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Gestire il disagio a scuola, Dispense di Pedagogia

Riassunto completo del libro gestire il disagio a scuola

Tipologia: Dispense

2023/2024

Caricato il 26/01/2024

Maria_Elena_Oddo
Maria_Elena_Oddo 🇮🇹

4.6

(15)

26 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Gestire il disagio a scuola e più Dispense in PDF di Pedagogia solo su Docsity! 1 GESTIRE IL DISAGIO A SCUOLA INTRODUZIONE È fondamentale individuare le relazioni e le dinamiche distruttive in ambiti educativi. Le ricerche condotte in ambito clinico e educativo documentano l’inefficacia dei comuni interventi educativi, evidenziando la necessità di cogliere il disagio alla radice. Spesso il disagio è collegato all’assenza di valori, di validi modelli genitoriali e educativi, alla riduzione dell’autorità paterna e alla sua carente presenza. Nonostante questo sia inconfutabile, bisogna estendere il campo di studio. Con i minori a disagio, gli operatori delle comunità tendono a sfruttare eccessivamente la sensibilità che, in certi casi, risulta paradossale. Si rischia di voler modificare il comportamento esteriore rifacendosi ai principi cari al comportamentismo (rinforzo negativo e positivo). Inoltre, sorprende come molte guide educative parlino di “insegnamento delle regole”, come se i bambini non le trasgredissero ma semplicemente non le conoscessero. Il disagio è qualcosa di più complesso della occasionale frustrazione dei bisogni, e viene alimentato dalla difficoltà cronica, percepita e vissuta dal bambino, di non poter soddisfare i propri bisogni. È l’esito del senso di fallimento derivante dall’aver ripetutamente preso atto che i mezzi e gli strumenti di cui si dispone non sono adeguati di fronte alle situazioni e per trovare un adattamento inteso come integrazione. CAPITOLO 1: IL DISAGIO NEI CONTESTI EDUCATIVI Il termine “disagio” si è affermato alla fine degli anni ’70, come chiave di lettura delle categorie «forti» di devianza e marginalità allora dominanti. Il concetto, povero di contenuti, esprime la perdita di rilevanza delle problematiche giovanili e la consapevolezza del fallimento del disegno sociale e politico, proprio delle generazioni del ’68 e post. Durante il fallimento delle varie devianze, il disagio viene favorito perché è meno connotato ideologicamente e applicabile a più individui. Dall’esame della letteratura psicopedagogica e psicosociologica sul disagio si constata che la maggior parte dei contributi si focalizza sulla fascia giovanile e in pochi casi su quelle adolescenziali e preadolescenziali. Pochi sono gli studi riguardo il disagio giovanile, una grave carenza. Se da una parte ha senso riferirsi ai modelli evolutivi che suddividono lo sviluppo in più fasi, dall’altra parte molti disagi sono «trasversali» ed altri, individuabili in età giovanile, scaturiscono da percorsi avviati molti anni prima e gettano le radici in momenti antecedenti. Molti disagi, infatti, che si manifestano dall’entrata nel mondo della scuola dell’infanzia accompagnano i soggetti fino all’età adulta, con differenze notevoli e assai gravi. 1. Definizioni di disagio Il disagio è inteso come un’esperienza soggettiva e personale da cui possono derivare dei segni osservabili e rilevabili dall’osservatore e dall’interlocutore. L’etimologia è formata da «dis» che indica negazione e «agio» che significa «giacere presso». Quindi, il disagio designa coloro che vivono ai margini, esclusi dal contesto sociale, lontani dagli altri e da sé stessi. Nei dizionari di area sociologica, psicologica e pedagogica, il termine è usato come sinonimo di disadattamento e di devianza, e nelle scienze psicologiche indica uno stato soggettivo e generico di sofferenza psichica. 2 Nella letteratura psicopedagogica italiana il disagio è: • Sintomo dell’incapacità e impossibilità del soggetto di trovare delle soluzioni rispetto alla contraddizione esistente tra la centralità soggettiva (l’io) e la marginalità oggettiva (società). • Incapacità di sostenere il peso della precarietà, della flessibilità ed eccessiva aleatorietà della società. • Sintomo di una domanda non patologica dei problemi psicologici e affettivi, delle difficoltà familiari e relazionali, delle difficoltà scolastiche. • Difficoltà di adempiere ai compiti dati dalla società per conseguire l’identità e le abilità necessarie nelle relazioni quotidiane. • Difficoltà a gestire la complessità e a fronteggiare le contraddizioni legate alla socializzazione e maturazione verso l’età adulta. La parola disagio si riconduce ad una base oggettiva che si identifica con l’ammontare delle inadempienze, dei rinvii, degli inganni di cui i giovani sono stato oggetto negli ultimi anni. Le definizioni precedenti sembrano privilegiare un approccio descrittivo più che interpretativo. Gli studiosi si mostrano cauti nel dare una definizione che sia provvisoria; addirittura, il rischio di parzialità e di riduzionismo probabilmente è all’origine della scelta di non inserire il termine in molti dizionari. Un’altra tendenza è quella di usare il concetto di disagio come se avesse un significato interscambiabile per far riferimento ad altri fenomeni come il disadattamento o la frustrazione. Quindi, il disagio è un termine «ombrello» usato per indicare una condizione esistenziale di incertezza e precarietà, poco compresa. La diffusione del termine deriva dalla necessità di annullare le stigmatizzazioni di quei comportamenti non interpretabili come patologici o devianti, cronicizzati e strutturati, ma che sono solo il risultato di un’incompleta integrazione. Le definizioni offerte danno alcuni elementi chiave: il disagio indica comportamenti e atteggiamenti non patologici, indica un malessere diffuso strettamente legato a difficoltà e problemi derivanti dai compiti evolutivi, dalle contraddizioni e dalla complessità relativa alla relazione individuo-società complessa. Le situazioni di rischio sono quelle in cui vengono negate, frustrate o mortificate le opportunità di soddisfazione dei bisogni fondamentali della persona. 2. Caratterizzazioni e forme Il termine «disagio», nelle analisi sociologiche, nel linguaggio dei mass-media, nell'esperienza di lavoro degli operatori sociali, assume significati diluiti, una valenza descrittiva più che interpretativa, tanto da poter indicare una vasta gamma di vissuti problematici diversificati che sono accomunati dal malessere. 5 È necessario superare l’analfabetismo educativo! La pedagogia speciale, la cui prerogativa fondamentale è quella di cogliere il problema e interpretarlo, ci avverte di questi rischi. 3. Supposizioni e proposte interpretative La singola causa non è riconducibile al disagio: si possono individuare cause diverse ed una stessa causa può determinare effetti differenti e non sempre prevedibili, poiché i fattori correlati sono molteplici e talvolta aspecifici e ignoti. Lo studio usufruisce di modelli multifattoriali – sistematici, fondati su approcci causali di tipo statistico – probabilistico, anziché lineari e deterministico. 