Scarica Figure - Riccardo Falcinelli e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Grafica solo su Docsity! FIGURE 1. SPAZIO Si dice che qualcosa è centrato perché instaura rapporti privilegiati con la cornice che gli sta intorno. Dal greco kéntron, cioè l’aculeo del compasso. Esiste però un centro solo se c’è uno spazio definito e misurabile, anche solo ad occhio. Ad esempio nelle grotte preistoriche, le figure delle pitture rupestri si distribuivano sulla roccia in tutte le direzioni, perché gli artisti non avevano un confine a disposizione e non ne sentivano il bisogno. Quindi il centro si fonda su una predisposizione psicologica, oggi utilizziamo i fogli per disegnare, e la loro superficie rappresenta un confine. Le figure decentrate costituiscono un’immagine dinamica, instabile o anche inquieta. Mentre una figura centrata comunica stasi, calma, per cui le composizioni centrare indicano solennità, il centro quindi monumentalizza, rende solido e assoluto, motivo per cui è sempre stato il modello per i ritratti ufficiali. Il prestigio del centro viene ulteriormente enfatizzato da una scoperta del XV secolo: la prospettiva, un sistema di regole grafiche che permette di suggerire l’effetto della terza dimensione su una superficie bidimensionale. In quel periodo infatti si sviluppa la rivoluzionaria idea di usare la geometria per trascrivere in un disegno ciò che l’occhio sta vedendo in un determinato momento e da una posizione ben precisa. Un disegno prospettico dunque funziona solo se lo si guarda da di fronte, dalla giusta posizione. Nelle rappresentazioni sacre la prospettiva era un sistema percettivo ma al tempo stesso simbolico, il protagonista veniva posizionato al centro e le linee costruttive venivano fatte convergere sulla sua figura, emulandone il trionfo, il trionfo del centro. La prospettiva diventa allora un artificio codificato che generi una gerarchia dello sguardo, possiede quindi in sé un’ideologia su come interpretare le cose. A partire dall’invenzione della prospettiva nasce il bisogno degli artisti di rappresentare le cose così come si presentano nella realtà, e quindi nel modo più verosimile possibile, è lo stesso scopo per cui vennero inventati dispositivi come la camera oscura, antenata della macchina fotografica. La camera oscura venne anche utilizzata da molti paesaggisti, come Canaletto, come ausilio per dipingere, ricalcando le forme che si proiettano sulla lastra per ottenere immagini prospettiche senza fare calcoli. Possiamo quindi dire che le immagini, oltre a rappresentare qualcosa, sono dei dispositivi che funzionano in un certo modo. In linea generale viene naturale guardare un’immagine soffermandosi sul centro perché si dà per scontato che il soggetto sia lì. Nei dipinti classici la periferia del quadro è infatti solo un contorno di ciò che accade nel mezzo. Con l’impirgo della camera oscura gli artisti iniziarono a realizzare delle inquadrature, invece che un disegno. Un disegno nasce facendo interagire l’inventiva con matite, colori e pennelli, in un’inquadratura avviene un prelievo della realtà. E se all’interno di un’inquadratura c’è un pezzo di realtà, essa probabilmente continua anche oltre i bordi della rappresentazione. Questa è la grande invenzione del Rinascimento: immaginare che il mondo continui oltre i bordi del dipinto. Alla nascita della fotografia questa sensibilità è ormai patrimonio degli artisti, si disegna quindi in tutta libertà e solo dopo si inquadra la scena per farne il dipinto finale, alcuni artisti sfruttano addirittura la nuova tecnologia per realizzare delle composizioni più innovative, con pose spontanee che solo uno scatto fotografico potrebbe immortalare, tra questi vi è Degas, che a differenza di altri non rinnega mai l’utilità del nuovo mezzo. Si ricerca quindi un modo più autentico di raccontare il mondo. 