l’immagine di uomo in società si presenta tuttavia con tratti diversificati e complessi. L’immagine attuale di società è contrassegnata da tre drastiche separazioni: quella tra individuo e società, tra etica e società, tra fede e società. Alla coscienza individuale compete la soggettività, la dignità, la scelta dei valori etici e religiosi. La vita sociale è invece svincolata da tutto questo: è terreno neutrale, impersonale, esteriore rispetto al vissuto e ai suoi interrogativi più profondi. La società è immaginata come “cerchio esterno” alla vita e alla vicenda personale, nel quale si può decidere di “entrare” o “restare fuori”. In tale contesto la DSC intende anzitutto promuovere un’immagine di persona e delle sue relazioni con la società non riduttiva, in cui i rapporti reciproci siano intesi non in senso concorrenziale ma sia recuperata la centralità della persona al pieno valore della vita sociale. Il Magistero sociale della Chiesa, è orientato al rilancio di una piena immagine della persona, secondo la quale l’uomo,” lungi dall’essere l’oggetto e un elemento passivo della vita sociale, ne è invece, e deve esserne e rimanerne, il soggetto, il fondamento e il fine”. L’uomo quindi, !17 l’altro. 2.4.1. I fondamenti, sviluppi e definizione caratteristica: la solidarietà, dimensione sociale della carità. Alla sussidiarietà si affianca la solidarietà. Se la prima tende a tutelare la dimensione di singolarità della persona umana, la seconda ne estende l’aspetto di socialità, con ogni altro, vicino o lontano, conosciuto o sconosciuto. Anche la solidarietà può vantare profonde radici di carattere biblico-teologico. L’intera vicenda di Israele rivela ampiamente un Dio che sa farsi in mille modi difensore-riscattatore del suo popolo; nel NT e nella prima comunità cristiana emerge uno stile di condivisione, comunione e carità, che trova Gesù di Nazareth, solidale fino alla morte di croce con l’umanità peccatrice. L’idea di solidarietà ha origini antiche. Già nel diritto romano obbligazione solidale designava quel vincolo indivisibile che univa tra loro vari co-obbligati che ciascuno di essi era tenuto a rispondere per l’intero, e non soltanto per la propria parte. Nel corso del periodo post-rivoluzionario francese la solidarietà iniziò ad estendersi dall’ambito giuridico e del diritto privato alla sfera pubblica. Prese cosi forma una teoria sociale (solidarismo) che intendeva superare sia l’individualismo che il socialismo. In seguito anche a questi sviluppi, la solidarietà divenne di uso corrente, cosi da fare il suo ingresso autorevole tra i principi basilari di diversi ordinamenti costituzionali, compreso quello italiano (art. 2 e art, 119 della nostra Costituzione). In corrispondenza a questa evoluzione, nel corso dei primi decenni del 900’ sorse il solidarismo cristiano. La nuova forma di “solidarismo” intendeva porsi come una proposta di un personalismo sociale in cui l’uomo è solidalmente e indissolubilmente legato con ogni altro da vincoli naturali, ontologici e morali. Grazie a questi sviluppi, la solidarietà influì non poco sull’elaborazione della DSC. Il Concilio Vaticano II inserì poi la solidarietà nell’ambito di una antropologia teologica centrata nell’evento cristologico: l’unica solidarietà tra tutti gli uomini può certo essere considerata sotto diversi aspetti e a diversi livelli di profondità. Con Paolo VI affiorò una coscienza particolarmente ampia di solidarietà, aperta a considerare l’intera gamma di significati. Con Giovanni Paolo II, infine, l’uso è divenuto straordinariamente frequente ed esteso un po’ a tutti gli ambiti. 