3.1 Premesse, antecedenti e luoghi del disagio È necessario seguire la storia del soggetto per individuare problematiche ricorrenti e incidenti a livello di ambienti di vita e di relazione (es. in famiglia, a scuola ecc.). Inoltre, si considerano quelle situazioni viste come vere premesse del disagio: limiti psicofisici, socioeconomici. Ruolo delle difficoltà e degli svantaggi Il disagio obiettivo è caratterizzato da svantaggi in vari ambiti della vita: si parla di handicap, deficit e menomazioni che gravano sulla salute del soggetto. Anche se la nostra legislazione sull’handicap risulta qualificata, nella pratica, le resistenze e i pregiudizi attivano nei soggetti cosiddetti «normali» processi di esclusione e discriminazione. Il disagio si fa risalire anche alla condizione socioeconomica e culturale, del soggetto e della famiglia d’appartenenza: la marginalità sociale e la povertà. Quindi, le dimensioni da cui deriva il disagio sono: appartenenza di classe sociale, collocazione nel sistema produttivo, livello di consumo e stili di vita, opportunità di istruzione e di accesso ai servizi, capacità di resistere all’emarginazione. Incidenti nella carriera scolastica La scuola ha un alto tasso di problematicità, quali l’irregolarità, l’abbandono precoce o anticipatario, che sfociano nel disagio, del quale si distinguono tre forme: • La selezione palese coinvolge coloro ai quali si preclude il passaggio alla classe successiva, mediante la bocciatura. • La selezione occulta è il contrario, quindi non c’è alcuna preclusione, ma la scuola non badando alle difficoltà induce gli allievi ad incontrare ostacoli che possono fare cadere nella selezione palese. È perciò intesa come selezione differita e indiretta, perché l’istituto non boccia direttamente, ma nemmeno aiuta l’alunno. • L’abbandono scolastico è il ritiro dalla scuola da parte dell’allievo. Sottolineiamo che tali fenomeni sono accompagnati dalla difficoltà relazionale tra alunno e scuola, e si manifestano prevalentemente nel passaggio tra la scuola secondaria di primo grado e la seconda di secondo grado. Fenomeno come il drop out, l’insuccesso scolastico, il disadattamento… sono di complessa interpretazione: gli educatori sono carenti nella cognizione articolata e analitica delle funzioni, delle 6 dinamiche di scarso rendimento. Quindi, la scuola ha bisogno di attrezzi adeguati alle necessità degli alunni, che rischiano spesso di venire ulteriormente frustrati dal confronto con i soggetti fortunati. Le reazioni vanno dal più passivo e accondiscendente conformismo alla massa alla più manifesta opposizione alle attese della scuola e degli adulti, che può sfociare in carriere devianti e delinquenziali. I docenti devono cogliere ogni sintomo, esplicito e implicito, anche riguardo alle sconfitte nella classe «implicita», «segreta», fatta di drammi affettivi ed esclusioni dal gruppo classe. Bisogna intervenire per evitare che l’alunno, pur di essere accettato, diventi il buffone della classe, il terribile, scocciante e noioso eroe negativo. Quando le agenzie negative falliscono nell’accogliere il disagio del soggetto, alcuni si rivolgono alla strada, l’ultima spiaggia, luogo a cui ci si rivolge per avere risposta al proprio disagio, luogo meno esigente della scuola o della famiglia, in cui non vigono leggi o regole. Le frustrazioni nella vita di relazione Molti antecedenti del disagio originano da difficoltà relazionali: a livello familiare (conflitti persistenti, separazioni, divorzi), famiglie incomplete o in cui i genitori sono assenti, abbandono, abuso, trascuratezze fisiche e affettive e danno ai minori. Gli psicologi hanno dimostrato come le diverse forme di rifiuto e il sentimento di abbandono, che si manifestano in gravi forme di disadattamento, possono sfociare in: suicidio, fughe, alcool, esplosioni improvvise di violenza immotivata e gratuita. 3.2 Il disagio fra disadattamento e iperadattamento I soggetti portatori del disagio sintomatico sommerso sono caratterizzati dalla difficoltà di integrazione, a causa delle competenze richieste dalla società, avviando così percorsi che conducono al disagio. Il disagio nasce dalla carenza nella capacità adattativa alle logiche e ai criteri che caratterizzano i vari sottosistemi. Le dinamiche sono state approfondite nella psicopedagogia, i cui studi vanno dal deficit del soggetto ai processi transazionali tra l'individuo e le strutture sociali. Dagli anni ‘50 ad oggi si è passati a diversi approcci, riassumibili con le seguenti formule: • C = f (P) −> il comportamento in funzione della personalità. • C = f (P × A) −> il comportamento in funzione dell'interazione tra personalità e ambiente. Piaget (biologo ed epistemologo) intende l'adattamento come equilibrio dinamico tra assimilazione ed accomodamento: applicando il modello all'interazione individuo – ambiente, individua un processo di accomodamento passivo del soggetto alle pressioni ambientali e un processo di assimilazione volto a adattare l'ambiente a sé, per soddisfare i bisogni. Ci sono diverse forme di adattamento in relazione ai sistemi sociali: conformità, innovazione, ritualismo, rinuncia, ribellione. Nonostante il disadattamento sia concepito come la scarsa capacità di inserimento attivo e creativo nella società e nelle istituzioni, l'ideale educativo è l'integrazione vista come possibilità di entrare in accordo con la realtà e di trasformarla in modo attivo e creativo. Essa è complicata e ostacolata dal sistema economico del calcolo e dei costi. È un apparato che porta il singolo ad interessarsi a guardarsi dagli altri per timore di essere ingannato o danneggiato, e crescendo si vanno a instaurare dei processi di difesa da alcune dimensioni fondamentali come l'affettività, l'interdipendenza. 7 La questione dell'adattamento e del disadattamento non è complicata fino a quando non si parla di iperadattamento. Un modello utile alla comprensione dell’adattamento, disadattamento… può essere l’Analisi Transazionale che, a proposito dello stato dell’Io Bambino, ha distinto un comportamento libero e un comportamento adattato. • Il comportamento libero si distingue per la spontaneità: il Bambino Adattato agisce in modo controllato e compiacente, come se fossero presenti i genitori. Vengono classificati nella stessa categoria sia il comportamento competente, sia il comportamento disadattato ribelle, poiché entrambi espressione del Bambino Adattato. Infatti, c’è una similitudine fra conformismo e ribellione: questi non sono comportamenti liberi ed espressivi, ma dipendenti. 1. Il fare espressivo ha come riferimento la persona nella sua autenticità. “Agire per essere” valorizza la persona che agisce e riconduce l'azione al significato oggettivo. 