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GEOGRAFIE DELLO SVILUPPO: UNA PROSPETTIVA CRITICA E GLOBALE - Bignante, Celata, Vanolo, Sintesi del corso di Geografia

Sintesi ben impaginata del manuale di Geografia dello sviluppo. I temi affrontati sono le diverse declinazioni dello sviluppo nella geografia. Utile per la preparazione di esami di Geografia dello sviluppo.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 19/01/2021

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Scarica GEOGRAFIE DELLO SVILUPPO: UNA PROSPETTIVA CRITICA E GLOBALE - Bignante, Celata, Vanolo e più Sintesi del corso in PDF di Geografia solo su Docsity! GEOGRAFIE DELLO SVILUPPO UNA PROSPETTIVA CRITICA E GLOBALE Bignante, Celata, Vanolo 1 INTRODUZIONE ALL’ANALISI GEOGRAFICA I CONCETTI CARDINE DELLA RIFLESSIONE GEOGRAFICA SPAZIO E RELAZIONI Lo SPAZIO indica la localizzazione degli oggetti geografici e la loro distanza reciproca; e i principali strumenti conoscitivi sono le carte geografiche. Il concetto di spazio assoluto crea tuttavia alcune problematiche: il processo di adattamento chiamato proiezione produce inevitabilmente distorsioni delle aree e delle distanze. Lo spazio geografico è inoltre fatto di RELAZIONI, che possono essere: Orizzontali, cioè una relazione tra oggetti geografici localizzati in diversi punti dello spazio geografico Verticali, cioè una relazione tra i singoli oggetti geografici SPAZIO E LUOGO Lo spazio è intrinsecamente legato al concetto di LUOGO, in quanto quest’ultimo è tale grazie alla relazione che un individuo instaura con un determinato spazio. Le caratteristiche che rendono uno spazio differente da un altro sono: Le dimensioni, che possono essere variabili (quartiere, città, regioni) I confini, che possono essere politici, culturali, linguistici I legami e significati che un individuo gli attribuisce TERRITORIO E REGIONE Spesso usato come sinonimo di luogo, il termine TERRITORIO pone di più l’accento sulla dimensione politica dello spazio (cioè il potere di controllare e organizzare lo spazio geografico). La REGIONE invece definisce una porzione contigua di spazio caratterizzata da una proprietà comune, che la distingue da territori circostanti. Il processo di regionalizzazione viene usato per suddividere lo spazio e dargli forma. AMBIENTE Il termine ambiente si riferisce innanzitutto all’ambiente naturale; il quale, in certe circostanze, può essere in grado di influenzare l’uomo. Si parla di DETERMINISMO AMBIENTALE per descrivere il rapporto tra ambiente e uomo in termini di un collegamento causa-effetto: la geografia fisica dei luoghi può infatti influenzare i comportamenti e le pratiche umane, come accade nelle relazioni verticali. AREE E RETI Pur esistendo infinite rappresentazioni dello spazio, due possono essere facilmente distinte: le rappresentazioni topografiche e le rappresentazioni topologiche: lo SPAZIO TOPOGRAFICO ha per oggetto una concezione lineare della distanza, misurata come distanza tra due punti (ad esempio in chilometri); lo SPAZIO TOPOLOGICO invece indica le relazioni e connessioni, non la distanza fisica; un esempio è la mappa di un sistema di linee metropolitane. In geografia la RETE è una struttura spaziale costituita da nodi interconnessi. 1 SCALA GEOGRAFICA Una peculiarità della geografia è la sua NATURA MULTI-SCALARE che comporta livelli di osservazione differenti in relazione tra loro, come accade tra ciò che rientra nell’urbano e ciò che è globale. La SCALA è proprio la strutturazione di più livelli della rappresentazione dei fenomeni geografici e si distingue in: SCALA CARTOGRAFICA, che indica la riduzione sulla quale si basa una rappresentazione topografica (esempio 1 : 50mila). SCALA GEOGRAFICA, che indica la prospettiva interpretativa considerata per studiare determinati fenomeni, che può essere urbana, regionale, continentale e così via. Le scale geografiche sono prodotti della politica e dell’azione umana; due particolarmente rilevanti sono la scala globale, su livello planetario, e la scala locale, che deriva in genere dall’esperienza diretta e che è più variabile. RAPPRESENTAZIONI Le RAPPRESENTAZIONI indicano le interpretazioni dei fenomeni nello spazio terrestre e possono forme diverse: cartografiche, testuali, cinematografiche, fotografiche e così via. Nessuna rappresentazione è neutrale in quando è sempre frutto di scelte soggettive; e anche quelle basate su dati statistici non sono esenti dai limiti della soggettività che influenza, ad esempio, la scelta degli indicatori. La natura PARZIALE E SOGGETTIVA delle rappresentazioni fa di loro possibili strumenti di esaltazione politica, di stereotipi, di turismo o di imprese; e la loro natura PERFORMATIVA permette loro di produrre effetti reali anche quando sono false. ATTORI E TERRITORIO Gli ATTORI sono i protagonisti dei fenomeni sociali e territoriali e sono dotati di capacità d’azione; cioè sono in grado di influenzare la società. Infatti, qualsiasi fenomeno sociale prende forma attraverso le azioni e la volontà degli attori. Il LEGAME tra ATTORI SOCIALI e SPAZIO GEOGRAFICO può essere inteso in due modi: I fatti sociali sono influenzati dallo spazio geografico Il territorio è prodotto dagli attori Il RAGGIO degli attori coinvolti nei processi locali e globali è infinitamente ampio, e complesse sono le relazioni tra essi. Spesso, come approssimazione grossolana della realtà, si fa riferimento agli ATTORI COLLETTIVI (cioè aggregati di attori, come possono esserlo gli abitanti di Milano). GEOGRAFIA ED ECONOMIA La GEOGRAFIA ECONOMICA è una scienza ricca ed eterodossa, che si focalizza soprattutto su: • ATTIVITÀ ECONOMICHE, studiandone la distribuzione e l’organizzazione nello spazio • SVILUPPO REGIONALE, per comprendere il quale è necessario studiarne le relazioni di tipo economico e geopolitico La geografia economica però attinge anche ad altri ambiti, come la sociologia, le scienze politiche, l’antropologia; dai quali ha ripreso dei metodi, come l’osservazione diretta e l’etnografia. È tuttavia una scienza che può tendere all’universalismo e al riduzionismo, in quanto caratterizzata da forti componenti applicative, cioè la ricerca di soluzioni a problemi specifici e situazioni concrete. La geografia economica nasce come scienza descrittiva e compilativa, e il suo principale STRUMENTO è la CARTA TEMATICA. A partire dagli anni Cinquanta, la descrittività è stata poi messa in discussione, spostando il problema alla comprensione e distribuzione delle attività economiche. I METODI usati sono mirati all’elaborazione di informazioni quantitative, teorie deduttive e tecniche, che si avvalgono di dati statistici. A partire dagli anni Settanta l’influenza del marxismo è stata determinante, riorganizzando la geografia dell’economia intendendo come parte di un processo più ampio di accumulazione capitalistica. Negli ultimi anni si è poi registrata una svolta culturale, che, riconnettendosi al post- modernismo e al post-strutturalismo, rifiuta la convinzione che la realtà geografica possa essere rappresentata dalle grandi narrazioni (come economia neoclassica o marxismo) proponendo uno spostamento da scienza epistemologica a SCIENZA ERMENEUTICA, cioè interpretativa, spostando l’attenzione al discorso. Infatti, la cosiddetta geografia critica rifiuta una rigida sistemazione metodologica. 2 un’esigenza del sistema capitalistico mondiale per cui il centro, integrando la periferia nel sistema di scambi commerciali, si appropria della ricchezza qui prodotta per consolidare la propria posizione dominante. Una delle cause è che, mentre i fattori naturali tendono a ridursi, quelli artificiali sono in grado di riprodursi e crescere; ciò permette ai paesi maggiormente dotati di fattori sociali e artificiali di accrescere il proprio vantaggio, lasciando i Paesi basati su risorse naturali sempre più indietro. A ciò si aggiunge che i Paesi del Nord che importano dal Sud pagano un costo di fattori di produzione nettamente inferiore rispetto a quello pagato dai Paesi del Sud. IL SISTEMA MONDO SECONDO WALLERSTEIN La scuola del Sistema-mondo è un paradigma storico-sociologico, di ispirazione marxista, nato negli anni Ottanta. I suoi principali esponenti sono Immanuel Wallerstein, Samir Amin, Giovanni Arrighi e André Gunder Frank. La teoria, sviluppata diversamente dai vari studiosi, si propone studiare fenomeni come l’economia globale, la nascita e la polarizzazione geografica del capitalismo, il predominio occidentale nel mondo. Il capitalismo si configura come un Sistema mondo di parti interconnesse, in cui un centro (le nazioni o aree più sviluppate), tramite la violenza o i meccanismi del mercato, si impone sulle periferie (le nazioni o aree meno sviluppate) sfruttandone le risorse. La successione dei cicli di accumulazione e di egemonia provoca lo spostamento del centro da un luogo all’altro. Secondo WALLERSTEIN si possono individuare tre modalità di scambio e produzione di capitale all’interno di una società: 1. MODALITÀ RECIPROCO - FAMILIARE: Lo scambio avviene mediante meccanismi di reciprocità