2.4.2. Principali attuazioni storiche della solidarietà. Numerosissimi sono gli ambiti e le modalità effettive entro le quali la solidarietà può trovare attuazione. Tra gli atteggiamenti fondamentali sono da segnalare la condivisone, la corresponsabilità e la cooperazione, a tutti i livelli, entro le singole classi e soprattutto nei riguardi delle meno avvantaggiate. La solidarietà si presenta infatti come la tensione dei singoli e dei gruppi ad essere stabilmente con e per gli altri, a fare causa comune con loro, alla disponibilità a spendersi per la giustizia anche senza ritorno. Essa presuppone che tra me, noi e l’altro sussista un vincolo originario che esige riconoscimento pratico, mediante le forme di un agire gratuito, disinteressato. Il compendio della DSC evidenzia i grandi nessi tra la solidarietà e i più grandi obiettivi dell’umanità. La responsabilità solidale, che tutti si è chiamati a condividere, è espressione di un debito di natura antropologica-teologica. L’evidenza storica rimanda all’insieme cumulato di beni di carattere antropologico che nel loro insieme sono obiettivamente posti a disposizione di ogni nuovo individuo già al suo nascere, di cui in varia misura usufruirà con tutti e in ogni altro. L’agire solidale autentico sarà allora suscitato dalla coscienza di questo debito indivisibile, irrimediabile e non quantificabile e al culmine del quale si intravede la Pasqua di Gesù: spendersi fino alla fine per ritrovarsi insieme, in Dio e nel suo Regno. A livello di politica interna delle singole nazioni la solidarietà esige la ricerca di orientamenti unitari a livello economico, politico e programmatico. Una serie di importanti attualizzazioni della solidarietà entro l’attuale contesto civile sono efficacemente esplicitate nel Discorso di S. Ambrogio alla città di Milano. In sintesi, il principio di solidarietà costituisce uno dei principi basilari della concezione cristiana dell’organizzazione sociale e politica. Non va, tuttavia, dimenticata la relazione di circolarità con la sussidiarietà. Sul piano socio-istituzionale, ad esempio, la solidarietà senza sussidiarietà rischierebbe di incoraggiare l’assistenzialismo e in casi estremi il parassitismo, mentre la sussidiarietà senza la solidarietà il “minimalismo” dell’intervento pubblico e una privatizzazione incontrollata. Una chiara indicazione giunge dalla DSC, che nell’ esaminare i reciproci rapporti !20 tra solidarietà e sussidiarietà’ in relazione agli obiettivi sociali da conseguire, mette in evidenza per la prima la forma dell’agire direttamente e per la seconda la forma indiretta. 2.5. Il bene comune: il senso e il fine di tutta la vita sociale. 2.5.1. Un po’ di storia: dal bene della singola parte al bene dell’intera società. Il bene comune è uno dei criteri base della vita sociale. Lo scopo principale dell’autorità civile è contribuire a realizzare il bene comune. Il bene comune ha radici lontane nel tempo. Fin dalle origini del pensiero politico classico, greco prima e romano poi, la società è spesso pensata in termini di organismo, in cui le varie membra che lo compongono sono chiamate a collaborare. Ogni singola parte deve riconoscersi non totalmente compiuta in sé, non pienamente autonoma, ma bisognosa di riferirsi ad un’entità più ampia. Fu ancora san Tommaso a dare alla nozione di bene comune un’impronta decisiva. Il bene comune, in san Tommaso, si radica nella socialità naturale della persona, di cui la vita sociale è espressione: esige di essere conseguito volendolo. Esso corrisponde al realizzarsi di una società nella quale la convivenza è buona, virtuosa e giusta felice ed entro cui i beni delle singole parti sociali convergono e trovano completamento nel bene dell’insieme. Per questo, in san Tommaso, il bene comune può essere inteso a più livelli: come fine temporale, cioè come senso e verità della vita sociale in senso storico, destinato ad essere trasceso dal suo fine ultimo, soprannaturale, coincidente con il possesso del bene comune in senso pieno. 