2. Il fare dimostrativo, sia di tipo ribelle, sia di tipo conformista, ha come riferimento gli altri, anche se l'azione può essere identica alla precedente, ma l'intenzione dà una connotazione differente. “Agire per” acquista valore se consente al soggetto di perseguire l'obiettivo implicito, ossia la risposta dagli altri. È importante sottolineare come un certo grado di adattamento sia fondamentale, mentre un eccesso di adattamento costituisce un segnale di disagio. Non solo i comportamenti di ribellione e aggressività devono essere segnalati, ma gli educatori devono prestare attenzione agli atteggiamenti ipermaturi e iperadattati dei minori, cioè l'effetto del grado di adattamento. Gli ipermaturi sono bambini che agiscono come se fossero molto più grandi: manifestano autonomia, sicurezza, auto – sostegno, che evidentemente non hanno. Si trasformano in figure genitoriali protettive. La forma di adattamento sproporzionato va a discapito dello sviluppo del sé autentico, per lasciare spazio alla costruzione del falso se. Questo tipo di disagio viene spesso sottovalutato poiché visto come comportamento auspicabile e da incoraggiare. La svalutazione di sé e la scarsa considerazione e riconoscenza è all'origine del comportamento adattato fuori misura, che si manifesta nel conformismo o nell'agire di belle. Le espressioni dell'agire adattato sono quindi quella conformista e quella ribelle, e in entrambi i casi l'orizzonte di riferimento sono gli altri e non se stessi. L'educatore può intervenire sostituendo un dato percorso educativo caratterizzato da iperadattamento con percorsi alternativi espressivi del sé. 3.3 Disagio, violenza e abbandono Nella società odierna, sembra dominare la cosiddetta cultura della morte, come si può notare dall'aumento dell'aborto, al calo delle nascite. All'origine di ciò, risiedono fattori socioculturali, che ruotano attorno alla perdita progressiva del senso di sacralità e d’inviolabilità della vita umana, allo sviluppo di una concezione della vita materialistica, all’identificazione della felicità col benessere materiale e fisico. La violenza che annienta i minori, limitando il loro diritto all'esistenza, è fondamentalmente psicologica e educativa, non solo fisica. Queste forme di abbandono comportano non solo l'aumento di bambini denutriti o malati fisicamente, ma di bambini trascurati dal punto di vista affettivo, psicologico e educativo. 10 La conseguenza è che l'educatore debba affinare la sua capacità di comprensione empatica per capire cosa c'è dietro il disagio; se non fosse in grado, si rischierebbe di entrare nel meccanismo di svalutazione e mettere i nostri interventi banali e poco efficaci. 3.5 Quali i bisogni e i permessi negati Facciamo una distinzione tra processo e contenuto: • Se si pone l'accento sul contenuto, diventano centrali questioni relative a quali sono i bisogni e le necessità che risultano inascoltati. • Se si pone l'accento sul processo, si presterà maggiore attenzione ai dinamismi psicologici coinvolti. Quali sono i bisogni e i permessi che l’educatore può supporre e scoprire al di là dei sintomi del disagio? Prendiamo come quadro di riferimento il modello dei permessi e delle ingiunzioni proposto dall'Analisi Transazionale. Si preferisce trattare di permessi e di ingiunzioni per evidenziare il ruolo che riveste la risposta dell'ambiente ai bisogni del soggetto, e si possono individuare livelli diversi nei percorsi che portano alla soddisfazione o alla frustrazione dei bisogni. I bisogni inascoltati sono parecchi, ma insistiamo su alcuni: quello di esistere, quello di intimità, quello di vivere secondo la propria età. a) Permesso di esistere La nascita di un bambino travolge l'organizzazione familiare, che deve essere rifatta sulla base del nascituro, al quale deve essere trasmesso il permesso di esistere. I genitori possono dare questo permesso comunicando la gioia della nascita, trattandolo il figlio con amore e prestandogli attenzioni. I messaggi possibili delle figure significative possono oscillare tra il va bene che tu ci sia – non va bene che tu ci sia. La decisione del bambino è l'esito della transazione tra la percezione dei messaggi esterni e le sue opzioni. Quando il soggetto prova ad entrare in un nuovo sistema, si riattiva la dinamica del permesso di esistere, di appartenere, e va ribadito al bambino in tali occasioni la modalità transazionale appresa: se nel copione è presente l'ingiunzione non esistere, quando cerca di entrare in un gruppo si sente come se fosse un peso. La reazione, perciò, è mettere in atto comportamenti scenici per verificare inconsapevolmente che gli altri lo rifiutano e lo respingono. b) Non essere intimo Il permesso di essere emotivamente – fisicamente intimi viene appreso nell'interazione con le figure significative. Quando il genitore si mostra distaccato, distanze, indaffarato, emotivamente o fisicamente assente, inconsapevolmente invia un messaggio del tipo non essere intimo. La manifestazione oggettuale sta nelle frasi come non disturbarmi o lasciami in pace. La capacità di integrarsi e la scelta di appartenere al sistema familiare prima, ad altri sistemi poi, è ampiamente influenzata dalla presenza di questo permesso e del permesso precedente, nel copione del soggetto. 11 Dopo che al soggetto sono stati cronicamente negati tali permessi, egli può decidere di isolarsi e di farsi emarginare. c) Non essere piccolo I bambini sono invitati ad assumere molto precocemente ruoli tipici degli adulti e a smettere di essere bambini. Viene negato al bambino di vivere secondo la sua età e lo si comunica con ingiunzioni come non essere un bambino o non essere piccolo. 4. Osservazioni conclusive Gli studi sul disagio dicono che il disagio è un fenomeno complesso su cui intervengono alcuni fattori socioeconomici e socioculturali, fattori intrinseci alle istituzioni scolastiche, fattori legati alle dinamiche familiari, fattori individuali. il disagio viene interpretato come una risposta del soggetto dinanzi al non ascolto e occorre considerare tutti i possibili fattori presenti volti in volta nel disagio di ciascun soggetto, perciò avvalersi di modelli causali di tipo probabilistico 12 CAPITOLO 2: COMPRENDERE E GESTIRE IL DISAGIO In passato, i docenti analizzavano il loro impegno nel promuovere l'alfabetizzazione culturale dell'allievo, la sua formazione razionale, intellettuale, però trascurando gli aspetti basilari della sua personalità. Oggi il modello è differente, perché il docente realizzare l'alfabetizzazione culturale, a partire dalla cura della persona dell'alunno nella sua totalità. La gestione delle problematiche educative consiste nel tradurre in pratica la difficile convivenza tra insegnante e educatore, e solo da questa consapevolezza si può realizzare l'apprendimento formativo previsto e prescritto dalle indicazioni della nuova riforma della scuola. Di fronte al disagio, i problemi sono solitamente due: uno dell'allievo e uno del docente. • Il problema dell'allievo riguarda il rischio di non accorgersi e di non cogliere il problema: anche se sembra banale, numerose tragedie in campo educativo derivano da questo. • Il problema del docente è quello di non dare risposte esaustive e soddisfacenti. Ovviamente è un problema educativo, che coinvolge l'alunno, il quale non si riesce a fare aiutare, e si cade nella banalità tipica degli interventi improduttivi. Il docente deve affinare la sua capacità di individuazione dei problemi, sia se questi sono evidente sia se non lo sono, e di risposta efficace. 1. Atteggiamenti comuni dinanzi al disagio Il docente interviene di fronte al disagio dell'allievo assumendo atteggiamenti e ricorrendo a modalità e strategie per mettere in ordine e poter lavorare. Paolo è un ragazzo di 12 anni del secondo anno della scuola secondaria di primo grado. Un giorno arriva in classe con un paio di occhiali da sole e si siede in prima fila, dopo aver sistemato gli occhiali da vista nello stivale destro. Il docente invita il ragazzo a indossare gli occhiali da vista per leggere un testo ad alta voce ma Paolo si rifiuta e l'insegnante si irrita, assumendo atteggiamenti negativi. Inizia una lotta tra Paolo che non vuole mettere gli occhiali da vista e il docente. 