e le attività economiche sono distribuite in base al genere e all’età degli individui 2. MODALITÀ REDISTRIBUTIVA - TRIBUTARIA Lo scambio avviene sulla base delle divisioni di classe, con una funzione di produzione assegnata agli agricoltori che pagano un tributo ad una classe dirigenziale 3. MODALITÀ CAPITALISTICA Lo scambio si basa anch’esso su divisioni di classe, ma è un continuo processo di accumulazione operante tramite logiche di mercato per cui i prezzi e i salari sono regolati da domanda e offerta Alle quali corrispondono tre tipologie di società: 1. I MINI SISTEMI, entità chiuse 2. Gli IMPERI MONDO, con potere centrale e unitarietà politica 3. Il SISTEMA MONDO, di tipo capitalistico (cioè con l’obiettivo di massimizzare il profitto) e diffuso in tutto il Pianeta durante il XX secolo Wallerstein sostiene che non vi sia un Terzo mondo dal punto di vista geografico, ma che esista un mondo connesso attraverso una rete di relazioni di scambio che includono capitale, lavoro e merci. I percorsi di sviluppo non sono autonomi ma definiti da traiettorie storiche e geografiche che prendono forma su scala mondiale. L’ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA ECONOMICO MONDIALE attraverso una sola struttura di mercato capitalistica e la presenza di molteplici Stati in competizione danno origine a un SISTEMA GERARCHIZZATO composto da tre parti: • CENTRO, che include i Paesi e le Economie che rappresentano il cuore dell’accumulazione capitalistica, delle innovazioni, dello scambio di idee, sei servizi e delle informazioni; sono le maggiori aree di mercato e consumo per la produzione mondiale • SEMIPERIFERIA, che gode dei vantaggi, esercita forme di controllo sulla periferia e che imita le innovazioni del centro; ma che subisce anche una dipendenza tecnologica, finanziaria e decisionale nei confronti del centro e presenza sistemi di relazioni più tenui • PERIFERIA, caratterizzata da territori estesi ed arretrati e fonte di materie prime, prodotti agricoli e forza lavoro a basso costo; si appropria di tecnologie già standardizzate e facilmente imitabili e le relazioni risultano ancora più tenui, sporadiche e limitate a conoscenze specifiche; ne consegue povertà diffusa, arretratezza tecnologica e instabilità politica 5 APPROCCI ALTERNATIVI AL TEMA DELLO SVILUPPO Un primo filone è la SCUOLA ANTI-UTILITARISTICA, che, disapprovando l’approccio tradizionale della teoria sociale contemporanea (che vede la mente umana orientata a massimizzare l’interesse individuale, cioè il profitto); incentiva PRATICHE ALTERNATIVE basate su rapporti di reciprocità, e la cui azione sociale è guidata da vincoli di spontaneità, amicizia, solidarietà, vincoli non spiegabili in ottica economica. Un altro filone è quello legato al concetto di DECRESCITA e, con sostenitori come Rist e Latouche, qui la critica all’utilitarismo incontra la RIFLESSIONE AMBIENTALE, ribadendo la necessità di limitare l’imperativo del consumo e della crescita, in onore di uno stile di vita più sobrio. SVILUPPO DAL BASSO E BASIC NEED Nel dibattito sui cosiddetti BISOGNI ESSENZIALI, sviluppatosi sia all’interno del mondo accademico che presso organismi internazionali come la Banca Mondiale, si sottolineò l’importanza di politiche di sviluppo e politiche di cooperazione allo sviluppo. Un simile approccio si concretizzò nello SVILUPPO DAL BASSO (contrapposto all’approccio top-down) teso a soddisfare i bisogni essenziali (BASIC NEED) di una società; questo approccio si basa non sulle attività economiche, ma sul rapporto con l’agricoltura locale o con attività economiche che producono effetti su scala ridotta. Con queste nuove intenzioni si assiste alla nascita di ONG operanti a diretto contatto con la società locale, impregnate a fornire i servizi appropriati alle esigenze di scala ridotta. Lo sviluppo auto-centrato, dal basso, contestualizza la dimensione sociale con cui si realizza il soddisfacimento dei bisogni fondamentali della società locale. LO SVILUPPO SOSTENIBILE Lo SVILUPPO SOSTENIBILE rappresenta il terreno di incontro tra visioni critiche riferite a tematiche quali crescita, natura, sviluppo e povertà. Negli anni Sessanta il riconoscimento dell’esauribilità delle risorse mise in luce le frizioni tra le esigenze di sviluppo economico e di quelle di salvaguardia del Pianeta (e ci fu anche l’affermazione delle formulazioni alternative dello sviluppo dal basso); fu proprio da allora che si svilupparono due visioni contrapposte: • ECONOMIA DI FRONTIERA ~ Economia e natura si presentano come due tematiche isolate e l’ambiente viene considerato come fonte inesauribile di risorse e deposito per gli scarti • ECONOMIA PROFONDA ~ Economia che propone modelli di sviluppo alternativi, cercando una nuova armonia fra essere umano e natura e riconoscendo una relazione spirituale, sociale e fisica; in questo caso si tenta di proporre un approccio economico in armonia con la natura Lo SVILUPPO SOSTENIBILE costituisce il pilastro delle attuali politiche ambientali e di sviluppo; UNO SVILUPPO CHE SODDISFI I BISOGNI DEL PRESENTE SENZA COMPROMETTERE LE CAPACITÀ DELLE GENERAZIONI FUTURE DI SODDISFARE I PROPRI BISOGNI. Si incontra così il tema del bisogno e della responsabilità verso i posteri. Lo sviluppo sostenibile si fonda su tre presupposti: 1. INTEGRITÀ DELL’ECOSISTEMA Mantenendo cioè i sistemi ecologici ben conservati, evitando qualsiasi alterazione irreversibile per l’ecosistema che deve mantenersi in equilibrio 2. EFFICIENZA ECONOMICA Che implica la necessità di adeguati processi di crescita economica; l’obiettivo sarebbe assicurare che il sistema economico garantisca il massimo della produzione e dei consumi compatibilmente con gli equilibri ecologici, consentendo di mantenere costanti le potenzialità produttive dell’ambiente 3. EQUITÀ SOCIALE Che si riferisce alla scala inter generazionale e intra generazionale; implica cioè un’equa distribuzione dei redditi e dei diritti indipendentemente dalla cultura, religione e idee politiche Un grosso LIMITE però riguarda la sostenibilità, che ad oggi procede ancora a rilento. 6 PARTECIPAZIONE, COMUNITÀ LOCALI E POLITICHE DI SVILUPPO Sono stati sperimentati diversi APPROCCI PARTECIPATIVI (come quelli community-based) alla programmazione e attuazione delle politiche di sviluppo. Il COINVOLGIMENTO DEGLI ATTORI LOCALI ha diverse funzioni: • Utilità strumentale, che permette maggiori informazioni su caratteristiche del contesto, necessità della popolazione e interessi • Ruolo costruttivo, che permette alle comunità locali di decidere autonomamente il modo in cui approcciarsi alle strategie di intervento • Importanza intrinseca di incentivare la collaborazione, rafforzare il capitale sociale e l’apprendimento collettivo IL POST-SVILUPPO Il post-sviluppo si connette alla corrente del post-strutturalismo, che mette in evidenza come i fatti non parlino da soli. Infatti, i concetti che utilizziamo per interpretare i fenomeni distorcono la realtà; in particolare il linguaggio, che tendere a costruire la realtà invece di rappresentarla. Obiettivo di questi autori è di DECOSTRUIRE I SIGNIFICATI COMUNI, ponendo in evidenza come si utilizzino categorie interpretative privilegiate e come le logiche di potere possano favorire certe rappresentazioni della realtà piuttosto che altre. Anche il discorso sullo sviluppo contribuisce a diffondere certe interpretazioni del mondo, diviso tra Nazioni arretrate e Nazioni avanzate. Il POST-SVILUPPO vuole dunque ricostruire dei SISTEMI DI SIGNIFICATO. Edward Said spiega come ad esempio l’Oriente venga posto in posizione subalterna rispetto all’occidente, fenomeno individuato come Orientalismo. La critica del post-sviluppo è tesa alla VALORIZZAZIONE DEL SAPERE LOCALE e all’AUTODETERMINAZIONE DELLE SOCIETÀ LOCALI; non esiste una singola realtà ma una molteplicità di esperienze, prospettive e narrative, vi è infatti una pluralità di interpretazioni circa lo sviluppo e il sottosviluppo. 