2.5.2. Il percorso nell’ambito della DSC. Il bene comune: condizioni, contenuti e finalità. Nell’ambito della DSC il bene comune rappresenta una delle costanti più notevoli, citato nei più svariati contesti. Nel corso della “fase classica il bene comune è interpretato come il frutto dell’agire giusto, autentico, moralmente corretto, di un intero Stato per la soluzione della questione sociale. Il bene comune si contrappone all’idea di bene particolare che possa essere autonomamente raggiunto a prescindere dal bene altrui e di tutti: l’agire sociale deve sempre considerare il bene dell’altro nell’ambito del bene dell’insieme. Ciò che risultasse essere bene soltanto per sé stessi, ma intaccasse il bene altrui, non può essere considerato bene in senso autentico. Il punto nodale sta nel riconoscere bene particolare e comune non come alternativi, ma il primo strettamente relazionato al secondo. Essi non sono opposti, ma orientati alla stessa direzione. 2.5.3. Le principali dimensioni. Del bene comune sono pensabili numerose configurazioni assumibili sotto diversi complementari profili. Potremmo riordinare le sue principali mediazioni in base ad ambiti, contenuti, protagonisti, oltre al richiamo della sua dimensione etica e spirituale. • ambiti: il bene comune si accompagna a tutte le configurazioni di società possibili, mostrandone in sintesi significato e identità. • contenuti: l’impegno delle istituzioni pubbliche è anzitutto quello di creare le condizioni del bene comune al fine di istituire la trama entro cui i cittadini possano realizzare quel rispetto dei diritti e quella realizzazione di beni e servizi. • protagonisti: occorre riconoscere la responsabilità’ dell’autorità politica, non tanto nel realizzare questi beni, quanto nel rendere possibile prima e nell’orientarne poi il conseguimento. Va ricordato, inoltre, che nello Stato democratico coloro che detengono responsabilità di governo sono tenuti ad interpretare il bene comune nella prospettiva dell’effettivo bene di tutti i suoi membri. La maggioranza determina coloro che governano, ma questi devono agire a nome, per conto e per il bene di tutti. • dimensione morale e spirituale: consente di riconoscere il bene comune come bene dell’uomo e di tutti gli uomini, come l’autentica ragion d’essere e il vero punto di convergenza di ogni agire sociale. Il bene comune non è la semplice somma dei beni particolari di ciascuno: corrisponde invece a quel bene, di tutti e di ciascuno al tempo stesso, che è in sintesi di tutti i beni realizzati dalla convivenza civile; quel bene che è e rimane comune perché’ indivisibile, e perché’ “solo insieme è possibile costituirlo, accrescerlo e custodirlo” (CDSC 164). “Bene comune” dice, in definitiva, il bene di una comunità, inteso come senso, ragione, verità del suo agire comunitario e sociale. 2.6. Due ulteriori principi operativi: partecipazione e !21 destinazione universale dei beni. Il disegno complessivo della società proposto dalla DSC esige di essere completato a partire da due altri principi etici di ordine generale: partecipazione e destinazione dei beni. Possono trovare qui la loro collocazione, in quanto anch’essi diretta implicazione del bene comune. 2.6.1. La partecipazione: il cittadino, “vero attore della vita sociale e politica”. La partecipazione alla vita sociale e politica del cittadino in passato era limitata ad una cerchia ristretta di persone, ha conosciuto, poi, nel corso del XX secolo una imponente espansione a livello sociale, economico e politico. Anche la DSC ha accompagnato questo cammino. Giovanni XXIII e, soprattutto, il Vaticano II hanno intravisto in essa un vero e proprio diritto-dovere radicato nella dignità della persona e finalizzato al bene comune. La partecipazione si esprime, essenzialmente, in una serie di attività mediante le quali il cittadino, come singolo o in associazione con altri, direttamente o a mezzi di propri rappresentanti, contribuisce alla vita culturale, economica, sociale e politica della comunità civile cui appartiene. Senza partecipazione non vi può infatti essere democrazia; è da riconoscere come uno dei pilastri di tutti gli ordinamenti democratici, oltre che una delle maggiori garanzie di permanenza della democrazia. 