2. FORME Nel corso della storia le immagini hanno assunto le più svariate forme. Nei tempi antichi ad esempio, la forma del supporto era determinante per la composizione che veniva realizzata al suo interno, nel 400 italiano ad esempio si usavano delle tele circolari, e le figure venivano disposte in modo che assecondassero la rotazione del formato. Sarà solo alla fine del Quattrocento che nascerà il concetto di “quadro” per indicare una parte di parete da affrescare tra due finestre. Secondo l’idea albertiana infatti il rettangolo è come una finestra, e questa forma si presterà alla perfezione per la riproduzione prospettica di un’immagine, si diffonde quindi l’uso della tela tesa su una cornice. Tutt’oggi i rettangoli sono parte integrante delle nostre vite, i social network ad esempio sono luoghi in cui postiamo dei rettangoli, esprimiamo noi stessi entro confini quadrangolari. È un rettangolo lo schermo del computer, della tv, dello smartphone. Gustav Theodor Fechner ha anche fatto degli studi a proposito del rettangolo e delle dimensioni ideali, e da questi studi è nata la definizione di “rettangolo aureo”, ovvero una figura che contiene se stessa all’infinito, cosa che succede solo con la proporzione 1:1,618. In passato però non esistevano delle misure standard per le tele, esse venivano realizzate spesso dallo stesso pittore senza considerare più di tanto le misurazioni. Il termine formato nacque però nell’800, e indica sia la forma che le sue proporzioni, ed è un concetto legato alla riproduzione in serie, sarà infatti dalla seconda metà dell’800 che si iniziarono a vendere tele preconfezionate e che quindi avessero delle dimensioni più standardizzate. La proporzione più diffusa era la 4:3, che corrisponde all’incirca al campo visivo umano. Questo formato si diffuse così tanto in pittura che venne adottato anche per le riprese cinematografiche, naturalmente però il formato non funzionò alla perfezione in questo ambito, motivo per cui a seguito di varie discussioni durate anni si arrivò al formato ideale per il cinema, un formato panoramico con la base larga più del doppio rispetto all’altezza, chiamato appunto CinemaScope, per poi essere sostituito in tempi più recenti dal più conosciuto sedici noni, che fa da contenitore per tutti i formati utilizzati in passato, dal 4:3 fino a quelli panoramici. Per quanto riguarda invece la disposizione verticale o orizzontale di un’immagine, essa è frutto di abitudini prese in passato dai pittori, utilizzate così tanto che sono finite per diventare quasi inevitabili e giudicate più consone per la rappresentazione in questione. Facciamo l’esempio del corpo umano, gli uomini vengono sempre rappresentati in piedi, mentre le donne sono quasi sempre sdraiate, dunque i primi occupano quadri verticali, e le seconde occupano tele orizzontali. Questo è dovuto al fatto che per secoli la committenza è stata composta esclusivamente da uomini, dunque il nudo virile veniva raffigurato come simbolo di forza ed eroismo, ld donne al contrario sono sentite come preda, come oggetto sessuale pronto per essere consumato. Il formato non è dunque neutro, ma portatore du valori politici e di complesse visioni del mondo. Anche le cornici svolgono un ruolo molto importante per indirizzare le percezioni, perché solitamente quando guardiamo non siamo in grado di vedere i margini della nostra visione, non ne cogliamo i limiti, nelle immagini invece c’è un contorno, che ci fa pensare che lì la visuale finisce. Ci sono casi in cui i margini svolgono un ruolo funzionale alla narrazione, come nel caso dei fumetti, in cui ogni vignetta è costituita da un contorno che la mette in relazione con le altre, esplicitandone i nessi temporali. La cornice quindi, oltre ad essere un oggetto materiale, è un recinto psicologico che indirizza lo sguardo, e dunque diventa una metafora, la cornice più importante è il contesto culturale in cui ci troviamo immersi. Nella storia ci sono anche moltissime rappresentazioni di quadri dentro al quadro, questa è infatti una comune caratteristica della pittura fiamminga del XV