Scarica Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale. e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! LA PRIMA ETà IMPERIALE. CONTESTO STORICO. DINASTIA GIULIO-CLAUDIA 14-68 d.C. La successione di Augusto. Augusto nel 4 d.C. adotta il figlio della moglie Livia Drusilla: Tiberio, nato dalle prime nozze della moglie e l’ex marito Tiberio Claudio Nerone. Tiberio a sua volta adottò il figlio di suo fratello Druso: Germanico. Nel 13 d.C. Augusto concede a Tiberio, l’imperium proconsulare maius, che di fatto lo elevava al rango di coreggente, rinnovandogli anche la tribunicia potestas (che attribuiva la sacra inviolabilità della persona fisica e il diritto di veto). Augusto muore nel 14 d.C. e Tiberio accetta dal Senato di ricoprire il ruolo lasciato vacante dalla morte del grande imperatore. Tiberio 14-37 d.C. Esponente dell’antica aristocrazia conservatrice, Tiberio impronta la sua azione di governo al rigido rispetto della tradizione augustea. Nel 15 d.C. Tiberio concede a Germanico il trionfo per la campagna condotta nei territori oltre il Reno, ma la popolarità di cui gode il figlio adottivo, lo costringe ad allontanarlo da Roma con l’incarico di una nuova campagna in Oriente. Qui Germanico muore nel 19 d.C. Guadagna i favori di Tiberio il nuovo prefetto del pretorio Lucio Elio Seiano. Seiano entra in aperta rivalità con Druso, (padre biologico di Germanico e fratello di Tiberio), poiché dopo la morte di Germanico gli si era aperta una strada verso la successione. Ma nel 23 d.C. anche Druso muore, assassinato dalla moglie Claudia Livilla, con cui Seiano intraprese una relazione. La lotta per la successione si inasprì, Seiano perseguitò i figli di Germanico, già adottati da Druso e posti da Tiberio sotto la protezione del Senato, e la loro madre Agrippina. Per sottrarsi a questo clima di crescente ostilità Tiberio nel 27 si ritira a Capri, da dove continuava a governare l’impero, comunicando con Roma per via epistolare. Seiano, tuttavia, si avvantaggiò moltissimo dell’assenza dell’imperatore, assumendo di fatto il controllo della vita politica ed esautorando l’autorità del Senato. Seiano sposa la vedova di Druso, e dopo chiede all’imperatore di conferirgli la tribunicia potestas, che avrebbe sancito definitivamente la sua successione al principato, ma con un’abile mossa, Tiberio, nominato come prefetto del pretorio il praefectus urbis Macrone e assicuratosi così il controllo delle coorti pretorie, invia al Senato la lettera in cui Seiano veniva accusato di tradimento e ne ordinava l’arresto immediato. Processato sommariamente, Seiano è condannato a morte e alla damnatio memoriae. Nel 35 d.C. Tiberio adotta l’unico figlio vivente di Germanico, Caligola, designandolo alla successione insieme al nipote Tiberio Gemello. Nel 37 d.C. in uno dei suoi viaggi nella Penisola l’imperatore Tiberio muore, a capo Miseno. Caligola 37-41 d.C. Caligola è proclamato imperator dal Senato subito dopo la morte di Tiberio nel 37 d.C., ma tradì presto le generali aspettative, con il nuovo imperatore si assistete al primo tentativo di caratterizzare il principato in senso assolutistico. Tra i primi atti dell’imperatore ci fu l’eliminazione di Tiberio Gemello, che fu costretto al suicidio. La divinizzazione della sorella; l’obbligo per gli ebrei di collocare nel loro tempio una statua dell’imperatore, tutti fattori che testimoniano una concezione autocratica del potere. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 1 Nel 41 d.C. l’imperatore cade in una congiura ordita da senatori e pretoriani. Società e cultura. La seconda generazione augustea, quella investita dalla stagione delle guerre civili, nutriva una gratitudine minore verso il principe che aveva restaurato la concordia e la pace sociale, aveva dato segni di disaffezione, se non di aperta insofferenza, per la letteratura che a quel programma di restaurazione morale e politica aveva prestato, in forme più o meno mediate, il proprio appoggio e consenso. La figura di Ovidio costituisce un caso emblematico di questo mutato atteggiamento verso la poesia alta, di impegno civile (rappresentata in primo luogo da Virgilio), e della preferenza accordata alla letteratura leggera, di gusto ellenistico. Crisi del mecenatismo e la storiografia ostile al principato. La scomparsa di Mecenate, e il venir meno della sua accorta opera di mediazione fra il potere politico e l’elite intellettuale, provoca un distacco che non si sarebbe più ricomposto se non in modo occasionale e precario. La crisi del mecenatismo è già manifestata con Tiberio, che non sembra nemmeno porsi il problema di organizzare un programma di egemonia culturale, di fronte al rivolgersi di una storiografia contraria al principato (fino ad avere i suoi “martiri della libertà”, come lo storico Cremuzio Cordo, morto suicida nel 25 d.C.). È in questa corrente storiografica, innestata sulla tradizione repubblicana dell’elite senatoria, che nasce quell’atteggiamento di ostilità verso la dinastia giulio-claudia che avrebbe esteso il suo riflesso sino a Svetonio e Tacito, a cui risale l’immagine che dei sovrani di quella famiglia sarebbe stata trasmessa alla posterità. Claudio 41-54 d.C. A Caligola succede lo zio Claudio, fratello di Germanico, unico maschio adulto della famiglia imperiale sopravvissuto alle lotte dinastiche. La tradizione lo rappresenta come un uomo di studi, dotato di raffinata erudizione ma privo di formazione politica, vissuto sempre lontano dalla vita pubblica. Eppure, una volta al potere, Claudio rivela insospettate doti di buon governante. Nel 48 d.C., dopo la condanna a morte della moglie Messalina, accusata di cospirazione, Claudio sposa la nipote Agrippina minore, figlia di Germanico. La nuova Augusta inizia subito a preparare la successione del figlio Nerone, nato dalle sue precedenti nozze con Gneo Domizio Enobarbo. Il futuro imperatore è adottato nel 50 da Claudio, diventato coerede con Britannico, il figlio che il principe aveva avuto da Messalina. Temendo che la successione possa sfumare a vantaggio del più giovane Britannico, nel 54 d.C., Agrippina, di concerto con il prefetto del pretorio Afranio Brurro, uccide il marito con un piatto di funghi avvelenati: Nerone è acclamato imperatore dai pretoriani. Poco dopo il nuovo principe provvederà all’eliminazione di Britannico. Claudio, un letterato e un erudito senza programma culturale. La situazione culturale sembra non migliorare con Claudio, che pure aveva personalmente un’ottima forma di erudito, e che sappiamo avere scritto molte opere, sia in greco che in latino. In latino aveva scritto anche di storia su esortazione di Livio, partendo dalla morte di Cesare, sorvolando sul periodo delle guerre civili e dilungandosi invece su quello del principato di Augusto, cui dedicava ben quarantuno libri. Ancora in latino Claudio aveva composto uno scritto in difesa di Cicerone. Sempre in latino scrisse un’opera di grammatica, in cui proponeva l’introduzione di tre nuove lettere nell’alfabeto latino. Nerone 54-68 d.C. I primi cinque anni del principato di Nerone si distinsero come un periodo di buon governo, sotto l’influenza di Burro e del filosofo Seneca, precettore dell’imperatore già sotto Claudio. A partire dal 58 ha inizio invece una svolta in senso autocratico: Nerone avanza una serie di proposte difficilmente praticabili, come l’abolizione delle imposte indirette e una riforma dello statuto degli appalti, che avrebbe sottratto alle casse dello Stato entrate insostituibili. Nel 60 istituisce i Neronia e obbliga i senatori a partecipare al certame poetico insieme all’imperatore: si afferma così l’immagine del monarca divino di tradizione ellenistica, amante dell’arte e della bellezza. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 2 Sul piano letterario spiccano soprattutto due fenomeni, in questo ritorno all’esaltazione dei valori tradizionali: la ripresa della poesia epica, nel segno del primato di Virgilio, e, in prosa, l’assurgere di Cicerone a modello di una maniera stilistica ma anche di un’educazione fondata sulla retorica. Restano comunque forti nella letteratura dell’età flavia, specialmente in poesia, tracce del gusto impostosi via via nella prima parte del I sec. della nostra era; e non si ha nemmeno quella ripresa organica del mecenatismo in cui avevano sperato i poeti del tempo. GENERI POETICI NELL’ETÁ GIULIO-CLAUDIA. Stagione d’oro della poesia minore. Nella storia della poesia latina il periodo che va dall’inizio del principato di Tiberio all’avvento di Nerone è uno dei più difficili da inquadrare sinteticamente. Si fa schiacciante l’influsso di personalità come Virgilio, Orazio e Ovidio, da una parte; dall’altra, mancano nuovo figure di letterati che si impongono come punti di riferimento. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 5 La caratteristica più evidente della produzione letteraria dei questo periodo, e cioè la passione per generi poetici “minori”, come l’epillio (breve carme di argomento mitologico-sentimentale), la poesia bucolica o l’epigramma, è proprio ciò che rende più difficile la ricerca di costanti. La poesia minore della generazione di Ovidio (43 a.C.-17 d.C.). Cultori della poesia alessandrina. La passione per generi poetici minori si rintraccia già tra i contemporanei di Ovidio. Di questi letterati abbiamo testimonianze indirette e scarsi frammenti. VALGIO RUFO. Significativa figura di erudito, è autore di epigrammi, elegie ed esametri a tema bucolico. DOMIZIO MARSO. Compose eleganti epigrammi, tra cui uno famoso sulla morte di Tibullo. EMILIO MACRO. Autore più legato a Ovidio, artefice di poemetti in esametri su uccelli, serpenti ed erbe, alla maniera della poesia didascalica alessandrina. GRATTIO. Autore di un poemetto didascalico sulla caccia, che ci è giunto incompiuto (circa 500 esametri). La datazione dell’opera, in cui convivono influssi virgiliani e gusto prezioso per la digressione mitologica, è anteriore all’esilio di Ovidio, che nomina Grattio nelle Epistulae ex Ponto. Poesia astronomica. A questa tendenza neoalessandrina si può ricollegare anche la poesia astronomica di Germanico e Manilio, che scelgono come modello i Fenomeni di Arato (310-240 a.C. ca.), il poema didascalico che era stato già tradotto da Cicerone e imitato da Varrone Atacino nonché da Virgilio (nelle Georgiche), e che sarà nuovamente tradotto in età tardoantica da Avieno. L’interesse per l’astrologia è una componente notevole della cultura romana, a partire almeno dell’età cesariana. Non si tratta soltanto di interesse scientifico ed erudito, ma anche filosofico e religioso. GERMANICO 15 a.C-19 d.C. Figlio adottivo di Tiberio e successore designato, si segnalò giovanissimo come generale, combattendo anch’egli contro i Gemani. La sua morte improvvisa, mentre era governatore in Siria, fu attribuita a un complotto. Dell’attività poetica di Germanico ci restano quasi un migliaio di esametri: un poemetto dal titolo Aratea, incompleto, traduzione dei Fenomi di Arato, e alcuni frammenti di una libera rielaborazione di Pronostici del poeta greco, intitola appunto Prognostica; quindi, rispettivamente, un poemetto sui corpi celesti e uno sui segni del tempo. Non sappiamo se Germanico concepisse l’insieme come opera unitaria. Il proemio degli Aratea contiene una dedica a un genitor che è certamente Tiberio. La datazione è probabilmente di poco posteriore alla morte di Augusto, e quindi tra il 14 e il 19. MANILIO. Di Manilio, non sappiamo nulla della sua biografia. Compose il poema didascalico in cinque libri di esametri dal titolo Astronomica. Il Libro I è dedicato all’astronomia, con una descrizione del cosmo che comprende le ipotesi sulla origine, le stelle, i pianeti, i circoli celesti, le comete. Il Libro II, analizza le caratteristiche dei segni dello zodiaco e le possibilità offerte dalle loro congiunzioni. Il Libro III descrive le dodici sorti, il locus fortunae e il modo di determinare l’oroscopo. Il Libro IV analizza ancora i segni zodiacali e il loro influsso sui caratteri umani. Il libro V, esamina i segni extrazodiacali che accompagnano il moto dello zodiaco e le grandezze stellari. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 6 L’opera dev’essere stata composta verso la fine del regno di Augusto, la datazione più probabile è a cavallo tra i due principati (Augusto e il successore). Gli Astronomica emulano Lucrezio soprattutto nella struttura espositiva e nel modo di disporre la materia per libri. Per gli altri aspetti, invece, Manilio è il primo esponente di quella che si usa chiamare “età argentea” della poesia latina. Il suo esametro, fluido e regolare, rivela l’influenza dominante di Ovidio: è il codice espressivo che sarà prevalente in autori come Lucano e Stazio. La presenza di Ovidio si sente anche nel gusto sentimentale e “rococo” di certe digressioni mitologiche, che si staccano nettamente dal contesto astronomico. La tendenza alla brevitas, all’ellissi espressiva e la difficoltà dei temi trattati fanno di Manilio uno dei poeti più difficili della letteratura latina. Epica. La poesia epica a soggetto storico conosce a Roma una fortuna ininterrotta, lacunosa solo per noi, che ne abbiamo, per tutto il periodo che va da Ennio a Lucano, solo isolati frammenti, spesso solo i titoli e nomi di autori. La perdita di queste opere è un segno dei mutamenti di gusto: contro l’epica storica, e penegiristica polemizzarono Catullo, Orazio, Properzio, e la mancata conservazione di una produzione che non rispondeva alle nuove tendenze letterarie non può essere ritenuta di per sé indizio di scarso valore letterio. LUCIO VARIO RUFO. Lucio Vario Rufo, l’editore dell’Eneide, poeta di spicco del circolo di Mecenate, autore apprezzato di una tragedia, Tieste; di un poema forse didascalico, De morte, e di un Panegirico di Augusto. ALBINOVANO PEDONE. Significativo poeta storico dell’età tarda di Augusto ed elegante emulo di Virgilio e Ovidio. Il suo poema narrava l’avventurosa spedizione di Germanico nei mari del Nord (16 d.C.), ne abbiamo un frammento che svolge in uno stile enfatico e patetico un tema derivato dalle celebrazioni delle gesta di Alessandro Magno. Tragedia e teatro. Della ripresa del teatro tragico nella prime età imperiale la testimonianza più autorevole che abbiamo sono le tragedie di Seneca, gli unici testi tragici giunti sino a noi in forma non frammentaria. In età giudio-claudia e nella prima età flavia, l’elite intellettuale senatoria sembra ricorrere al teatro tragico come la forma letteraria più idonea a esprimere la propria opposizione al regime. Infatti, nella tragedia latina, che riprende ed esalta un aspetto già fondamentalmente in quella greca classica, era sempre stata forte l’ispirazione repubblicana e l’esercitazione della tirannide. I tragediografi di età giulio-claudia e di età flavia di cui abbiamo notizia, sono tutti personaggi di rilievo nella vita pubblica romana. MAMERCO SCAURO. Dagli Annales di Tacito sappiamo che, sotto l’impero di Tiberio, Mamero Scauro, celebre anche come oratore, fu costretto a uccidersi perché in una sua tragedia, l’Atreus, erano ravvisate allusioni all’imperatore. POMPONIO SECONDO. Al tempo di Claudio ebbe fama Pomponio Secondo, il quale rivestì anche la carica di console, di lui scriverà una biografia Plinio il Vecchio. Pomponio, oltre a tragedie di argomento greco, compose anche una praetexta intitolata Aeneas. CURIAZIO MATERNO. Nell’età di Vespasiano, Curiazio Materno, che fu anche oratore e che figura come nel Dialogus de oratoribus di Tacito. Delle sue tragedie conosciamo vari titoli, fra cui quelli di due praetextae: il Cato e il Domitius. Opere ispirate, o che si dicono erroneamente di Virgilio. Appendix Vergiliana, raccolta formatasi in età umanistica. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 7 Fedro come narratore inventa ben poco, le sue favole sono poco originali e devono molto alla tradizione esopica; quanto a elaborazione letteraria, nessuna di esse può rivaleggiare con le favole che grandi poeti o narratori: da Esiodo a Callimaco, da Ennio a Orazio, amano includere, come esperimenti occasionali, nelle loro opere. Il merito di Fedro sta invece nell’impegno costante e sistematico per dare alla favola una misura, una regola, una voce ben definita e riconoscibile. La tradizione favolistica esopica si era fissata, intorno al IV sec. a.C., in raccolte letterarie in prosa. Lavorando su questi modelli greci in prosa, probabilmente la sua unica fonte, Fedro creò una regolare forma poetica per la favola. Le morali di Fedro sono un tratto originale, almeno in quanto esprimono una mentalità sociale: il tono amareggiato, con cui spesso il poeta commenta la legge del più forte che vige nella società degli animali, sembra esprimere il punto di vista delle classi subalterne della società romana. Fedro è uno dei pochissimi letterati romani che diano voce al mondo degli emarginati. Non mancano spunti di adesione alla realtà contemporanea, anche con accentuazioni vicine alla satira. Fedro non sempre si limita alla tradizione della fiaba di animali, e talora sembra inventare di suo, come nel divertente racconto che ha per protagonista Tiberio (2, 5), o in aneddoti tratti dalla storia. GENERI MINORI DI ETà NERONIANA. Continua anche sotto Nerone la fioritura dei generi minori, in particolare la poesia bucolica e l’epigramma. CALPURNIO SICULO. Un certo Calpurnio Siculo, la cui biografia ci è del tutto ignota, ci ha lasciato sette egloghe, componimenti pastorali alla maniera di Virgilio, che ha soppiantato Teocrito quale modello del genere bucolico. La datazione all’età neroniana è sicura per la presenza di allusioni all’imperatore. Calpurnio è importante soprattutto perché è il primo testimone di una concezione allegorica della poesia pastorale. Alcuni dei pastori di Calpurnio sono semplici allegorie di personaggi storici. Calpurnio potenzia certi spunti allegorici che erano già presenti nelle egloghe virgiliane: la misteriosa profezia dell’età dell’oro della IV egloga virgiliana diventa, nella visione cortigiana di Calpurnio, l’avvento dell’età dell’oro incarnato nel buon governo del principe Nerone. Alcuni attribuiscono sempre a Calpurnio anche le Laus Pisonis, un lungo panegirico in esametri di un certo Calpurnio Pisone, forse l’aristocratico che capeggiò la congiura spenta nel sangue da Nerone nel 65. NEMESIANO. Poeta del III sec., ci ha tramandato quattro egloghe. Continua il filone bucolico. Sono databili all’età di Nerone, per le allusioni a Nerone e per la tecnica poetica. I Carmina Einsidlensia. Assimilabile a qualla di Calpurnio, sono invece i cosiddetti Carmina Einsidlensia, due frammenti bucolici rinvenuti nel 1869 in un manoscritto del monastero di Einsiedeln, in Svizzera. Nel secondo frammento, ricorre il motivo del ritorno all’età dell’oro, allusione panegiristica al regno di Nerone. NERONE. La perdita più grave, sono le poesie di Nerone stesso, che aveva scritto molto, a giudicare dai titoli che abbiamo e dai quali sembra emergere la predilezione di Nerone per la poesia mitologica, di chiara ispirazione neoalessandrina. Abbiamo notizia di uno stravagante poema sulla guerra di Troia, i Troica, in cui l’eroe era Paride invece di Ettore. L’Ilias Latina. A questo periodo forse risale una modesta riduzione poetica dell’Iliade, la cosiddetta Ilias Latina. Poco più di mille esametri narrano le vicende omeriche, in uno stile manierato che risente delle scuole di retorica. L’importanza storica dell’Ilias Latina sta più che altro nella sua fortuna medievale; in un’epoca che non aveva altro accesso diretto a Omero, questa modesta compilazione, insieme ad altre riduzioni in prosa, ebbe una funzione insostituibile di divulgazione, di surrogato provvisorio prima che la cultura occidentale tornasse a praticare direttamente la poesia greca classica. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 10 CESIO BASSO. Tra i poeti lirici d’età neroniana compare Cesio Basso, lodato da Persio e da Quintiliano. Basso va ricordato soprattutto per i suoi studi filologici: è autore di un importante trattato di metrica, dedicato a Nerone, di cui ci restano solo frammenti. SULPICIA. Tra i poeti lirici troviamo anche una donna, Sulpicia, lodata da Marziale, che arriva a paragonarla a Saffo. Era celebre per il crudo realismo erotico delle sue poesie, dedicate al marito Caleno. Ce ne restano solo due versi. CULTURA E SPETTACOLO NELLA PRIMA Età IMPERIALE. Letteratura e teatro. Pantomima. Durante il regno di Nerone e per tutta l’età flavia il teatro torna a godere di immensa fortuna. Il genere di spettacolo favorito era la pantomima, una rappresentazione in cui un attore cantava, accompagnato dalla musica e il testo del libretto, mentre un secondo attore, col volo mascherato, mimava la vicenda con i movimenti del corpo e i gesti delle mani. Abbiamo perduto i testi e le musiche di questi spettacoli, ma le testimonianze indirette di scrittori come Seneca e Giovenale ci danno notizie significative sugli sfrenati entusiasmi che la pantomima suscitava e l’enorme popolarità che ne derivava agli attori. Recitationes. Un fenomeno culturale di grande importanza in questo periodo è la pratica della recitationes, a cui aveva dato inizio Asinio Pollione. Si tratta della lettura di brani letterari davanti a un pubblico di invitati. Questo costume porta a trasformazioni nel campo letterario: diventando un bene di consumo per sale pubbliche o teatri, la letteratura tende ad acquisire tratti spettacolari. La letteratura viene ormai concepita come spettacolo, esibizione d’ingegno. L’abuso degli artifici retorici, del resto, è una componente caratteristica della letteratura di questo periodo (che per convenzione si definisce “argentea”, per indicarne il declino rispetto all’età “aurea” di Augusto). Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 11 La letteratura argentea è caratterizzata da una forte reazione anticlassistica, che si manifesta sia nella scelta dei contenuti, sia nel trattamento delle forme, dove si accentuano i toni cupi e patetici e le tinte espressionistiche. Le declamationes. Importante fenomeno culturale del periodo. Le declamazioni sono un tipo di esercizio in uso da tempo nelle scuole di retorica. Possediamo in proposito una testimonianza preziosa, quella di Seneca il Vecchio. SENECA IL VECCHIO 50 a.C-41 d.C. Notizie biografiche. Nativo di Cordova, in Spagna, attorno al 50 a.C., di estrazione equestre, divise la sua vita tra Roma e la Spagna. Probabilmente la sua morte è comunque anteriore all’esilio del figlio, Seneca il filosofo, del 41 d.C. La testimonianza preziosa di Seneca il Vecchio sulle declamationes, ci permette di avere anche informazioni sull’oratoria e dei principali retori del suo tempo in un’opera intitolata Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores (le sententiae sono le frasi di tipo epigrammatico e sentenzioso destinate a impressionare l’ascoltatore: le divisiones sono i modi in cui il declamatore articola gli aspetti giuridici della vicenda; i colores costituiscono le coloriture stilistiche con cui i declamatori presentano personaggi e situazioni). Venuto meno lo spazio dell’oratoria politica e di quella giudiziaria, viene meno anche la funzione civile della retorica: non più strumento per la formazione dei futuri cives, essa serve soprattutto ad addestrare brillanti conferenzieri. Ecco che la retorica si è immiserita in futili esercitazioni, la declamationes appunto, che vertono su temei e argomenti fittizi, romanzeschi, prescelti proprio per la loro singolarità o stranezza, che deve fungere da elemento stimolante sugli ascoltatori. La declamazione infatti è ormai diventata uno spettacolo pubblico cui non disdegnano di partecipare anche personaggi di spicco della vita politica. Seneca illustra i due tipi di esercizi più in voga: • la controversia, che rientra nel genere giudiziale e consiste nel dibattimento, da posizioni contrapposte, di una causa fittizia (sulla base del diritto romano, o greco, o anche di legislazioni immaginarie). • La suasoria, appartenente al genere deliberativo, o politico, e consiste nel tentativo da parte dell’oratore di orientare l’azione di un personaggio famoso, della storia o del mito, di fronte a una situazione incerta o difficile. Della sua opera ci rimangono un libro contenente sette Suasorieae e cinque Controversiae, accanto ai vari temi di esercitazione, Seneca fornisce anche un’interpretazione della storia dell’oratoria a Roma, fino alla decadenza dei suoi giorni, che gli attribuisce alla corruzione morale all’intera società. STORIOGRAFIA IN Età GIULIO-CLAUDIA. Storiografia dell’opposizione di età augustea. Accanto alla storiografia di Livio, celebrativa del regime, era fiorita anche una storiografia dell’opposizione, rappresentata da autori come: Asilio Pollione, Pompeo Trogo e Tito Labieno, la cui opera è stata prontamente offuscata dal regime e conseguentemente censurata dall’azione del tempo. La stessa sorte, sotto il regno di Tiberio, tocca a Cremuzio Cordo con i suoi Annales. VELLEIO PATERCOLO. Velleio Patercolo, di Aeclanum, in Irpinia, nato in una famiglia di buone condizioni, ma non aristocratica, rappresenta una tendenza storiografica del tutto diversa. Le sue Historiae ad Marcum Vinicium (console dell’anno 30 d.C.), in due libri, che iniziavano dati tempi più remoti per arrivare all’età contemporanea, sono, nella sezione dedicata alla storia attuale, un commosso panegirico delle capacità militari e della sagacia politica di Tiberio, ne risulta un ritratto ben diverso da quello che dell’imperatore darà Tacito. In effetti si sa che Tiberio, da giovane comandante in Germania, ma anche, poi, come amministratore dell’Impero, dovette essere tutt’altro che il crudele maniaco descritto da Tacito. Velleio aveva combattuto appunto con Tiberio nelle campagne contro i Germani, al comando della cavalleria, ed è il portavoce della classe militare, lealista verso l’imperatore. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 12 LUCIO ANNèO SENECA 4 a.C.-65 d.C. Notizie biografiche. Lucio Anneo Seneca nacque in Spagna, Cordova, forse nel 4 a. C., da ricca famiglia di ragno equestre. Venne presto a Roma, dove fu educato nelle scuole retoriche, e filosofiche in vista della carriera politica e filosofica. Nel 31, iniziò l’attività forense e la carriera politica, ottenendo successo cospicuo se è vero che Caligola, geloso della sua fama oratoria, lo condannò a morte, ma fu salvato da un’amante dell’imperatore. Non si salvò dalla relegazione che, nel 41, gli comminò Claudio, con l’accusa di coinvolgimento nell’adulterio di Giulia Livella. Dalla Corsica, tornò nel 49, per intervento di Agrippina, che lo scelse come tutore del figlio di primo letto, il futuro imperatore Nerone. In questo modo accompagnò l’ascesa al trono del giovane Nerone (54 d. C.) e da allora di fatto resse la guida dello stato: è il celebre periodo di buon governo di Nerone, che andò progressivamente deteriorandosi, fino al matricidio che Nerone compì nel 59, costringendo Seneca a gravi compromessi. Attorno al 62, dopo la morte di Burro, con Nerone ormai nelle mani di Poppea e avviato alla famigerata fase conclusiva del suo regno, Seneca, vista venir meno la sua influenza di consigliere politico, si ritirò gradualmente a vita privata, dedicandosi ai suoi studi. Ormai inviso e sospetto a Nerone e a Tigellino, nuovo prefetto del pretorio, Seneca venne coinvolto nella congiura di Pisone, di cui forse era solo al corrente, senza esserne partecipe, e nella repressione che la seguì: condannato a morte da Nerone, si suicidò nello stesso 65 d.C. Fonti biografiche. Molte sono le notizie autobiografiche forniteci da Seneca stesso; fra le fonti, le più importanti soni i Libri XII-XV degli Annales di Tacito, una sezione della Storia romana dello storico greco Dione Cassio, le biografie svetoniane degli imperatori Caligola, Claudio, Nerone. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 15 Il genere della consolatio. Motivi isolati di consolazione, come quello dell’inutilità delle lacrime, affondano le loro origini sin dall’epica omerica e si incontrano più volte negli scrittori e nei pensatori greci. Ma il formarsi di un vero e proprio genere consolatorio è tardo, di età ellenistica, e inizia per noi con la notizia di un perduto trattato Sul lutto, attribuito al filosofo Crantore, molto conosciuto e apprezzato nell’antichità. La letteratura greca e latina dovettero comprendere vari scritti del genere, tutti per noi pressoché perduti, ad eccezione per il dialogo pseudo platonico di Assioco, qualche esempio di epistolografia consolatoria e le consolazioni poetiche. I primi trattati superstiti sono per noi proprio quelli di Seneca, insieme ad alcune delle sue Epistulae ad Lucilium. Dopo questi, e utili per analogie tematiche con essi, la Consolazione alla moglie del greco Plutarco (I-II sec. d.C.) e soprattutto quella, pseudoplutarchea, ad Apollonio. Opere: opere filosofiche. Della vasta produzione senecana, quelle di carattere filosofico occupano lo spazio maggiore. Dialogi e la saggezza stoica. Alcune di queste furono raccolte, dopo la sua morte, in 12 libri di Dialogi: il titolo, già noto a Quintiliano, non implica generalmente la forma dalogica, ma pare piuttosto dovuto alla grande tradizione del dialogo filosofico risalente a Platone. I Dialogi sono trattati, per lo più brevi, su questioni etiche e psicologiche. Libro I. Ad Lucilium de providentia. Opera dedicata al Lucilium delle Epistualae, opera appartenente agli ultimi anni, affronta il problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale che secondo la dottrina stoica presiede alle vicende umane e la sconcertante constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti. La risposta di Seneca è che le avversità che colpiscono chi non le merita non contraddicono tale disegno provvidenziale, ma attestano la volontà divina di mettere alla prova i buoni ed esercitarne la virtù: il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel riconoscere il posto che gli è assegnato nell’ordine cosmico governato dal logos, e nell’adeguarvisi compiutamente. Libro II. Ad Serenum de constantia sapientis. Il superiore distacco del saggio dalle contingenze terrene è anche il tema unificante della “trilogia” dedicata all’amico Sereno, che abbandona le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica. Trilogia composta da: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi. De costantia sapientis, pubblicato dopo il 41, esalta l’imperturbabilità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza di fronte alle ingiurie e alle avversità. Libro III. Ad Novantum de ira libi III. I tre libri del De ira, scritti in parte prima dell’esilio ma pubblicati dopo la morte di Caligola, sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane, ne analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e dominarle. L’opera è indirizzata al fratello Novato, al quale Seneca dedicherà qualche anno dopo, anche il De vita beata. Libro IV. Libro V. Libro VI. Ad Marciam de consolazione. Scritta sotto il principato di Caligola, indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo per consolarla della perdita del figlio Libro VII. Ad Gallionem de vita beata. (Novato si chiamerà Gallione, dal nome del padre adottivo, il retore Giunio Gallione). Opera forse databile al 58, il De vita beata affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il problema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse di incoerenza tra i principi professati e la concreta condotta di vita che grazie alla sua posizione di potere lo aveva portato ad accumulare un patrimonio sterminato. L’essenza della felicità sta nella virtù, non nella ricchezza e nei piaceri (polemica rivolta agli epicurei, o almeno alle sue versioni deteriori), Seneca legittima tuttavia l’uso della ricchezza se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù. Se è vero che il saggio sa vivere secondo natura, saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam paupertate damnavit: nessuno ha condannato la saggezza alla poverta cap. 23). Chi aspira alla sapientia (che resta un ideale mai pienamente conseguibile) dovrà saper “sopportare” gli agi e il benessere che le circostanze della vita gli hanno procurato, senza lasciarsene invischiare (secondo il principio che l’importante non è possedere ricchezze, ma non farsi possedere da esse). Libro VIII. Ad Serenum de otio. Il superiore distacco del saggio dalle contingenze terrene è anche il tema unificante della “trilogia” dedicata all’amico Sereno, che abbandona le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica. Trilogia composta da: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi. La scelta di una vita appartata è invece chiara nel De otio: una scelta forzata, resa necessaria dalla situazione politica compromessa tanto gravemente da non lasciare al saggio, impossibilitato a giovare agli altri, alternativa diversa dal rifugio nella solitudine contemplativa, di cui si esaltano i pregi. Libro IX. Ad Serenum de tranquillitate animi. Il superiore distacco del saggio dalle contingenze terrene è anche il tema unificante della “trilogia” dedicata all’amico Sereno, che abbandona le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica. Trilogia composta da: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi. L’opera affronta uno dei problemi fondamentali nella riflessione senecana, la partecipazione del saggio alla vita politica. Seneca cerca una mediazione fra i due estremi dell’otium contemplativo e dell’impegno proprio del civis romano, suggerendo un comportamento flessibile rapportato alle condizioni politiche. L’obiettivo da conseguire, sottraendosi sia al tedio di una vita solitaria sia agli obblighi della tumultuosa vita cittadina, è sempre quello della serenità di un’anima capace di giovare Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 16 agli altri, se non con l’impegno pubblico, almeno con l’esempio e la parola. Libro X. Ad Paulinum de brevitate vitae. Databile forse tra il 49 e il 52 sembra, (opera dedicata a Paolino prefetto dell’annona, forse parente della seconda moglie di Seneca) tratta il problema del tempo, della sua fugacitàe dell’apparente brevità di una vita che tale ci sembra perché non ne sappiamo afferrare l’essenza, ma la disperdiamo in tante occupazioni futili senza averne piena consapevolezza. Libro XI. Ad Polybium de consolazione. Risale al periodo dell’esilio in Corsica (questa forse è del 43), rivolta ad un potente liberto di Claudio, per consolarlo della perdita di un fratello, si rivela in realtà come un tentativo indiretto di adulare l’imperatore per ottenere il ritorno a Roma (l’opera che sarà quella più costosa per Seneca, poiché riceverà l’accusa di opportunismo). Libro XII. Ad Helviam matrem de consolazione. Risale al periodo dell’esilio in Corsica (forse del 42), cerca di tranquillizzare la madre sulla condizione del figlio esule, esaltando gli aspetti positivi dell’isolamento e dell’otium contemplativo. Le singole opere dei Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica senecana si iscrive (uno stoicismo che ha stemperato il suo rigore dottrinale e si avvia verso la sua età di mezzo e non conosce chiusure dogmatiche). La composizione dei Dialogi si colloca lungo tutto l’arco della vita di Seneca, ma ben pochi di essi sono databili con sicurezza. Presente nei Dialogi è anche il genere della consolationes. Il genere della consolationes, già coltivato nella tradizione filosofica greca, si costituisce intorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile dell’uomo ecc.), che anche Seneca riprende e rielabora nelle sue consolationes e attorno ai quali ruota gran parte della sua riflessione filosofica. (Le consolationes presenti all’interno dei Dialogi: Ad Helviam matrem, Ad Polybium ed ad Marciam). Le altre opere filosofiche ci sono state tramandate autonomamente. Influente ministro di Nerone nei primi cinque anni del suo principato, Seneca dedica gran parte della sua riflessione ai tempi “pubblici”. Oltre al tema della partecipazione del saggio alla vita politica che trattò in alcuni libri dei Dialogi, Seneca creò altre opere, le quali erano più legate al suo impegno politico, alla sua esperienza di consigliere del principe. De clementia. Opera in cui Seneca espone in maniera più compiuta la sua concezione del potere; opportunamente dedicato al giovane imperatore Nerone (negli anni 55-56), come traccia di un ideale programma politico ispirato a equità e moderazione. Seneca non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato, né le forme apertamente monarchiche che esso ha ormai assunto: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita, a fungere da vincolo e simbolo unificante dei tanti popoli che formano l’Impero. Il problema, è quello di avere un buon sovrano, in un regime di potere assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarà la sua stessa coscienza, che lo dovrà trattenere dal governare in modo tirannico. La clemenza (esprime un generale atteggiamento di filantropica benevolenza) è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti con i sudditi, con essa, e non incutendo timore, il principe potrà ottenere da loro il consenso e dedizione, che sono la più sicura garanzia di stabilità di uno Stato. In questa concezione di un principato illuminato e paternalistico, che affida alla coscienza del sovrano, al suo perfezionamento morale, la possibilità di instaurare un buon governo, l’importanza che acquista l’educazione del princeps e più in generale la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello Stato. In questa generosa illusione, che sembrava rinnovare l’antico progetto platonico del governo dei filosofi, Seneca impegnò a lungo le proprie energie: mosso sempre dall’impulso ai doveri della vita sociale, e ugualmente lontano dalle posizioni estreme di un intransigente rifiuto alla collaborazione col princeps come di un servile acquiescenza al suo dispotismo, egli coltiva un ambizioso progetto di equilibrata e armoniosa distribuzione del potere tra un sovrano moderato e un Senato salvaguardato nei suoi diritti di libertà e dignità aristocratica. All’interno di questo progetto, alla filosofia spetta il ruolo di promuovere la formazione morale del sovrano e dell’elite politica. Ma la rapida degenerazione del governo neroniano, dopo la parentesi del “quinquennio felice”, mette a nudo i limiti di quel disegno, vanificandolo, e la filosofia senecana deve ridefinire i suoi compiti, allentando i legami con la civitas e accentuando progressivamente l’impegno ad agire sulle coscienze dei singoli, privato di un ruolo politico, il saggio stoico si pone al servizio dell’umanità. De beneficiis. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 17 lascia distogliere dal suo proposito e si reca infine ad Atene a purificarsi. Troades. Basate sulla contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l’Eucuba, rappresentano la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti di fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo, e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca. Phoenissae. Unica tragedia senecana incompleta, modellata sulle Fenicie di Euripide e sull’Edipo a Colono di Sofocle, ruota attorno al tragico destino di Edipo e all’odio che divide i suoi figli Eteocle e Polinice. Medea. Basata naturalmente sulla Medea di Euripide, ma forse anche sull’omonima e anche fortunata tragedia perduta di Ovidio, rappresentata la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata da Giasone e perciò assassinata, per vendetta, dei figli avuti da lui. Phaedra. Presuppone il celebre modello euripideo, nonché probabilmente una tragedia perduta di Sofocle e la quarta delle Heroides ovidiane, tratta dell’incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale si vendica denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito, e provocandone la morte. Oedipus. Basato sull’Edipo re sofocleo, narra il notissimo mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del padre Liao e quindi sposo della madre Giocasta. Alla scoperta della tremenda verità l’eroe reagisce accecandosi. Agamemnon. Liberamente ispirato all’omonimo dramma di Eschilo, rappresenta l’assassino di Agamennone, al ritorno da Troia, per mando della moglie Clitennestra e dell’amante Egisto. Thyestes. Rappresenta il cupo mito dei Pelopidi (già trattato in opere perdute di Sofocle ed Euripide, nonché del teatro latino arcaico e più recente, per esempio nell’omonima tragedia di Vario, amico di Orazio e Virgilio), animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, Atreo si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Hercules Oetaeus. Modellato sulle Trachinie di Sofocle, tratta il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare l’amore di Ercole, innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d’amore e in realtà dotato di potere mortale. Fra dolori atroci Ercole si fa innalzare un rogo e vi si getta per darsi la morte, cui farà seguito la sua assunzione fra gli dei. Di tutte le tragedie senecane possediamo i corrispettivi modelli greci, nei confronti dei quali possiamo quindi valutare il modo in cui l’autore opera. Rispetto all’atteggiamento tipico dei tragici latini arcaici, quello di Seneca denota da un lato maggiore autonomia e al tempo stesso però presuppone un rapporto continuo col modello, sul quale Seneca opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione dell’impianto drammatico. Anche se diretto il rapporto con gli originali greci è mediato dal filtro del gusto e della tradizione latina. Contenuti e destinazione delle tragedie. In età giuglio-claudia e nella prima età flavia l’elìte intellettuale senatoria sembra in effetti ricorrere al teatro tragico come alla forma letteraria più idonea ad esprimere la propria opposizione al regime (nella tragedia latina, che riprende un aspetto già fondamentale in quella classica, era sempre stata forte l’ispirazione repubblicana e l’esecrazione della tirannide). La scarsità di notizie esterne non ci permette di saper nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione. Ciò che sappiamo sulla destinazione della letteratura tragica in età anteriore a Seneca, e cioè che si continuava sì a rappresentare normalmente in scena le tragedie, ma che ci si poteva anche limitare a leggerle nelle sale di recitazione, ha indotto studiosi a ritenere che quelle di Seneca fossero tragedie destinate soprattutto, ma non solo, alla lettura. Le varie vicende tragiche si configurano come conflitti di forze contrastanti, come opposizione tra mens e furor, fra ragione e passione: la ripresa di temi e motivi rilevanti delle opere filosofiche rende evidente una consonanza di fondo fra i due settori della produzione senecana, e ha alimentato la convinzione che il teatro senecano non sia che un’illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica. L’analogia non va troppo accentuata, perché nell’universo tragico, il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male. Un rilievo particolare ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere. L’atteggiamento che tiene nei confronti dei modelli greci denota, da un lato maggiore autonomia, e al tempo stesso però presuppone un rapporto continuo col modello, sul quale l’autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione dell’impianto drammatico. Il rapporto con gli originale è mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina; il linguaggio poetico ha la sua Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 20 base costitutiva nella poesia augustea Ovidio. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulo espressivo, ecc. Spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni (ekphràseis), esorbitanti rispetto alla consuetudine epica e soprattutto tragica. Ludus de morte Claudii/Divi Claudii apotheosis per saturam/ Apokolokyntosis. Un’opera davvero singolare è il Ludus de morte Claudii o Divi Claudii apotheosis per saturam; ma il nome sotto cui l’opera è più comunemente nota è quello greco di Apokolokyntosis, che ci fornisce Cassio Dione. Questa parola che implicherebbe un riferimento a kolkynta, cioè la zucca, forse come un emblema della stupidità, e andrebbe intesa come deificazione di una zucca, di uno zuccone, con riferimento alla fama non proprio lusinghiera di cui Claudio godeva. L’operetta contiene infatti la parodia della divinizzazione di Claudio, decretata dal Senato subito dopo la sua morte nel 54 d.C., un evento che dietro il fragile velo dell’ufficialità aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell’opinione pubblica. Seneca prende spunto da questo episodio per dare sarcastico sfogo al risentimento contro l’imperatore che lo aveva condannato all’esilio, in una sorta di pamphlet la cui composizione deve risalire allo stesso anno 54. Il componimento narra la morte di Claudio e la sua ascesa all’Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali lo condannano invece a discendere, come tutti i mortali, negli inferi, dove egli finisce schiavo del nipote Caligola e da ultimo in mano al liberto Menandro; una condanna di contrappasso per chi aveva fama di aver vissuto in mano dei suoi potenti liberti. L’opera rientra nel genere della satira menippea, e alterna perciò prosa e versi di vario tipo in un singolare impasto linguistico e stilistico che accosta i toni piani delle parti prosaiche a quelli spesso parodicamente solenni delle parti metriche, con sapide coloriture colloquiali e beffarde incursioni nel lessico volgare. In un passo in senari giambici si può addirittura riconoscere una gustosa autoparodia di Seneca tragico, con allusioni al Hercules furens. La fortuna. La fortuna di Seneca, dall’antichità all’età moderna, è imponente. Guadagnò presso i Cristiani quel prestigio altissimo che durò per tutto il medioevo e oltre. Più tarda la fortuna delle tragedie che influenzarono profondamente il teatro elisabettiano, soprattutto Shakespeare. Ma la loro azione fu rilevante anche sul teatro classico francese (Corneille, Racine, poi Voltaire); in Italia soprattutto Alfieri, nella sua violenta polemica antitirannica, ne mutuò la vibrante tensione. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 21 La diatriba. La forma letteraria della diatriba nasce nell’ambito della corrente filosofica del cinismo e appartiene al genere detto, con un termine greco, spoudaiogeloion (cioè serio-scherzo). La diatriba consisteva in un discorso di divulgazione filosofica, un’esposizione semplice di un concetto filosofico o di un problema etico, in uno stile orientato a cogliere l’interesse e l’attenzione degli ascoltatori. Si caratterizzava per lo spirito polemico nei confronti di costumi e abitudini della società contemporanea, e conteneva attacchi e battute mordaci, come pure citazioni e parodie di poeti. MARCO ANNEO LUCANO 39 d.C.- 65 d.C. Notizie biografiche. Marco Anneo Lucano nasce a Cordova, in Spagna nel 39 d.C.; figlio di Anneo Mela, fratello di Seneca, è dunque nipote del filosofo. Nel 40 si trasferisce a Roma, dove avviene la sua formazione. Intellettuale brillante, entra alla corte di Nerone, che per un certo periodo lo ha fra i suoi intimi amici. Alla feste indette dall’imperatore nel 60, i Neronia, Lucano recita delle laudes del principe, composte per l’occasione. Subentra una brusca rottura con l’imperatore, per motivi incerti: le fonti antiche accennano a gelosia letteraria da parte di Nerone, ma è anche possibile che quest’ultimo non vedesse di buon occhio le idee troppo marcatamente improntate verso a un nostalgico repubblicanesimo che Lucano andava esprimendo nel suo poema. Caduto in disgrazia presso l’imperatore, e allontanato dalla corte, Lucano aderisce alla congiura di Pisone; una volta scoperto il complotto riceve, come molti altri, l’ordine di darsi la morte. Si toglie la vita, il 30 aprile del 65, a meno di ventisei anni. Fonti biografiche. Siamo informati da tre biografie antiche, una composta da Sventonio nel De poetis, una attribuita a un certo Vacca, e una più breve anonima, contenuta nel codice Vossianus. Inoltre abbiamo la Vita antica di Persio, il libroXV degli Annales di Tacito, Stazio, Silvae: un lungo encomio del poeta che fornisce anche un catalogo delle sue opere, numerose e importanti sono le raccolte di note esegetiche di età medievale. Opere perdute. Ci restano i titoli e in qualche caso scarsissimi frammenti di opere tutte quasi certamente anteriori alla Pharsalia, la sua opera principale. Iliacon. Componimento in versi sulla guerra di Troia. Catachthonion. Carme sulla discesa agli Inferi, da alcuni identificato con un epillio su Orfeo. De incendio urbis. Tragedia incompiuta. Medea. Saturnalia. Silvae. Raccolta di poesia di vario genere. Composta da dieci libri. Laudes Neronis. Laudi sull’imperatore recitate in occasione dei Neronia nel 60. Opera principale. Pharsalia o Bellum civile. L’opera principale di Lucano, il poema epico denominato Bellum civile o Pharsalia (da Farsalo, luogo della storica sconfitta di Pompeo). Pharsalia è il modo con il quale lo stesso autore si rivolge alla propria opera, mentre Bellum civile si ricava dalle biografie antiche di Lucano e dai codici. Il poema è composto da dieci libri, ma è restato incompiuto e lo si può desumere dal fatto che il X libro è molto più breve degli altri e si interrompe bruscamente. Il poema è incentrato sulla guerra civile tra Pompeo e Cesare, segna un forte stacco sulla precedente produzione del poeta. Dai titoli delle opere perdute sembra infatti di poter cogliere una totale adesione ai gusti e alle direttive neroniane, anche se la Pharsalia non era fin dall’inizio in contrasto marcato con le tendenze culturali di Nerone, che personalmente andava progettando un poema epico sulla storia di romana, il modo in cui Lucano sceglie di trattare l’argomento, si risolve in un’esaltazione dell’antica libertà repubblicana, e in un’esplicita condanna al regime imperiale. Contenuto dell’opera. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 22 Pompeo e di Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza: spesso guidato dall’ispirazione momentanea, o addirittura dalla temerarietà, assurge a incarnazione del furor, che un’entità ostile, la Fortuna, scatena contro l’antica potenza di Roma. Nell’incessante attivismo dispiegato da Cesare, l’eroe nero del poema, si è voluto intravedere talvolta quasi il segno dell’ammirazione di Lucano, ed è indubbio che il poeta sembra qua e là soccombere al fascino sinistro del suo personaggio. In fondo Cesare rappresenta il trionfo di quelle forze irrazionali che nell’Eneide venivano domante e sconfitte: il furor, l’ira, l’impatientia e una colpevole volontà di farsi superiore allo Stato, sono le passioni che maggiormente agitano il suo animo. Sono, questi, tratti tipici della rappresentazione del tiranno, presenti già nella tragedia romana arcaica e riproposti nel teatro di Seneca. In questa tipologia rientrano anche la ferocia e la crudeltà: nella Pharsalia Lucano spoglia Cesare del suo attributo principale, la clemenza verso i vinti, a costo di stravolgere la veridicità storica. senilità politica e militare. Questo tipo di caratterizzazione serve tuttavia, in modo abbastanza paradossale, a limitare le responsabilità di Pompeo, la forsennata brama di potere di Cesare è la principale responsabilità della catastrofe che porterà a Roma al tracollo. L’intento di Lucano è quello di fare di Pompeo una sorta di Enea cui il destino si mostra avverso invece che favorevole, in questo senso, egli diviene una figura tragica, l’unica che, nello svolgimento del poema, subisca un’evoluzione psicologica. La Pharsalia rappresenta infatti il precipitare di Pompeo dai vertici più alti, mentre la Fortuna, un tempo così favorevole, gli si rivolge contro con ostile determinazione. Alla progressiva perdita di autorevolezza in campo politico fa riscontro, in Pompeo, un ripiegamento nella sfera del privato, degli affetti familiari, Lucano insiste nel mostrare l’attaccamento di Pompeo verso i figli e soprattutto verso la moglie, come nel Libro V, quando di fronte all’incalzare dei nemici Pompeo li mette al sicuro nell’isola di Lesbo. All’addio dei due sposi sono dedicati versi dominati dal phatos degli affetti familiari. Alla fine abbandonato dalla fortuna Pompeo va incontro a una sorta di purificazione, diviene consapevole della malvagità dei fati, comprende che la morte in nome di una causa giusta costituisce l’unica via di riscatto morale. Un verso lapidario, giustamente celebre, definisce l’ideologia del personaggio, che riflette in larga misura quella dello stesso Lucano: vitrix causa deis placuit, sed victa Catoni. (la causa vittoriosa ebbe il sostegno degli dei, ma quella della sconfitta ebbe solo il sostegno di Catone 1,128). Lo sfondo filosofico della Pharsalia è indubbiamente di tipo stoico, ma nel personaggio di Catone si consuma la crisi dello stoicismo di stampo tradizionale, che garantiva il dominio della ragione del cosmo, e, quindi, la provvidenza divina nella storia. Di fronte alla consapevolezza della malvagità di un fato che cerca unicamente la distruzione di Roma, diviene impossibile, per Catone, l’adesione volontaria alla volontà del destino (o degli dei), che lo stoicismo pretendeva dal saggio. Matura così la convinzione che il criterio della giustizia sia ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo: esso d’ora in poi risiede esclusivamente nella coscienza del saggio. Nella sua ribellione titanistica, Catone si fa al pari degli dei, non ha più bisogno del loro consiglio per cogliere il discrimine tra il giusto e l’ingiusto. Come non si sottomette più alla volontà del destino, così il saggio non può nemmeno mantenere la propria tradizionale imperturbabilità di fronte al suo realizzarsi. Catone si impegna nella guerra civile, con piena consapevolezza della sconfitta alla quale va incontro, e della conseguente necessità di darsi la morte, l’unico modo che gli resta per continuare ad affermare il diritto e la libertà. all’altro schieramento. Così molti dei pompeiani e dei catoni ani sono presentati come combattenti valorosi anche se sfortunati. Spicca fra le altre, la figura di Domizio Enobarbo, che Lucano caratterizza come un eroe, in contrasto con la realtà storica a noi nota, si discute tuttora se questa deformazione corrisponda o meno alla volontà di adulare Nerone, che era un discendente di Enobarbo. L’esercito di Cesare è, al contrario, costituito per lo più da mostri assetati di sangue, legati al loro capo da una sudditanza psicologica e dall’avidità di prede. Anche quando ne presenta i singoli atti di eroismo, come nel caso di Sceva, il poeta non manca di sottolineare l’ingiustizia della causa per cui essi combattono. Tra i personaggi femminili si distingue Cornelia, la moglie di Pompeo, la quale incarna il ritratto dell’assoluta fedeltà e devozione al marito, con cui condivide fino in fondo le avversità della sorte. Il poeta e il principe: l’evoluzione della poetica lucanea. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 25 La Pharsalia presente al lettore una visione della storia a tinte fosche, che non lascia intravedere alcuna possibilità di redenzione. È abbastanza probabile che il pessimismo lucaneo sia andato maturando progressivamente nel corso della stesura del poema: in una fase iniziale, Lucano avrà condiviso le speranze di palingenesi politico-sociale suscitate dall’avvento al potere di Nerone. Nel proemio infatti sembra ancora possibile interpretare la comparsa di Nerone come una sorta di compensazione per le sciagure provocate dal conflitto civile. L’elogio di Nerone riprende da Virgilio una serie di motivi rivolti alla glorificazione della figura del principe. Nel Libro I dell’Eneide, Giove aveva profetizzato a Venere l’avvento di una nuova età dell’oro, dopo che Augusto avesse posto fine alle conteste civili. L’attribuzione a Nerone di tratti augustei era diffusa nella letteratura del tempo. agli occhi Lucano, tuttavia, il nuovo Augusto è molto migliore del primo, e tesserne le l’elogio implica entrare in velata polemica con Virgilio: Nerone e non Augusto, sembra voler dire il poeta, è la vera realizzazione delle promesse del Giove virgiliano. Questa interpretazione presuppone la sincerità dell’elogio di Nerone, non univocamente condivisa dagli studiosi moderni. Già alcuni scolii antichi avevano visto, negli esuberanti tumores dell’elogio, nelle tensioni espressive di uno stile studiatamente turgido, barocco, il segno di una sorta di ironia cifrata nei confronti dell’imperatore, quest’interpretazione è stata più volte richiamata in vita, anche dai moderni, ma all’avviso di Gian Biagio Conte non può essere accettata. Maggiori elementi di plausibilità ha una seconda linea interpretativa, che presuppone in Lucano un’evoluzione sotto certi aspetti non dissimile da quella di Seneca. L’impostazione dei primi tre libri del poema presenterebbe analogie con quella del De clementia e dell’Apokolokyntosis di Seneca, dove la conciliazione del principato e della libertà è ancora considerata possibile con un ritorno alla politica filo senatoria di Augusto. Ciò non significa che si debba marcare una cesura troppo netta tra un primo e un secondo Lucano; su questa via, c’è chi si è spinto ad affermare che, nel corso della composizione, il poeta muterebbe anche il proprio giudizio su Cesare e Pompeo, partito da un obiettiva equidistanza, dopo il Libro III incomincerebbe a parteggiare apertamente per il secondo, scaricando invece su Cesare il proprio velenoso astio. Resta il fatto che, all’interno della Pharsalia, l’elogio di Nerone suona come una nota stridente, nello stesso progetto del poema era insita la contraddizione fra la visione radicalmente pessimistica dell’ultimo secolo di storia romana, che Lucano era venuto maturando, e le aspettative suscitate dal nuovo principe. Nel seguito del poema il pessimismo di Lucano si fa molto più radicale, e approda a una concezione coerentemente priva di luci: un vero e proprio antimito di Roma, il mito del suo tracollo, della sua inarrestabile decadenza, che si contrappone a quello virgiliano dell’ascesa della città da umilissime origini. Stile della Pharsalia. Ardens et concitatus: così Quintilliano ebbe a definire Lucano e voleva probabilmente riferirsi anche all’incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano debordare parti della frasi oltre i confini dello schema esametrico. Per la spinta continua al pathos e al sublime, lo stile di Lucano ha molti punti di contatto con quello delle tragedie di Seneca: si è potuto parlare di “Barocco” e di “manierismo”. È uno stile che di rado conosce dominio e misura, ma è anche uno stile che non è solo il frutto dell’adesione alle mode letterarie del tempo, né intende solo compiacere il gusto delle sale di declamazione; la tensione espressiva dell’epica lucanea si alimenta dell’impegno e della passione con le quali il giovane poeta ha vissuto la crisi della sua cultura. La rappresentazione di una catastrofe come la guerra civile poteva ancora a nutrirsi di una forma tradizionale qual era quella che il genere epico offriva? Nell’immaginario dell’epica eroica la coscienza e l’orgoglio di un popolo avevano trovato forme adeguate a “trasfigurare” gli eventi del proprio passato. Ma a questo compito l’epos non può far fronte ora che lo sviluppo degli eventi ha tradito quel mondo ideale e ha tolto credito alle forme letterarie che lo raccontavano. Lucano non ha la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure senti insufficiente ai suoi bisogni, così egli cerca un rimedio di compenso nell’ardore ideologico con cui denuncia la crisi. Ma così la presenza di un’ideologia politico-moralistica si fa in lui ossessiva, invade il suo linguaggio e si riduce a retorica. La fortuna. Dante la colloca quarto fra gli “spiriti magni” dopo Omero, Orazio e Ovidio; al Catone lucaneo è largamente ispirato quello che Dante incontra nel Purgatorio. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 26 Goethe, nel Faust, prese spunto dalla descrizione dei riti della maga Erìttone. Foscolo derivò da Lucano alcuni accenni dei Sepolcri. Gli spunti “titanistici” e “antiteistici” della Pharsalia alimenteranno anche la poesia di G. Leopardi: il Bruto Minore è sotto certi aspetti la poesia più “lucanea” che sia stata scritta. ARBITER PETRONIUS morto nel 66 d.C. Notizie biografiche. Nessun autore antico ci dice chi fosse il misterioso Petronius Ariber, autore secondo la tradizione manoscritta del Satyricon. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 27 lezione sulla poesia epica, e declama un lungo poemetto sulla guerra tra Cesare e Pompeo, il cossi detto Bellum civile. L’ultima fase del racconto è per noi più difficile da seguire, per lo stato lacunoso del testo. In principio, la commedia di Eumolpo funziona, e i tre vivono comodamente alle spalle dei cacciatori di testamenti. Encolpio ha un’avventura con una donna di nome Circe, ma improvvisamente è abbandonato dalle sue facoltà sessuali. Perseguitato, come lo stesso Encolpio sostiene dal dio Priapo, il protagonista si sottopone a umilianti pratiche magiche, senza successo alcuno; poi, di colpo, riacquista la virilità. Ecco però che la commedia di Eumolpo comincia a incrinarsi: i Crotoniati stanno per scoprire il raggiro. Nell’ultima scena del testo che ci è rimasto, Eumolpo escogita un bizzarro espediente: si dà lettura di un assurdo testamento, per cui chi vuole godere dei lasciti di Eumolpo dovrà cibarsi del suo cadavere. Ma i pretendenti, accecati dalla cupidigia, sono pronti a farsi cannibali. Il nostro testo si interrompe, troviamo il protagonista in una posizione di scacco, creata proprio dal tentativo di liberarsi da una minaccia incombente. Non sappiamo come si concludesse l’avventura di Crotone, né quanto ancora si estendesse la narrazione. Immaginare il finale dell’opera è poi del tutto impossibile, nessuno degli episodi che abbiamo lascia prevedere il successivo. Satyricon e la narrativa d’invenzione. Complessa è, innanzitutto la trama. La parte superstite si presenta come una libera successione di scene, con tonalità variabili; ma queste scene sono collegate da un complesso gioco di richiami narrativi. Ci sono personaggi che appaiono e rispuntano molto più tardi, come nel caso di Lice e Trifena (signora di indubbia moralità, anche questo personaggio è noto a Encolpio). Ci sono, situazioni tipiche, che si ripetono: cambiano scenari e personaggi minori, Encolpio continua a essere intrappolato, umiliato, costretto a tentativi di fuga che si risolvono, per un’accanita perversione della sorte, in peggioramenti ulteriori. La forma, anch’essa complessa. La prosa narrativa è interrotta, con apprezzabile frequenza, da inserti poetici: alcune di queste parti in versi sono affidate alla voce dei personaggi, soprattutto a quella di Eumolpo, che, anche in situazioni poco opportune, dà spazio alla sua torrenziale vocazione poetica (è il caso della Presa di Troia e della Guerra civile, per citare le inserzioni più lunghe). Questi inserti sono motivati e hanno come uditorio i personaggi. Ma molte altre parti poetiche sono strutturate come interventi del narratore, che nel vivo della sua storia abbandona la relazione degli avvenimenti per commentarli. Questi commenti hanno una funzione ironica, non perché si tratti di poesie “mal fatte”, che, anzi, Petronio si rivela come un poeta dalla versatilità tecnica straordinaria e ammirevole, ma perché il commento poetico non corrisponde, vuoi per lo stile e livello letterario, vuoi per contenuto e orientamento, a quella situazione in cui dovrebbe inquadrarsi. Ne derivano dei contrasti, degli sbalzi tra aspettative e realtà, e brusche ricadute, anche di volgarità brutale. Quando Encolpio paragona una losca fattucchiera ubriacona a un personaggio di Callimaco, o canta in versi catulliani le sue gioie d’amore subito prima di essere tradito da Gitone, il lettore scopre un controcanto ironico, a spese dell’ingenuità del narratore. La presenza di un narratore passivo, ingenuo, sottoposto a continui passaggi di fortuna, è tipica di Petronio come delle Metamorfosi di Apuleio, l’altro testo narrativo lungo in latino a noi noto, nonché della moderna narrativa picaresca: è un modo di costruire il racconto. La presenza stessa di un’azione continua narrata dalla prospettiva unificante del protagonista pone il Satyricon nella tradizione del romanzo antico, ma la straordinaria ricchezza di contenuti e di livelli sembra fuggire alla rigida classificazione nel sistema canonico dei generi letterari. Satyricon e satira menippea. Dal punto di vista formale, la caratteristica più evidente del Satyricon è senza dubbio la libera alternanza di prosa e versi, il cosiddetto prosimetro, questo doppio registro non ha una presenza marcata nei testi narrativi antichi che conosciamo, quale per esempio l’opera di Apuleio. Punto di riferimento più vicino sembra piuttosto una satira menippea, l’Apokolokyntosis di Seneca. Il genere ha una storia abbastanza complicata da seguire, richiamandosi al filosofo cinico Menippo di Gadara, Varrone aveva intitolato Satire Menippee le sue Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 30 composizione satiriche. Dai frammenti che abbiamo, sembra che questo tipo di satira fosse un contenitore aperto, molto vario per temi e soprattutto per forma. Doveva comprendere anche parti in prosa, e sembra che Varrone desse largo spazio a una componente realistica. Rimangono però alcune differenze assai nette. La satira senecana è una narrazione di compasso molto breve, ed è impossibile paragonarla allo sviluppo del Satyricon. Inoltre, è un testo di satira intesa come libello, come attacco personale concepito in una precisa situazione e rivolto contro un bersaglio esplicito, il defunto imperatore Claudio. In Petronio, nessun intento del genere è percepibile. È possibile che Petronio guardi alla tradizione menippea per molti aspetti della sua opera, la mescolanza degli stili, il prosimetro, e forse anche la struttura narrativa a blocchi, ma non sembra che questo filone letterario gli offrisse già confezionata la formula del Satyricon. Per quanto riguarda il genere del Satyricon, questo deve molto alla narrativa per trama e struttura del racconto, e qualcosa alla tradizione menippea, per la tessitura formale, ma trascende, in complessità e ricchezza di effetti, entrambe le tradizioni. Ogni tentativo di immobilizzare l’inesauribile creatività di Petronio in una categoria di genere, anche un genere misto come la menippea, è destinato inevitabilmente a sacrificare qualcosa, giacché intenzione primaria di questo testo è proprio l’accumulo dei linguaggi, l’innesto di un genere sull’altro, l’inesauribile contaminazione di forme letterarie diverse. Realismo e aggressione satirica. L’aspetto più originale del Satyricon è forse la sua forte carica di realismo, evidente a noi soprattutto nella Cena di Trimalchione, dove diventa anche mimetismo linguistico, ma ben presente anche altrove. Il romanzo ha una sua storia da raccontare, la vita avventurosa di Encolpio, ma nel farlo si sofferma a descrivere luoghi che non sono visti