1.1 Stile intollerante Lo stile intollerante è tipico di una reazione del docente dispotica, impaziente, autocritica. L'insegnante potrebbe reagire esplodendo furiosamente, urlando e sbattendo la sedia, rimproverando l'alunno con frasi come maleducato o vai fuori. Il docente despota e intollerante si avvale di interventi coerenti con la sua posizione: critica, rimprovero, sospensione. Nella situazione reale il docente, dopo essersi alzato, ha tolto con le mani gli occhiali all'allievo e appoggiati sulla cattedra, ma appena si è allontanato il ragazzo se li è ripresi e li ha indossati. L'atteggiamento intransigente e dispotico ha dei vantaggi a breve termine, però l'educatore non può accontentarsi della facciata esterna e della compiacenza, ma adottare uno stile del tipo delineato. 1.2 Stile polemico e litigioso Lo stile polemico è un atteggiamento tipico del tipo di docente che potrebbe attaccare l'allievo, mortificandolo di fronte ai compagni, con frasi come “togli quegli occhiali così lasci vedere la tua bella faccia”. È un atteggiamento rischioso con preadolescenti e adolescenti perché potrebbe innescare dinamiche distruttive a spirale crescente. 15 2.4 La punizione La punizione è un tipo di intervento ormai raro in ambito educativo: comunemente, non necessariamente sotto forma fisica, essa è un intervento diffuso. Il fine è la cancellazione del disturbo, e può presentare come vantaggio l'ottenimento rapido dei risultati tangibili. Tuttavia, siccome interviene sulla manifestazione estrema del problema e richiama l'educando affinché egli lo controlli, svaluta l'importanza della personalità dell'allievo, perché non si focalizza sulla comprensione della situazione che porta al problema, ma sulla sua eliminazione. La punizione è un intervento banale e poco efficace dal punto di vista educativo. 2.5 La sospensione La sospensione è una strategia che consiste nel dimettere, allontanare, sospendere gli educandi: può essere di durata variabile ed è adottata solitamente per motivi di condotta o di scarso rendimento. La sospensione non è né efficace, né sofisticata come strategia di intervento: è poco produttiva, se non per nulla, perché non risolve il problema, ma interviene sulla manifestazione esterna del disagio e invita l'allievo ad autocontrollarsi. Inoltre, questo tipo di intervento ha anche la valenza di rinuncia a gestire la situazione da parte dell'educatore: equivale a gettare la spugna e a rinunciare a lavorare sul problema. Dimettere significa liberarsi di, fuggire dal problema, che non corrisponde all'educare o al gestire la situazione. È un intervento inutile al punto di vista educativo e il problema reale non viene minimamente ridotto, perché potrebbe indurre l'allievo alla rinuncia agli studi. 3. Alcune proprietà degli interventi improduttivi 3.1 La ripetitività Tempo fa chi scrive è stato invitato a tenere una conferenza ad un gruppo di docenti. Nel luogo dell'incontro, i destinatari, circa 150, erano seduti in un grande corridoio e di fronte a loro c'erano due tavoli, dietro i quali erano seduti il preside e un docente. Il capo d’istituto assumeva il ruolo di moderatore e passava la parola al docente che gli stava a fianco, perché relazionasse sul lavoro svolto dal suo gruppo il giorno precedente. Durante l'attesa, da una parte uno comunicava sul lavoro svolto il giorno precedente al suo gruppo, accanto c'era il preside, dall'altra parte i colleghi seduti ad ascoltare. Rimanda alla situazione tipo scolastica, di insegnante e allievo. Man mano che il docente relazionava, i colleghi creavano un brusio di fondo, che aumentava di volume e intensità, fino a quando il preside interveniva richiamandoli, ma il chiacchierio era diventato troppo disturbante e non permetteva la continuazione della relazione. Il preside cominciava a rimproverare duramente i docenti, con tono acceso, autoritario e genitoriale, e il suo intervento fu seguito da un rispettoso silenzio, permetteva al docente di lato di riprendere il discorso. Cosa avrebbe seguito il rimprovero del preside? Dopo pochi minuti, qualche docente riprendeva a parlare col proprio vicino, fino alla ristabilizzazione del primo precedente. L'episodio rappresenta bene ciò che succede solitamente in classe: l’insegnante spiega e i ragazzi, non interessati, disturbano. Presentano un andamento ciclico: l'effetto desiderato si ottiene ma solo per poco, perché dopo tutto torna come prima. Le critiche adottate dal preside, richiamo e predica, non sortiscono l'effetto sperato con un uditorio adulto, che dovrebbe aver maturato una buona capacità di autocontrollo. Questo ci fa riflettere quando tali modalità vengono sistematicamente impiegate con gli alunni. 16 3.2 L’autoperpetuazione Alcune forme di intervento per gestire il disagio risultano svalutanti e maltrattanti: gli educatori potrebbero diventare particolarmente pressanti e accanirsi nei confronti dell'allievo. L'aspetto più preoccupante è l'autoperpetuazione. Le pressioni eccessive di tipo genitoriale, le critiche degli educatori tendono ad aggravare le reazioni e le caratteristiche comportamentali che si voleva modificare: l'alunno criticato per la sua ansia, facilmente diventerà sempre più apprensivo; il ragazzo aggressivo, obbligato ad eliminare e cambiare i suoi comportamenti scorretti attraverso l'abolizione, tenderà a diventare sempre più violento. L'uso di interventi duri potrebbe avere un effetto boomerang. Il meccanismo descrive molto bene l'effetto legato all'uso di atteggiamenti esageratamente intransigenti, che producono effetti paradossali: ribellione piuttosto compiacenza, inibizione piuttosto che superamento la paura. Una certa quantità di controllo nelle situazioni educative può recare il beneficio, e aumentare la direttività può rivelarsi utile, sempre se non viene superata una certa soglia oltre alla quale gli effetti divengono distruttivi. Inoltre, l'aumento dei comportamenti giudicati scorretti rischia di indurre nell'educatore una sorta di accanimento terapeutico a spirale crescente, caratterizzato da atteggiamenti più rigidi e intolleranti. 3.3 La focalizzazione sui sintomi del disagio Le strategie improduttive (predica, critica diretta, rimprovero, sospensione) si focalizzano sull’aspetto esterno del disagio, sperando che sparisca immediatamente. Per non cadere nella banalità, bisogna tenere distinti il sintomo e il problema. Un rischio è di trattare la manifestazione del disagio come se fosse il disagio stesso, ed intervenire per eliminarlo, così da considerare la questione risolta, illudendosi di aver rimosso il sintomo. Perciò, consideriamo due tipi di approcci nei contesti educativi e scolastici, in cui uno è incentrato sul sintomo e l’altro sul disagio. Molti degli interventi comunemente adottati tendono ad alleviare il segno esterno e a cancellare la manifestazione del disagio. 