secolo, che contengono finestre con fuori paesaggi, dipinti e sotto inquadrature. Questo effetto viene chiamato anche ”mise en abyme”, cioè messa in abisso, proprio per indicare il vortice di duplicazioni in cui si viene risucchiati nell’osservare l’opera. Un dipinto rovesciato ti fa vedere cose che non avevi sospettato. È una pratica di bottega che i pittori conoscono da tempi immemori ma che si afferma ufficialmente nell’800, quando nelle accademie si comincia a suggerire agli studenti di girare i propri quadri per esaminarli con uno sguardo più fresco e stanarne gli eventuali errori. Chiunque abbia disegnato dal vero sa bene che dopo qualche ora non si riesce a vedere più le cose per come sono. In questo senso ribaltare il disegno crea uno straniamento e permette di pensarsi da fuori, quasi l’opera fosse di qualcun latro. Ma cosa accade se il ribaltamento avviene in orizzontale, cioè scambiando la destra con la sinistra? Nella versione specchiata quello che sembrava naturale e placido può apparire come un ostacolo, e ciò che pareva sciolto può rivelarsi rigido e impacciato. Lo spazio direzionato è infatti una qualità cruciale. Se un personaggio sta andando da qualche parte deve essere rivolto senza deroghe verso la destra, se torna, a sinistra. La conseguenza se non si fa ciò è che la figura che si muove contro il verso di lettura finisce per suggerire una sfumatura negativa o comunque meno progressiva. Ad esempio esiste una particolare differenza tra le figure buone e quelle cattive, in quanto il quadro visivo può essere caricato di valenze morali importanti per raccontare la storia. In Walt Disney ad esempio, i personaggi buoni si spostano sempre da sinistra a destra, le forze del male invece si muovono verso sinistra. Le cause vanno però cercate con molta probabilità nella tradizione teatrale. Una norma degli spettacoli di corte di epoca elisabettiana comportava che la regina delle fate entrasse in scena sempre dal lato sinistro del palcoscenico, mentre la destra spettava al re dei demoni. Da questi esempi emerge con chiarezza il ruolo delle convenzioni di lettura nel decifrare le immagini. La faccenda coinvolge sia aspetti culturali sia psicobiologici. La percezione non è un meccanismo dato una volta per sempre, ma un processo. Dobbiamo tener conto delle maniere con cui usiamo il corpo, di come ci spostiamo nello spazio, del,e consuetudini scrittorie e di quelle di lettura. Una cosa però è certa: lo spazio visivo non è “isotropo”, ossia la destra e la sinistra non risultano uguali né a guardarle né ad agirle. Quando disegniamo qualcosa riversiamo inevitabilmente sulla carta il modo in cui pensiamo lo spazio e senza esserne coscienti tendiamo a far pesare la destra in modo diverso rispetto alla sinistra. Nel 1917 Theo Van Doesburg e Mondrian findano “De Stijl”, la rivista dove teorizzano i princìpi di una nuova arte, la neoplastica, incentrata sulla riduzione a forme essenziali, sull’uso dei colori primari e strutture compositive razionali. Mondrian vuole far fuori, insieme alla figurazione, gli aspetti emotivi, passionali, anche tragici che accompagnano, si può dire da sempre, le faccende artistiche. Un quadro non dovrà più essere una finestra sul mondo, una rappresentazione o un’imitazione delle cose visibili, ma sarà lui stesso “una cosa”. Mondrian si schiera anche contro l’uso di linee diagonali, perché secondo la sua opinione rimandano sempre a un’idea di volume, somigliando in modo inevitabile a dei raggi prospettici. Ecco il motivo per cui nelle sue opere troviamo solo righe orizzontali e verticali. Van Doesburg però si dimostra possibilista sull’uso di linee oblique che invece, secondo lui, dinamizzano le composizioni senza per forza rimandare al disegno realistico. Mondrian chiude con Theo ed esce da De Stijl. La diagonale nell’arte prenderà sempre più piede a partire dal 500, da quando alcuni artisti iniziano a spostare il fuoco prospettico, decentrandolo. Se in passato la simmetria e la