3 GEOGRAFIE AMBIENTALI DELLO SVILUPPO GLI ECOSISTEMI E I SERVIZI AMBIENTALI L’ECOSISTEMA è un complesso dinamico composto da esseri viventi e dall’ambiente fisico circostante, la Terra è un ecosistema. L’insieme delle relazioni tra ecosistemi viene chiamato BIOSFERA. La BIODIVERSITÀ, anche detta diversità biologica, indica la quantità di specie, patrimoni genetici ed ecosistemi esistenti sulla Terra; e svolge una funzione importante nell’erogazione di servizi naturali e nel funzionamento degli ecosistemi. La STABILITÀ è la capacità di un ecosistema di rispondere a situazioni di disturbo mantenendo il proprio equilibrio: la stabilità in SENSO STATICO indica la resistenza di un sistema, cioè la sua capacità di assorbire uno shock senza modificare il proprio stato, le sue funzioni o la propria struttura; la stabilità in SENSO DINAMICO indica la resilienza, cioè la capacità di rispondere a sollecitazioni senza perdere o modificare le proprie caratteristiche. La FRAGILITÀ è invece la facilità con cui un sistema può subire modifiche irreversibili. L’AMBIENTE COME SERVIZIO Vi sono quattro tipologie di SERVIZI ECOSISTEMICI: 1. SERVIZI DI PRODUZIONE, attraverso i quali gli ecosistemi forniscono beni (cibo e risorse) 2. SERVIZI DI REGOLAZIONE, che regolano gli equilibri dell’ecosistema (qualità dell’aria e dell’acqua) 3. SERVIZI CULTURALI, caratterizzati da beni immateriali che gli individui ricavano dall’ambiente (valori) 4. SERVIZI DI SUPPORTO, che forniscono le funzioni necessarie per la produzione degli altri servizi ecosistemici (fotosintesi) 7 L’ANALISI DELLO STATO DELL’AMBIENTE Negli anni Sessanta nasce l’esigenza di conoscere lo stato dell’ambiente con il fine di operare SCELTE POLITICHE per: 1. Sviluppare modelli di contabilità ambientale in grado di integrare la componente ambientale nei conti economici nazionali 2. Fornire informazioni circa il degrado dell’ambiente, confrontando i diversi luoghi 3. Prevenire catastrofi ambientali 4. Gestire correttamente le risorse naturali 5. Valutare l’efficacia delle politiche e informare i cittadini L’analisi dello stato dell’ambiente avviene grazie all’aiuto di: MODELLI PSR-DPSIR, che cercano di rappresentare i tentativi di lettura ed interpretazione dei problemi ambientali: • Il modello PSR individua gli indicatori di Pressione Stato Risposta delle attività umane sull’ambiente e come esso reagisce insieme alle società • Il modello DPSIR invidia gli indicatori di: Determinante, che descrive le azioni umane che provocano pressioni sull’ambiente Pressione Stato Impatto, cioè le alterazioni negli ecosistemi Risposta Attraverso queste cinque voci il modello cerca di rappresentare elementi e reazioni che caratterizzano un fenomeno ambientale, collegandole alle politiche messe in atto in quel tema. Sebbene cerci di tenere conto e di mettere in relazione la dimensione naturale e socioeconomica dei fenomeni ambientali, nel contempo suscita criticità, tra cui rigidità tra le varie categorie e semplificazione dei rapporti causa-effetto. L’IMPRONTA ECOLOGICA è invece un indicatore molto utilizzato per indicare il CONSUMO DI RISORSE. Il suo scopo è identificare il numero di ettari di cui ogni abitante della terra ha bisogno per vivere, misurando l’impatto che la vita umana ha sul pianeta. Così, anche la CONTABILITÀ AMBIENTALE calcola lo stato dell’ambiente, ma in termini monetari. Altri strumenti possono invece essere quelli preposti all'analisi costi-benefici. LE POLITICHE AMBIENTALI GLI ATTORI Gli ATTORI DELLE POLITICHE AMBIENTALI istituzionali possono essere soggetti diversi, a seconda dell’ordinamento di ogni Paese. Inoltre, si annoverano poi varie agenzie, internazionali, nazionali e regionali, il cui compito è controllare il rispetto della normativa ambientale vigente, supportare l’amministrazione nelle attività di programmazione, informazione e educazione in campo ambientale. Esistono però molti soggetti che sono parte attiva delle politiche ambientali: imprese, industrie verdi, l’Unione Europea, fino ai singoli cittadini: 1. Le IMPRESE hanno adottato nel tempo strumenti volontari di tutela dell’ambiente con finalità di promozione e di marketing 2. Le INDUSTRIE VERDI sono riconducibili a settori che vanno dal riciclaggio dei rifiuti alla produzione e ricerca su energie rinnovabili 3. L’UNIONE EUROPEA promuove azioni di salvaguardia dell’ambiente e di risorse naturali e la definizione di una normativa comunitaria per il miglioramento di qualità di vita e ambiente 10 A questo proposito si utilizza il termine di GLOBAL GOVERNANCE (potere esercitato a scala globale) anche se i suoi obiettivi sono difficilmente raggiungibili a causa delle diversità di interessi dei vari paesi. La CITTADINANZA ATTIVA promuove la responsabilizzazione dei cittadini nella tutela dei propri diritti. GLI STRUMENTI Le politiche ambientali operano principalmente in due ambiti: 1. DISINQUINAMENTO 2. PREVENZIONE Con riferimento alle politiche preventive del cambiamento climatico si distinguono gli interventi di: Mitigazione, cioè interventi atti a ridurre le emissioni di gas serra Adattamento, finalizzate ad attenuare gli impatti in corso e inevitabili Vi sono POLITICHE REGOLATIVE di COMMAND AND CONTROL: vengono cioè definite regole e codici di comportamento il cui rispetto è sottoposto a verifiche e riscontri da parte dell’amministrazione pubblica o altri soggetti (es. standard di emissione). Le politiche ambientali vengono attuate tramite: • STRUMENTI ECONOMICI, che agiscono sul mercato modificando i prezzi di determinati prodotti attraverso sistemi di tassazione, incentivazione o obblighi assicurativi; come le tasse sulle emissioni o le tasse sui prodotti. Un ulteriore strumento economico è costituito anche dai mercati artificiali (dei diritti di emissione negoziabili). • STRUMENTI VOLONTARI, come il bilancio ecologico, comprendente l’analisi del ciclo di vita, sistemi di etichettatura, bilanci e rapporti ambientali, sistemi di ecogestione, accordi volontari. A questi strumenti vanno aggiunte le POLITICHE AMBIENTALI TERRITORIALI. GIUSTIZIA AMBIENTALE ED EQUITÀ SOCIALE La GIUSTIZIA AMBIENTALE indica il diritto degli abitanti di poter incidere sui processi costitutivi della vita associata, come la trasformazione e tutela dell’ambiente, la qualità nell’offerta di beni di consumo, la costruzione di spazi da abitare. JUST SUSTAINABILITY: gli studiosi Bullard e Evans sostengono che il concetto di sviluppo sostenibile richieda anche la comprensione delle complesse relazioni che si strutturano tra degrado ambientale, sviluppo economico e temi più sociali come giustizia, diritti umani e sicurezza. Il problema delle DISUGUAGLIANZE DI ACCESSO AD UN BENE come l’acqua può essere osservato dalla prospettiva di gruppi svantaggiati che subiscono forme di ingiustizia ambientale, o da quella di gruppi egemonici che sfruttano tale risorsa per consolidare le proprie posizioni di potere. La scarsa disponibilità egemonica rende difficile ai gruppi svantaggiati di poter contribuire a una gestione di risorse e servizi più efficiente. Quello ambientale è sì un problema globale, ma i suoi risvolti sono locali; ad esempio, il riscaldamento globale viene avvertito di più in alcuni luoghi piuttosto che altri. 4 POPOLAZIONE, MOBILITÀ E CULTURA La distribuzione della popolazione, la sua composizione e i suoi spostamenti sono fenomeni complessi; questi influenzano profondamente le geografie dello sviluppo e della globalizzazione. 11 LA POPOLAZIONE DEL NOSTRO PIANETA: SQUILIBRI E DISUGUAGLIANZE L’AUMENTO La popolazione mondiale ha iniziato ad aumentare con la rivoluzione agricola e industriale del 18° secolo e con il lento declino della mortalità in Europa e Nord America. Nel corso del 20° secolo questo aumento è divenuto rapido anche nei paesi del Sud, fenomeno che ha preso il nome di ESPLOSIONE DEMOGRAFICA. A determinare LE DINAMICHE DELLE POPOLAZIONI sono gli ingressi (nascite e immigrazioni) e le uscite (decessi ed emigrazioni). Il calcolo della variazione numerica della popolazione in un dato la sso di tempo avviene sommando il saldo naturale (nati-morti) al saldo migratorio (immigr. – emigr.). Il TASSO DI NATALITÀ è il rapporto tra il numero di nascite osservate in una popolazione e l’ammontare di questa popolazione. Vi è anche il TASSO DI FERTILITÀ, che misura il numero medio di nati in una popolazione per donna in età feconda. Per raggiungere il livello di sostituzione (cioè quando la popolazione si riproduce senza diminuire) il tasso di fecondità deve essere pari a 2,1 figli per donna; oggi il tasso medio mondiale è pari a 2,5 figli per donna (con forti differenze tra paesi). La FERTILITÀ è influenzata da fattori di carattere politico, sociale, culturale ed economico; ad esempio la povertà comporta una più elevata natalità e per varie ragioni; i figli rappresentano un investimento economico, le donne sono meno libere di esprimersi circa le scelte di pianificazione familiare, fanno minor uso di pratiche contraccettive. Un’istruzione elevata invece è correlata a un’età di nascita del primo figlio più avanzata. Il TASSO DI MORTALITÀ indica il numero di decessi ogni mille abitanti in un periodo di tempo, solitamente un anno. I tassi più bassi si registrano in Qatar, Kuwait, Emirati Arabi. A influenzare la mortalità, oltre alle malattie sono: comportamenti sociali, le guerre, l’offerta dei sistemi sanitari nazionali, il livello di istruzione, il reddito. Vi è anche un TASSO DI MORTALITÀ INFANTILE, mortalità che colpisce i nati vivi entro il primo anno di vita; e la SPERANZA DI VITA ALLA NASCITA, cioè il numero medio di anni che una persona può aspettarsi di vivere al momento della nascita;, e che oggi è nel mondo circa 68 anni. Infine, informazioni rilevanti derivano dall’ANALISI DELLA COMPOSIZIONE DELLA POPOLAZIONE per genere ed età e ciò si può fare con la piramide dell’età (due istogrammi che rappresentano le classi d’età: sulle ascisse l’ammontare della popolazione, sulle ordinate le classi d’età, con divisione in maschi/femmine). L’aumento o la diminuzione delle fasce di giovani o anziani è importante per indagare e prevedere i cambiamenti socio economici a cui una popolazione andrà