3.4 L’appello al controllo volontario Un’altra caratteristica comune alle strategie improduttive è l’aspettativa che l’educando comprenda il proprio errore. L’intolleranza dell’educatore cresce insieme all’allievo: ci si aspetta che il ragazzo più grande sia più giudizioso. Chi ha vissuto il contesto scolastico con disagio, l’intenzione di cambiare e controllarsi, se non si conoscono le cause dietro al comportamento disfunzionale, risulta totalmente inutile. Inoltre, l’atteggiamento dell’insegnante scostante e duro darà all’alunno l’idea di essere costantemente giudicato e umiliato. Come resistere e mettersi a contrastare ribellandosi o opponendosi? Ma questi atteggiamenti confermeranno solo l’idea che l’allievo non sia “giusto”; abbia qualcosa fuori dalla norma, che è immaturo e maleducato. 17 3.5 Il condizionamento negli interventi improduttivi Quindi, gli interventi improduttivi si distinguono per l’aspettativa che l’allievo si adatti compiacendo. Da un punto di vista tecnico, queste strategie implicano un processo d’apprendimento di tipo strumentale, che si basa sulle leggi del condizionamento operante di Skinner. Skinner fece degli studi sull’apprendimento comportamentale di un ratto bianco, nella Skinner Box: l’animale premeva una leva per ricevere cibo. In relazione a Skinner, il soggetto emette una risposta in vista di una soddisfazione o dell’evitamento di un dolore. Ci si aspetta che l’allievo faccia o no qualcosa per evitare conseguenze negative. I tipi di condizionamento sono: • Tipo ricompensa e ricompensa secondaria −> Da considerare il contesto scolastico, gli studenti necessitano riconoscimenti e apprezzamento dai compagni e dagli insegnanti. La motivazione a adattarsi è il bisogno attuale o immediato, da soddisfare subito o in un secondo momento. • Tipo fuga −> Ad esempio, allontanare l’alunno dall’aula. La motivazione a adattarsi è evitare una situazione spiacevole che frustra un bisogno attuale. • Tipo prevenzione −> Urla, sgrida, in generale incutere paura. La motivazione a adattarsi, che spinge ad evitare i comportamenti disapprovati, è di prevenire una situazione spiacevole futura. 3.6 E se l’allievo ricercasse proprio «carezze negative»? Per l’essere umano, la fame di stimoli ha uguale importanza della fame del cibo. Non si può prescindere dalle conclusioni giunteci dagli studiosi precedenti, che già hanno documentato l’importanza degli stimoli, che possono suscitare piacere o dolore: in assenza di stimolazione, alcune cavie, pur di non morire di fame preferiscono passare attraverso le griglie elettrizzate, o subire ogni tipo di pena. Per gli uomini, uno stimolo negativo, a volte, è preferibile all’assenza di stimoli: questo spiega perché i bambini, anche se puniti più e più volte, continuano imperterriti un dato comportamento disfunzionale, ossia perché preferiscono ottenere una carezza negativa invece che zero. Quindi, con il tipo di intervento improduttivo viene alimentato il comportamento. 4. Decodificare e gestire il disagio Un modo attraverso cui comprendere e gestire il disagio è formulare una lettura in chiave comunicativa: dal momento in cui il comportamento sottende uno scopo, per evitare malintesi, si insegna all’allievo la comunicazione verbale del malessere. È una modalità alternativa e socialmente costruttiva, soprattutto perché l’idea di interpretare il messaggio comportamentale è fascinosa ma non facile da realizzare, in particolare con soggetti con scarsa consapevolezza di sé. A riguardo, delineiamo delle linee guida per comprendere meglio e intervenire sul disagio. 20 − Poi usato per indicare il processo proiettivo di affetti e pensieri del paziente sulla figura del terapeuta. − Può essere positivo (positivi) o negativo (negativi) in base ai vissuti vero il terapeuta. • Controtransfert −> Reazione, spesso inconscia, del terapeuta nei riguardi del transfert del paziente. In terapia entrambi sono molto importanti per una maggior comprensione delle dinamiche e dei processi della situazione terapeutica e per progettare interventi efficaci volti al cambiamento. I fenomeni che ne derivano si realizzano in qualsiasi relazione interpersonale, in particolare in quella educativa docente – allievo, educatore – educando. Ad esempio, Giulio è un ragazzo di 16 anni che è stato cresciuto con l’idea di essere una persona irrecuperabile, a partire dai genitori. Si può anche ipotizzare che lui stesso voglia apparire così. il primo passo dell’educatore, con l’aiuto di colleghi o del counseling, è quello di verificare se la sua reazione automatica o intuitiva somiglia a quella che hanno realizzato quanti lo hanno preceduto. Il secondo passo è osservare cosa fa Giulio per convincere l’educatore della sua immagine e per attivare delle reazioni a lui familiari. 4.4 Efficacia, ascolto del sé, empatia Alla base della gestione del disagio c’è l’empatia, senza la quale si incorre in propositi impossibili da soddisfare, ad esempio, addomesticare intenzionalmente un sentimento negativo. Ne derivano della controindicazione: • Data la difficoltà che è il proposito risulti congruente, ad un livello ci si propone una cosa e poi se ne fa un'altra. • Accettando incondizionatamente ogni bambino, si rischia di coprire il problema e congelare la dinamica, anziché bloccarla. Dal fallimento professionale deriva l'avversione verso gli allievi, ed è uno dei motivi per i quali i docenti reprimono i sentimenti negativi verso gli studenti pur di non sentirsi così. La scelta più comune è l'adozione del distacco professionale, cioè accettare tutti e non rispondere alle provocazioni, alla stregua delle helping professions, cercando di realizzare il detached concern: interessamento distaccato, visto come ideale di equilibrio e di maturità professionale, al fine di tutelare sé stessi e gli altri dati reazioni emotive intense e rischiose. Tuttavia, e data la difficile applicazione, si realizza la disumanizzazione come mezzo di autodifesa da sensazioni intense. Anche in psicoanalisi è stato rivisitato il controtransfert: inizialmente Freud lo definiva un processo inconscio derivante dai conflitti irrisolti dell'analista, ed era visto come un ostacolo al processo terapeutico, un buco nero da eliminare. Successivamente il costrutto è stato riconsiderato e ampliato, comprendendo i sentimenti del terapeuta, infine concepito come strumento privilegiato per amplificare l’empatia. L'istanza per l'educatore è quella di imparare a riconoscere i propri vissuti, che fungono da strumento per comprendere meglio la situazione. Cosa si può fare di diverso? Invece di eliminare i sentimenti negativi, il docente dovrebbe ascoltarli, studiarli e trarne un intervento educativo. 21 CAPITOLO 3: OPPOSIZIONE, RIFIUTO E CONFLITTO EDUCATIVO Le dinamiche che si attuano in diversi contesti sono le medesime: l’educando si rifiuta, procrastina, mostra interesse a fare altro. Gli insegnanti, così come i genitori, richiedono un aiuto nell’intervento sulla demotivazione e sperano che, pronunciando le loro richieste, i ragazzi siano condiscendenti e disponibili, ma ottengono solo opposizione. Perciò, si offre un invito agli educatori a riflettere su cosa fanno dinanzi ai comportamenti oppositivi e su cosa possono fare di diverso, senza dimenticare che il comportamento dell’educando non dipende linearmente dall’azione educativa. 1. Modalità comuni per gestire la «resistenza» dell’educando Due sono le modalità più usate: • Modalità vessatorie. • Modalità manipolatorie. 