centralità erano state predilette dai regnanti quali forme simboliche del comando, nel mondo moderno si ha una coscienza diversa del proprio ruolo, che pare più friabile e incerto. La diagonale è il correlativo del divenire, dell’accadere, dello spostarsi. E ha il potere di rendere dinamico anche l’evento più noioso. Possiamo infatti dire che l’orizzontalità racconta lo spazio dato, il mondo così com’è, senza accadimenti. C’è un senso di riposo, di calma, di vastità. L’inclinazione invece rende la scena dinamica, mossa, in divenire. Anche un po’ angosciosa. Il cervello interpreta le righe oblique come oggetti pendenti rispetto al suolo. Le diagonali instaurano dunque rapporti precisi con i lati del dipinto: tanto più i segni obliqui si scontrano con i bordi dell’immagine, tanto più marcato emerge il vigore del protagonista. Ossia percepiamo la dinamica delle diagonali perché le vediamo in contrasto con la rigidezza della cornice. Una diagonale è infatti tale solo in relazione alla forma che la contiene. La diagonale è l’essenza figurativa del movimento: instabile, enfatica, emotiva, struggente, tragica, perfino noir. Per questo è stata così amata. Per questo Mondrian voleva farla fuori. 6. COMPOSIZIONE Come cambia il nostro sguardo al cambiare dell’ordine delle cose? Secondo Manet, se sai comporre una manciata di mele poggiate su un tavolo, se sai raccontare il senso dell’esistenza attraverso pochi pezzi disposti con giudizio, allora puoi dipingere davvero qualunque cosa. Di solito per evitare un senso di rigidezza, gli artisti preferiscono usare dimensioni e altezze diverse. Un classico è qualcosa di alto e stretto accanto a qualcosa di basso e largo. I contrasti di pieno e di vuoto, di grosso e di piccolo, di chiaro e di scuro instaurano rapporti di senso e ci suggeriscono alcune idee e non altre. Da una parte si tratta di rapporti di tipo narrativo, osservando quegli oggetti ci vediamo dentro una storia. Dall’altra c’è un aspetto più legato al ritmo che scaturisce dall’insieme. La logica strutturale delle nature morte è appunto di tipo ritmico: ogni rapporto tra oggetto e oggetto, tra le qualità dell’oggetto e le qualità opposte di un altro, le affinità di ciascuno e lo spazio che li contiene suggerisce un particolare tipo di andamento. La ripetizione di qualcosa nel tempo possiede infatti qualità piacevoli e rassicuranti, ed è alla base delle principali funzioni vitali: c’è ritmo nel cuore che batte, nel succedersi dei respiri, nel bambino che viene cullato, nei movimenti dell’amplesso. Siamo dunque portati a riconoscere una cadenza pure nelle immagini. La diffusione delle nature morte è uno dei fenomeni pittorici più significativi del XVII secolo. Più piccole dei dipinti religiosi o storici, spesso di formato trasportabile, sono tra i primi oggetti d’arredo commissionati da privati e, anche per questo, raccontano status e privilegi del possessore: tavole imbandite, frutta copiosa, succulente cacciagioni, e poi dolciumi, stoviglie preziose, cristallerie scintillanti, cose che la maggior parte delle persone sono precluse. A questi simboli del benessere si legano però anche temi allegorici e ammonimenti morali, tra cui il più diffuso è quello di mostrare, per contrasto, la caducità dei valori materiali. La natura è chiamata “morta” perché ogni cosa è immobile e non ci sono esseri umani o azioni visibili, e così quei frutti ci ricordano che, se lasciati lì, presso marciranno come le nostre spoglie mortali. Il nostro corpo non vivrà per sempre, è stagionale come un frutto che ci appare nel pieno del suo fulgore. L’unica salvezza in Cristo e in una vita eterna che riscatti la materia della sua finitezza. Le noci rimandano alla croce del martirio, costruita appunto col tronco di una noce; l’uva allude invece al sangue del salvatore e, insieme al calice, è simbolo dell’eucarestia. Non si creda però che la natura morta sia un genere desueto o noioso: spesso la pubblicità contemporanea non è altro che una