incontro. L’Italia è caratterizzata da una predominanza delle classi tra i 35 e 50 anni (boom degli anni ’60). LA TRANSIZIONE DEMOGRAFICA Sviluppatosi attorno agli anni 40-50, il modello della transizione demografica cerca di spiegare le variazioni dei tassi natalità/mortalità analizzando il tasso di crescita naturale, al netto delle migrazioni. La TRANSIZIONE DEMOGRAFICA è in generale, un processo di passaggio da una situazione di equilibrio con alti tassi di natalità e mortalità a una situazione di equilibrio con tassi di natalità e mortalità molto bassi. Comprende 4 fasi: 1. PRE-TRANSIZIONE, caratterizzata da una bassa speranza di vita e da alti tassi di natalità e mortalità; in questo caso la crescita della popolazione è minima (situazione prima del XVIII sec.) 2. PRIMA TRANSIZIONE: migliorano le condizioni di vita, diminuisce la mortalità, la natalità rimane elevata; di conseguenza la popolazione aumenta esponenzialmente 3. SECONDA TRANSIZIONE; tempo di innovazioni tecnologiche, miglioramento del sistema di educazione e della legislazione, diminuisce il tasso di crescita naturale della popolazione a causa di un minore valore sociale e economico della prole, diffusione di metodi contraccettivi e entrata delle donne nel mondo del lavoro (Europa, fine ‘800 e inizio ‘900) 4. TRANSIZIONE: la transizione demografica può dirsi completata poichè il tasso di mortalità raggiunge il livello più basso e la crescita si assesta su livelli bassi 5. DECLINO; alcuni autori aggiungono anche una quinta fase, durante la quale il tasso di crescita della popolazione raggiunge valori vicini allo zero o negativi. 12 Una questione delicata è quella che ha a che fare con MIGRAZIONI, DIRITTI E CITTADINANZA: il contrasto all’immigrazione è sfociato, lungo alcune frontiere, nella costruzione di veri e propri muri, spesso finalizzati a bloccare flussi transfrontalieri. Spesso si teme che l’immigrazione sia di freno all’occupazione, di non essere in grado di far fronte ai servizi necessari, l’aumento della criminalità, delle tensioni sociali, perdita dell’identità culturale. Ma d’altra parte i migranti possono rappresentare una grande opportunità per la crescita economica di un paese, contrastando la stagnazione demografica, apportando nuove conoscenze e promuovendo l’apertura e l’arricchimento culturale. In generale, i paesi tendono a favorire l’ingresso di migranti graditi e limitare quello dei lavoratori meno qualificati, e tendono a far uscire la manodopera meno qualificata e tenere quella qualificata, volano per lo sviluppo. C’è differenza poi tra i vari modelli di politiche migratorie: il modello tedesco ad esempio considera gli immigrati ospiti temporanei, tutelandone la diversità al fine di un rientro nella nazione d’origine; il modello francese è invece assimilativo; il modello britannico è multiculturale. Un nodo cruciale riguarda i TERMINI PER LA CONCESSIONE DELLA CITTADINANZA. La scelta fondamentale che si trovano a dover compiere gli ordinamenti è quella tra ius sanguinis e ius soli. Attualmente, nella maggior parte di paesi vige lo ius sanguinis, con eccezione della Francia. Atteggiamenti razzisti, paura delle differenze e diffidenza possono rendere difficile il raggiungimento della cittadinanza. Con l’espressione ESCLUSIONE SOCIALE si fa riferimento a quei processi sociali che determinano marginalizzazione e vulnerabilità, causa di un’inadeguata partecipazione del migrante alla vita sociale (vedi il concetto di multiculturalismo). TRANSNAZIONALISMO, IDENTITÀ E CULTURA Le migrazioni sono state tradizionalmente interpretate come cambiamenti permanenti del luogo di residenza; i quali sollevano importanti quesiti sul significato da attribuire a concetti come luogo e identità. La dimensione TRANSNAZIONALE della migrazione (non unidirezionale) si manifesta in più ambiti: • Transnazionalismo economico, come le rimesse • Transnazionalismo politico, indicando il peso politico che assumono determinati gruppi sociali • Transnazionalismo socio-culturale, cioè riferito alle implicazioni culturali Il sociologo Stuart Hall sottolinea come le migrazioni diano vita a culture sincretiche che portano con sé la necessità di vivere più identità, più linguaggi culturali. Oggi, l’dea che l’identità culturale sia radicata in un particolare luogo appare semplicistica: le IDENTITÀ si formano e trasformano continuamente e si sovrappongono. La diaspora in questo senso rappresenta una forma di comunità etnica transnazionale caratterizzata da un persistente senso di appartenenza dei suoi membri che supera lo spazio e il tempo, perdurando attraverso confini e generazioni. 5 LOCALIZZAZIONE, SVILUPPO REGIONALE E GEOGRAFIA DEGLI SQUILIBRI LO SPAZIO GEO-ECONOMICO E IL PROBLEMA DELLA GLOBALIZZAZIONE Fino agli anni Sessanta la geografia è stata equiparata alla scienza della localizzazione. La disponibilità di adeguati fattori di contesto è cruciale affinché le imprese possano avere successo o sopravvivere, infatti la LOCALIZZAZIONE è una componente fondamentale delle strategie competitive delle imprese. Alfred Marshall definiva “atmosfera industriale” un contesto adatto alla creazione di nuove idee, tecnologie, attività; l’espressione delle potenzialità individuali è inoltre strettamente connessa alla presenza di un contesto favorevole. Un 15 esempio di contesto favorevole sono le città, luoghi privilegiati di agglomerazione di attività economiche di vario tipo; infatti processi di urbanizzazione e concentrazione delle risorse e attività sono strettamente connessi. Il tema della localizzazione delle attività economiche è inoltre connesso allo sviluppo regionale, e della diversa specializzazione produttiva dei diversi paesi e regioni del mondo. LOGICHE LOCALIZZATIVE DELLE ATTIVITÀ ECONOMICHE Una differenza fondamentale distingue le LOGICHE LOCALIZZATIVE in due tipologie a seconda dell’attività economica: 1. SERVIZI ~ Il prodotto consiste nell’erogazione di una prestazione per la quale è necessario un contatto diretto con il cliente; pertanto il luogo di produzione corrisponde a quello di consumo. Questi luoghi avranno un pattern di distribuzione di tipo disperso e cercheranno di massimizzare la loro distanza dai concorrenti per ampliare il loro bacino potenziale di clienti, detto area di mercato. Si possono avere organizzazioni uniformi o scalari (diversi servizi collegati tra vari livelli). 2. IMPRESE INDUSTRIALI ~ Possono avere, a differenza dei servizi, economie di scala molto alte e servire luoghi molto distanti dal luogo di produzione; pertanto l’impresa industriale può localizzarsi ovunque. Avrà bisogno di poco spazio (a differenza dell’industria agricola) e un bacino di manodopera, può importare e esportare. Tuttavia l’industrializzazione impone una rivoluzione spaziale oltre che tecnologica, in quanto trasforma lo spazio geografico in maniera notevole, in seguito alla quale campagne e città si troveranno tra loro connesse in rapporto di interdipendenza, accentuando i rapporti tra centri e periferie mondiali. MODELLI CLASSICI DI LOCALIZZAZIONE 1Il primo modello formale e quantitativo di localizzazione delle attività economiche riguarda la DISTRIBUZIONE DI DIVERSE VARIETÀ COLTURALI AGRICOLE INTORNO A UN CENTRO URBANO. THÜNEN introduce il modello di STATO ISOLATO, costituito da una sola città al centro di una pianura non espandibile. La città rappresenta per gli agricoltori l’unico mercato di sbocco delle merci, e la distribuzione in cerchi concentrici, caratterizzata da colture via via più estensive. Per massimizzare la propria rendita di localizzazione o posizione, i produttori vorranno localizzarsi il più possibile vicino al centro urbano; ne scaturisce così una competizione di acquisto dei terreni vicino al centro, che saranno di chi può permettersi l’elevato costo di essi e di chi necessita di un minor spazio estensivo. I vantaggi di una LOCALIZZAZIONE CENTRALE sono legati soprattutto al maggiore potenziale di interazione sociale dei prodotti; le attività centrali (central business district) saranno quindi costituite ad esempio dalle grandi aziende, che spiazzano le funzioni residenziali. Il modello è applicabile anche alle scelte residenziali degli individui, con la logica del BENEFICIO NETTO PER UNITÀ DI SPAZIO. Nei terreni ultra marginali la rendita sarà nulla: i ricavi sono pari ai costi e non è più conveniente produrre. La rendita costituisce un sovrappiù (è una sorta di profitto non guadagnato che deriva dal mero possesso). Tutto ciò, nelle dinamiche di mercato, funziona come dispositivo di regolamentazione dell’accesso alla risorsa scarsa. 