1.1 Modalità vessatorie Lo stile vessatorio, persecutorio, perentorio, alimenta con facilità dinamiche distruttive a spirale crescente: i toni iniziali sono delicati, ma divengono via via ostili e, a volte, violenti. Questo è causato dall’intervento educativo dell’insegnante che, di fronte a un ragazzo demotivato, non fa altro che a adottare modi bruschi, aumentando la frustrazione del minore. Esempi ne sono le pressioni eccessive di tipo genitoriale da parte degli educatori: il ragazzo timido viene pressato affinché esca dalla timidezza, ma si chiude di più in sé stesso. 1.2 Modalità manipolatorie Lo stile manipolatorio implica il ricorso al sotterfugio, tipico di manager, politici… che quando presentano un progetto, per paura di essere rifiutato, dicono una cosa per un’altra, ricorrono ad interventi strategici non sempre autentici. Tuttavia, ha dei costi: le buone intenzioni passano da una piattaforma relazionale non pulita, che si fonda sulla disconferma dell’interlocutore (“io ne so più di te”, “non mi importa di te”). 2. Il conflitto educativo Da K. Lewin in poi sono stati individuati vari tipi di definizioni di conflitto: a. Conflitto intrapsichico La personalità è intesa come insieme di forze e polarità, che spesso di scontrano. • Psicoanalisi classica: Es, Io, Super – io. • Analisi Transazionale: l’Io, Genitore, Adulto, Bambino. • Psicoterapia della Gestalt: la personalità è un conglomerato di tendenze polari che si combinano, però nella consapevolezza di ognuno ci sono dei vuoti. Per poter gestire il conflitto intrapsichico bisogna individuare le polarità e renderne il soggetto consapevole. Tanto più il soggetto è consapevole, tanto meglio gestiste sé e gli altri. Tanto meno è consapevole, tanto più di proteggerà con dinamiche conflittuali. 22 b. Conflitto interpersonale Può avere origine intrapsichica o relazionale, e Buzzi ne identifica quattro tipi conflitto: emotivo, di dati (possesso di dati diversi), di interessi, di valori (discrepanza tra azione e valori). Il conflitto ha origine interna se un interlocutore inscena dinamiche derivanti da problemi irrisolti, di cui è inconsapevole. I meccanismi di difesa più comuni sono la proiezione, la repressione e la rimozione. Invece, ha origine relazionale se il disaccordo concerne un problema reale, non una proiezione. È sano se fondato sulla consapevolezza, e migliora le relazioni. c. Conflitto educativo Nasce nel rapporto educatore – educando, la cui essenza è spiegata dall’antinomia tra libertà e autonomia. L’azione educativa, perciò, limita l’azione dell’educando e questa, a sua volta, è limitata dalla personalità e bisogno di autenticità del soggetto. Questo perché l’iniziativa dell’educatore viene vissuta come un limite e diniego del diritto di essere sé stessi. Quindi, l’educatore deve integrare molteplici esigenze interne al soggetto da educare ed esterne derivanti dalle esigenze personali. Si deve stabilire fino a dove l’azione non soffoca, o sviluppi la personalità del singolo. Gli psicologi e i pedagogisti hanno creato, a proposito, il principio della discrepanza ottimale: l’azione educativa non prescinde dallo sviluppo della libertà e dell’autonomia dell’educando; l’istanza è di ricercare modalità autorevoli che sostituiscano quelle di tipo autoritario. Il problema autorità – libertà è stato accolto da Nanni, di cui presenta dei rischi comuni: • Pensare che la relazione educatore-educando limiti la crescita personale → mito di Edipo, in cui il padre è un rivale e deve essere ucciso per crescere. • Pensare che la crescita dell’educando sia un pericolo per l’assetto sociale esistente → mito di Laio, in cui il padre promuove la libertà del soggetto. La soluzione sarebbe un padre simbolico liberante, che facilita e promuove l’autorealizzazione. Il dilemma, perciò, può essere ridefinito: stimolare la crescita dell’educando dal suo interno o aiutarlo a realizzare un dover essere da cui derivino valori, aspettative. Secondo la pedagogia di impostazione umanistica, l’educando deve essere aiutato a realizzare le sue potenzialità e di diventare ciò a cui aspira. L’interazione educativa si realizza in modo costruttivo se si basa sull’equilibrio tra aspettative personali e sociali. Sono identificabili tre possibili stili: • Nomotetico → le aspettative sociali sono più pesanti; l’educazione è la trasmissione di conoscenze. • Idiografico → rispetta le aspettative del singolo, concedendo di attuare quanto considerato significativo. • Transazionale, o nomotetico – idiografico → realizzare l’equilibrio tra i due stili. L’esito delle transazioni dipende dalle aspettative reciproche dei partner: lo stile dell’educatore viene descritto secondo la dimensione polare convenzionalità vs flessibilità. L’educatore convenzionale dà priorità alle regole, mentre l’educatore flessibile cerca di rispettare le condizioni reciproche. Anche in didattica si possono considerare tre modi di risolvere il dilemma: a) Ascendente → dalla situazione fino alle finalità. 25 Resistenza e integrazione L’educatore che gestisce l’educando indisposto sta allo psicoterapeuta che interpreta e tratta le resistenze del cliente. Quando si parla di comportamento oppositivo, di resistenza, si suppone la presenza di obiettivi educativi, o di obiettivi del cambiamento psicoterapeutico, in cui ogni ostacolo viene concepito come resistenza. Secondo l’ottica degli interventi improduttivi, di una certa pedagogia e psicologia di stampo non umanista, la barriera va abbattuta per perseguire l’obiettivo. La resistenza è una forza sabotatrice interna alla dinamica motivazionale e alla personalità dell’alunno. Secondo l’ottica dei modelli umanistici, c’è una considerazione rispettosa per ogni parte del soggetto, anche se in disaccordo con l’obiettivo promosso dall’educatore. Tra i modelli di riferimento, la psicoterapia della Gestalt intende la resistenza come parte del soggetto, quindi è una forza con lo stesso diritto di esistere. La personalità è un miscuglio di forze e polarità. Essa non vuole attaccare le forze ma ricondurle al loro ruolo adattivo, valorizzandole. Da quando detto precedentemente, l’educatore è invitato ad accantonare le modalità autocratiche e svalutanti dei vissuti dell’educando, e ad accoglierlo nella sua totalità, così da favorire gli interventi educativi efficaci. Anche nella coppia non dovrebbe mancare la conditio sine qua non, cioè il permesso di arrabbiarsi con il/la partner. 4. Indicazioni e proposte operative Ecco alcune linee guida per gestire correttamente, pedagogicamente e psicologicamente parlando, il conflitto di resistenza con l’allievo. 4.1 L’ascolto aperto: tra amorevolezza, rispetto e delicatezza Nella teologia, alcuni studiosi prevedono dei rischi, conseguenti all’uso di modi bruschi. La pericope della lettera agli Efesini, riguardo la relazione genitori – figli, ne è un esempio: “Figli, obbedite ai vostri genitori…”. La relazione genitori – figli deve basarsi sull’amorevolezza, che a parere di Groppo è il mezzo più efficace per aiutare i propri figli a “obbedire”. L’invito agli educatori è di evitare di scadere in atteggiamenti provocatori, poiché alimentano la ribellione dell’educando. Se un bambino si rifiuta di fare qualcosa, bisogna dargli la possibilità di esprimersi e mostrare le proprie perplessità, mettersi in atteggiamento d’ascolto interessato. Dopo, l’educatore potrà dare la sua opinione in modo rispettoso e trasmettere il messaggio di “aver capito”, che è legittimo sentirsi in un determinato modo. Si tratta di assumere un atteggiamento empatico. Empatia significa “mettersi nei panni dell’altro”, e si compone di due dimensioni: 1. I numerosi modi per poterla realizzare (attenzione ai vari comportamenti, linguaggio comprensibile, tono adatto…). 