2.6.2. La destinazione universale dei beni: verso un’economia giù giusta e solidale. Anche questo principio merita di essere più ampiamente riconosciuto in quanto relativo a “tutto l’ordinamento etico-sociale”. La DSC, attraverso questo principio, opera a partire da una distinzione che richiama due contenuti del diritto di proprietà privata: titolarità del possesso e il suo utilizzo. Una distinzione cui corrispondono due diversi livelli di responsabilità. Il principio richiede che l’uomo usando questi beni deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni. L’esercizio di questo obbligo esige capacità di condivisione effettiva, a differenza del programma liberista. È chiaro infatti che anche la titolarità di beni è di fonte di responsabilità morali. La DSC tende a realizzare un corretto equilibrio tra proprietà pubblica e privata. Le due forme essenziali di proprietà devono rimanere orientate alla superiore logica del bene comune. In breve la DSC propone attraverso questo principio una configurazione del diritto di proprietà privata inedita e originale, che come tale richiede una opportuna regolamentazione. Infine è posta una correlazione particolare tra destinazione universale dei beni e opzione preferenziale per i poveri. PARTE QUARTA - L’ECONOMIA A SERVIZIO DELL’UOMO Capitolo 1 - La questione fondamentale: il rapporto economia ed etica 1.1. Che cos’ è “economia”? Sguardo al fenomeno economico. L’ Uomo ricerca la soddisfazione dei bisogni che possono essere: primari come cibo e salute oppure di carattere più elevato come culturali e religiosi. I primi scaturiscono dalla necessità i secondi vedono il prevalere della libertà di colui che li percepisce. L’economia si occupa di quei beni idonei a soddisfare i bisogni, tali beni devono essere prodotti in quantità sufficiente da essere disponibili a tutti e scambiati in base ad un valore. Tali beni possono essere sia materiali sia immateriali e ad essi è legata un’utilità: un bene è tanto più utile quanto più in grado di soddisfare bisogni molteplici o ricorrenti. Il problema economico è legato al profilo della disponibilità: i bisogni, infatti, si presentano come tendenzialmente illimitati e ricorrenti; i beni si presentano come scarsi e limitati. La mediazione tra beni e bisogni è istituita dal valore, che può essere d’uso o di scambio. I tre momenti fondamentali in cui l’attività economica può essere ripartita sono: la produzione, la distribuzione e il consumo. Tra queste dimensioni vi è una relazione di circolarità nel senso che la produzione è in funzione delle altre due e così ciascuna di esse. L'economia deve essere analizzata anche dalla dimensione antropologica, deve essere pensata come scienza dell’uomo e più precisamente come scienza sociale. In definitiva l’economia va !22 tale, non pone particolari interpellanze alla fede. Interessante, per una sintetica considerazione di questo periodo, il caratteristico motto benedettino ora et labora, in cui è mostrato efficacemente l'ideale della sintesi armonica tra celebrazione della fede ed opera dell'uomo, senza contrasto, ma in armonica continuità. Sulla scia di questa visione San Tommaso afferma che anche i religiosi siano tenuti al lavoro manuale: egli esplicita quattro significati del lavoro; il fine principale è procurare il necessario al proprio sostentamento, poi permettere di fuggire l'ozio, frenare la concupiscenza, praticare l’elemosina. Prevale, dunque una visione non conflittuale del lavoro. Nell'epoca moderna, invece, la società fa fatica a pensarsi entro un orizzonte armonico, unitario, come quello medievale. Le grandi scoperte geografiche e scientifiche, segno dell'accresciuta potenzialità dell'agire umano, del suo desiderio di dominio sulla natura, dischiude orizzonti nuovi; anche il sapere non più collocato entro un orizzonte di senso riferito alla fede, ma si percepisce come strumento per mettere a servizio dell'uomo le risorse insite nella natura. In tale contesto si afferma il binomio scientia-potentia: al sapere scientifico corrispondono nuove capacità, nuovi poteri dell'uomo sulla realtà. L'Illuminismo farà emergere