2Un secondo modello classico è la LOCALIZZAZIONE DELLE IMPRESE CON IL FINE DI MINIMIZZARE I COSTI DI TRASPORTO. La localizzazione dell’impresa sta all’interno di un’ampia strategia razionale di massimizzazione dei profitti; e un importante problema è l’attrito posto dalla distanza e la necessità di minimizzare i costi di trasporto. Nel modello di WEBER, noti i punti di reperimento delle materie prime e individuato il punto corrispondente al mercato di sbocco per le merci, la localizzazione ottimale sarà rilevata in forma meccanica in base alla quantità di materiale trasportato e alla distanza da coprire. Nella logica di Weber però vi sono diverse distorsioni. Il territorio non può essere considerato uniforme perché caratterizzato da differenti dotazioni di risorse e infrastrutture che influiscono sull’entità e distribuzione dei costi di trasporto. Il mercato non corrisponde a un punto ma piuttosto a un’area più o meno grande. Weber tuttavia ha 16 individuato un fenomeno: quello dell’AGGLOMERAZIONE INDUSTRIALE, la tendenza delle imprese a localizzarsi l’una vicina all’altra, e ciò determina massicci squilibri non solo nella distribuzione delle attività ma anche della ricchezza. 3Terzo modello riguarda invece la LOCALIZZAZIONE DEI SERVIZI DESTINATA AL CONSUMATORE E ALLE AREE DI MERCATO. L’AREA DI MERCATO deve avere innanzitutto una dimensione minima, delimitata da quella che CHRISTALLER definisce soglia, cioè un bacino sufficientemente grande da comportare ricavi superiori ai costi; ovviamente esiste anche una dimensione massima per cui i costi fissi sono talmente alti da non consentire profitti, definita da Christaller portata, cioè la distanza massima che i CONSUMATORI sono disposti a percorrere per godere di un determinato servizio. Nel caso dei servizi, i costi di trasporto si suppongono ovunque identici, perché sono i costi dello spostamento delle persone. A seconda della rarità o meno dei servizi i consumatori saranno più propensi a percorrere grosse distanze. In realtà, sappiamo che la popolazione non è uniformemente distribuita, e questo implica che nelle aree più centrali la distribuzione dei produttori sia più fitta; i costi di trasporto dunque non sono ovunque identici. I produttori inoltre diversificano i servizi offerti e ciò consente ai produttori di aumentare il numero di clienti. Ricordiamo poi che servizi diversi possono localizzarsi gli uni vicini agli altri formando agglomerazioni (polo commerciale). L’ovvia conclusione è che LO SPAZIO GEOGRAFICO È UN MERCATO DI CONCORRENZA IMPERFETTA. LA LOCALIZZAZIONE D’IMPRESA COME PROBLEMA MICRO-ECONOMICO AGGLOMERAZIONE, PROSSIMITÀ E ECONOMIE ESTERNE DI SCALA ~ Le attività economiche non si distribuiscono in maniera uniforme sul territorio; e questa tendenza delle imprese alla concentrazione può essere spiegata dai vantaggi microeconomici legati alla vicinanza reciproca. I risultati della concentrazione di attività economiche sono chiamati ECONOMIE DI AGGLOMERAZIONE. MARSHALL distingue: • ECONOMIE INTERNE DI SCALA ~ Come le imprese industriali, caratterizzate da maggiore intensità tecnologica, ed elevata specializzazione interna. Inoltre, le misure dell’impresa sono sufficientemente ampie da consentire in ogni settore una elevata specializzazione interna più efficiente e automatica. • ECONOMIE ESTERNE DI SCALA ~ Come le imprese artigianali, che non essendo sufficientemente grandi per specializzarsi in un unico settore, intessono con altre imprese una rete di relazioni dirette e indirette, possibili in particolari aree. La specializzazione è dunque esterna: una divisione sociale del lavoro tra tante imprese autonome che partecipano allo stesso processo produttive, rimanendo individualmente di piccole dimensioni ma potendo risultare anche più efficienti rispetto alla grande impresa isolata. Dipendono quindi non dalla loro dimensione ma dal luogo dove si localizzano. Le ECONOMIE DI LOCALIZZAZIONE di cui parlava Marshall sono: 1. Bacino di lavoro specializzato (minori costi di ricerca, assunzione, formazione lavoratori) 2. Imprese specializzate nella fornitura di specifici prodotti/servizi adatti alle esigenze della localizzazione 3. Sviluppo di interdipendenze 4. Atmosfera industriale Diverso dal caso delle economie di localizzazione è quello delle ECONOMIE DI URBANIZZAZIONE (associate alla mera densità urbana), che godono del solo fatto di essere localizzate in un luogo denso di imprese, infrastrutture, attività e informazioni. Le grandi città hanno “effetti di sinergia” connettiva con l’esterno che facilita le relazioni con le altre aree metropolitane e lo sviluppo su lunghe distanze. Questi effetti di sinergia spiegano le enormi capacità competitive delle grandi città. ECONOMIE ESTERNE, URBANIZZAZIONE E SPECIALIZZAZIONE REGIONALE I benefici connessi alla prossimità di imprese simili o collegate (economie di localizzazione) vengono definiti “ESTERNALITÀ ALLA MARSHALL; tali economie aiutano a comprendere il fenomeno della specializzazione regionale 17 LA NUOVA GEOGRAFIA ECONOMICA DEGLI SQUILIBRI Secondo KRUGMAN, protagonista della nuova geografia economica, la geografia economica non si è mai integrata con la teoria economica per problemi tecnici: l’incapacità di fornire una spiegazione formalizzata del funzionamento dei meccanismi di agglomerazione spaziale. DESCRIZIONE DI KRUGMAN DEI MECCANISMI DI AGGLOMERAZIONE SPAZIALE ~ Il modello centro/periferia di Krugman è semplicistico: si assume l’esistenza di due settori, le produzioni agricole, che agiscono in un mercato di concorrenza perfetta con prodotti perfettamente omogenei, assenza di profitti e immobilità dei fattori di produzione; le produzioni industriali, che agiscono in un mercato di concorrenza monopolistica e i beni prodotti non sono identici. Vi sono inoltre due sole regioni. Nel settore agricolo i produttori servono il proprio mercato locale. I costi del trasporto sono nulli. Nel settore industriale c’è invece un commercio tra le due regioni, vi è un costo di trasporto e i fattori di produzione e i lavoratori sono mobili. Le situazioni di concorrenza monopolistica consentono la formazione di sovrapprofitti nel breve periodo e nel lungo si trasformano in aumenti dei livelli dei salari. Si avrà un processo di agglomerazione cumulativo e tendente all’infinito finché non si ha una nuova situazione di equilibrio. La nuova geografia economica dunque è limitata nella sua capacità di descrivere i processi di agglomerazione e di sviluppo regionale in un’epoca di globalizzazione. 6 SVILUPPO LOCALE, CLUSTER E SISTEMI REGIONALI DI INNOVAZIONE LA TRANSIZIONE POST-FORDISTA LA CRISI DELL’INDUSTRIA FORDISTA FORDISMO-TAYLORISMO ~ Per migliorare l’efficienza produttiva e produrre la massima quantità al minimo costo, l’organizzazione delle fabbriche doveva consentire di semplificare e velocizzare al massimo qualsiasi operazione lavorativa con la meccanizzazione del ciclo produttivo e la specializzazione dei lavoratori. Ovvero con la catena di montaggio, in cui ogni lavoratore si specializza nell’esecuzione di un numero limitato di operazioni che può svolgere rapidamente. L’individuo doveva essere istruito e disciplinato al lavoro in fabbrica e doveva essere lui stesso consumatore dei prodotti che produceva. Insieme alla figura dell’operaio (alienato) nasce quella del consumatore e il consumo di massa di beni a costo contenuto e prodotti in serie. È necessario considerare lo sviluppo del modello fordista di organizzazione della produzione (regime di accumulazione industriale) parallelamente all’affermazione dello Stato nel benessere (Welfare State) di stampo keynesiano (modo di regolazione della società) che, attraverso l’intervento pubblico, consente di superare le periodiche crisi di sovrapproduzione del capitalismo e curare le sue degenerazioni. TRANSIZIONE POST-FORDISTA E SPECIALIZZAZIONE FLESSIBILE Le imprese fordiste avevano un’organizzazione estremamente rigida; rigidità diventata sempre più problematica. A partire dagli anni Sessanta infatti il mercato dei beni tradizionali divenne sempre più saturo; i modelli di consumo riguardarono beni sempre più non necessari e i beni precedentemente prodotti in serie dovevano essere diversificati per individuare nuove nicchie di mercato e accontentare una domanda instabile. Le crisi del 73-79 comportarono l’aumento del prezzo del petrolio e di tutte le materie prime, contribuendo ad ampliare i problemi strutturali dell’industria fordista. 