2. Avere rispetto, ossia credere nell’altro, avere fiducia nelle sue capacità. 26 4.2 Promuovere la motivazione e gestire l’opposizione in classe: tra paradosso e controparadosso Cosa fare se gli allievi non sono attratti dalla lezione del docente? Dal momento in cui non esiste una lista stilata di regole per catturare e mantenere l'attenzione degli interlocutori, i docenti spesso cadono in errore, o assumendo un comportamento eccessivamente violento, o ignorando totalmente il problema. Dinanzi ad allievi demotivati, l’educatore può ricorrere a messaggi strutturati secondo la logica dell’«opposto» e del «più di prima»: ci si aspetta che l’educatore incoraggi il cambiamento, stimoli l’interesse invitando l’allievo ad impegnarsi di più esortandolo. Una prima alternativa consiste nel ribaltare la relazione: secondo la scuola di Palo Alto, le situazioni paradossali devono essere gestite in maniera ancora più paradossale. Quindi, bisogna accogliere le istanze proposte e maturate nell’ambito degli approcci strategici, in particolare la resistenza va incoraggiata, perché rappresenta un importante fonte di cambiamento. Per comprendere la dinamica dell’«opposto» e del «più di prima», insita del paradosso, gli studiosi propongono una metafora: due marinai si sporgono all’indietro sul lato opposto di una barca per restare in equilibrio. L’istanza che ne deriva è quella di evitare i paradossi con interventi apparentemente assurdi e illogici. Dinanzi a un gruppo di studenti demotivati, si può considerare controparadossale esplicitare loro una sorta di indifferenza nei confronti della lezione, l'idea secondo cui ci sia “meglio da fare”. Questo li porrebbe di fronte a un bivio: a) Rimanere tali e quali, dando ragione all’educatore. b) Dimostrare il contrario per cominciare il percorso del cambiamento. 5. Osservazioni conclusive Gli educatori, di fronte a ragazzi disinteressati, devono tener conto dei loro vissuti e assumere un atteggiamento empatico, non adottare maniere forti e disfunzionali. Tuttavia, con i bambini piccoli si deve avere maggiore accortezza e trattarli amorevolmente. 27 CAPITOLO 4: PROBLEMATICHE EDUCATIVE: COSA SI FA DI SOLITO, COSA SI PUÒ FARE DI DIVERSO La sindrome di burnout è una modalità di adattamento, una risposta allo stress sperimentato quotidianamente. Il burnout è in sintomo del disagio dell’educatore, ed è inteso come la fuga da una situazione lavorativa vissuta con forte stress, difficili da risolvere attraverso il fronteggiamento attivo. È una reazione emotiva, cognitiva e comportamentale caratterizzata dall’allontanamento dalla fonte di malessere che non consente di risolvere efficacemente il problema e si instaura a partire dal rapporto operatore – utente. Inizialmente si pensava che gli operatori delle helping professions fossero quelli più a rischio, ma ad oggi il posto è stato concesso agli educatori e ai docenti. Il burnout è una sindrome psicologica, che si compone di tre dimensioni: 1. Esaurimento emotivo → sentirsi sfiniti, logorati… 2. Depersonalizzazione → è accompagnata da atteggiamenti negativi, che tendono al cinismo verso i soggetti. 3. Diminuzione del senso di realizzazione e di autoefficacia → senso di impotenza, insoddisfazione. Per Cherniss il burnout è un processo transazionale, composto di tre fasi: a) Stress lavorativo → dalla discrepanza tra richieste e risorse. b) Tensione. c) Conclusione difensiva. Pines crea un modello interpretativo, nonché un modo di vivere il rapporto col proprio lavoro, che sottende un legame simbiotico, in cui considera il desiderio di dare un senso alla vita come la principale forza motivante dell’essere umano. Se la motivazione eccede, anche il coinvolgimento lo fa e ciò causa un aumento di stress ed ansia. Quindi, raggiungere l’obiettivo porta una grande soddisfazione personale, che fa vivere un senso di benessere. È il fallimento a realizzare il burnout. 1. Scrivere parolacce sui libri dei compagni Una bimba di quinta elementare trova sul diario e sui libri scritte delle parolacce e lo dice all’insegnante e alla mamma. Iniziano le “indagini”, con le minacce dell’insegnante, e dopo qualche giorno si scopre essere stata Alessia, che viene convocata in disparte e obbligata a confessare, in lacrime, quanto fatto. L’insegnante si sente soddisfatta e scopre che all’origine di quel comportamento c’era rancore, perché la bambina la emarginava dal gruppo classe. 1.1 Il ravvedimento e l’atteggiamento moralistico La logica dell’intervento dell’insegnante è di tipo moralistico e superficiale, perché si dà importanza solo a quanto esternamente osservabile. Tuttavia, concentrarsi solo sul livello esterno e fare appello all’autocontrollo sono modalità poco evolute ed efficaci. Rimandano, infatti, all’idea di educazione tipica dell’800, in cui, come ci dice dell’Antonio, l’educando veniva cresciuto con l’idea che fosse un piccolo adulto. Il criterio fondamentale per valutare la maturità consisteva nel misurare la distanza rispetto all’ideale adulto capace di discernere tra bene e male. 30 L’insegnante deve essere empatico e approfittare delle scenate per capire che motivi sottendono. Deve insegnare al bambino di cogliere e usare il feed-back da parte degli altri. 4. Il tormento inutile Una bambina durante una recita inizia a piangere e l’insegnante, che si sentiva in colpa, pensava che non l’avrebbe dovuta mettere in quella situazione perché tutti si sentivano a disagio per colpa sua. È un caso interessante, in quanto l’insegnante si sente eccessivamente responsabile di quanto accaduto: l’obiettivo era lodevole, perché voleva dimostrare la bravura della bambina. Tuttavia, ha gestito male la situazione: avrebbe potuto fermare la scena, così da dare un nuovo insegnamento, ossia che errare è umano. L’insegnante attribuisce a sé responsabilità che le appartengono soltanto in parte e la sua reazione risulta sproporzionata, eccessiva. 4.1 L’atteggiamento iperprotettivo e le sue incognite Un atteggiamento simile si assume con persone disabili o con difficoltà di apprendimento. Si manifesta un’eccesiva protezione, nonché un atteggiamento iperprotettivo: 1. Tentativo di organizzare le condizioni di vita generali dei portatori di handicap. 2. Tendenza di chi si attiva oltre misura, per aiutare chi soffre. Canevaro, riferendosi all’handicap motorio, dice che dinanzi ad un qualsiasi ostacolo, il bambino deve applicare tutto sé stesso, e quello sforzo è essenziale affinché possa formarsi nella sua totalità. Quando un educatore o un genitore interviene, pensando di stare aiutando, non fa altro che aumentare gli impedimenti. Il rischio è quello di agire al posto di un altro e per un altro. Questo atteggiamento alimenta la passività e la conseguente dipendenza. L’attivismo iperprotettivo dinanzi all’handicap, alla disabilità… produce effetti paradossali. Ad esempio, i bambini con basso livello di competenze linguistiche hanno comunemente con la madre una relazione asincrona a causa dell’eccessivo attivismo, che degenera della direttività. Infatti, non rispettando tempi e ritmi del bambino, tale atteggiamento tende a stancarlo e a passivizzarlo. Ovviamente si tratta di reazioni dettate dall’emotività, e rischia di essere automatico e, a volte, inconsapevole. 