gli aspetti oggettivi del lavoro, ciò che l'uomo realizza mediante il suo fare, in modo però separato dal suo protagonista: l'illuminista si identifica essenzialmente con il borghese e il lavoro è visto come iniziativa del singolo e non come opera comunitaria. Da ultimo, la scissione più radicale è quella tra fede e il senso del lavoro: la fede viene per lo più riferita alla coscienza individuale, e non è possibile darne una considerazione obiettiva o pubblica; l'opera dell'uomo, invece, è sempre meno compresa nell'ambito dell'opera di Dio e tende ad esserne autonoma. In questo periodo si è prodotta una specifica riflessione cattolica circa il lavoro: nell'alveo della tradizione scolastica, esso continua ad essere inteso essenzialmente come dovere dell’uomo. Nell'ambito della riforma protestante Lutero, in aperta polemica nei confronti dell'otium monastico , afferma che al cristiano non è chiesta altra opera che il credere: l'obbedienza della fede rappresenta l'unica possibilità di salvezza. Sempre secondo Lutero, Dio governa il mondo secondo una duplice modalità (due Regni): religiosa e secolare. Il cristiano si trova all'incrocio di entrambi. Il dualismo caratteristico della tradizione luterana conoscerà un ulteriore accentuazione ad opera di Calvino del puritanesimo da lui derivato; in particolare la visione calvinista del lavoro professionale è sia mistica che ascetica: l'uomo investe in esso tutte le proprie energie con una dedicazione di tipo vocazionale in quanto nel lavoro rintraccia segni dell'elezione di Dio. Da questi aspetti Weber attinge per elaborare la propria tesi sui contatti tra etica protestante e spirito del capitalismo: alla base della straordinaria dedizione dell'uomo d'affari alla cura dei propri interessi, vero e proprio fulcro della moderna società industrializzata, sarebbe precisamente l' ethos indotto da questo tipo di "spiritualità" del lavoro. Con il processo di industrializzazione il lavoro tenderà ad essere sempre più considerato impersonalmente; siamo alle radici del conflitto capitale- lavoro caratteristico dell'intero 800. L'ottocento è anche il secolo di Hegel, secondo il quale l'uomo mediante il lavoro, sa opporsi consapevolmente alla materia ed estrarsi da essa. Con Marx il lavoro diviene categoria centrale dell'antropologia, il valore di cui l'umanità è portatrice. 2.3. Sviluppi contemporanei della DSC. 2.3.1. Il lavoro nel periodo classico della DSC. Fin dalla Rerum Novarum (1891), la DSC ha mostrato singolare attenzione alla drammatica situazione dei lavoratori parlando "di assai misere condizioni" delle classi subalterne. Emerge una nuova considerazione del lavoro umano: sotto il profilo dottrinale il lavoro è inteso come attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita e specialmente alla conservazione; presenta due caratteristiche, è personale e necessario, in quanto responsabilità imposta dall'uomo. I principali contributi della DSC alla soluzione della questione sociale sono: • l'affermazione dei diritti e dei doveri dei lavoratori e dei datori di lavoro in merito al giusto salario e al riposo festivo; !25 • il richiamo alle pubbliche autorità perché intervengano efficacemente mediante un'appropriata politica a favore di lavoratori; • indicazione dell'associazionismo pensato in forme differenti, in senso mutualistico con la costituzione di cooperative e società di mutuo soccorso, in senso sindacale per una più efficace tutela dei diritti del lavoro; • infine una gestione associata delle imprese da realizzarsi mediante una parziale partecipazione dei lavoratori alla proprietà, all'amministrazione o agli utili dell’impresa. 2.3.2. L'interpretazione del lavoro in epoca conciliare. Con il secondo dopoguerra e in particolare nel corso degli anni 50 ad opera di Chenu (teologo domenicano), il lavoro assume tratti comunitari ed evoluzionisti, allontanandosi da ogni sua interpretazione individualistica. Il lavoro è un fattore di umanizzazione, diventando il perno della socializzazione. Il lavoro è tra gli elementi primari mediante i quali l'uomo edifica il mondo e la sua storia. 