sconfinata natura morta. D’altronde in inglese “still life” è sia il nome di questo tipo di dipinti sia quello delle foto pubblicitarie di merci e prodotti. Il gioco del disporre e comporre in ogni caso è ben aldilà di una mera faccenda di belle forme, rivela una sfumatura profonda nel rapporto tra noi e le immagini. Il nostro cervello si è evoluto per usare il mondo ed è più pratico vivere in un mondo dove gli spazi e le cose sono immediatamente comprensibili. La sensazione di bellezza infatti è la risposta psichica a una scena che garantisce maggiore coerenza e quindi sicurezza. In fondo le arti basate sull’equilibrio richiedono anzitutto sensualità. Una maniera fruttuosa per investigare i problemi artistici è chiedersi quando un certo termine è entrato nell’uso. La parola composizione, che oggi sembra ovvio quando parliamo di faccende estetiche, nel Rinascimento, epoca mitica delle belle arti, è pressoché inesistente. Fino al 300 la pittura era incentrata su due concetti principali: il disegno e il colore. Non troviamo invece alcuna riflessione su come le cose dovrebbero legarsi tra loro, sull’armonia dell’insieme, e meno che mai sulla disposizione dei pezzi nello spazio. Il termine “compositio” inizia ad apparire nei ragionamenti a partire da Leon Battista Alberti e dal suo cruciale De Pictura, nel 1435. Compositio sarebbe l’arte di mettere insieme un dipinto secondo una gerarchia prestabilita. Bisogna però dire che Alberti è un umanista, in più il trattato circola con molta probabilità soltanto in latino, lingua che non appartiene al bagaglio culturale del pittore medio dell’epoca, quindi perché si parli di composizioni in maniera corrente bisognerà aspettare almeno due secoli. È infatti nel 600 che il termine diventa un classico nel dibattito artistico. Prima di allora gli artisti non hanno mai messo le figure a casaccio nello spazio, e dai tempi più antichi il principio guida è sempre stato la geometria: sia per motivi formali sia per i possibili significati simbolici che ne scaturivano, anche perché ogni forma suggeriva un certo tipo di storia e di ritmo. Tra le forme di base il cerchio rimanda alla perfezione, a Dio, le forme triangolari invece conferiscono alle figure un ritmo ascendente e allo stesso tempo rimandano alla trinità. Poi però in Italia, a partire dal 400, al centro del dibattito si pone il realismo, cioè la capacità di restituire col segno le apparenze del mondo. La cultura visiva del Rinascimento ruota intorno a due temi principali: la raffigurazione degli spazi illusionistici e la figura umana, con particolare importanza data al chiaroscuro e all’abilità di disegnare teste e mani di scorcio. Questa centralità del corpo è un’ideale sia estetico sia teologico di cui Raffaello e Michelangelo sono il coronamento. Il Rinascimento modella quindi i suoi ideali sulla pittura ad affresco, e quindi su superfici vastissime di cui è difficile avere una visione d’insieme. Gli affreschi hanno spesso un aspetto espressivo che gli conferisce grandezza e solennità. L’epoca barocca invece è quella del trionfo della pittura da cavalletto, ossia la tela dipinta olio. Un oggetto più snello e leggero che, per le dimensioni minori, si può cogliere in un unico sguardo. Dobbiamo infatti dire che ci si può interessare ai rapporti tra le cose raffigurate solo quando vengono contemplate come un tutt’uno. Nell’ottocento gli artisti lavorano su formati più piccoli rispetto al passato e poi ci sono i fotografi che maneggiano figure alte pochi centimetri, e saranno loro ad inventare i canoni che conosciamo oggi. La principale differenza tra un affresco e una fotografia in fondo è tutto qui: l’affresco si esplora come una mappa, la foto si coglie come ensemble in un unico colpo d’occhio. La composizione dunque, è sì un’attività retorica come sosteneva Alberti, ma è anche l’aspetto più moderno dell’attività visiva: l’arte di tenere insieme un intero. Un altro aspetto che arrovellato gli artisti è il modo in