20 Mentre l’impresa fordista si caratterizza per un’elevata integrazione verticale all’interno della propria filiera produttiva, ottenuto con un controllo diretto di tutte le attività che trasformano materie prime in prodotto finito e con l’internalizzazione del ciclo produttivo all’interno di enormi stabilimenti, la SPECIALIZZAZIONE FLESSIBILE comporta la disintegrazione verticale della produzione attraverso il ricorso a forme di esternalizzazione e decentramento produttivo. L’imperativo è ridurre i costi ma anche l’incertezza e aumentare la flessibilità e l’adattabilità del sistema produttivo a un contesto tecnologico e di mercato che cambia rapidamente. Così, le fasi della produzione che non sono strettamente funzionali alla competitività dell’azienda vengono esternalizzate verso imprese fornitrici di piccole dimensioni, in concorrenza fra loro e maggiormente specializzate. La produzione in rete riduce il rischio di spiazzamento tecnologico e lo ripartisce tra più imprese; e il decentramento contribuisce alla collettivizzazione del rischio di impresa all’interno di complesse catene di produzione, rendendo ogni singolo elemento interdipendente ma consentendo al sistema di essere più adattabile alle fluttuazioni tecnologiche e di mercato. Attraverso forme lavorative flessibili si collettivizza il rischio di impresa presso i lavoratori. Inizia l’epoca delle GRANDI CORPORAZIONI TRANSNAZIONALI, grandi imprese globali e reti di produzione disperse; ed emergono sistemi locali di imprese organizzati secondo il modello dei CLUSTER o del DISTRETTO INDUSTRIALE, imprese medio piccole, autonome, localizzate in prossimità e che partecipano allo stesso processo produttivo, specializzandosi ciascuna in un particolare componente della produzione. I SISTEMI LOCALI DI PRODUZIONE Il DISTRETTO INDUSTRIALE (tipico del post-fordismo e della specializzazione flessibile) è un sistema di produzione locale composto da un numero elevato di imprese piccole e indipendenti che, attraverso uno stretto coordinamento e una forte integrazione, ottengono, a livello di territorio, la stessa efficienza di una grande impresa integrata unitamente ai vantaggi della specializzazione e della flessibilità. In Italia, questi distretti industriali sono particolarmente diffusi, in particolare per l’industria leggera. I distretti coinvolgono una serie di unità produttive specializzate di piccole dimensioni, collegate a un più vasto insieme di fornitori, inclusi singoli lavoratori autonomi e a domicilio. In questi settori la produzione si basa su tecnologie standardizzate e facilmente reperibili che non favoriscono la formazione di barriere all’entrata. Settori, quindi, con basso margine di profitto; e nei quali la domanda è variabile. Le imprese locali realizzano anche molte economie esterne, scambiandosi informazioni, lavoratori e favori. Così, grazie agli stretti legami tra imprese, i vantaggi dell’innovazione tenderanno a ridistribuirsi presso tutte le imprese del distretto. La POPOLAZIONE DI IMPRESE nei distretti è caratterizzata da una densa rete di relazioni input-output tra aziende piccole e autonome. I vantaggi, oltre alla riduzione dei costi del trasporto, sono connessi a tutto il complesso delle economie di localizzazione. L’elevata specializzazione finisce per caratterizzare l’area e influisce sul senso di appartenenza dei suoi abitanti. Le relazioni sono stabili e affidabili e poco formalizzate per accrescere la flessibilità del sistema e la circolazione delle conoscenze. Sistemi produttivi simili si incontrano in regioni italiane nel centro-nord-est, definito Terza Italia [Bagnasco]. NUOVI SPAZI INDUSTRIALI E CLUSTER Un caso molto discusso e imitato è il MODELLO GIAPPONESE, una configurazione intermedia tra la produzione di massa e la produzione flessibile che utilizza innovazioni organizzative fondamentali, come il just in time, che prevede una produzione successiva alla domanda. Ciò richiede ordini frequenti e di più ridotte dimensioni, con fornitori e committenti interessati a localizzarsi gli uni vicini agli altri creando dense concentrazioni di imprese collegate in specifiche regioni. Secondo la TEORIA DEL VANTAGGIO COMPETITIVO di Porter, le imprese competitive nei loro rispettivi settori si concentrano in particolari regioni che ospitano cluster specializzati, ossia concentrazioni di imprese simili, interconnesse, con fornitori di beni e servizi specializzati, oltre a istituzioni, università, centri di ricerca, e collegati in rete. Ciò accresce la competizione tra le imprese ma allo stesso tempo facilita la loro collaborazione implicita o esplicita. Competizione e collaborazione sono fondamentali per sostenere la competitività delle imprese la cui localizzazione risulta determinante. Il concetto di vantaggio competitivo si contrappone a quello di vantaggio comparato.La categoria dei cluster include anche sistemi di imprese organizzati attorno a imprese leader di maggiore dimensione, come nel caso giapponese, con una rete di fornitori molto vasta, gestita da relazioni gerarchiche. 21 Esiste un terzo modello oltre al distretto marshalliano e ai cluster: l’AGGLOMERATO INDUSTRIALE o PIATTAFORMA SATELLITE’ (con filiali di imprese esterne) dove le imprese fanno parte di sistemi produttivi sovraregionali. Non essendo di proprietà locale le imprese sono libere nella scelta localizzativa e molto meno radicate nel contesto. I distretti industriali sono invece dei luoghi appiccicosi. LOGICA E SPAZIALITÀ DEI SISTEMI PRODUTTIVI A RETE: I COSTI DI TRANSAZIONE La diversità dei modelli organizzativi possibili può essere ricondotta al diverso peso che hanno le economie interne ed esterne per le singole imprese e in relazione a ciascuna tipologia di prodotto. Le ECONOMIE DI SCALA determinano la convenienza dell’accrescere la dimensione delle imprese e degli impianti. Le ECONOMIE DI SCOPO incidono invece sulla convenienza a svolgere in ogni stabilimento produttivo soltanto una specifica produzione. I SISTEMI INPUT-OUTPUT possono essere suddivisi in quattro categorie: 1. Piccole imprese isolate 2. Reti di produzione di piccole e medie imprese 3. Grandi imprese integrate fordiste 4. Reti di produzione coordinate da grandi imprese I cui criteri distintivi sono: • Il livello di autonomia organizzativa delle singole componenti o unità produttive • La produzione più o meno dispersa PER QUALE MOTIVO LE IMPRESE PREFERISCONO IL FARE RISPETTO AL COMPRARE? Comprare può essere conveniente dal punto di vista economico ma sottintende degli oneri, cioè i COSTI DI TRANSAZIONE. Le transazioni di mercato implicano un livello di incertezza maggiori rispetto a quelle interne alla struttura gerarchica controllata dall’impresa. Se l’impresa ha bisogno di una componente specifica o altamente tecnologica, sarà portata a produrla al proprio interno: in primis perché non esistono fornitori, inoltre perché per un eventuale fornitore sarebbe complesso trasferire le informazioni e il vantaggio competitivo verrebbe compromesso se queste venissero divulgate. I sistemi di specializzazione flessibile, cluster e distretti marshalliani sono antitetici rispetto a un sistema produttivo gerarchico e favoriscono contatti e comunicazioni tra imprese. SVILUPPO REGIONALE, ISTITUZIONI E CAPITALE SOCIALE Il ruolo delle ISTITUZIONI INTERMEDIE, come le associazioni, è importante nei distretti industriali marshalliani per pervenire forme di produzione collettiva di innovazioni e per superare i limiti connessi alle piccole dimensioni delle imprese del distretto. I servizi comuni di cui si avvalgono le piccole imprese e le risorse che non sono in grado di procurarsi autonomamente, sono procurati dalle istituzioni collettive che colmano il vuoto tra pubblico e privato con una ECONOMIA ASSOCIATIVA. Accanto alle ISTITUZIONI FORMALI troviamo anche le ISTITUZIONI INFORMALI o morbide, caratterizzate da convenzioni, norme scritte e non, esplicite e non che regolano le relazioni all’interno del sistema sociale. Le istituzioni sono quei dispositivi sociali, culturali e collettivi che vincolano e facilitano l’interazione economica e includono regole esplicite e implicite. Il CAPITALE SOCIALE in questo senso è la complessa rete di relazioni interpersonali che consentono la realizzazione sociale e economica dei singoli individui. Ha inoltre una dimensione collettiva e contestuale con sistemi di regole scritte e non scritte; e ha infine una dimensione organizzativa. Questo può essere misurato in base a indicatori quali la partecipazione alla vita collettiva, l’adesione ad associazioni collettive, il grado di fiducia reciproca, il senso di appartenenza. Il capitale sociale ha caratteristiche positive ma anche negative: può sia favorire che sfavorire la mobilità sociale e l’agire socialmente utile; cioè può funzionare come ponte o come vincolo. 