2.3.3. L'apporto della Laborem exercens e del Compendio della DSC. Tra i documenti più rappresentativi dell'intera DSC al riguardo vi è senza dubbio la Laborem exercens di Giovanni Paolo II, influenzato in maniera decisiva dagli spunti di Chenu e il Compendio della DSC. Le dimensioni fondamentali del lavoro umano che emergono dalla lettura sistematica dei testi sono: • dimensione personale- esistenziale: l'uomo, soggetto del lavoro. Il lavoro, considerato a partire dal suo protagonista, l'uomo, non può essere considerato in modo puramente oggettivo. Il lavoro possiede una struttura intimamente vocazionale in quanto chiamata, appello posto nell'uomo dal suo creatore, che attende una risposta: mediante l'esercizio della propria attività l'uomo esprime, realizza se stesso. • dimensione comunitaria sociale: il lavoro, opera di solidarietà; il lavoro presuppone il dialogo la comunicazione e solidarietà tra lavoratori stessi e tra le classi sociali; è contributo rilevante ed irrinunciabile al bene comune. • dimensione teologica: il lavoro alla luce della creazione e della storia della salvezza, della vicenda di Gesù, della sua Pasqua; si tratta di una prospettiva fondamentale in grado di unificare le altre. Nel Laborem exercens , dunque, l'uomo diviene cooperatore di Dio nel portare a pienezza la sua creazione; egli è immagine di Dio anche nel suo lavoro ed il suo compito va riconosciuto essenzialmente nell'essere custode e coltivatore del giardino che Dio gli ha affidato. Tuttavia, il peccato rende il lavoro umano opera soltanto faticosa e servile. Capitolo 3 - I beni economici: per unire o per dividere? 3.1. Il messaggio della storia: tradizione cristiana e possesso dei beni. Il diritto di proprietà privata ha radici assai antiche. In epoca romana al proprietario veniva data piena facoltà di dominio di qualsiasi cosa (res) anche in altre forme, riguardando addirittura la persona dello schiavo. Molti padri della Chiesa intervengono più volte per condannare il possesso sfrenato delle ricchezze e favorire l’utilizzo di queste al servizio dei bisognosi e ai più poveri in una logica di condivisione. Sant’Ambrogio di Milano nella storia di Nabot dice: “il mondo è stato creato per tutti: per i ricchi e per i poveri la natura non fa distinzione perché ci genera tutti i poveri e” continua “come è possibile distinguere tra i morti, i ricchi e poveri? scavate la terra e fatemi vedere il ricco”. La riflessione scolastica poi tende a parlare di possesso dei beni invece che di proprietà privata. Secondo san Tommaso è lecito all’uomo possedere in proprio alcuni beni non come dominatore assoluto di essi in quanto Dio è il solo padrone di tutto ciò che esiste, ma come colui che può fare uso ragionevole dei beni della terra per utilità propria. Nel tempo il problema della proprietà privata diventa sempre più importante: emerge infatti con singolare urgenza il problema del possesso dei capitali, delle imprese e più in generale dei mezzi di produzione. La proprietà privata diventa al riguardo una delle istituzioni sociali obiettivamente più rilevanti. 3.2. L’apporto della DSC: la proprietà privata nel contrasto della universale destinazione dei beni !26 della terra. Per illustrare in sintesi la posizione della DSC prenderemo spunto dalla Rerum Novarum e dal Centesimus Annus. L’enciclica confuta la soluzione socialista alla questione sociale imperniata sull’abolizione della proprietà privata. Secondo tale impostazione la proprietà privata è frutto del lavoro, è salario trasformato; la collettivizzazione, assegnando ogni proprietà allo Stato finisce per rendere ancora più precaria la posizione non certo dei più favoriti, ma dei più svantaggiati. Inoltre, afferma che la persona non deve radicalmente dipendere dall’organizzazione statale. All’interno dell’enciclica è presentato un argomento che successivamente prenderà il nome di “principio