4.2 Il salvatore Karpman, nel Triangolo drammatico, presenta tre personaggi: • Salvatore → colui che si prodiga più del dovuto, che si crede superiore tanto da vedere i discenti come bisognosi di aiuto. Tipico è il docente iperprotettivo, largo di voti, che fa domande semplici e non mette mai in difficoltà: enfatizza il positivo oltremisura rendendo inutile la valutazione e la sua essenza, che è quella di promuovere un’immagine di sé nell’allievo realistica e rispondente alla realtà. Dinanzi all’indulgenza eccessiva l’allievo ipotizza che l’insegnante pensi che egli abbia scarse capacità. • Vittima → è complementare al salvatore, ed è chi svaluta le proprie potenzialità e chiede di essere salvato e che l’altro faccia le cose al posto suo. • Persecutore → chi nelle interazioni sminuisce il partner. 31 Cosa fare? L’aiuto deve giungere sia all’educando, che all’interlocutore, e il docente non deve impedire all’educando di fare quanto può o che sa fare da sé: l’aiuto deve essere libero da contaminazioni, cioè non deve soddisfare bisogni personali. 5. Quando la rabbia dell’insegnante lievita a dismisura Luca è un bambino irrequieto e sempre arrabbiato. L’episodio che ci interessa è il seguente: un giorno arriva alle 9:30 e fa quasi a botte con un compagno per un posto. L’insegnante lo butta fuori dalla classe e minaccia di non farlo rientrare se prima non bussa, ma la reazione la confonde. Alla fine, il ragazzo viene riammesso. Qui viene descritta la rabbia solo interna, che non appare violenta all’esterno. L’insegnante è particolarmente preoccupata che il fare di Luca crei una situazione incontrollabile: ha paura di sembrare incompetente. È della fantasia del giudizio negativo da parte dei genitori e dall’attribuzione della difficoltà alla scarsa competenza che deriva il controllo. 5.1 Il controllo da parte del docente Gli educatori sbagliano ad assumere atteggiamenti autoritari, cioè dedicano più tempo al controllo della situazione che all’insegnamento stesso. Coloro che si sono preoccupati dell’interazione educativa, da Lewin a Roger e ai neogersiani del mondo angloamericano, a Franta hanno documentato l’utilità dei metodi non coercitivi per ottenere la disciplina. Franta parla della dimensione emozionale e della dimensione controllo, in particolare quest’ultima può variare lungo il continuum che oscilla da un massimo a un minimo. La premessa fondamentale per realizzare interventi efficaci è quella di comprendere cosa è presente dietro l’aumento smisurato della rabbia. 5.2 Percorsi interni e ruolo della simbiosi I percorsi interni spiegano il perché un educatore senta una forte rabbia: 1. È una sorta di causalità lineare tra comportamento dell’allievo e reazione dell’insegnante. Il docente pensa che il comportamento dell’allievo rispecchi il suo, i suoi sforzi, e da qui deriva il legame simbiotico tra l’insegnante e la situazione. Tuttavia, nessuno causa un’emozione nell’altro, ma al massimo l’emozione è causata dalla situazione. 2. Dal momento in cui l’insegnante nega a sé stesso il proprio potere ha il senso che l’unica possibilità per risolvere la situazione passi attraverso l’altro, attraverso il cambiamento dell’altro. È una trappola piuttosto insidiosa e rischiosa, soprattutto se l’altro continua a non ascoltare e non accenna a cambiare. La ragione è che il giudizio su di sé si fa dipendere pedissequamente dal successo – insuccesso. Il successo o l’insuccesso non dipendono però solo dall’agire del docente, ma così facendo è normale che le emozioni lievitino in dismisura. Il clima della classe caotico, a causa del legame simbiotico, diventa una prova del proprio fallimento. È come se il docente dicesse a sé stesso di “Non essere capace”. Ne deriva una forma di frustrazione, che sfocia nell’insopportabilità, ossia un’emozione “violenta”. L’insopportabilità è qualcosa che appartiene all’altro, ai bambini. 32 6. Il piagnucolio intollerante Luigina è una bambina di 3 anni che piange in continuazione, mettendo alle stregue anche un’insegnante di oltre 30 anni di carriera. Lei ammette di diventare isterica e che la bimba da molti problemi. Data la situazione, l’insegnante ha preso parte di un rôle play: è stata invitata a drammatizzare il ruolo dell’allieva mentre un’altra collega è stata invitata a simulare il ruolo della maestra, e viceversa, così da cogliere le emozioni e sensazioni di Luigina. La tecnica, inoltre, permette di uscire da sé stessi e di percepire la propria reazione dal punto di vista dell’altro. Vivendo il ruolo della bambina, l’insegnante ha constatato la presenza di una forte tristezza e incomprensione: in particolare, il suo fare (della docente), in cui vuole sopprimere i pianti della bambina, è inutile. Anzi, si rischia di acuire il suo fastidio e farla irritare ulteriormente. 6.1 L’analisi dei percorsi interni L’intolleranza dinanzi al lamento dell’altro è una peculiarità dell’episodio di Luigina. Concentriamoci sulla reazione al lamento. Gli elementi essenziali sono legati all’insopportabilità del lamento e all’idea che la risoluzione della situazione passi per la modifica della riposta dell’altro. L’educatore, in questo caso, nega all’altro il diritto di lamentarsi: addirittura, dinanzi alla bambina che piange, l’insegnante diventa intollerante. Perché questa reazione? Quando la risonanza affettiva è smodata, si presenta l’incongruenza tra il lamento di uno e la reazione dell’altro. Perché? 1. Potrebbero essere presenti delle esperienze, nell’insegnante, che amplificano la percezione del lamento (es. fine del divertimento). La brutalità di certe reazioni riassume il bisogno di preservare e difendere sé stessi dalla minaccia proveniente da chi si lamenta. Nelle reazioni violente si cela una forma di ricatto, che segnala la presenza di insopportabilità dell’educatore. 2. Atteggiamento assunto dall’educatore. Supponiamo che si proponga di eliminare il disagio di un altro anche quando non è possibile (salvatore): il docente vuole essere riconosciuto, e il lamento segnala il suo fallimento. Ne deriva una specie di rabbia da frustrazione. Quindi, da salvatore passa ad essere un persecutore aggressivo. 6.2 Il legame simbiotico Dato il mancato confine tra sé e l’altro, nella simbiosi manca un’affettività separata; quindi, viene negato il diritto di sentire il disagio alla persona in difficoltà. Così si instaura un rapporto diretto tra causa ed effetto, in cui mancano apparentemente delle vie di fuga dai problemi. Il legame simbiotico (cancella e confonde i confini) non consente di distinguere dove finisce la propria responsabilità e dove comincia quella dall’altro. Ne deriva che l’allievo non può permettersi di sbagliare o avere insuccessi. Quindi, nel legame simbiotico c’è una risonanza affettiva esagerata e manca la congruenza tra il lamento di qualcuno e la reazioni di chi lo educa. L’educatore deve apprendere ad individuare la simbiosi, a mantenere il senso di adeguatezza interna, la posizione di O. K.-ness, gli insuccessi.