22 7 RETI ECONOMICHE TRANSNAZIONALI E GOVERNANCE GLOBALE LE IMPRESE TRANSNAZIONALI Il termine GLOBALIZZAZIONE (in uso dalla metà degli anni ’80) comprende un fenomeno multidimensionale che implica cambiamenti di tipo tecnologico, economico, politico, produttivo. Un ruolo fondamentale è svolto dall’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE, che può essere di tre tipologie: 1. INTERNAZIONALIZZAZIONE COMMERCIALE, che consiste in attività di esportazione e importazione 2. INTERNAZIONALIZZAZIONE FINANZIARIA, che consiste nella realizzazione di investimenti finanziari all’estero 3. INTERNAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA; anch’essa caratterizzata da investimenti all’estero, si realizza attraverso investimenti diretti e, al contrario della precedente, si presuppone da parte degli investitori il controllo diretto di attività produttive all’estero La MULTINAZIONALE, secondo le teorie economiche, deve avere un vantaggio specifico di qualche tipo, che i concorrenti locali non hanno e che non è conveniente o possibile trasferire ad altre imprese. Per questo motivo le multinazionali non si distribuiscono uniformemente tra tutti i settori produttivi ma privilegiano quelli ad alto contenuto di innovazione, le produzioni di marca e tutte le attività dove è probabile la formazione di vantaggi specifici. Sono quindi imprese molto grandi, soggetti leader nei rispettivi settori che agiscono in mercati oligopolistici con barriere all’entrata e che hanno impatti molto rilevanti sulle economie delle regioni di destinazione. In altri casi è la destinazione ad avere vantaggi specifici cui l’impresa estera vuole accedere. La maggior parte degli investimenti all’estero, tuttavia, sono guidati dal mercato. Mentre le multinazionali di prima generazione risalgono al periodo coloniale, le MULTINAZIONALI DI SECONDA GENERAZIONE sono quelle che effettuano investimenti diretti orizzontali, replicando all’estero le stesse unità produttive presenti nel paese d’origine. Le località di destinazione della maggior parte degli investimenti all’estero non sono paesi arretrati ma ampi e possibilmente ricchi e in crescita, con mercati attrattivi. La diffusione di investimenti verticali che richiedono la scomposizione del ciclo produttivo e in differenti fasi e unità produttive che possono essere localizzate ciascuna in un paese diverso, sono invece ad opera delle IMPRESE DI QUARTA GENERAZIONE che richiedono tre condizioni principali: la diffusione di modalità post fordiste che consentono di scomporre il ciclo produttivo, miglioramenti dei trasporti che abbassano i costi di trasporto e della comunicazione, riduzione delle barriere tariffarie che limitano importazioni e esportazioni. I MODELLI ORGANIZZATIVI DELLE MULTINAZIONALI Le SCELTE LOCALIZZATIVE DELLE MULTINAZIONALI sono fortemente influenzate da variabili fondamentali: da una parte l’ampiezza del mercato estero nel quale si localizzano, dall’altra la prossimità (relazionale) tra luogo d’origine e di destinazione dell’investimento. Ne risultano flussi d’investimento diretto all’estero che, in primo luogo, riguardano in misura preponderante paesi ricchi e, in secondo luogo, rimangono relativamente contenuti all’interno di spazi macro- regionali più o meno integrati. La stabilità politica è essenziale, così come l’atteggiamento del paese straniero, e anche eventuali affinità linguistiche, istituzionali e culturali (sono fattori di attrazione). L’impresa ha bisogno di ridurre l’incertezza quindi privilegia localizzazioni sicure perché già sperimentate. L’investimento estero implica la maggior parte delle volte l’acquisizione di un’impresa straniera o la fusione tra imprese di differenti paesi. La natura dell’investimento e il suo impatto economico e territoriale sarà molto diverso: la creazione ex novo di un’unità di produzione, detto INVESTIMENTO GREENFIELD, determina la creazione di un nuovo reddito e di nuova occupazione. L’acquisto di un’impresa esistente, detto INVESTIMENTO BROWNFIELD, si associa alla riconversione 25 del sito produttivo con conseguenti ristrutturazioni e licenziamenti. A volte, nelle imprese globali, la regione o il paese d’origine perde qualsiasi rilevanza. Ad oggi, le multinazionali contribuiscono al 75% del commercio mondiale di prodotti. LE RETI TRANSNAZIONALI DI PRODUZIONE Una CATENA DI PRODOTTO può essere definita come una rete di processi produttivi e lavorativi il cui risultato finale è il prodotto finito. Lo studio delle cosiddette GLOBAL COMMODITY CHAIN (anche dette catene globali di valore o reti globali di produzione) sottolinea la crescente frammentazione del ciclo produttivo della gran parte dei beni industriali tra una pluralità di paesi diversi, che si specializzano nella fornitura di particolari componenti e nello svolgimento di un ruolo ben definito. Si distinguono due categorie prevalenti: 1. CATENE GUIDATE DAL PRODUTTORE ~ I beni prodotti sono ad alto contenuto tecnologico, richiedono quindi una continua innovazione di prodotto e processo. Le catene guidate dal produttore sono sistemi dominati da poche grandi imprese transnazionali, come le industrie pesanti o altamente tecnologiche. Le grandi imprese esternalizzeranno solo componenti limitate del processo produttivo, in particolare le fasi standardizzate e a più alta intensità di lavoro; le reti di produzione saranno altamente concentrate e la modalità per acquisire potere di mercato avviene INTRODUCENDO SEMPRE NUOVE INNOVAZIONI DI PRODOTTO E PROCESSO (capacità di controllare il processo innovativo). 2. CATENE GUIDATE DAL CONSUMATORE ~ Riguardano settori suscettibili alla domanda del consumatore, come l’abbigliamento o l’industria di giocattoli. La tecnologia in questo caso è standardizzata, conta soprattutto la reputazione del marchio, il design e la distribuzione commerciale. La produzione vera e propria avviene in mercati concorrenziali con scarse barriere all’entrata e basse economie di scala; le imprese leader perseguono un esteso decentramento produttivo e hanno relazioni di lunga distanza con una vasta gamma di subfornitori. La produzione è eterarchica ma le imprese leader svolgono un ruolo di coordinamento; la modalità per acquisire potere di mercato avviene attraverso la REPUTAZIONE E LA RICONOSCIBILITÀ DEL MARCHIO (capacità di controllare il mercato di consumo). LA GOVERNANCE DELLE RETI TRANSNAZIONALI DI PRODUZIONE Le CATENE DI PRODOTTO sono costituite da quattro elementi principali: 1. Una struttura di relazioni input-output 2. Una specifica spazialità 3. Un contesto istituzionale 4. Un sistema di governance e coordinamento Nel caso delle CATENE GUIDATE DAL CONSUMATORE il potere delle imprese leader deriva dal controllo delle fasi di commercializzazione finale e agisce attraverso la riconoscibilità del marchio oppure attraverso il controllo diretto delle reti di distribuzione commerciale. Pur non controllando gerarchicamente la produzione, il potere delle imprese di distribuzione e commercializzazione è enorme, mentre le imprese fornitrici sono deboli e vulnerabili. CATENE DI PRODUZIONE DI TIPO CAPTIVE ~ Fornitori di piccola dimensione sono subordinati ad acquirenti molto più grandi con una elevata capacità di controllo e coordinamento. La relazione dovrà essere stabile e esclusiva, consentendo di catturare il fornitore. Il fornitore si trova in una posizione di subordinazione rispetto al cliente. CATENE DEL PRODOTTO MODULARI ~ Esistono invece casi in cui per l’impresa sarà conveniente ricorrere a esternalizzazioni presso altre imprese molto più ampie. Le forniture esterne possono includere anche componenti non standardizzate per le quali è il fornitore a possedere competenze specifiche. Il problema del trasferimento delle conoscenze specifiche è risolto in questi casi per il fatto che le forniture riguardano intere componenti o moduli del bene finale che contengono quindi al loro interno tutte le informazioni non codificabili per la produzione (esempio Apple). 26 CATENE DEL PRODOTTO GERARCHICHE ~ In questo caso l’unica alternativa è internazionalizzare la produzione all’interno dell’impresa CATENE DI PRODOTTO DI MERCATO ~ Qui le relazioni sono episodiche o caratterizzate da frequenti cambiamenti di fornitori e partner, le informazioni sono facilmente codificabili e le forniture semplici e disponibili. Le relazioni tra imprese possono quindi essere di tipo gerarchico ma anche orizzontali e simmetriche, possono essere facilitate dalla prossimità ma avvenire anche a lunga distanza. Tre variabili risultano cruciali: la complessità delle informazioni e conoscenze richieste nella transazione, la capacità di codificare tali informazioni e conoscenze, le competenze possedute dalle altre imprese e quindi la disponibilità di fornitori. L’INDUSTRIALIZZAZIONE DEL SUD GLOBALE Ci sono zone chiamate ZONE ECONOMICHE SPECIALI o FREE TRADE ZONE, con una concentrazione degli impianti delle imprese che serve per attirare investimenti esteri. Questo processo di liberalizzazione deve essere limitato a territori circoscritti, all’interno dei quali vengono predisposti incentivi di vario tipo per promuovere la localizzazione di imprese esportatrici. Le zone economiche speciali si trovano spesso lungo le coste o presso le frontiere, che possono facilitare i rapporti con l’esterno. L’auspicio è che si creino degli UPGRADING, nella forma di miglioramento della propria posizione all’interno della catena di prodotto. Le relazioni verticali si possono trasformare in relazioni orizzontali e sono quindi fondamentali elementi di crescita organizzativa per le imprese coinvolte, si può dunque individuarle come veicoli per lo sviluppo delle regioni di destinazione. Il grado di integrazione delle imprese estere con il sistema locale dipende anche dalla prossimità relazionale. In certi casi invece sono proprio le differenze a favorire forme di upgrading. Le imprese locali possono sviluppare conoscenze specifiche che le imprese acquirenti non hanno. Un vantaggio importante è che le imprese locali fornitrici possono avere nei confronti dei concorrenti rapidità di consegne e la capacità di rispondere prontamente alle richieste sempre diverse, grazie alla capacità di rivolgersi a un tessuto polverizzato e molto vasto di piccole imprese. Le imprese fornitrici sono autonome ma spesso vengono coordinate da grandi imprese di sourcing. IL PROBLEMA DELLA GOVERNANCE GLOBALE Nella globalizzazione le