della destinazione universale dei beni della terra”, infatti è scritto: “Dio ha dato la terra in uso e godimento a tutto il genere umano non si oppone per nulla al diritto della proprietà privata”. Non si fa quindi cenno alla collettivizzazione dei beni ma a far si che a ciascuno sia consentito un qualche possesso dei beni, cioè che tutti possano diventare in qualche misura proprietari. Un esplicito riconoscimento della rilevanza sociale del possesso privato si ha a partire dal Quadragesimo anno, dove viene distinta la proprietà individuale e sociale a seconda che riguarda gli individui o spetta al bene comune. Ancora più rilevante sono le prospettive del Centesimus Annus. Attraverso il “principio fondamentale” della destinazione universale dei beni della terra, Giovanni Paolo II sottolinea: “la terra non dona i suoi frutti senza una peculiare risposta dell’uomo al dono di Dio, cioè senza il lavoro”. Nasce, quindi, uno stretto legame tra lavoro e proprietà e la responsabilità di tutti nel far sì che ciascuno possa effettivamente dominare la Terra in obbedienza e fedeltà al comando del Creatore. Inoltre questa propone un’ulteriore estensione di significato della proprietà, viene, infatti, considerata la proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere. Il Centesimus Annus affronta anche il problema del rapporto tra beni economici e qualità della vita dell’uomo secondo Giovanni Paolo II: è chiaro che oggi il problema economico sia il consumismo al di là dei suoi aspetti negativi, è più ampiamente al fondo di ogni grave questione etico sociale, il profondo vuoto spirituale che ne è la causa primaria. 3.3. La questione ecologica: cenni di etica dell’ambiente. In ottica di un corretto uso dei beni economici rientra anche il problema della tutela dell’ambiente cui il Compendio della DSC riserva un intero capitolo. Alla radice dell’insensata distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico, l’uomo dimentica che qualsiasi attività si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio, egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra assoggettandola senza riserve alla sua volontà. L’ambiente naturale costituisce uno dei grandi beni collettivi. L’uomo ha l’impegno di costituire un mondo sempre più umano nel quale anche l’ambiente naturale sia giustamente protetto e valorizzato. L’ambiente va considerato come habitat dell’uomo capace di riconoscere in esso i rimandi simbolici a Dio Creatore. La cura dell’ambiente si presenta inoltre come peculiare segno di responsabilità verso tutti e come futuro di tutti in quanto casa comune dell’umanità. Si è suggerito il ricorso al cosiddetto “principio di precauzione” secondo il quale, dal momento che nessuna soluzione si presenta a rischio nullo per l’ambiente, occorre riconoscere e valutare le differenze tra l’una e l’altra scelta. Occorre passare da un modello ambientale e biologico che elude il confronto con la complessità del dato ad uno di responsabilità etica in base al quale l’organismo decisionale ricerca previamente conoscenze adeguate alla decisione da assumere. Bisogna far sì che vi sia una scelta di nuovi stili di vita ispirati a sobrietà in grado di accostarsi all’ ambiente con gratitudine e rispetto fino a riconoscere in esso la traccia di Dio Creatore. 3.4. L’orizzonte biblio - teologico: possessori dei propri beni o da essi posseduti? Per poter comprendere tale concetto dobbiamo legarci alla tradizione biblica. Nell’Antico Testamento una parte della ricchezza era segno della benedizione di jahve, parte di questa era relativizzata a Dio stesso unico sovrano di tutte le cose. l’Antico Testamento non si preoccupa di proteggere la res cioè l’oggetto posseduto, quanto la persona e le sue relazioni. Inoltre è rilevante la condizione personale dei soggetti. Ad esempio è tutelato il povero nel caso in cui richiede un prestito e debba dare al creditore una garanzia infatti si dice che la legge di Israele tutela la parte meno favorita perché sia !27