cui lo spazio vada suddiviso, e anche questo secondo approccio prende forma matura nel XVII secolo. Nel 600 iniziarono ad essere impiegati ausili ottici che diventarono parte integrante dell’attività disegnativa, e con inevitabili ricadute sul piano della composizione. Quella grata permette di concepire la natura già come forma, ancor prima che sia ritratta, trasformando lo spazio in una faccenda astratta, un gioco di rapporti che precede il soggetto. Conseguenza, anche questa, dell’idea che il quadro sia come una finestra. Da tempi remoti il meccanismo più facile è sempre stato quello di tracciare gli assi di simmetria. La sezione aurea infatti non smette di esercitare le sue seduzioni, anche se i pittori, per far prima, si inventano procedure spicciole per applicarne gli effetti senza perdersi in calcoli troppo macchinosi e, soprattutto, per usarla con qualsiasi formato. Poiché in un rettangolo aureo la diagonale principale è sempre perpendicolare a quella del rettangolo ottenuto al suo interno, si generalizza il principio rendendolo applicabile a qualsiasi cornice. Si traccia la diagonale del dipinto e la sua perpendicolare passante per l’angolo opposto, all’incrocio tra le due si stabilisce il cuore focale della composizione e l’altezza del cielo. Un gusto che risuonerà a lungo fino ai tempi di Turner e Degas. Da questo momento in poi difatti l’altezza dell’orizzonte è un tema che appassiona gli artisti che si rivela cruciale nel determinare il tono di un’immagine, in quanto può restituire il tono di una storia e una temperatura narrativa precisa. Nella storia della rappresentazione l’elevatezza da cui si guardano le cose è stata anche carica di valenze politiche e religiose, in un buon quadro l’orizzonte è bene che sia sempre a un terzo oppure a due terzi, disse un famoso regista, che non a caso battezza il procedimento come “regola dei terzi”. È in effetti una qualità che si rintraccia in molte costruzioni degli ultimi due secoli, e il successo è tale che ancora oggi la troviamo citata in ogni manuale di fotografia. I produttori di elettronica affermano che un ausilio del genere garantirà alle foto armonia visiva. Gli artisti che si sono rifatti a norme tanto rigide sono però rari e bisogna riconoscere che, alla fine, le composizioni più riuscite sono quelle in cui, tramite un lungo allenamento, si va ad occhio. Come il piatto di una bilancia che carichiamo per renderlo equivalente al suo gemello, così in un’immagine possiamo aggiungere qualcosa per mitigare l’importanza di qualcos’altro o per indirizzare il “come” lo stiamo guardando. Tutte le composizioni ci sono infatti elementi che hanno una forza attrattiva maggiore: perché sono più grandi, più scuri o perché contrastano con quanto hanno intorno, e spesso comporre significa equilibrare questa forza con delle controspinte. Ora, come si impara a vedere le masse i bilanciamenti? Secondo gli insegnamenti dell’Accademia tradizionale, la via più rapida è strizzare gli occhi. Velando l’immagine con le ciglia sopprimiamo in parte la nitidezza, evidenziando i principali raggruppamenti delle forme. Lo stereotipo del pittore che indietreggia dal cavalletto, socchiude gli occhi e ruota un po’ la testa, nasce da qui. Non è un vezzo, ma un trucco professionale: solo così si vedono le masse e i pesi. Quello che chiamiamo “peso visivo”, “bilanciamento”, “equilibrio”, è un meccanismo frutto di millenni di pratiche artistiche che si basa, forse, su una predisposizione biologica. L’occhio è un organo attivo: seleziona, sceglie, si concentra su alcune cose e non su altre; mentre vede già pensa e organizza il mondo. Potremmo perciò definire il bilanciamento come la sensibilità del percepito. È in Francia, con la scuola di Barbizon, che si comincia a parlare di masse, di peso, di bilanciamento in senso moderno. Se osserviamo i dipinti di Corot, secondo alcuni il più grande paesaggista di tutti i tempi, ci accorgiamo di come il nucleo concettuale sia appunto la