istituzioni politiche hanno un ruolo fondamentale, in particolare alcune ORGANIZZAZIONI POLITICHE INTERNAZIONALI, all’interno delle quali gli stati hanno un peso dominante e hanno favorito l’adozione di POLITICHE DI LIBERALIZZAZIONE. Molte di queste sono nate nel periodo postbellico, durante la CONFERENZA DI BRETTON WOODS, promossa dagli USA per evitare il protezionismo economico e favorire il libero commercio e movimento di capitali. Qui nacquero: • IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE (FMI) Fu istituito per regolare i rapporti fra le valute attraverso un sistema di cambi fissi. La ridefinizione fece sì che oggi il FMI si occupi di concedere prestiti a lungo termine agli stati membri in casi di squilibrio della bilancia dei pagamenti. Più in generale gli scopi si riferiscono: 1. Alla promozione della cooperazione monetaria internazionale e della stabilità dei rapporti di cambio 2. All’espansione del commercio internazionale 3. Alla riduzione degli squilibri nella bilancia dei pagamenti Il FMI ha sede a Washington, è costituito dal consiglio dei governatori, e le sue funzioni sono delegate al consiglio esecutivo, presieduto dal direttore operativo (Christine Lagarde). Per il suo funzionamento il FMI usa il capitale messo a disposizione dai paesi membri, e il potere di voto è ponderato a seconda della quota detenuta. Il suo ruolo più noto si riferisce alla ristrutturazione del debito estero dei paesi del Sud, ossia al suo finanziamento e alla creazione di piani di aggiustamento strutturale. Per valutare l’indebitamento si osserva il rapporto tra debito e PIL. • LA BANCA MONDIALE (BM) A partire dagli anni Sessanta il suo ambito di intervento si è spostato nei paesi del Sud, finanziando specifici progetti ritenuti utili per lo sviluppo. I fondi provengono da emissioni obbligazionarie che la Banca effettua sui mercati internazionali dei capitali. Negli anni Novanta la Banca è stata ampiamente criticata per gli scadenti risultati. Un 27 Si tratta di centri o autorità in cui si concentra il potere economico, politico, culturale mondiale. Non bisogna, comunque, pensare che queste città globali siano sempre caratterizzate da ricchezza o elevata qualità della vita. Sono, piuttosto, segnate dal paradosso della POLARIZZAZIONE SOCIALE: da un lato, manager, intellettuali, classe creativa; dall’altro crisi fiscali, povertà, segregazione. L’URBANIZZAZIONE NEL MONDO L’URBANIZZAZIONE non è un fenomeno solo tipico del Nord del mondo: molte tra le maggiori città del pianeta per popolazione si trovano nel SUD DEL MONDO. Il peso demografico di queste aree è notevole, se si pensa, ad esempio, a metropoli quali Mumbai, Città del Messico o San Paolo (alta percentuale di popolazione in poche gigantesche città). Anche qui, le megalopoli del Sud rappresentano RETI GLOBALI: spazi in cui si concentrano le maggiori possibilità di sviluppo, risorse ma anche divari economici e sociali. Dal punto di vista demografico, la gigantesca crescita urbana è dovuta all’attrazione di masse di poveri dalle campagne, con una conseguente crescita incontrollata e la creazione di quelle che sono le favelas, gli slum, le bidonville. Per esempio, circa il 40% degli abitanti di città del Messico vive al di sotto della soglia di povertà. Questo estremo dualismo sociale non è, tuttavia, una specificità del Sud; anche nei sobborghi delle città statunitensi esistono agglomerazioni di accampamenti, baraccopoli, e gated communities. CITTÀ E SOSTENIBILITÀ La città è il luogo in cui concretamente sperimentiamo la sostenibilità degli stili di vita. Per sostenibilità non si intende solo l’ambiente ma anche e soprattutto la ricerca di forme di sviluppo eque e bilanciate. Per il Nord questo significa protezione degli ecosistemi, per il Sud problemi ambientali come frane, smottamenti e inondazioni (rari altrove). La situazione si presenta decisamente più critica nelle città del Sud del mondo, soprattutto dove è più difficile affrontare la gestione di rifiuti urbani in maniera diretta. La ricerca di strumenti politici per il perseguimento di un’urbanizzazione sostenibile e in generale la pianificazione urbana si rivelano compiti complessi. COMPETIZIONE URBANA La rete urbana mondiale incarna l’essenza stessa della globalizzazione e le città possono essere pensate proprio come i NODI DELLA GLOBALIZZAZIONE. È evidente che una delle principali sfide delle città nello scenario mondiale è di natura CONNETTIVA, aspetto che apre la strada all’idea di una crescente COMPETIZIONE tra città; per esempio, nell’ambito delle politiche urbane la crescita economica è un elemento nel perseguire strategie di competitività. Le città concorrono tra loro per attrarre capitali e investimenti, per ospitare grandi eventi, per attrarre flussi di migranti desiderabili; per promuovere la città secondo modelli incentrati sulla VALORIZZAZIONE DELLA CITTÀ. Questa, avviene attraverso due prospettive: la capacità di relazionarsi con altri centri urbani e la promuovere un’immagine accattivante e vincente, attraverso operazioni di marketing o branding territoriale. Si tratta di autorappresentazioni ottimistiche, che spesso rivelano un profondo contenuto politico. Si costruiscono opere faraoniche, di alto valore simbolico, ma scarsamente legate alle esigenze della popolazione locale. Spesso infatti i governi hanno destinato le scarse risorse disponibili alla costruzione di opere apparentemente poco utili per la pop locale ma fortemente visibili a livello internazionale. RURALITÀ E SVILUPPO NON URBANO In molte arre del mondo, in particolare al Sud, le aree non urbane continuano a concentrare la maggior parte delle persone; addirittura tre quarti dei poveri del mondo si concentrano nelle aree rurali. Nella tradizione degli studi sullo sviluppo, la crescita del settore agricolo rappresentava semplicemente un passaggio necessario per accumulare capitale. L’idea che gli spazi agricoli possano occupare un ruolo di rilievo solamente nelle economie-premoderne nasce dall’osservazione dell’esperienza storica dei paesi del Nord del mondo. Tuttavia, oggi, anche nei paesi del Nord del mondo si sta ripensando in maniera molto radicale il rapporto con le pratiche agricole: vi è infatti una RISCOPERTA dell’importanza dello spazio rurale per lo sviluppo sostenibile, avvenuta parallelamente 30 all’introduzione del concetto di SOSTENIBILITÀ nel paradigma sullo SVILUPPO. Lo spazio rurale non deve essere però considerato come un mero contenitore di pratiche agricole; nei paesi del Sud per esempio accanto agli agricoltori si possono trovare altre pratiche legate al commercio, al giardinaggio, al turismo responsabile, a servizi di trasporto; cioè una MULTIFUNZIONALITÀ DEGLI SPAZI RURALI. Pertanto, limitare il discorso sugli spazi non urbani alle pratiche agricole e basta può risultare superficiale. STRUTTURE AGRARIE Sebbene le pratiche agricole non costituiscano l’unica attività socioeconomica degli spazi non urbani, l’agricoltura continua a rimanere una delle componenti più rilevanti. La STRUTTURA AGRARIA consiste in differenti modalità in cui terra e lavoro sono combinati in varie FORME DI PRODUZIONE. Esse sono estremamente mutevoli nel tempo e nello spazio e se ne possono individuare quattro principali: 1. STRUTTURE AGRICOLE DI SUSSISTENZA; caratterizzate da elevata intensità di lavoro manuale e scambi di mercato nulli o limitati. Un esempio è l'agricoltura familiare africana, nella quale l’attività è destinata al consumo diretto e si usano strumenti poco adeguati e poco efficienti. 2. STRUTTURE AGRICOLE COMMERCIALI; caratterizzata dall’adozione di tecniche colturali tese allo sfruttamento dei terreno in collegamento agli spazi urbani, prodotti destinati a mercati urbani e specializzazione crescente. 3. AGRICOLTURA SPECULATIVA DI PIANTAGIONE; spesso retaggio dello sfruttamento coloniale, è un’agricoltura votata all’esportazione, praticata lungo le coste e le vie navigabili interne. La proprietà agricola è concentrata nelle mani di imprese multinazionali, esempi sono i casi del caffè, tè e cacao. 4. AGRICOLTURA CAPITALISTICA DEI GRANDI SPAZI; come quella di piantagione, si differenzia tuttavia per via della locazione: regioni a clima temperato scarsamente abitate (pianure di USA e Canada, Australia Occidentale). Hanno carattere estensivo. APPROCCI ALLO SVILUPPO RURALE È importante perseguire una VISIONE INTEGRATA E TERRITORIALE DELLA REALTÀ AGRICOLA, cioè una concezione di spazio rurale multifunzionale, caratterizzato dalla sovrapposizione di agricoltura, industria, attività commerciali e ricreative. Nel rurale devono intrecciarsi dunque ambiente naturale, attività produttive, attività turistiche e tradizioni culturali; il suo sviluppo può essere promosso attraverso una pluralità di forme, che puntano non solo all’aumento della produttività agricola ma anche ad aspetti legati ai servizi sanitari, all’educazione, ai trasporti. Rientrano in quest’ambito progetti di sviluppo rurale non agricolo, come la promozione di produzioni tessili e artigianali, finanziate spesso dal microcredito. 31