astrattamente e fuori dal tempo, come in gran parte del romanzo greco. Sono luoghi tipici e fondamentali del mondo romano: la scuola di retorica, i riti misterici, la pinacoteca, il banchetto, la piazza del mercato, il postribolo, il tempio. L’autore ha un vivo interesse per la mentalità delle varie classi sociali, oltre che per il loro linguaggio quotidiano. In particolare però, il realismo entra nel Satyricon come forza antagonistica del sublime letterario, secondo cui il protagonista-narratore, Encolpio, e i suoi compagni, giovani nutriti di cultura scolastica, pretendono di interpretare, nobilitandola, la realtà delle loro misere esistenze. Encolpio è infatti un piccolo avventuriero che si arrangia a vivere vagabondando qua e là, ma il tempo dell’azione è continuamente rallentato dalla riflessione di un altro Encolpio, uno scholasticus, fresco di studi e vittima degli schemi della scuola, che ingenuamente si esalta immedesimandosi nelle grandi figure di personaggi mitico-letterari. Quando per esempio Ascilto rapisce Gitone, Encolpio piange sulla riva del mare come Achille privato di Briseide dalla prepotenza di Agamennone. Ai grandi miti eroici, ai modelli alti dell’epica e dalla tragedia, che il protagonista-narratore si illude di poter rivivere, si contrappone la forza materiale delle cose, la fisicità del corpo con i suoi istinti: cibo, sesso, denaro sono temi “bassi”, elementi di una sceneggiatura del realismo che si oppone, nel Satyricon, a quella del sublime letterario. Sotto la pressione delle cose, gli schemi di interpretazione del reale che Encolpio, frequentatore entusiasta quanto ingenuo della letteratura “alta” applica costantemente alla propria esistenza, mostrano tutta la loro inadeguatezza. Il realismo è uno strumento dell’aggressione satirica messa in atto da Petronio contro il protagonista del suo racconto. L’originalità del realismo petroniano emerge chiaramente dal confronto con la satira (Lucilio, Orazio, anche Persio e Giovenale). Il realismo della satira si sofferma in genere su tipi sociali ben precisi, il parassita, il ricco stupido, il poetastro, la donna che ostenta virtù. Il poeta satirico li guarda attraverso un suo ideale: c’è un commento morale continuo, anche se spesso implicito, e il lettore è sempre in grado di formarsi un giudizio su queste realtà. Petronio, invece, non offre ai suoi lettori nessuno strumento di giudizio etico. Non potrebbe essere altrimenti in una narrazione condotta, in prima persona, da un personaggio che è dentro fino al collo in quel mondo sregolato. Anche la dove Encolpio prende distanza dai fatti, e lui stesso critica o ironizza, non è mai fornita al lettore un’ideologia positiva. I personaggi che fanno la morale sono, del resto, per nulla superiori agli altri. Anzi, affidano la predicazione moralistica a personaggi screditati, l’aggressione satirica dell’autore giunge ad attaccare persino le pose moralistiche del genere satirico, le implicazioni normative che esso contiene. Già il Libro II delle Satire oraziane arrivava a togliere autorità alla maschera satirica, affidando il messaggio moralistico a portavoce inadeguati (doctores inepti come Ofello, Cazio o Davo). Il Satyricon ed è qui la Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 31 differenza del suo nuovo realismo, valorizza a pieno questa contraddizione e la traduce in forma narrativa, con mossa paradossale, la maschera satirica viene messa addosso a personaggi inaffidabili, che non esitano ad atteggiarsi a censori pur non avendone alcun diritto. Ne consegue una visione del reale che è tanto critica quanto disincantata; quando percorre la via della satira, Petronio si ferma prima di adottare il gesto della protesta, dell’invettiva, della predicazione. In questo senso si può dire che il romanzo esprime una vocazione satirica “incompleta”, mentre è interamente dominato da una vocazione alla parodia. LA SATIRA. Persio e Giovenale e il modello luciliano e oraziano. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 32 nella sua bonomia, viene sostituito da un atteggiamento aspro e aggressivo, necessario per superare l’indifferenza dei miseri in preda al vizio: un atteggiamento che non si fa scrupolo di ostentare quella rudezza “agreste” da cui l’urbana cordialità di Orazio era sempre rifuggita. Una nuova forma per il discorso satirico: il “monologo confessionale”. Dalla perdita di un destinatario che sia docile agli insegnamenti viene all’opera un vantaggio. Indebolito il contatto con l’altro polo della comunicazione, si guadagna spazio per una letteratura dell’interiorità, per il “monologo confessionale”. Nell’insegnamento “inutile” svolto dalle Satire si intravede allora lo schema di un itinerario personale verso la filosofia. Così colui che nel testo assume la persona del maestro rivela i tratti di un giovane ancora non puro che, nei vari discepoli recalcitranti, scorge il proprio male da sanare, fino a raggiungere, in solitudine, la saggezza stoica: una destinazione metaforica che ripete, significativamente, i connotati dell’angulus oraziono. La rivendicazione della rusticitas. Per il suo fine moralistico e pedagogico, la poesia di Persio si contrappone alla mode letterarie del tempo. Agli occhi del moralista Persio la poesia contemporanea è viziata da una degenerazione del gusto che è anche segno di indegnità morale: egli non esita perciò a rivendicare polemicamente la qualifica di rusticitas, a contrapporsi cioè alla fatua ricercatezza, agli insulsi soggetti mitologici della poesia alla moda e ad assumersi orgogliosamente il compito di aggredire violentemente le coscienze per tentare di rimediarle. Lessico e deformità del reale. Nella descrizione delle molteplici forme in cui il vizio e la corruzione dell’uomo si manifestano, Persio ricorre con frequenza a un particolare campo lessicale, quello del corpo e del sesso, sfruttando il ricco patrimonio metaforico. L’immagine ossessiva del ventre diventa il centro attorno a cui ruota l’esistenza dell’uomo, e l’emblema stesso della sua ambizione. All’intenzione di aggredire il lettore, di scuoterlo mostrandogli la cruda realtà delle cose, va ricondotto anche il tratto stilistico più noto a Persio, la sua oscurità. L’esigenza di realismo è all’origine della scelta di un linguaggio ordinario, comune, e del rifiuto delle sue incrostazioni retoriche: un linguaggio scabro, polemicamente alieno dalle sofisticazioni di levigati esotismi o arcaismi alla moda, teso ad esprimere i sentimenti autentici, la realtà naturale delle cose. La iunctura acris, per scandagliare la deformità del reale. Perché lo stile si faccia specchio fedele del reale, senza tradirne la sgradevole deformità, Persio ricorre abitualmente alla tecnica della iunctura acris, del nesso urtante per la sua asprezza fonica e semantica, spesso fondato su ossimori che comunicano una verità imprevista, segreta, con effetto straniante analogo a quello di un aprosdoketon, che sorprende il lettore frustandone le attese. La lingua quindi è quella quotidiana, ma lo stile si incarica di “deformarla”, di forzarla a esprimere una verità non banale, a illuminare aspetti nuovi della realtà, a istituire relazioni insospettate fra le cose, con esiti, talvolta, davvero criptici. Nella stessa direzione si muove un altro tipico procedimento di Persio, cioè l’uso audacissimo della metafora, teso a esplorare rapporti nuovi fra le cose e capace di effetti di straordinaria densità e potenza espressiva. Estetica dell’oscurità. Ora è evidente che fra l’esigenza di naturalezza della lingua e la ricerca di ardite innovazioni espressive tenda ad aprirsi uno iato e che l’asserita volontà di chiarezza finisca, dunque, per essere contraddetta dall’oscurità dell’artificio stilistico (ovvero dall’implicito calli machismo che Persio eredita da Orazio e che restringe fatalmente la cerchia dei suoi destinatari a quel pubblico letterariamente raffinato che è in grado di decifrarne i segreti). La proverbiale difficoltà dello stile di Persio non è, come si è a lungo creduto, il vezzo gratuito di un poeta scolasticamente lambiccato o la forma espressiva, aspra e urtante, del rigorismo stoico, cui le sue satire si ispirano, ma deriva piuttosto dalle istanze estetiche, e soprattutto etiche, della sua poesia, il rischio dell’oscurità è il prezzo da pagare a un’arte capace di bagliori accecanti. DECIMO GIUNIO GIOVENALE 50/60-127 d.C. Notizie biografiche. Decimo Giunio Giovenale, sarebbe nato ad Aquinio, nel Lazio meridionale, tra il 50 e il 60 d.C., da famiglia benestante, giacché ebbe una buona educazione retorica. Sembra che abbia esercitato l’avvocatura, ma senza ricavarne i guadagni sperati, e si sia dedicato alle declamazioni allora di moda; all’attività poetica arrivò probabilmente in età matura, dopo la morte di Domiziano (96), e seguitò a comporre fin sotto Adriano. Visse, come il più anziano amico di Marziale, all’ombra dei potenti, nella disagiata condizione di cliente, privo di autonomia economica. Nulla sappiamo della sua morte, certamente posteriore al 127 d.C. ultimo riferimento cronologico ricavabile dai suoi versi. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 35 Fonti biografiche. Poche e incerte le notizie sulla vita di Giovenale, ricavabili dai rari cenni autobiografici presenti nelle sue satire e da alcuni epigrammi dedicatagli dall’amico Marziale. L’opera. Le Satire. La produzione poetica di Giovenale è costituita da sedici satire in esametri, suddivise, forse dall’autore stesso in cinque libri. Contenuto delle Satire. Satira I. Di carattere proemiale e programmatico, Giovenale polemizza contro la futilità delle declamazioni alla moda, dichiarando il suo disgusto per la corruzione morale dilagante, che lo spinge a farsi poeta satirico. Satira II. Aggredisce l’ipocrisia di chi nasconde il vizio più turpe sotto le apparenze della virtù: bersaglio del poeta è qui soprattutto l’omosessualità. Satira III. Descrive il vecchio amico Umbricio che abbandona Roma, la caotica metropoli dove la vita è diventata malsicura per gli onesti. Satira IV. Si narra del consiglio riunito da Dominziano per deliberare su una questione davvero “grave”: come cucinare il gigantesco rombo offerto in dono dall’imperatore. Satira V. Descrive la cena offerta dal ricco Virrone e l’umiliante condizione dei clienti convitati. Satira VI. La più lunga, costituisce da sola il Libro II: contiene la celeberrima feroce requisitoria contro l’immoralità e i vizi delle matrone romane. Satira VII. Deplora la generale decadenza degli studi e la misera condizione cui sono costretti i letterati del tempo, rimpiangendo, per converso, il mecenatismo che ha alimentato la letteratura augustea. Satira VIII. Oppone alla falsa nobiltà della nascita quella vera, derivante dall’ingegno e dai sentimenti. Satira IX. Riferisce, in forma di dialogo, le proteste di Nèvolo, un omosessuale mal ricompensato per le sue onerose prestazioni. Satira X. È incentrata sull’insensatezza delle tante brame umane. Satira XI. Il poeta contrappone al lusso ostentato dei banchetti dei ricchi la cena modesta che egli offre a un amico. Satira XII. Attacca i cacciatori di eredità. Satira XIII. Attacca gli imbroglioni e i frodatori, di uno dei quali è rimasto vittima l’amico Calvino. Satira XIV Si discute dell’educazione dei figli e della necessità di accompagnare i precetti con l’esempio. Satira XV. Descrive un episodio di cannibalismo avvenuto in Egitto e provocato da fanatismo religioso. Satira XVI. Incompleta, elenca i privilegi offerti dalla vita militare. Corruzione contemporanea e genere satirico. Giovenale non si fa illusioni sulla realtà contemporanea: la letteratura, con il suo fatuo dilettarsi di trite leggende mitologiche, ai suoi occhi è ridicolamente lontana dalla corruzione morale imperante, dalla profonda abiezione in cui versa la società romana tra il finire del I sec. e i primi decenni del II. Indignatio, una denuncia senza riscatto. Così, nella satira I, Giovenale enuncia le ragioni della sua poetica e la centralità che in essa occupa l’indignatio, segnando con ciò uno scarto sensibile rispetto alla tradizione satirica latina. Al contrario di Orazio, Giovenale non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede irrimediabili della corruzione. La sua satira si limiterà pertanto a denunciare, a gridare la sua protesta astiosa, senza coltivare illusioni di riscatto. Il rifiuto del moralismo romano. Giovenale rifiuta di uniformarsi alla tradizione satirica precedente, razionalistica e riflessiva, ma il suo rifiuto è più generale, investe le forme stesse del ragionamento e del giudizio morale, le categorie e gli schemi del pensiero moralistico romano. Questo, com’è noto, si costituisce grazie a un’operazione di adattamento alla società romana del grande patrimonio di tòpoi della diatriba cinico-stoica, e informa nelle maniere più varie la riflessione sui problemi di etica personale e di morale sociale, fornendone gli schemi di impostazione e i tipi di soluzione. Sono appunto le risposte della morale diatribica che Giovenale respinge, di quella morale che, insegnando a restare indifferenti di fronte al mondo delle cose concrete ed esteriori, a gardarle con ironia e distacco, esorta a coltivare i beni interiori, a perseguire l’apàtheia (assenza di passioni) e l’autarkeia (autosufficienza) del saggio come mete di una superiore nobiltà dello spirito. Invettiva di un emarginato. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 36 Giovenale rigetta e demistifica la morale consolatoria della tradizione moralistica con lo sdegno dell’uomo offeso del vedere il vizio e la colpa premiati, e col rancore dell’emarginato, di chi si vede escluso dei benefici che la società elargisce ai corrotti ed è costretto all’umiliante condizione del cliente. L’astio sociale, il sordo risentimento per la mancata integrazione, è una componente importante della satira indignata di Giovenale, di questo rappresentate del ceto medio italico che nella vita quotidiana della cosmopolita capitale dell’Impero vede continuamente mortificati i valori morali e politici della tradizione repubblicana. Al suo sguardo deformato di moralista, la società romana appare irrimediabilmente pervasa: stravolto il ruolo delle varie classi sociali, a cominciare dalla nobiltà, che ha indegnamente abdicato alle funzioni che le competono, si abbrutisce nei bagordi e nella lussuria. La sua furia aggressiva non risparmia nessuno e si accanisce soprattutto sulle figure più emblematiche della società e del costume della brulicante metropoli. La volgare iattanza dei nuovi ricchi, lo strapotere dei liberti, l’astuta intraprendenza degli orientali, l’abiezione morale dei letterati esposti al rischio della fame sono alcuni degli obiettivi polemici più ricorrenti. Contro la corruzione delle matrone: satira VI. Bersaglio privilegiato sono le donne, troppo emancipate e libere, che per il loro disinvolto muoversi nella vita sociale personificano agli occhi del poeta lo scempio stesso del pudore, e gli ispirano la lunga satira VI. Questo testo, a lungo interpretato come uno dei più feroci documenti di misoginia di tutti i tempi, va più correttamente letto come una critica spietata a una particolare categoria di donne, quella delle matrone. Queste, ormai lontane dal modello ideale della donna virtuosa e pudica dell’antica tradizione romana, sono diventate sfrontate e dominatrici; rovina e flagello dei loro mariti e dei loro figli, si sono talvolta ridotte persino a volgari meretrici. Per le donne di bassa condizione sociale vigeva tradizionalmente una maggiore tolleranza nei costumi sessuali, queste tipologie sociali compaiono episodicamente nella satira, e perlopiù, come termine di confronto per dimostrare la degradazione delle matrone contemporanee. Resta comunque, un misoginismo di fondo, che nella satira è dato per scontato. Un democratico solo in apparenza. Questa radicale avversione al suo tempo, e la rabbiosa protesta contro le ingiustizie, contro l’oppressione e la miseria in cui versano gli umili e i reietti, hanno fatto parlare di un atteggiamento “democratico” di Giovenale, ma si tratta di una prospettiva illusoria: al di là di qualche occasionale espressione di solidarietà con gli indigenti e i “marginali”, il suo atteggiamento verso il volgo, verso i rozzi e gli indotti, verso chiunque eserciti attività manuali o commerciali, è di profondo irrevocabile disprezzo. L’orgoglio intellettuale, unitamente all’astio nazionalistico contro i Greci e orientali adulatori e intriganti, gli consente al massimo di rivendicare per sé agiatezza e riconoscimenti sociali, ma lo tiene lontano dal concepire velleità di solidarietà sociale. Idealizzazione del passato. Quest’uomo urtato e respinto da una società che mortifica e vilipende i suoi valori è verso l’idealizzazione nostalgica del passato, di un buon tempo antico governato da una sana moralità agricola, opposto al corrotto presente cittadino, la società non inquinata da orientali, liberti, commercianti. Fuga dal presente, queste utopia arcaizzante, sembra il solo esito cui l’indignatio giovenaliana può approdare, e costituisce l’implicita ammissione della sua frustante impotenza. Seconda fase poetica. Un marcato cambiamento di toni si avverte nella seconda parte dell’opera di Giovenale, cioè negli ultimi due libri, in cui il poeta rinuncia espressamente alla violenta ripulsa dell’indignatio e assume un atteggiamento più distaccato, mirante all’apatheia degli stoici. Egli sembra così riavvicinarsi a quella tradizione diatribica della satira da cui all’inizio si era drasticamente allontanato; lo sguardo si amplia perciò a un’osservazione più generale, indugia in una riflessione rassegnata di fronte all’insanabile corruzione del mondo. Questo nuovo atteggiamento ha fatto parlare di un Giovenale “democriteo”. A molti è sembrato che con questa fase Giovenale intendesse simbolicamente inaugurare una nuova fase della sua produzione satirica, segnata da un rapporto più conciliante e meno rabbioso con il suo tempo, ma si tratta soltanto di un tratto superficiale e instabile. Dietro questa facciata impassibile si aprono in vari momenti le crepe dell’antico furore, riaffiora la rabbia di sempre; il consueto corrosivo pessimismo giovenaliano circa il dilagare irrimediabilmente del vizio non trova rimedio neanche nell’indifferenza filosofica. Nuovo stile per una nuova realtà. L’avere come oggetto la realtà quotidiana aveva sempre portato la satira ad adottare un livello stilistico umile, un tono familiare e senza pretese (il sermo appunto); ma adesso che, agli occhi di Giovenale, la realtà ha assunto caratteri eccezionali, che il vizio l’ha popolata di monstra, anche la satira dovrà farvi corrispondere caratteri grandiosi. Lo stile quindi non sarà più dimesso, ma si avvicinerà a quello dei generi Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 37 Libro V. Un mostruoso serpente uccide Ofelte, bimbo affidato alle cure di Issipile. I Sette istituiscono in espiazione del fatto i Giochi Nemei. Libro VI. Celebrazione dei giochi. Presagi nascosti annunciano che uno solo dei Sette tornerà vivo da Tebe. Libro VII. Inizio delle ostilità alle mura di Tebe. L’indovino Anfiarao è inghiottito nell’Ade. Libro VIII. Crescendo della battaglia, aizzato dalla furia Tisifone. Tideo, ferito a morte, rode il cranio dell’avversario Melanippo. Libro IX. Successi tebani. Battaglia fluviale, in cui cade Ippomedonte; patetica morte del giovane Partenopeo. Libro X. Spedizione notturna degli Argivi, che fanno strage dei Tebani. Il giovane tebano Meneceo, figlio di Creonte, sacrifica volontariamente la vita per il bene della città. L’empio Capaneo viene ucciso dal fulmine di Giove mentre fa breccia in città. Libro XI. I due fratelli rivali Eteocle e Polinice si danno la morte a vicenda in singolar tenzone. Suicidio di Giocasta; cacciata di Edipo da Tebe; ritirata dell’armata argiva: Adrasto è l’unico superstite dei Sette. Il nuovo re di Tebe è Creonte. Libro XII. Creonte vieta la sepoltura ai cadaveri nemici. Il re di Atene, Teseo, interviene e ristabilisce la giustizia e pietà. Uniti sul rogo funebre, Eteocle e Polinice sono ancora in lotta: due fiamme nemiche e divise. Nel solco dell’Eneide. In un insolito epilogo programmatico, Stazio dichiara di avere un modello altissimo: l’Eneide, che la Tebaide dovrà “seguire a distanza”, con religioso e umile rispetto. Le ambizioni sono peraltro molto chiare, il piano dell’opera è in dodici libri, divisi in due esadi: la seconda è tutta una storia di guerre, come la “metà iliadica” dell’Eneide; la prima, più variata, ha funzione di lunga preparazione, e insieme contiene tratti “odiassiaci”, come la prima metà dell’Eneide. Modelli poetici. Il tema scelto imponeva comunque a Stazio di confrontarsi con moltissimi modelli poetici: le funeste imprese dei Sette contro Tebe erano state cantate nella poesia epica, in particolare nella fortunata opera di Antimaco di Colofone, e nella tragedia greca. La scelta dell’epos eroico comportava, inoltre, molti richiami diretti all’Iliade, in parte mediati da Virgilio e in parte autonomi. In certe brevi sezioni digressive appaiono anche modelli meno prevedibili: Euripide, Apollonio Rodio, Callimaco. Infine, lo stile narrativo e la metrica di Stazio sono inconcepibili senza la lezione tecnica di Ovidio; la sua immagine del mondo è inseparabile dall’influsso di Seneca: e proprio qui, nel contrasto tra fedeltà alla tradizione virgiliana e inquietudini modernizzanti, sta il vero centro dell’ispirazione epica di Stazio. L’opera non manca affatto di unità. Il tratto più caratteristico della Tebaide è al contrario, l’ossessiva ricorsività di temi e motivi. Tutta la storia è dominata da una ferrea necessità. La casa di Edipo è schiacciata non tanto da una maledizione di vendette familiari quanto da una ferrea necessità universale. Divinità e fato: un compromesso fra Virgilio e Lucano. La scelta ideologica di Stazio è chiaramente virgiliana: salvare l’apparato divino dell’epica, rendendolo però più “moderno” con l’approfondire la funzione del fato. Ma la scelta di un tema così profondamente negativo porta Stazio molto vicino alla posizione di Lucano. Il risultato è un compromesso che avrà grande influsso sulla storia dell’epica occidentale. Le divinità epiche tradizionali appaiono come svuotate o appiattite, le forze divine più vitali sono invece personificazioni di idee astratte, con connotati persino allegorici. La Furia che muove gran parte dell’azione è un puro e semplice Genio del Male. Controllo della potenziale dispersione narrativa. La grande quantità di eroi comporta una trama molto complessa, romanzesca, e soprattutto l’assenza di un vero protagonista. I pericoli di dispersione sono però controllati con notevole energia. Anche nei lunghi episodi che ritardano l’inizio della guerra si avverte spesso la volontà di stabilire dei nessi tematici ricorrenti. Per esempio, i prolissi giochi funebri del Libro VI sono ampiamente funzionali allo sviluppo successivo della trama. Le similitudini sono spesso pensate in sequenze omogenee, con un effetto a volte ossessivo, le immagini della natura rispecchiano di continuo gli eventi umani. È la concezione stoica della sympatheia, che già Seneca aveva saputo trasformare in tema letterario. L’attualità, una presenza forte ma mediata. L’assenza di riferimenti diretti all’attualità romana non implica che Stazio eluda necessariamente gli incubi propri della sua epoca. Una guerra civile vista come scontro fra tiranni specularmente uguali, la degenerazione di una famiglia regnante in dispotismo fanatico; il problema etico del “vivere sotto i tiranni” rispettando comunque una regola morale, sono questi i problemi su cui il poeta insiste con particolare forza, rappresentandoli attraverso uno scenario allucinato di fosca mitologia ancestrale. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 40 L’Achilleide. A differenza del poema su Tebe, che avrà grande fortuna a lungo termine, soprattutto nell’epica medievale, il poema sulla vita di Achille ha avuto un destino stentato. Qualsiasi giudizio è difficile, perché il testo che abbiamo tratta solo delle vicende del giovane Achille a Sciro, dove l’eroe era stato nascosto dalla madre Teti perché i greci non lo conducessero a Troia. Forse a causa del tema, o per una precisa scelta di poetica, il tono è più disteso e idillico rispetto a quello della Tebaide, per questo l’opera non dispiace a quei critici che hanno rilevato l’eccessivo “barocchismo” del poema maggiore. Il progetto di narrare tutta la vita di Achille rivela comunque ambizioni letterarie grandiose; se avesse potuto continuare, Stazio si sarebbe trovato di fronte Omero, alle porte Scee; e sin dal titolo dell’opera sembra mirare, ancor di più che la Tebaide, a un audace confronto con l’Eneide. GAIUS VALERIUS FLACCUS SENTINUS BALBUS (VALERIO FLACCO) morì nel 92 d.C. Notizie biografiche. La vita del poeta è del tutto ignota; da un breve accenno di Quintiliano, si ricava che morì poco prima del 92 d.C. Fonti biografiche. Breve accenno di Quintiliano, dal quale ricaviamo la data di morte. Opera. Gli Argonautica. Struttura e contenuto dell’opera. Del poema epico Argonautica restano sette libri e una parte dell’VIII; si tratta di una serie di vicende che corrisponde all’incirca a tre quarti del racconto sviluppato dal poeta epico greco Apollonio Rodio (III sec. a.C.) nei quattro libri del suo omonimo poema. Valerio narra: i motivi della spedizione di Giasone in cerca del vello d’oro, il viaggio avventuroso e contrastato fino alla Colchide; gli intrighi e le lotte alla corte del re Eeta e l’amore tra Giasone e Medea, figlia di Eeta; la conquisa del vello d’oro e il principio del travagliato ritorno. Rielaborazione di Apollonio Rodio Valerio. Pur riprendendo quasi tutti gli episodi principali dal poema di Apollonio Rodio, che si imponeva come canonico modello di riferimento per la narrazione epica del mito, mira a una riscrittura del tema argonautico in gran parte autonoma e non si limita a una “romanizzazione” come quella attuata da Varrone Atacino. Vi sono abbreviamenti, aggiunte, modifiche importanti nella psicologia dei personaggi, nel modo di concepire l’intervento divino, nel ritmo del racconto. Variazioni e innovazioni, però, si innestano spesso su di un contesto che, sia sul piano degli schemi narrativi sia su quello dell’espressione, risulta in varia misura debitore nei confronti di Apollonio. Ricerca dell’effetto per coinvolgere il lettore. Nei punti in cui Valerio segue da vicino il testo greco, la sua rielaborazione appare guidata dalla ricerca dell’effetto, accentuazione del pathos e drammatizzazione, concentrazione del modello e conseguente gusto per la brevità dell’espressione. Sono questi i procedimenti più frequentemente impiegati per ottenere un maggiore coinvolgimento emotivo del lettore. Un intreccio di modelli: Omero, Apollonio, Virgilio. La formazione stessa del testo di Apollonio, imitatore di Omero e imitato da Virgilio, si colloca al centro di una rete di rapporti che tengono insieme una vasta tradizione epica. Il poeta flavio, si trova portato a un’operazione di continua scomposizione e ricomposizione dei suo modelli: egli sa, da una parte, recuperare al suo testo i necessari antecedenti di Omero e di Apollonio e, dall’altra non può non integrare lo stesso testo con materiali che derivano dall’opera di Virgilio. Così per esempio, la sua Medea è improntata al modello archetipico della Meda di Apollonio, ma quel modello è riletto attraverso il filtro della Didone virgiliana. Questo procedimento è reso riconoscibile attraverso precisi segnali linguistici. Ovidio, Seneca tragico e Lucano. Valerio mostra una viva consapevolezza che letteratura sia anche tutto quel linguaggio che si è via via sedimentato fino a costituirsi in un’organica tradizione poetica: pertanto non si esime dal trarre opportuni suggerimenti da altri rappresentanti della letteratura augustea, in particolare da Ovidio, e dai “moderni” Seneca tragico e Lucano. Sicché questa poesia riflessa ed elaborata rischia a volte di disperdersi sotto le spinte, non sempre armonizzate, di una troppo vasta molteplicità di modelli. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 41 Una poetica reazionaria. Il fondamentale influsso di Virgilio spinge Valerio a una poetica “reazionaria”, il tema è mitologico, l’apparato divino onnipresente, l’imposizione morale del racconto edificante. Mentre Apollonio aveva fatto di Giasone un eroe problematico e chiaroscurale, quasi un antieroe, di fatto, Valerio riporta il suo protagonista a uno status di elevatezze epica. Il fato provvidenziale di stampo virgiliano, con il suo portaparola Giove, controlla tutto lo sviluppo degli eventi. Stile soggettivo e psicologizzazione del racconto. La narrazione di Valerio Flacco esaspera la propensione virgiliana allo stile soggettivo, a rendere cioè situazioni e avvenimenti attraverso il punto di vista e le sensazioni dei vari personaggi. Questa tendenza, com’è ovvio, comporta una continua psicologizzazione del racconto, se in Virgilio le sensazioni dei vari personaggi acquisivano talora rilievo maggiore rispetto agli stessi avvenimenti, in Valerio il rilievo che assumono è tale da sopprimere persino la descrizione di particolari o la narrazione di eventi, spesso necessari alla comprensione del testo. È naturale che l’espansine del modello di Apollonio sia dunque orientata soprattutto verso il patetico, ricercato con ostinazione in tutte le potenziali occasioni e applicato a ogni tipo di personaggio, senza attenzione alle incongruenze che tale procedimento può generare nei vari caratteri. Difetti strutturali. Elegante e raffinato nel particolare, nel dettaglio descrittivo, nella notazione psicologica, nel quadro isolato, Valerio tuttavia fallisce spesso nella creazione di strutture narrative articolate. Difetti di chiarezza e di linearità, e ancor più la mancata specificazione delle coordinate spazio-temporali dell’azione, danno l’impressione di un modo di comporre per blocchi isolati, un modo che presta più attenzione all’evidenza e all’effetto della singola scena che non alla perspicuità e alla coerenza dell’insieme. Un testo difficile per un pubblico colto. Ne risulta un testo narrativo assai difficile, spesso oscuro, che si caratterizza come estremamente dotto anche per quanto riguarda la sua destinazione. Il lettore in qualche caso non trova, nel testo di Valerio, nemmeno tutte le informazioni essenziali per la comprensione della vicenda, ma, per capire, deve già essere a conoscenza degli avvenimenti; il più delle volte è comunque necessario che abbia presente l’immediato testo di riferimento, ovvero Apollonio. Gli Argonautica si configurano, insomma, come un’opera che, per realizzare una poetica ardua e sofisticata, presuppone nel destinatario un’ampia competenza letteraria. Sporadici spunti di attualità: suicidio, guerra fratricida, interesse etnografico. In qualche aggiunta di Valerio rispetto al modello greco si colgono le tracce di una sensibilità più consapevole della realtà contemporanea. Così per esempio, nell’episodio del suicidio di Esone, perseguitato dal tiranno Pelia è chiara l’ispirazione del suicidio “stoico” tipico dell’opposizione antitirannica. Anche le vicende politiche del regno di Colchide sono più sviluppate che in Apollonio e ripresentano il motivo della guerra civile tra fratelli, tipico della cultura flavia. Questa situazione permette del resto a Valerio un’ampia rappresentazione di battaglie: Apollonio non ha scene di guerra paragonabili e il poeta latino le introduce sia per completare l’idealizzazione eroica degli Argonauti, sia per creare una migliore rispondenza con la struttura bipartita dell’epos virgiliano (racconti di viaggio e racconti di guerra); ma è anche un’occasione per manifestare una curiosità più aggiornata per le popolazioni barbariche, in conformità con il crescente interesse etnografico per i popoli di confine, tipico dell’età flavia. TIBERIO CAZIO ASCONIO SILIO ITALICO 26-101 d.C. Notizie biografiche. Silio Italico, nacque intorno al 26 d.C. importante uomo politico dei suoi tempi, consolo nel 68 sotto Nerone e poi proconsole d’Africa sotto Vespasiano. Ritiratosi a vita privata, dedicò gli ultimi anni al suo ampio poema storico, i Punica. Nel 101, provato da un male incurabile, si lasciò morire di fame. Fonti biografiche. Le notizie biografiche su Silio si fondano su notazioni di contemporanei, fra cui Tacito (in Historiae 3.65 ci informa della sua attività politica) e Plinio il Giovane (in Epistualae 3.7 ne fa il necrologio). L’epistola di Plinio il Giovane, oltre a registrare i momenti principali della vita pubblica e ufficiale di Silio Italico, rivela uno spiccato gusto per l’aneddoto. Plinio ricorda come la familiarità con l’imperatore Vitellio e il privilegio accumulato con il proconsolato in Asia sotto Vespasiano avessero contribuito a sopire il ricordo dell’oscuro passato di Silio, delatore partigiano di Nerone. Opera. I Punica. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 42 De agri mensura libri II. Trattato di agrimensura andato perduto. L’agrimensura è la disciplina che ha per oggetto la rilevazione, la rappresentazione cartografica e la determinazione della superficie agraria di un terreno. GAIO PLINIO SECONDO (PLINIO IL VECCHIO) 23-79 d.C. Notizie biografiche. Nasce a Como intorno al 23 d.C.. Destinato a una brillante carriera in qualità di cavaliere al servizio della corte imperiale, in giovane età presta servizio militare in Germania per due lunghi periodi (tra il 46 e il 58 d.C.), partecipando a campagne militari di confine. Dopo la morte di Claudio, Plinio si ritira a vita privata, rinunciando a cariche pubbliche e impegni politici per la sua violenta avversione nei confronti di Nerone. Con l’ascesa di Vespasiano (69 d.C.), Plinio inizia un’attiva carriera come procuratore imperiale, con numerosi incarichi di rilievo e senza rinunciare a una intensa attività letteraria. Plinio svolge anche una mansione di prefetto della flotta imperiale di stanza in Campania, è in tale veste, per cause di servizio, che trova la morte il 24 agosto del 79 d.C. travolto dall’eruzione vesuviana. Fonti biografiche. Il racconto della sua fine, lo dobbiamo a suo nipote Plinio il Giovane, il quale ha molto contribuito alla fortuna di Plinio il Vecchio come personaggio esemplare. Notizie e spunti autobiografici sono contenuti in vari passi della Naturalis Historia. Inoltre Plinio meritò, come celebre storico di Roma, una biografia nel De viris illustribus di Sventonio. Il documento di gran lunga più interessante, però, viene da tre lettere del nipote Plinio il Giovane, che fornisce un ritratto dell’attività letteraria dello zio, un catalogo degli scritti e, in due lettere allo storico Tacito, la narrazione delle eccezionali circostanze in cui incontrò la morte. Opere. Opere legate al servizio militare. De iaculatione equestri. All’esperienza di Plinio negli anni trascorsi in Germania si può far risalire l’interesse pliniano per questioni di carattere militare, testimoniato da questo trattatello andato perduto. Riguardava le tecniche del combattimento a cavallo. Biografia su Pomponio Secondo. Compose anche una biografia anch’essa perduta, sul potente amico Pomponio Secondo, probabilmente sul tipo del De vita Iulii Agricolae di Tacito. Bella Germaniae. Le campagne germaniche suggerirono a Plinio un’opera storica che doveva essere di notevole respiro, a quest’opera attingerà Tacito ampiamente come fonte. Opere retoriche e grammaticali. Studiosus. Gli del ritiro a vita privata sotto Nerone sono invece probabilmente dedicati all’oratoria e a studi linguistici; possiamo collocare quindi in questa l’opera Studiosus composta in sei libri andata perduta. Dagli scarsi frammenti, la tematica sembra avvicinabile all’Institutio oratoria di Quintiliano, si tratterebbe perciò di un manuale di retorica. Dubius sermo. Collocabile sempre nel periodo degli Studiosus è il trattato grammaticale. Si occupa di problemi e oscillazioni dell’uso linguistico, ne abbiamo un buon numero di frammenti di tradizione indiretta, che attestano un’ampia utilizzazione da parte dei grammatici di tarda età imperiale. Opere principali: fra storia ed enciclopedismo. A fine Aufidi Bassi. Negli anni 70 Plinio si dedicò a quest’opera, non ci è conservata, ma sembra essere di gran lunga la sua opera più importante e ambiziosa. Si tratta di una storia di Roma che, riattaccandosi alla conclusione di un testo del grande storico Aufidio Basso (vissuto probabilmente sotto Tiberio), copriva all’incirca gli anni tra il 50 e il 70, tra la fine del ragno di Claudio e l’ascesa di Vespasiano. Scrivere su un periodo così scottante e così vicino all’attualità era impresa delicatissima, a quanto ci dice lo stesso Plinio nella Naturalis historia, egli non volle che quest’opera fosse pubblicata quando era ancora in vita, per scansare accuse di servilismo verso il principe Vespasiano. La fortuna delle storie pliniane fu presto soppiantata dalla concorrenza di Tacito. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 45 Naturalis historia. Opera che risale agli anni 70 e che verso il 77-78 conclude. Il nome “Storia naturale” è da intendersi più come “La scienza della natura”, la presenta al nuovo imperatore Tito. Si tratta di un’opera a carattere enciclopedico, che costituisce una straordinaria summa delle conoscenze antiche sui più svariati argomenti. La gigantesca opera erudita di Plinio il Vecchio è la realizzazione più compiuta delle tendenze culturali diffuse nel suo tempo, tese all’acquisizione di un sapere enciclopedico anche se non specialistico. Plinio sosteneva di non aver mai letto un libro tanto cattivo da non avere una qualche utilità. Egli leggeva di continuo, schedava, prendeva appunti. Infaticabile, macinò cifre impressionanti: 34.000 notizie, 2.000 volumi letti di 100 autori diversi, e 170 dossier di appunti e schede preparatorie, il risultato finale fu un’opera di 37 libri, destinata a inventariare l’insieme delle conoscenze acquisite dall’uomo. Piano dell’opera. Libro I. Indice generale dell’opera e bibliografia libro per libro. Libro II. Cosmologia e geografia fisica. Libri III-VI. Geografia. Libro VII. Antropologia. Libri VIII-XI. Zoologia. Libri XII-XIX. Botanica. Libri XX-XXXII. Medicina. Libri XXXIII- XXXVII. Metallurgia e mineralogia (con ampi excursus sulla storia dell’arte). Il testo è preceduto da una epistola dedicatoria rivolta al futuro imperatore Tito, in cui Plinio chiarisce motivazioni e limiti del suo lavoro. La lettera permette di datare il compimento dell’opera al 77-78 d.C. Circostanza favorevole è il fatto che l’autore fosse vicino a certe posizioni degli stoici. Sicuramente la concezione dell’universo come complessa solidarietà, retta da una provvidenza divina, come una macchina cosmica che l’uomo deve conoscere per rispecchiare dentro di sé le virtù, era un’idea atta a guidare un progetto di enciclopedia, che comincia con i moti astrali ma abbraccia in sé anche le creazioni artistiche dell’uomo, come pure la vita dei più piccoli animali. La mentalità enciclopedica è infatti per Plinio un accomodante eclettismo; una scelta filosofica troppo precisa avrebbe finito quindi per ridurne eccessivamente la quantità dei materiali da registrare e classificare nella Naturlis historia. Di fatto nello stesso libro della cosmologia Plinio affianca con disinvoltura professioni stoicheggianti a curiose divagazioni magico-astrologiche, assolutamente estranee al pensiero stoico e imparentate piuttosto a chissà quale fonte orienale. Dallo stoicismo, ma dallo stoicismo medio, attenuato nelle asprezze e banalizzato, proprio della classe dirigente romana di quell’epoca, Plinio deriva più che altro un generico senso della missione del saggio, privo di profonda ispirazione ideologica. Molto più evidente, nella Naturalis historia, è un altro aspetto della personalità di Plinio: il suo impegno, che potremmo definire “spirito di servizio”. Questo è il vero apporto che potremmo pure sempre definire originale e personale, in un’immensa congerie di nozioni e di teorie altrui, Plinio di suo, inserisce lo spirito di servizio, senso pratico, e serietà morale, qualità tipiche di un operoso funzionario imperiale. Stilisticamente Plinio è considerato da molti critici addirittura il peggiore scrittore latino. Il giudizio merita qualche precisazione: anzitutto, la stessa folle ampiezza del lavoro non era compatibile con un processo di regolare elaborazione stilistica; inoltre, la tradizione enciclopedica romana non comportava un particolare sforzo di bello scrivere. Il più grande enciclopedista romano, Varrone, è di gran lunga superiore a Plinio per lucidità e competenza, ma, per quanto ne sappiamo, ha uno stile sciatto e inelegante, quasi casuale. Come tutti i prosatori di età neroniana e flavia, Plinio tende a una specie di decostruzione delle ampie bilanciate architetture ciceroniane, questa nuova libertà dello scrivere, che in Seneca e Tacito diventa successo di una nuova rivoluzionaria arte della parola, si risolve per Plinio in una confusione impersonale e magmatica. Per la verità, Plinio non scrive sempre allo stesso modo, lo stile frammentario e affastellato che domina interi libri contrasta con vere e proprie tirate retoriche in cui si coglie una certa ambizione letteraria: “elogi” della scienza, della natura, della terra italica; condanne moralistiche del lusso e dello sfruttamento della natura; polemica Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 46 Epigramma. L’origine dell’epigramma risale all’età greca arcaica, dove la sua funzione era essenzialmente commemorativa, come rivela il nome stesso, che significa “iscrizione”, era inciso su pietre tombali o su offerte votive, a ricordare una persona, un monumento, un luogo o un evento famoso. In età ellenistica l’epigramma, pur conservando la sua caratteristica brevità, si emancipò dalla forma epigrafica e dalla destinazione pratica e diventò un tipo di componimento adatto alla poesia d’occasione, capace di fissare nel giro di pochi versi l’impressione di un momento o di un piccolo avvenimento quotidiano. A Roma l’epigramma, che pure aveva prodotto celebri esempi epigrafici (si pensi agli elogi degli Scipioni), non aveva una grande tradizione letteraria, fra i suoi autore Marziale indica, accanto a Catullo, poeti minori della cui produzione poco o nulla sappiamo. In questo naufragio fa eccezione Catullo, che svolse una funzione importante di mediazione fra cultura greca e latina nella storia di questo genere letterario. contro l’incompetenza dei medici. L’opera ha avuto una doppia sopravvivenza. Da un lato, si cominciò presto a manipolarla: se ne trassero riduzioni, compilazioni di singole parti omogenee, e antologie. Tuttavia la Naturalis Historia continuò ad essere copiata per tutto il Medioevo: i suoi smisurati indici di fonti e autori erano una garanzia, promettevano accesso a tesori di sapere che rischiavano di perdersi. Il nome di Plinio crebbe sempre più di autorità: aveva rinunciato a qualsiasi originalità, per dar voce alla scienza altrui, e diventò un’autorità su ogni aspetto del sapere. Fra 300 e 500 Plinio fu oggetto di cure filologiche da parte degli Umanisti. Nell’era moderna, il testo pliniano muta valore, e si decompone in singole parti di interesse puramente storico: documento inestimabile per la storia dell’arte antica, per la storia della scienza, del folklore, della religione… La sua tendenza a salvare tutto ciò che è stato tramandato ci garantisce un inventario aperto sul mondo della cultura antica. MARCO VALERIO MARZIALE 38/41-104 d.C. Notizie biografiche. Nacque a Bilbilis, nella Spagna Tarragonese, il primo marzo tra il 38 e il 41 d.C. Venne a Roma nel 64, trovandosi appoggiato dalla famiglia di Seneca anch’essa spagnola, questa lo introdusse nell’alta società, conobbe Calpurnio Pisone e gli ambienti dell’opposizione senatoria a Nerone, sui quali però nel 65 si doveva abbattere la cruenta repressione dell’imperatore in occasione della congiura detta appunto “pisoniana”. Da allora, per alcuni anni, Marziale condusse probabilmente una vita modesta, svolgendo attività poetica come cliente. Dall’84-85 cominciò a pubblicare regolarmente i suoi componimenti, il successo gli arrise, e ricoprì anche cariche oniriche (fu tribuno militare, e quindi ottenne il rango equestre), venendo a contatto con personalità eminenti, come il futuro imperatore Nerva, e scrittori quali Silio Italico, Plinio il Giovane, Quintiliano, Giovenale. Nell’87-88, infastidito dalla vita cittadina, Marziale lasca Roma per un soggiorno a Forum Corneli (Imola) e in altre città emiliane; dopo un breve tempo rientra nella capitale, che lascia definitivamente nel 98, quando decide di rientrare a Bilbilis. Lì trova la tranquillità, ma anche la grettezza di un ambiente provinciale, rimpiange la vita di Roma. Deluso e sempre inquieto, muore a Bilbilis verso il 104. Marziale è diventato celebre in vita e per i posteri dedicandosi a un solo genere letterario, l’epigramma. Notizie biografiche. Le notizie biografiche su Marco Valerio Marziale ci vengono dai suoi stessi versi e da una lettera di Plinio il Giovane. Opera. Corpus degli epigrammi. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 47 Per questo motivo, nei tribunali proliferavano processi su false accuse di lesa maestà, e qui si era sviluppata una retorica della delazione da parte di avvocati prezzolati e privi di scrupoli morali. Dunque, l’unico teatro che ancora permettesse il libero svolgimento di un dibattito erano le scuole, con i loro esercizi declamatori, ed era nelle scuole che si raccoglieva un pubblico sempre più numeroso di curiosi che, nel seguire queste cause immaginarie, riviveva il ricordo di un passato di irrecuperabile libertà, nel quale la vita politica e processuale aveva costituito una parte importantissima della vita quotidiana del cittadino. Questo carattere di esercizio scolastico fine a se stesso, però, logicamente finiva per favorire il gusto per il virtuosismo oratorio e dunque per uno stile a effetto, una forma esasperata di arianesimo, opposta alla lezione di misura che era stata quella dell’oratoria ciceroniana. Opere. Opere perdute. Andato perduto un trattato intitolato De causis corruptae eloquentiae. Perduti pure i due libri De arte rhetorica, sorta di dispensa che gli allievi di Quintiliano trassero dalle sue lezioni e pubblicarono contro la volontà del maestro, spingendolo così a pubblicare la sua opera maggiore per evitare questa circolazione non autorizzata. Opere spurie. Le Declamationes, ci sono tramandate sotto il nome di Quintiliano, si tratta di due raccolte: 1. 19 declamationes maiores; 2. 145 declamationse minores. Nonostante opinioni discordanti, è ormai accertato che queste declamationes siano opere spurie. Soprattutto le maiores, le quali sembrano non potersi attribuire a Quintiliano per il forte colorito stilistico, alieno dai gusti e dai giudizi che in più occasioni egli esprime, circolavano già dal IV sec. sotto il nome di Quintiliano e sembrerebbero frutto di una raccolta compiuta in questo periodo o in età di poco anteriore. Risalgono invece al I-II sec. le minores, alcune di queste opere potrebbero anche essere autentiche, anche se è impossibile dimostrarlo, o perlomeno di scuola quintilianea. Institutio oratoria. Si è conservata l’opera principale di Quintiliano, l’Institutio oratoria, in dodici libri, iniziata forse nel 93, e pubblicata probabilmente poco prima della morte di Domiziano, nel 96. Institutio oratoria, risposta alla decadenza oratoria. Quintiliano, non diversamente da altri autori antichi, considerava il problema della decadenza dell’oratoria in termini moralistici e ne addita le cause nella generale degradazione dei costumi; egli è un uomo di larga esperienza scolastica, profondamente convinto dell’efficacia dell’educazione la corruzione dell’oratoria ha ai suoi occhi anche cause “tecniche”, che egli ravvisa nel decadimento delle scuole e nella pochezza stravagante delle declamazioni retoriche. A una rinnovata serietà dell’insegnamento Quintiliano affida pertanto il compito di ovviare al problema nella misura in cui è possibile. L’Institutio oratoria delinea quindi un programma complessivo di formazione culturale e morale, che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente dall’infanzia fino all’ingresso nella vita pubblica. Dedica. La Institutio oratoria è dedicata all’oratore Vittorio Marcello. La dedica è preceduta da una lettera a Trifone, l’editore che deve curare la diffusione. Contenuto dell’opera. L’opera è composta da dodici libri. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 50 Libri I e II. Libri propriamente didattici e pedagogici, trattano dell’insegnamento elementare e della basi di quello retorico, discutendo fra l’altro dei doveri degli insegnanti. Libri III-IX. Si addentrano in una trattazione più tecnica che esamina analiticamente le diverse sezioni della retorica, a cominciare dalle sue suddivisioni, passando per la inventio, la dispositivo e la elocutio, fino alle figure di parola e di pensiero. Libro X. Insegna i modi di acquisire la facilitas, cioè la disinvoltura nell’espressione, prendendo in esame gli autori da leggere e da imitare, Quintiliano inserisce qui un famoso excursus storico-letterario sugli scrittori greci e latini, preziosa testimonianza sui canoni critici dell’antichità. Il tipo di oratore ideale che Quintiliano delinea si avvicina a quello ciceroniano per la vastità della formazione culturale richiesta; ma in questa formazione generale, la filosofia sembra aver perduto terreno rispetto alla retorica e alla cultura letteraria, di cui Quintiliano rivendica il primato. Perciò il programma di letture tracciato nel libro X mette in primo piano la scelta degli scrittori greci e latini, per quanto talora riecheggi schemi convenzionali, Quintiliano dà prova di equilibrio notevole soprattutto là dove prende posizione nella disputa, che si protraeva dei tempi di Cicerone e poi di Orazio, sulla superiorità degli scrittori antichi o dei moderni, negli arcaici vede per esempio notevoli manchevolezze, ma sa distinguere fra ciò che deve essere attribuito specificatamente al poeta, e quanto invece all’età in cui visse. Il libro è per noi prezioso soprattutto perché da lunga rassegna degli scrittori proposti alla lettura, contiene giudizi critici, che ci informano sulla recezione dei testi. Libro XI. Si occupa delle tecniche di memorizzazione (memoria) e dell’arte del porgere (actio). Libro XII. Affronta in maniera abbastanza delusoria varie tematiche attinenti ai requisiti culturali e morali che si richiedono all’oratore. Un problema particolare pone il dodicesimo e ultimo libro della Institutio, dove Quintiliano accenna alla questione dei rapporti tra oratore e principe. Alcuni interpreti hanno attribuito a Quintiliano l’ideale di oratore come “burocrate della parola”, un funzionario subalterno che si serve della tecnica oratoria che detiene per trasmettere al proprio uditorio, principalmente il Senato, le direttive dell’imperatore. Più probabilmente Quintiliano si schierava fra quegli intellettuali che, come farà Tacito, accettavano il principato come una necessità. Nei limiti di questa situazione precostituita, il suo sforzo fu di ottenere per l’oratore il massimo di professionalità insieme ad un alto grado di dignità. L’oratore quintilianeo non pone di certo in discussione il regime, ma le doti morali che deve possedere sono utili, prima di tutto al principe, alla società in generale; per esempio, queste doti allontanano l’oratore dalle tentazioni della delazione, che pure per il principe era un importante strumento di potere, e di controllo sul ceto aristocratico. Quintiliano cerò di recuperare, per l’oratore, lo spazio di una missione civile altrettanto aliena dal ribellismo sterile quanto dal servilismo avvilente. Resta però vero che l’ideale propugnato da Quintiliano di un oratore che sia ancora, secondo l’antico modello catoniano, vir bonus dicendi peritus, guida del Senato e al popolo romano, è un illusione del tutto infondata, quasi una negazione fatta dalla realtà storica dell’impero. Un giudizio ben altrimenti fondato, amaramente realistico, della posizione che tocca ormai all’oratore ci è conservato nel più o meno contemporaneo Dialogus de oratoribus di Tacito, fortemente marcato dalla coscienza di un ruolo ormai decaduto, dalla disincantata denuncia di una irreversibile impotenza politica. Ritorno a Cicerone. Scopo dichiarato di Quintiliano è quello di riprendere, adattandola ai propri tempi, l’eredità di Cicerone. Questa ereditàera sia stilistica, con il suo ideale di concinnitas, armonia ed equilibrio, sia Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 51 politica, essendo stato Cicerone l’estremo difensore della libertà repubblicana dapprima contro la dittatura di Giulio Cesare, poi contro il triunvirato. Un compito che egli seppe assolvere con finezza e senso della misura, pur con alcune inevitabili differenze dovute ai tempi e al contesto politico, ormai la libertas repubblicana di cui Cicerone era stato strenuo paladino aveva ceduto il passo a un principato basato sul consenso e senza alcuno spazio per voci discordanti. Nel ritorno a Cicerone si esprime, da parte di Quintiliano, l’esigenza di ritrovare una sanità di espressione che sia insieme sintomo della saldezza di costumi. Affermazione del nuovo classicismo. Quando, presumibilmente intorno al 90 d.C. Quintiliano pubblico il De causis corruptae eloquentiae, le tendenze stilistiche anticiceronine che avevano avuto in Seneca il loro esponente più illustre, contavano ancora seguaci e ammiratori. Ma già solo pochi anni dopo, ai tempi dell’Institutio, la situazione pare alquanto mutata: il nuovo classicismo è un movimento che va affermandosi ed è praticamente vinta la battaglia di Quintiliano, suo leader culturale. Ma nonostante ciò, Quintiliano, che concede riconoscimenti allo stile di Seneca, avverte l’esigenza di condannare alcuni tratti del gusto modernista, il Libro VIII dell’Institutio, conserva una viva polemica contro le sententiae alla maniera senecana. Spiega Quintiliano, sententiae, voleva dire “giudizio”, “opinione”, ora invece si indicano con questo termine i lumina praecipueque in clausulis posita, (i tratti brillanti del discorso, soprattutto quelli che sono collocati alla fine del periodo). Le sententiae sono diventate un artificio per rendere vivace il discorso. Quintiliano allude al continuo scintillare di piccole sentenze che spezzano il discorso e lo rendono discontinuo e imprevedibile, come scatti e salti del pensiero che vogliono colpire il lettore. Di questi artifici si alimenta appunto lo stile sconnesso e spezzettato di Seneca, il suo scrivere “a effetto”, e da questi artifici soprattutto dovevano essere attratti epigoni e imitatori. Quintiliano contro Seneca: docere contro movere. Il fatto è che Quintiliano, in ultima analisi, riteneva che l’elocuzione dovesse svolgersi anzitutto in funzione della sostanza delle cose, laddove Seneca mirava all’ascoltatore, all’esigenza di catturarne l’interesse e di guidarne le reazioni. Così la polemica di Quintiliano contro Seneca e il nuovo stile rappresenta, per così dire, lo scontro tra due diverse istanze del discorso: una era l’esigenza del docere, quella che fonda il discorso sull’oggettività delle cose dette e considera l’autore (cioè chi parla o scrive) come unico attore del testo, l’altra, caratteristica del nuovo stile, era l’esigenza del movere, quella che carica il senso del discorso sul destinatario e fa di lui il vero primo attore del testo. Lo stile. Nel programma di Quintiliano, le letture degli autori più diversi hanno lo scopo di formare lo stile dell’oratore, ma a quest’ultimo egli addita soprattutto il modello ciceroniano, reinterpretato ai fini di una ideale equidistanza tra asciuttezza e ampollosità. Ciò nonostante, lo stile dello stesso Quintiliano non è armoniosamente ampio e simmetrico come quello di Cicerone, in qualche modo, esso pare aver subito il condizionamento esercitato dalla prosa di Seneca. Ma in generale si deve riconoscere che lo stile di Quintiliano rappresenta il miglior esempio delle virtù che egli stesso raccomanda. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 52 Questo consolidò il sistema di governo del suo predecessore, con una politica di sgravi fiscali resa possibile dallo sfruttamento delle risorse, ma anche dalla limitazione della spesa per le opere pubbliche. Amministratore attento e oculato, diede di sé l’immagine sobria del sovrano che lavora per il bene dello Stato, con un continuo richiamo al passato di Roma, segno di una concezione tradizionalista del potere. Antonino, che ebbe il soprannome di Pio per la pietas dimostrata verso Adriano, poiché sostenne presso il Senato la sua richiesta, con la quale esaudiva la sua volontà che gli imponeva di adottare Lucio Vero, figlio di Elio Vero. Oltre a Lucio, adottò anche lo sposo della sua unica figlia vivente, Marco Aurelio, La successione dei due optimi chiamati ad esercitare in coppia il potere imperiale, con una maggiore garanzia di costituzionalità, esprimeva l’adesione agli ideali tipici del Senato romano. Lucio Vero 161-169 d.C. Marco Aurelio 161-180 d.C. Marco Aurelio, esponente dello stoicismo, che teorizzava la monarchia come governo del saggio, fece si che il nuovo imperatore si associò con parti poteri al fratello adottivo Lucio Vero. A Vero fu affidato il compito di condurre la campagna contro i parti, che nel 161, in occasione dell’insediamento del re Someo, protetto da Roma, invasero il regno d’Armenia imponendo sul trono il fratello del re arsacide Vologese. Poi avevano sferrato delle temibili offensive contro le provincie di Siria e Cappadocia. La guerra di protrattasi fino al 166, si concludeva a favore dei romani, che cinquant’anni dopo Traiano, tornarono a invadere il territorio partico fino alla capitale Ctesifonte, riducendola a un cumulo di macerie,e reintegrarono Someo sul torno d’Armenia. I territori all’est dell’Eufrate costituirono la nuova provincia di Mesopotamia. Vi fu un nuova minaccia, nel settore danubiano, dovuta agli spostamenti delle popolazioni germaniche, a causa delle migrazioni dei Goti, queste popolazioni invasero la Pannonia. Allora Marco e Lucio (questo morì duranti il viaggio di ritorno in Italia, nel 169) si recarono personalmente sul fronte, bloccando l’avanzata nemica. Nel 170, mentre Marco Aurelio era impegnato in una spedizione contro gli Iazigi in territorio sarmatico, una grossa coalizione di tribù germaniche guidate dai Marcomanni sfondò il limes penetrando nel cuore dell’impero fino in Italia, dove giunse a distruggere Opitergium e a minacciare Aquileia, stretta d’assedio. Nel 171, allora partì la controffensiva di Marco Aurelio, il quale occupò i territori dei Marcomanni e dei Quali, al di là del Danubio. Aveva già ripreso la campagna sarmatica e costretto gli Iazigi a chiedere la pace, quando la ribellione del governatore di Siria, Avidio Cassio, richiamò l’imperatore in Oriente. Risolta la crisi in questo settore dell’impero, Marco Aurelio tornò di nuovo sul fronte danubiano per portare a termine al campagna contro gli Iazigi, ma qui trovò la morte per malattia nel 180. L’ultimo atto dell’imperatore Marco Aurelio, che rompeva la prassi dei suoi predecessori, fu quella di rinnegare il principio dell’adozione, e nel 176 si era associato il figlio Commodo, che gli successe nel 180 a diciannove anni. Questa scelta si rivelò molto dannosa. In realtà il principio dell’adozione non fu mai sanzionato da nessuna norma giuridica, e da Nerva ad Antonino Pio, l’adozione era stata una scelta obbligata, determinata dal fatto che gli imperatori non avevano figli. Commodo 180-192 d.C. Chiusa la guerra sul fronte danubiano, Commodo rivelò subito una concezione del potere in netto contrasto con quella paterna. A corte favorì subito un clima di incertezza e di tensione, esaltando e facendo cadere uomini del suo enturage, tanto che una prima congiura, repressa, fu ordita, già nel 182. Privo di interesse per l’amministrazione dello Stato, Commodo lasciò il governo nelle mani di una serie di suoi collaboratori. Il disinteresse della politica imperiale per le provincie di confine determinò la ribellione degli eserciti, mentre a Roma la concezione autocratica dell’imperatore assumeva forme difficilmente conciliabili con la tradizione romana. L’imperatore poi assunse il titolo di Ercole romano, facendosi rappresentare in quella veste divina non solo in numerose statue distribuite sul territorio imperiale, ma utilizzando quell’effige anche per la monetazione, nel tentativo di imporre la sua identificazione con la divinità. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 55 Una nuova congiura alla fine del 192 eliminò il tiranno, aprendo la strada ai pronunciamenti militari, che avrebbero caratterizzato le successioni al trono nel secolo seguente. La fine dello stoicismo. Esaurito il fascino esercitato da dottrine e sette filosofiche come quella stoica (lo stoicismo finirà presto per essere assorbito in qualche modo dal cristianesimo), era invitabile che si affermassero nuove fedi religiose, capaci di offrire non l’esemplare modello di imperturbabili sapienti chiusi nel proprio elementare egoismo, ma l’affascinante e complessa lezione di quei riformatori religiosi che, come prova decisiva di una condotta umana veramente morale, predicavano l’altruismo. Il “vivi secondo natura” degli stoici (e dei cinici soprattutto) non poteva più soddisfare gli spiriti più esigenti, e lo stoicismo consumerà i suoi ultimi trionfi nella rigorosa etica laica dell’imperatore Marco Aurelio. La concorrenza del cristianesimo, forza emergente del secolo. La fede di Mitra si diffonde soprattutto tra i soldati, impegnati sull’unico fronte rimasto aperto, quello contro i Parti. Ma il cristianesimo si rivela la forza emergente di questo secolo. È da credere che il cristianesimo poté vincere la concorrenza della religione mitraica, da cui del resto non era troppo dissimile, e che poteva contare sull’appoggio o sulla connivenza di molti degli imperatori di questo periodo, anche grazie alla solida e articolata organizzazione che i fedeli seppero presto darsi. Già all’inizio del II sec. esiste una struttura gerarchicamente ramificata, un clero, con i suoi vescovi, a cui sono sottoposti presbiteri e diaconi. La nascita della letteratura cristiana. È così che nasce la letteratura cristiana, perché le prime comunità tengono una memoria scritta delle proprie vicende, una raccolta di testimonianze a noi giunta con il nome di Acta martyrum, resoconti delle persecuzioni e di processi, descrizioni delle scene di martirio, spesso dei miracoli. Poi, con il contatto con le altre religioni e con le filosofie antiche, sorge anche la necessità di difendere il credo cristiano, di combattere deviazioni ed eresie, e gli stessi attacchi dell’antica aristocrazia pagana, a volte tenacemente ostile alla nuova fede. Fiorirà così la letteratura apologetica, che è forse la più vivace produzione letteraria in latino del IIe del III sec. GAIO CECILIO SECONDO (PLINIO IL GIOVANE) 61/62-113 d.C. Notizie biografiche. Gaio Plinio Secondo nacque a Como nel 61 o nel 62 d.C.; alla morte del padre venne adottato da Plinio, suo zio materno, di cui assunse il nome (di qui la distinzione fra i due Plinii, definiti: il Vecchio e il Giovane). A Roma studiò retorica sotto la guida di Quintiliano e di Nicete Sacerdote, un retore greco di indirizzo asiano. Incominciò presto la carriera forense, in cui ottenne notevoli successi, il cursus honorum: fu successivamente questore, tribuno della plebe, pretore nel 98, venne nominato praefectus aerarii Saturnii. Nel 100, insieme allo storico Tacito, che era suo amico, sostenne l’accusa contro Mario Prisco, proconsole d’Africa; quindi, verso la fine di quello stesso anno fu nominato consul suffectus. Il passaggio del principato da Domiziano a Nerva e da Nerva a quello di Traiano fu dunque del tutto indolore ai fini della carriera forense e politica di Plinio, che nel 111, proprio Traiano nominò suo legato in Bitinia. Plinio morì non molto dopo tempo dopo, probabilmente nel 113. Fonti biografiche. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 56 Della vasta produzione letteraria di Plinio il Giovane ci restano il ricco epistolario, che costituisce la fonte principale per le notizie sulla vita e l’attività dell’autore. Le Epistulae sono una raccolta in dieci libri: i primi nove contengono lettere composte tra il 97 e il 108, e pubblicate ad opera dello stesso Plinio, mentre il decimo conserva lettere private e ufficiali di Plinio a Traiano, con le risposte dell’imperatore. Le lettere raccolte nel X libro appartengono per la massima parte al periodo in cui Plinio fu governatore in Bitinia (dopo il 111) ed è probabile che quest’ultimo libro sia stato pubblicato postumo e aggiunto alla precedente raccolta. Opere. Il Panegyricus. Il Panegyricus è una versione ampliata del discorso di ringraziamento a Traiano che Plinio tenne in Senato in occasione dalla sua nomina a console, nel 100 d.C. L’opera ci è pervenuta come una raccolta di più panegirici di vari imperatori, quasi l’inaugurazione di un genere letterario. Il titolo forse non è originale, il termine panegyricus indicava in origine i discorsi tenuti nella solennità panelleniche e nel I sec. d.C. passò a designare l’encomio del monarca. Concordia tra imperatore, aristocrazia e ceto equestre. Il discorso di ringraziamento, la gratiarum actio, di fronte al Senato, si trasforma in un encomio dell’imperatore, al quale spettava raccomandare in Senato la nomina di magistrati. Plinio esalta ed enumera le virtù dell’optimus princeps Traiano, che ha reintrodotto la libertà di pensiero e di parola. Auspicando, dopo la fosca tirannide di Domiziano, aspramente denigrata, un periodo di rinnovata collaborazione fra l’imperatore e il Senato, Plinio si sforza anche di delineare un modello di comportamento per i principi futuri: un modello fondato ovviamente sulla continuazione della concordia fra imperatore e ceto aristocratico e sulla stretta intesa politica, e integrazione culturale, fra aristocratici e ceto equestre, dal quale in gran parte provenivano i quadri della burocrazia de dell’amministrazione. Educazione del princeps. Nonostante il tono fondamentalmente ottimistico, il Panegyricus lascia affiorare qua e là la preoccupazione che i principi malvagi possano nuovamente salire al potere e che il Senato possa tornare a soffrire come sotto Domiziano. Non senza qualche ingenuità, Plinio sembra così rivendicare una funzione pedagogica nei confronti del principe, attraverso i molti elogi e le formule di cortesia, traspare il tentativo di esercitare una blanda forma di controllo sul detentore del potere assoluto. Non a caso è stata sottolineata una certa affinità, anche dal punto di vista stilistico, del Panegyricus con la Pro Marcello di Cicerone. L’Epistolario: il carteggio con l’imperatore. Rapporti tra Plinio e Traiano. Nonostante la funzione pedagogica rivendicata dal Plinio, i reali rapporti tra lui e Traiano emergono chiaramente dal carteggio intercorso fra i due al tempo del governatorato in Bitinia, e conservato nel libro X delle Epistulae. Plinio si comporta come un funzionario scrupoloso e leale, ma anche alquanto indeciso, che informa Traiano di ogni problema, opere pubbliche, questioni fiscali e di ordine pubblico, fra cui i processi contro i cristiani, attendendosi dal principe consigli e direttive. Dalle risposte di Traiano trapela talora un lieve senso di fastidio per i continui quesiti che Plinio gli sottopone, anche su questioni di seconda importanza. L’ordinamento dell’Epistolario. I primi nove libri delle Epistulae furono pubblicati come si è detto, a cura dello stesso Plinio, forse per gruppi. Nella lettera proemiale a Setticio Claro, Plinio afferma di non aver seguito, nel raggruppare le proprie lettere, alcun criterio preciso, in particolare di non aver fatto caso alla cronologia, le lettere si susseguirebbero dunque secondo un ordine del tutto casuale. È probabile che l’ordinamento segua soprattutto un criterio di alternanza di argomenti e motivi, in modo da evitare al lettore la monotonia. Le lettere di Plinio sono infatti solitamente dedicate ciascuna a un singolo tema, sempre trattato con cura attenta dell’eleganza letteraria, è questa una delle differenze più importanti che separa l’epistolario di Plinio, concepito fin dall’inizio per la pubblicazione, da quello ciceroniano, in cui l’urgenza della comunicazione spingeva spesso l’autore ad affastellare gli argomenti più vari, talora per accenni brevissimi e poco perspicui a un lettore diverso dal destinatario particolare. Vita pubblica e privata: la cronaca di un intellettuale integrato. Le lettere di Plinio sono in realtà una serie di brevi saggi di cronaca sulla vita mondana, intellettuale e civile. L’autore intrattiene spesso i suoi interlocutori sulle proprie attività e sui periodi di riposo, informandoli delle preoccupazioni che aveva in qualità di grande proprietario terriero. Dipinge i suoi paesaggi con toni di maniera, descrivendoli soprattutto come panorama goduto attraverso le finestre delle proprie ville. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 57 “Sciant, quibus moris est illicita mirari, posse etiam sub malis princibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta, se in nullum rei publicae usum ambitiosa morte inclaruerunt.” “Sappiamo, quanti hanno per abitudine di ammirare i gesti di ribellione, che si può essere grandi uomini anche sotto cattivi imperatori, e che l’obbedienza e la moderazione, se in presenza di operosità e viogore, si elevano a quella gloria della quale i più si fregiano attraverso vie pericolose, ma senza alcuna utilità per lo Stato, con morte ambiziosa.” (Agricola, 42,6). Scontro con Domiziano e morte silenziosa. Alla fine anche Agricola, che non aveva il gusto della opposizione fine a se stessa, ma non per questo era disposto a macchiarsi di servilismo, era caduto in disgrazia presso Domiziano; ma questo avvenne non senza che egli avesse dato prova di quanto si potesse operare fecondamente in favore della comunità, prima che lo scontro non fosse più evitabile. Attraversando incorrotto la corruzione altrui, Agricola sa morire silenziosamente e sulle reali cause della morte, naturale o dovuta a Domiziano, Tacito stende un velo d’ombra, senza andare in cerca della gloria di un martirio ostentato, la ambitiosa mors (come il suicidio degli stoici), che Tacito condanna in quanto di nessuna utilità alla res publica. Vita mediana. L’elogia di un personaggio emblematico come Agricola si traduce in un’apologia della parte sana della classe dirigente, formata da uomini che, privi del gusto del martirio, avevano collaborato con i principi della casa flavia, contribuendo validamente alla elaborazione delle leggi, al governo delle provincie, all’ampliamento dei confini e alla difesa delle frontiere; uomini che, una volta recuperata la “libertà”, non avrebbero ritenuto giustificata una indiscriminata condanna del loro operato e del servizio da essei prestato allo Stato. Stile e genere letterario. L’Agricola si situa, al punto di intersezione fra due generi letterari diversi: si tratta di un panegirico sviluppato in biografia, di una laudatio funebris inframmezzata, ampliata e integrata con materiali storici ed etnografici. L’opuscolo risente quindi di molti stilistici diversi, che contribuiscono al suo carattere composito. Nell’esordio, nei discorsi, e soprattutto nell’eloquente “perorazione” finale è notevolissima l’influenza di Cicerone; nelle parti narrative ed etnografiche si avverte, invece, la presenza dei due diversi modelli di stile storico, quello di impronta sallustiana e quello di impronta liviana. De origine et situ Germanorum (noto più comunemente come Germania). Etnografia. Probabilmente dello stesso anno del De vita Iulii Agricolae (98). Un’opera dedicata interamente alla descrizione del territorio della Germania e dei suoi abitanti, che rappresentavano una costante minaccia per l’Impero romano. Quest’opera costituisce per noi praticamente l’unica testimonianza di una letteratura specificatamente etnografica, che a Roma doveva godere di una certa fortuna. Gli interessi etnografici erano stati già forti nella cultura ellenistica; a Roma, si possono far risalire al De bello Gallico di Cesare, che aveva tratteggiato anche il sistema di vita dei Germani. Successivamente storici come Sallustio e Livio erano probabilmente ricorsi, in sezioni perdute delle loro opere, ad ampie digressioni etnografiche, che introducevano un elemento di variazione nelle lunghe esposizioni di avvenimenti, e contemporaneamente permettevano di fare mostra di dottrina e versatilità: un excursus sulla Germania doveva trovarsi nel libro III delle Historie di Sallustio, mentre Livio può averne trattato verso la fine della sua opera, occupandosi delle campagne di Druso oltre il Reno. Fonti di Tacito: i Bella Germaniae di Plinio. È stato sottolineato come le notizie etnografiche contenute nella Germania non derivino da osservazione diretta, ma quasi esclusivamente da fonti scritte: per quanto Tacito mostri di averne consultate diverse, si è suggerito che egli possa avere trattato la maggior parte della documentazione dai Bella Germaniae di Plino il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle armate del Reno e aveva preso parte a spedizioni oltre il fiume, nelle terre dei Germaninon ancora sottoposti al dominio romano. Tacito sembra aver seguito la sua fonte con fedeltà, accontentandosi di migliorarne e impreziosirne lo stile e di aggiungerne pochi particolari per ammodernare l’opera. Ciò nonostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la Germania sembra descrivere abbastanza spesso la situazione come si presentava prima che gli imperatori flavi avanzassero oltre il Reno e oltre il Danubio. La civiltà dei Germani. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 60 Risale molto addietro l’ipotesi, a nostro giudizio ben fondata ma bisognosa di alcune precisazioni, che vede nell’opuscolo l’esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una civiltà decadente. In filigrana, la Germania sembra percorsa da una vena di implicita contrapposizione dei barbari, ricchi di energie ancora sane e fresche, ai Romani. Germani, pericolosi per l’impero. Non si dovrà, comunque, insistere eccessivamente sulla idealizzazione delle popolazioni selvagge, un tema pure consueto alla letteratura etnografica, che risentiva dell’insoddisfazione per il decadimento e la corruzione della vita cittadina: ponendo l’accento sulla indomita forza e sul valore guerriero dei Germani, più che tesserne un elogio Tacito ha probabilmente inteso sottolineare la loro pericolosità per l’impero. La debolezza e la frivolezza della società romana dovevano allarmare lo storico senatore, che allora muoveva i suoi primi passi: i Germani, forti, liberi e numerosi, potevano rappresentare una serie minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e la corruzione. Le Historiae. Piano dell’opera. Composto in dodici libri tra il 100 e il 110. La parte che ci è rimasta contiene la narrazione degli eventi degli anni 69-70, dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l’opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, l’anno della morte di Domiziano; nel proemio, Tacito afferma espressamente di riservare per la vecchiaia la trattazione dei principati di Nerva e di Traiano, “materia più ricca e meno rischiosa”. Le Historie affrontavano perciò un periodo cupo, sconvolto da varie guerre civili, e concluso da una lunga tirannide. Contenuto dell’opera. Libro I. Si occupa degli avvenimenti a partire dal 1 gennaio 69, si apre con la narrazione del breve regno di Galba; seguono l’uccisione di quest’ultimo e l’elezione all’impero di Otone. In Germania, tuttavia, le legioni acclamano imperatore Vitellio. Libri II e III Narrano della lotta fra Otone e Vitellio, conclusasi con la sconfitta e il suicidio del primo, e quella successiva fra Vitellio e Vespasiano. Acclamato imperatore dalle legioni di vari Paesi, Vespasiano lascia in Oriente il figlio Tito ad affrontare i Giudei, e, spostatosi in Egitto, fa dirigere le sue truppe su Roma, dove si è rifugiato Vitellio, che viene catturato e ucciso. Libro IV. Tratta del sacco di Roma ad opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in Germania. Libro V. Ci è pervenuto mutilo e si arresta al Capitolo 26, dopo un excursus sulla Giudea, dove si trova Tito, passa a raccontare gli avvenimenti di Germania e i primi segni di stanchezza mostrati dai ribelli. Parallelismi della storia. Il 69, l’anno dei quattro imperatori. L’anno col quale si apre la narrazione delle Historiae, il 69, aveva visto succedersi quattro imperatori (Galba, Ottone, Vitellio e Vespasiano). Era anche stato divulgato, come Tacito sottolinea, un arcano dell’impero: il principe poteva essere eletto altrove che a Roma, poiché la sua forza si basava principalmente sull’appoggio delle legioni di stanza in Paesi più o meno remoti. Vitellio era stato portato al potere dalle legioni di stanza in Germania, Vespasiano da quelle dell’Oriente. Otone, fatto principe a Roma, si basava anch’egli sul sostegno militare dei pretoriani, la guardia imperiale di stanza nella capitale. Tacito scriveva le Historiae a oltre trent’anni di distanza dal 69; ma la ricostruzione degli avvenimenti dell’anno di quattro imperatori avveniva, con ogni probabilità, nel vivo del dibattito politico che aveva accompagnato all’ascesa al potere di Traiano. Galba e Nerva: analogie e differenze. È stato notato un certo parallelismo fra gli eventi che prepararono la successione di Traiano e gli avvenimenti del 69: il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba ad affrontare una rivolta di pretoriani che faceva traballare le basi del suo potere; come Galba, aveva designato per adozione un successore. L’analogia si ferma a questo punto: Galba, che Tacito descrive come un vecchio senza energie, rovinato da consiglieri sciagurati, inutilmente e anacronisticamente atteggiato nelle pose della gravitas repubblicana, si era scelto come successore Pisone, un nobile di antico stampo, dai costumi severi, poco adatto, per il suo rigorismo arcaicizzante, a conciliarsi la benevolenza della truppa: sostanzialmente un fantoccio, una vittima dei suoi illustri natali, dell’inettitudine di Galba e delle criminali ambizioni di Otone. Nerva invece aveva consolidato il proprio potere associandosi nel proprio governo Traiano, un capo militare autorevole, comandante dell’armata della Germania superiore. Non si può pertanto condividere l’interpretazione secondo la quale Tacito avrebbe visto in Galba uno sfortunato precursore della conciliazione del principato con la libertà, poi realizzata da Nerva e Traiano. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 61 L’adozione di Pisone: la crisi del mos maiorum. Con il discorso fatto pronunciare a Galba nel Libro I delle Historiae in occasione dell’adozione di Pisone, o storico ha inteso chiarire, quasi per contrasto, attraverso le stesse parole dell’imperatore, aspetti significativi della sua posizione ideologico-politica. Tacito ha voluto mostrare in Galba il divorzio ormai consumato fra il modello di comportamento rigorosamente ispirato al mos maiorum, un modello ormai votato al vuoto ossequio delle forme, e noncurante di ogni realismo politico, e la reale capacità di dominare e controllare gli avvenimenti. Ispirandosi a quel modello, Galba, non poteva fare una scelta in grado di garantire davvero la sicurezza dello Stato: ne seguì un periodo di sanguinosi conflitti civili. L’adozione di Traiano: la scelta giusta. L’adozione di Traiano, peraltro un comandante di vecchio stampo, che sapeva rendersi cari i soldati senza rinunciare alla severità e al decoro della sua carica, placò invece i tumulti fra le legioni, e pose fine a ogni rivalità. Traiano si rivelò capace di mantenere l’unità degli eserciti, e di controllarli senza farne gli arbitri dell’impero. Può darsi che Tacito, con il pessimistico realismo che lo contraddistingueva, non condividesse in toto l’entusiastica soddisfazione dimostrata da Plinio il Giovane nel Panegyricus a proposito della soluzione che la scelta di Traiano aveva assicurato alla crisi dello Stato; ma certamente avvertiva come improrogabile la necessità di sanare la frattura, drammaticamente verificatasi nel 69, fra le virtutes del modello etico antico-repubblicano e la capacità di instaurare un reale rapporto con le masse militari. Pace e libertà: il principato necessario. Come abbiamo già detto, Tacito è convinto che solo il principato sia in grado di garantire la pace, la fedeltà degli eserciti e la coesione dell’impero; già il proemio delle Historiae, accennando all’ascesa di Augusto, sottolinea come dopo la battaglia di Azio la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona si sia rivelata indispensabile per il mantenimento della pace. Il principe non dovrà essere uno scellerato tiranno come Domiziano, né un inetto come Galba. Dovrà invece assommare a sé le qualità necessarie per reggere la compagine imperiale, e contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del ceto dirigente senatorio. Tacito addita l’unica soluzione praticabile nel principato “moderato” degli imperatori per adozione. Tecnica e stile della narrazione. Lo stile narrativo delle Historiae, coerentemente con il repentino susseguirsi degli avvenimenti, ha un ritmo vario e veloce, che non concede all’azione di affievolirsi o di ristagnare. Questo ha implicato, da parte di Tacito, un lavoro di condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso Tacito sa conferire efficacia drammatica alla propria narrazione, suddividendo il racconto in singole scene. I tre tentativi di abdicazione di Vitellio, noti attraverso Sventonio, sono condensati in un solo episodio, drammatico e pittoresco, nel quale Tacito ha saputo profondere tutte le risorse del colore e della suggestione. Tacito è maestro nella descrizione delle masse, spesso incalzante e spaventosa: sa essere altrettanto efficace nel dipingere la folla tranquilla, il suo insorgere minaccioso o il suo disperdersi in prende al panico; dalla descrizione della folla traspare, in genere, il timore misto al disprezzo del senatore per le turbolenze dei soldati e della feccia capitale. Ma un disprezzo quasi analogo lo storico aristocratico ostenta per i suoi pari, i componenti del Senato, il cui comportamento è descritto con malizia sottile, che insiste sul contrasto tra “facciata” e realtà inconfessabile dei sentimenti: l’adulazione manifesta verso il principe cela l’odio segretamente covato nei suoi confronti, la sollecitudine per il bene pubblico occulta gli intrighi e l’ambizione. Le Historiae raccontano per la maggior parte fatti di violenza, di prevaricazione e di ingiustizia: di conseguenza la natura umana è dipinta in toni costantemente cupi. Ciò non toglie che Tacito sappia tratteggiare in modo abile e vario i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi e incise a ritratti compiuti, come quello di Muciano, il governatore della Siria che giocò un ruolo importante nell’ascesa di Vespasiano: Muciano è descritto secondo la tipologia del personaggio “paradossale”, cioè come un miscuglio di lussuria e operosità, di cordialità e arroganza; eccellente nelle attività pubbliche, ma con una reputazione ripugnante nella vita privata. Una cura particolare di Tacito pare aver dedicato alla costruzione del personaggio di Otone: lo storico insiste sulla consapevolezza della sua subalternità nei confronti degli strati inferiori urbani e militari, condensata in una frase epigrammatica: “Omnia serviliter pro dominazione” “Si comportava in ogni cosa servilmente per conquistare il potere” Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 62 l’energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche. Su tutta la sua esistenza spira un’aria di sovrana nonchalance, una neglegentia che esalta la raffinatezza. Petronio affronta la morte quasi come un’ultima voluttà, dando contemporaneamente prova di autocontrollo, di coraggio e di fermezza: in voluta polemica con la tradizione del suicidio teatrale degli stoici, si intrattiene con gli amici su argomenti diversi da quelli che servivano a crearsi un’aureola di costnatia; non si fa leggere dissertazioni sull’immoralità dell’anima o sentenze di filosofi, ma poesiole leggere e versi facili. Senza fare del personaggio un modello, Tacito aveva gusti più austeri, lo storico sembra implicitamente sottolineare che la virtus di Petronio è in fondo più salda di quella spesso ostentata nella morte dai martiri stoici. Stile degli Annales. Straniamento e disarmonia. Lo stile degli Annales è per certi aspetti mutato rispetto a quello delle Historiae: almeno nei libri precedenti il XIII, si registra una linea di evoluzione che va in direzione del crescente allontanamento dalla norma e dalla convenzione: una ricerca di “straniamento” che si esprime nella predilezione per forme inusitate, per un lessico arcaico e solenne, ricco di potenza. Rispetto alle Historiae, gli Annales risultano meno eloquenti e scorrevoli, più coincisi e austeri. Perdura e si accentua il gusto per la inconcinnitas, ottenuta soprattutto attraverso la variatio, cioè allineando a un’espressione un’altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente strutturata. Retorica e poetismi. Le disarmonie verbali riflettono la disarmonia degli eventi e le ambiguità nel comportamento umano. Abbondano le metafore violente e l’uso audace delle personificazioni. È frequente la coloritura poetica, soprattutto virgiliana, ma notevoli sono anche le tracce di Lucano nella prosa di Tacito. L’involuzione dello stile. All’interno degli Annales si registra tuttavia una verta modificazione dello stile, in cui alcuni hanno visto una involuzione. A partire dal Libro XIII Tacito sembra ripiegare su moduli più tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo. Lo stile si fa più ricco ed elevato, meno serrato, acre e insinuante; nella scelta dei sinonimi, lo storico passa dalle espressioni scelte e docorantive a quelle più sobrie e normali. La differenza è stata attribuita al diverso argomento: il regno di Nerone, abbastanza vicino al tempo, richiedeva di essere trattato con minore distanziamento solenne di quello ormai remoto di Tiberio, che sembrava ancora radicato nell’antica res publica. Qualche trascuratezza notata soprattutto nei Libri XV e XVI ha fatto anche pensare che gli Annales non abbiano ricevuto l’ultima versione. La fortuna. Nel primo Rinascimento a Tacito venne spesso preferito a Livio; ma già Guicciardini indicò in lui il maestro che insegnava fondare le tirannidi. Su questa, nell’epoca della Controriforma e delle monarche assolute prese piede il fenomeno del “tacitismo”, che vide nell’opera di Tacito un complesso di regole e di principi direttivi dell’agire politico di tutti tempi. Così Tacito venne talora usato, dai teorici della ragione di stato, come pretesto alla formulazione di una teoria dell’ideale imperiale. Ma le generazioni dell’Illuminsimo sentirono Tacito soprattutto come l’oppositore della tirannide. In campo letterario, alcuni tragici, come Corbeille, Racine e l’Alfieri, trassero da “drammi” tacitiani materia e ispirazione per i loro tormentati personaggi. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 65 STORIOGRAFIA MINORE. Nella prima età imperiale si avverte l’esigenza di rinnovare i modelli storiografici tradizionali. Grande fortuna sembra avere il genere biografico, il cui rappresentante principale è senza dubbio Svetonio, passato alla storia per le sue biografie degli imperatori Romani da Augusto sino a Domiziano. Altro rappresentante delle nuove tendenze storiografiche è Floro, che racconta la storia di Roma come se fosse l’evoluzione di un organismo biologico. GAIO SVETONIO TRANQUILLO ≈ 70 d.C. Notizie biografiche. Non conosciamo esattamente né l’anno di nascita né quello di morte: possiamo solo supporre che sia nato poco dopo il 70 d.C. da una famiglia di rango equestre di modesta condizione (nulla di certo si sa sul luogo di nascita). Per un po’ dovette svolgere attività forense, poi quando aveva già iniziato a dedicarsi a studi eruditi, grazie alla protezione di personaggi influenti (prima Plinio il Giovane, poi Setticio Claro) entrò a corte in qualità di funzionario: fu prima preposto, da Traiano alla cura delle biblioteche pubbliche; poi, sotto Adriano (117-138), fu addetto all’archivio imperiale e alla corrispondenza dello stesso principe. La sua brillante carriera burocratica si interrupe bruscamente nel 122, quando cadde in disgrazia insieme a Setticio Claro, prefetto del pretorio e suo protettore. Dopo la destituzione e l’allontanamento dalla corte si perdono le sue tracce; non sappiamo quanto tempo dopo sia morto. Fonti biografiche. La vita di Svetonio si ricostruisce dalle scarse indicazioni autobiografiche che ci fornisce l’autore e da altre notizie che possiamo ricavare dall’epistolario di Plinio il Giovane, dall’Historia Augusta e da un’iscrizione scoperta qualche decennio fa. De viris illustribus di Nepote, le Imagines di Varrone: i modelli. Quello biografico era un genere letterario di tradizione greca che, a Roma, era stato coltivato e collaudato soprattutto da Varrone e Cornelio Nepote. Più o meno negli stessi anni, infatti, Varrone nelle Imagines e Nepote nel De viris illustribus avevano tracciato i profili di personaggi famosi sulla base dello stesso schema che ispirerà il De viris illustribus svetoniano. Opere. Opere perdute di carattere erudito. Di una copiosa produzione di opere erudite, in greco e in latino, abbiamo notizia, più che dai miseri frammenti, soprattutto grazie alla Suda, un lessico bizantino (X secolo), che cene elenca diversi titoli (gli argomenti sono svariati, dai costumi romani al calendario, dai segni diacritici usati dai filologi alle cortigiane famose, dai difetti fisici agli scritti politici di Cicerone ecc.). Prata o Pratum, sarebbe un’opera di carattere enciclopedico, suddivisa in diverse sezioni in base agli argomenti trattati, secondo altri il titolo designerebbe invece l’intera produzione antiquario-erudita. De viris illustribus. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 66 Il De viris illustribus era il titolo di una raccolta di biografie di letterati, suddivisa per generi (poeti, oratori, storici, filosofi, grammatici e retori). A noi ne resta solo una sezione: De grammaticis et rhetoribus, mutila nella parte finale: ai grammatici (cioè filologi, studiosi di testi letterati) sono dedicati i primi ventiquattro capitoli (dal greco Cratete di Mallo, che introdusse la grammatica a Roma, a Valerio Probo), ai retori solo gli altri sei capitoli superstiti. Delle altre sezioni abbiamo solo materiale sparso giuntoci per tradizione indiretta: dal De poetis, soprattutto, derivano (non sappiamo se e quanto rielaborate dagli autori che le compilarono, come Donato e san Girolamo) la Vitae che possediamo di alcuni poeti, come Terenzio, Virgilio, Orazio, Lucano. Brevi informazioni sulle origini e il luogo di nascita, sull’insegnamento esercitato, sugli interessi principali e le opere composte, sui tratti del carattere (spesso illustrati mediante aneddoti o particolari curiosi della vita privata): questo, grosso modo, è il modello su cui sono impostati i succinti ritratti di grammatici e retori delineati da Svetonio. Il De vita Caesarum. Il De vita Caesarum è una raccolta di dodici biografie (degli imperatori da Giulio Cesare a Domiziano) in otto libri ci resta invece completo, fatta eccezione per i capitoli introduttivi della prima biografia e per la dedica dell’opera a Settimio Claro. Le Vite iniziano infatti con notizie relative a famiglia, luogo, data e circostanze della nascita del principe, per seguire poi, in uno sviluppo cronologico che ne accompagna l’adolescenza, il suo avvento al potere. Dopo di che l’ordinamento cronologico si interrompe per far spazio a una descrizione sincronica dei vari aspetti della personalità dell’imperatore suddivisi per singole rubriche, a loro volta attraversate da partizioni ulteriori. Il ritorno all’ordine cronologico, con il resoconto della morte e delle onoranze funebri tributate al principe, segna la conclusione delle singole vite. Rinuncia alla disposizione cronologica degli avvenimenti. L’aspetto più rilevante nell’organizzazione del materiale biografico è quindi la rinuncia a una disposizione cronologica che accompagni lo sviluppo della personalità analizzata: è lo stesso Svetonio, in un passo della Vita di Augusto (9,1), a rendere conto di tale criterio espositivo, che procede non per tempora ma per species, secondo una serie cioè di categorie, di rubriche, che trattano separatamente i vari aspetti della personalità del principe. Anziché illustrare quindi le vicende nella complessità degli elementi che possono darne conto, e seguendo un percorso lineare e unitario, il biografo preferisce comporre per frammenti episodici, privilegia un’analisi incentrata sul personaggio e sulla sua vita privata, sul suo carattere, inquadrando in apposite rubriche le sue virtutes e i suoi vitia, con l’ovvia conseguenza di orientare il giudizio in senso decisamente moralistico. La biografica come alternativa alla storiografia. Alla tesi che attribuiva alla familiarità dell’erudito Svetonio con l’indirizzo biografico alessandrino il carattere astorico e frammentario delle biografie imperiali, si è venuta sostituendo oggi una valutazione diversa, più attenta alle ragioni intrinseche delle scelte svetoniane. Anzitutto, nell’adozione del genere biografico si vede la prova della consapevolezza che tale è la forma storiografica più idonea a dar conto del nuovo volto che il potere ha assunto, quello individualistico, personale, del principato, e che la biografia dei singoli imperatori è la più adatta a fungere da criterio di periodizzazione per la storia dell’impero. Nella rinuncia allo schema annalistico, che la cultura senatoria aveva ancorato al regolare succedersi delle magistrature repubblicane, si vede quindi la realistica presa di coscienza che quelle magistrature, pur se formalmente ancora vigenti, sono ormai una parvenza fittizia, e che solo la durata del regno di ogni singolo principe può scandire il succedersi di un periodo dall’altro. Al tempo stesso, prevale ormai la tendenza a ravvisare tratti specificatamente romani proprio laddove prima si supponeva più forte l’influenza dell’eredità alessandrina: la tradizione degli elogia e delle laudationes funebres, che elencavano le imprese civili e militari, le benemerenze, gli onori del defunto, sembra rivelare la sua influenza sul modo in cui Svetonio seleziona e dispone il materiale. Le Res gestae di Augusto, con la rassegna delle cariche conferite al principe, dei donativi fatti dallo Stato, delle elargizioni al popolo, dei monumenti eretti, insomma delle svariate benemerenze acquisite, ci danno un esempio significativo della spinta che tale tradizione eminentemente romana poteva esercitare sull’esposizione per species che troveremo nelle Vite di Svetonio. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 67 Apuleio, una figura complessa: filosofo platonico, scienziato e oratore. Quella di filosofo platonico (del cosiddetto platonismo medio, dal I sec. a.C. a Plotino) doveva costituire in certo modo la qualità ufficiale e probabilmente favorita da Apuleio, che proprio sulla rivendicazione della dignità di filosofo aveva fondato la difesa dall’accusa di magia nel processo avvenuto a Sabratha. A noi quest’etichetta appare piuttosto come l’espressione dell’orizzonte culturale entro cui si situano gli studi multiformi di questo autore. Rappresentante di quella tendenza culturale che va sotto il nome di “seconda sofistica”, che vede moltiplicarsi le esibizioni di retori famosi, accanto a una penetrazione massiccia dell’irrazionale nelle scelte religiose (sotto forma di misticismo ascetico o di semplice superstizione), Apuleio condivide vari aspetti di tale fenomeno: la curiosità per il mondo della natura, l’inquietudine e la tensione verso l’occulto, l’iniziazione ai culti misterici, e infine al pratica brillante di conferenziere itinerante, che padroneggia fino al virtuosismo la lingua greca come quella latina. Nella formazione intellettuale di Apuleio sono presenti forti elementi di cultura popolare oltre alle dottrine scolastiche e accademiche, così che nei suoi testi si colgono i riflessi del pensiero platonico, peripatetico e filosofico in generale, ma anche della religiosità isiaca e perfino di quella gnostica ed ebraica, nonché discipline accettate a un più basso livello culturale, come la fisiognomica o l’arte dell’interpretazione dei sogni (la cui diffusione in quest’epoca è testimoniata dall’Onirocritica, opera in cinque libri composta da Artemidoro di Daldi sul finire del II sec.). D’altra parte, lo stesso platonismo cui Apuleio si richiamava si era ormai allontanato dall’originaria ortodossia del filosofo ateniese). Opere filosofiche di difficile attribuzione. Perì ermenéias. Un forte, ma non concorde scetticismo sussiste sulla paternità del Perì ermenéias, rielaborazione di un omonimo trattatello greco di scuola peripatetica, una sorta di manualetto che compendia la dottrina aristotelica del sillogismo e che ebbe fondamentale importanza nel Medioevo come testo di scuola. Asceplius. Ritenuto spurio il dialogo Asceplius, il dio medico (venerato da Elio Aristide, come dimostrano i suoi Discorsi sacri) che certo non era ignoto ad Apuleio (di qui probabilmente l’attribuzione). Opere filosofiche autentiche. È oggi generalmente accettata l’autenticità dei tre tratti filosofici: Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 70 Seconda sofistica. Più che una scuola vera e propria, la seconda sofistica è stata un orientamento culturale che, tra il I e il IV sec. d.C. ha riguardato soprattutto la parte orientale dell’Impero romano. A differenza dei sofisti del periodo classico, i sofisti più che coltivare la speculazione filosofica erano insegnanti e retori che, a pagamento, si spostavano da una città all’altra per tenere brillanti conferenze. Gnosticismo. Complessa tendenza religiosa che oggi si ritiene anteriore, nei suoi primi germogli, all’inizio dell’era cristiana. Sviluppatasi soprattutto nel II sec. d.C. , lo gnosticismo è caratterizzato da un notevole sincretismo che richiama elementi culturali molteplici di provenienza greca, cristiana e giudaica, e spesso rivela interessi di natura misterica e magico-astrologica. Al di là dei diversi rivoli che questo fenomeno ha manifestato, con la formazione di sette, è comune la tendenza a vedere nella conoscenza (gnosis), intesa come sapere intuitivo e riservato a pochi, relativo all’uomo, al mondo e a dio, il mezzo principale per attingere il divino e raggiungere la salvezza. Culto di Iside. Iside è una divinità femminile di origine egiziana a cui, tra le altre funzioni era attribuita quella di guidare i defunti. Proprio il rafforzarsi del legame di Iside con l’oltretomba diede nel tempo al culto di questa divinità tratti marcatamente misterici. Diffusosi largamente per tutto l’impero, ma presente in Grecia almeno a partire dal IV sec. a.C., il culto isiaco ebbe un suo primo tempio ufficiale a Roma ai tempi di Augusto, che però ne impose la costruzione fuori dal pomerio. Fu Caligola il primo imperatore ad autorizzare la costruzione di un tempio di Iside nel Campo Marzio. De deo Socratis, De Platone et eius dogmate, De mundo, considerati frutto della studiosa giovinezza di Apuleio. Il De mundo. Il De mundo, rifacimento del Perì Kòsmu pseudoaristotelico, rispecchia gli interessi speculativi per le forze che regolano l’universo. Il fatto che una sezione dell’operetta (i capitoli 13 e 14) sia tratta dalle Noctes Atticae di Gellio (2,22) ha costituito un problema per la datazione del De mundo, da ritenere posteriore alla pubblicazione dell’opera di Gellio (seconda metà del II sec.): sulla base della tesi che vuole giovanili le opere filosofiche conservate, si è perciò negata la paternità apuleiana. Questa difficoltà è stata però superata retrodatando la pubblicazione dell’opera di Gellio (per la quale non ci sono impedimenti). La tendenza ad accogliere spunti aristotelici capaci di conciliare indagine naturalistica e interessi metafisico-teologici era tipica del platonismo medio. Il trattatello è basato su un’interpretazione, vicina alla dottrina deterministica dello stoicismo (che negava il libero arbitrio dell’individuo, subordinandolo ai disegni della Provvidenza), che appare molto lontana dall’ortodossia platonica. Naturalmente il contenuto filosofico dell’operetta non appartiene esclusivamente ad Apuleio, ma deriva dal trattatello pseudoaristotelico preso a modello. Il contributo personale di Apuleio sta piuttosto nell’impegno, comune anche alle altre opere filosofiche, a introdurre nella lingua latina il linguaggio tecnico specialistico delle scienze naturali. Il De Platone et eius dogmate. I due libri De Platone et eius dogmate sono invece una sintesi della fisica e dell’etica di Platone, nel proemio Apuleio avverte che avrebbe trattato la logica in una terza parte, riconosciuta da alcuni studiosi nel Perì ermenéias. Si tratta di un’utile testimonianza del lungo lavoro esegetico fiorito intorno alla dottrina del maestro, poiché probabilmente l’opera apuleiana deriva per via diretta dall’ambiente dei commentatori e dalle loro elaborazioni. Il De deo Socratis. Il più importante di questi scritti è sicuramente il De deo Socratis, la trattazione più sistematica della dottrina dei dèmoni a noi giunta dall’antichità. L’impianto è tripartito: la prima sezione esamina i mondi separati degli dèi e degli uomini, segue la parte dedicata alla posizione dei dèmoni nella gerarchia degli esseri razionali e alla loro funzione di intermediari fra i due mondi. La conclusione è tutta sul dèmone di Socrate, la voce interiore che, sentita come tramite di un ordine divino, costringeva il filosofo a proseguire la ricerca del vero. Uno stile esuberante e d’effetto, appropriato al tono di una conferenza, dà vita all’immagine multiforme e dinamica di un universo popolato da forze misteriose, estranee alla percezione sensibile e la cui opera può essere colta solo dal sapiente. L’attività oratoria. I Florida. Dell’aspetto più appariscente comune ai letterati della seconda sofistica, l’attività di oratori itineranti, Apuleio ci ha lasciato ampia documentazione. Un caso fortunato, lo stesso codice che ci ha conservato il romanzo, e l’Apologia contiene pure i Florida. I Florida sono una raccolta di ventitré brani oratori, su temi diversi e di diversa estensione, stralciati dal testo di conferenze e pubbliche letture tenute da Apuleio in Africa, dopo il suo ritorno a Cartagine. Dai Florida emerge l’immagine di un conferenziere pronto a trattare ogni questione: c’è l’oratore dei discorsi politici ufficiali, il panegirista religioso, l’erudito, il letterato, il moralista, il narratore di storie interessanti, il filosofo convinto che l’arte del vivere e l’arte di parlare possano atteggiarsi con la stessa grazia intellettuale , che testimoniano fra l’altro lo straordinario successo che l’arte della parola poteva garantire a un geniale retore capace di affascinare un pubblico sofisticato. Apologia (o Apulei Platonici pro se de magia liber). Apologia o Apulei Platonici pro se de magia liber secondo i codici, in cui il testo è arbitrariamente suddiviso in due libri. L’Apologia è una lunga orazione giudiziaria, l’unica a noi pervenuta di età imperiale. Il processo in cui fu coinvolto Apuleio sembra essere stato originato da ragioni d’interesse economico. Il suocero di Ponziano, Erennio Rufino, cercò l’appoggio di Ponziano stesso e alla morte di lui, quello del fratello ancora minorenne, Pudente, per colpire Apuleio, lo scopo era quello di interdirgli l’accesso futuro all’eredità della moglie, ben più anziana di lui, col pretesto di tutelare gli interessi di Pudente. Caduta quasi subito un prima accusa, manifestamente pretestuosa, che gli addebitava la morte di Ponziano, ad Apuleio fu contestato il reato di magia (per la quale la lex Cornelia prevedeva addirittura la pena capitale). Evidentemente, sosteneva l’accusa, solo grazie al ricorso di pratiche magiche egli aveva potuto piegare al matrimonio una vedova facoltosa e non più giovane. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 71 Nonostante le palesi rielaborazioni, il testo a noi conservato dall’Apologia deve essere fedele all’ordine delle argomentazioni sviluppate in sede processuale. L’oratore, in primo luogo (capitoli 1-25), cerca di smontare puntualmente gli argomenti che l’accusa aveva ricavato dalla sua vita privata, moltiplicando disquisizioni dotte su temi disparati, così da guadagnare il dominio totale degli avversari sotto il profilo culturale. Successivamente, ribatte all’accusa specifica di essere mago con l’orgogliosa affermazione della propria attività di filosofo (capitoli 25-65). La terza ed ultima sezione (capitoli 66-103) è quindi dedicata alla ricostruzione degli avvenimenti seguiti all’arrivo a Oea, con lo scopo di dimostrare come il progetto del matrimonio fosse dovuto interamente a Ponziano. Ma la prova decisiva che dovette guadagnarli l’assoluzione fu probabilmente la lettura del testamento di Pudentilla, che nominava erede principale non Apuleio, ma il figlio minore Pudente. Molti indizi lasciano supporre che quest’opera, apparentemente nata da una circostanza storica precisa, abbia invece una natura e una destinazione fortemente letteraria. A rendere sospettoso il lettore non c’è soltanto la notevole estensione del testo, inconciliabile con la sua recitazione in un’aula giudiziaria, o la mancanza di un taglio realmente processuale (manca per esempio, una puntuale discussione delle prove), ma anche la frequenza di compiaciute digressioni sugli argomenti più svariati (filosofia, scienza, letteratura), che lasciano classificare l’Apologia come una conferenza più che come un’orazione di difesa; si è persino dubitato della sua storicità. Prima di utilizzare l’opera come documento diretto della biografia apuleiana è bene dunque interpretarla come un sofisticato prodotto letterario, che nelle intenzioni dell’autore deve consegnare alla posterità l’immagine di un brillante philosophos Platonicus. Riguardo ai procedimenti argomentativi, è senza dubbio notevole la disinvoltura con cui l’autore mette in ridicolo le ragioni dell’accusa: Apuleio infatti parla sempre dall’alto della sua cultura enciclopedica, che ostenta di continuo. Sono allusioni e ammiccamenti, da cui restano esclusi i suoi accusatori e di cui invece è fatto partecipe Marcello, promosso così a interlocutore unico, destinatario ideale perché colto e sensibile. Le movenze libere e vivaci del discorso, tutto fatto di allusioni e digressioni, consentono esercizi di dottrina comprensibili solo a un interlocutore capace di riconoscere gli exempla letterari citati nelle argomentazioni difensive dell’autore. Nasce così un testo che talvolta conserva notizie e osservazioni rare, come quando Apuleio (difendendosi dall’accusa di licenziosità per avere cantato il proprio amore per due ragazzi invocati sotto falso nome), ricorda i nomi veri delle donne che gli elegiaci latini avevano cantato sotto pseudonimi appropriati (isometrici e isosillabici rispetto ai nomi veri: Clodia per Lesbia, Ostia per Cinzia, Plania per Delia). L’abilità di avvocato che Apuleio rivela nell’Apologia ha spesso favorito l’accostamento a Cicerone, e in particolare al Cicerone della Pro Caelio, orazione intessuta di giochi di parole, invettive, ironia e sarcasmo. Ma certo non ciceroniano è il colore del discorso, lontano dal gusto repubblicano e teso invece alla mescolanza di volgarismi, neologismi, arcaismi, poetismi e di tutti gli altri elementi che formano la qualità peculiare dello stile apuleiano. Ciò che ha affascinato gli antichi come i moderni è l’ombra inquietante che Apuleio non riesce o non si cura di fugare sulle proprie innegabili e vaste competenze in materia di magia. La netta distinzione che egli pretende di operare tra magia e scienza, o, più esattamente, tra magia nera e magia bianca. La capacità del dominio delle forze naturali, propria dello scienziato, che egli vanta più volte, conserva tuttavia un che di ambiguo nel corso dell’intera orazione. Anche la figura di filosofo che egli traccia, lungi dall’esaurirsi nei tratti chiari e inequivocabili di un platonico (quale Apuleio si dichiara), denota un eclettismo che non la rende abbastanza distinta dai neopitagorici, tanto vicini a esperienze di mangia non solo bianca. È comunque indubbio che, al di là dell’esito del processo, che dovette essere favorevole all’imputato, la fama di Apuleio come mago si conservò nei secoli, associata a quella di altri maghi famosi, tra cui Apollonio di Tiana, come attestano Lattanzio in Istitutiones e soprattutto Agostino, che nel De civitate Dei, ribatte punto per punto le dottrine di Apuleio, in particolare la sua demonologia, e nelle Epistole, riserva aspre critiche all’Apuleio mago, osannato dai pagani d’Africa e da essi contrapposto a Cristo. Il romanzo. Le Metamorfosi (Metamophoseon libri) o Asinus aureus. Insieme con il Satyricon di Petronio, le Metamorfosi di Apuleio rappresentano per noi l’unica testimonianza del romanzo antico in lingua latina, l’unica, pervenuta intera. Il terminus post quem è costituito dalla stessa Apologia, se il romanzo, con il suo intreccio di episodi variamente connessi con la magia, fosse già stato scritto, l’accusa vi avrebbe sicuramente fatto riferimento. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 72 di asino, sdegnata che egli abbia osato ripresentarsi a lei dopo aver perso quei particolari attributi asinini che l’avevano fatta innamorare. Significato e complessità delle Metamorfosi. L’intera vicenda, pur sotto l’apparenza di voler offrire una lettura di semplice svago, assume in realtà i caratteri del racconto esemplare. Prova della serietà moralistica dell’opera è la funzione di elemento strutturale svolta dalla curiositas di Lucio, che, subito in primo piano dall’inizio, conduce il personaggio alla rovinosa trasformazione, dalla quale sarà liberato solo in seguito a una lunga espiazione, culminante in un drastico cambiamento di vita. A conferma del fatto che questa è una chiave di lettura suggerita dall’autore, alcuni episodi minori dell’intreccio trovano corrispondenze precise con la vicenda di Lucio, anticipandone o rispecchiandone i tratti (l’episodio di Birrena, per esempio, in cui Lucio vede le statue raffiguranti il mito di Atteone, punito per la sua curiosità). La favola di Amore e Psiche (4, 28-6, 24). Emblematico è il caso della favola di Amore e Psiche, che, grazie al rilievo derivante dalla posizione centrale e dalla lunga estensione, assume valore fondamentale nei confronti del destino di Lucio: dall’interpretazione di questo testo deriva l’interpretazione dell’intero romanzo. La trama rispecchia tradizioni favolistiche note in tutti i tempi: la figlia minore di un re suscita l’invidia di Venere a causa della sua bellezza straordinaria e, per volere della dea, viene data in preda ad un mostro. In realtà della fanciulla si è innamorato Cupido, il dio dell’amore, l’oracolo che sembra ordinare le nozze della principessa Psiche con un mostro orrendo, infatti, nella figura del terribile sposo, adombra il dio (non a caso composta in metro elegiaco, contro la convenzione che voleva gli oracoli composti in esametri). Psiche, che alla sommità di una roccia si aspettava ormai un destino di morte, viene così trasportata in un bellissimo palazzo. Qui incontra il suo sposo, di cui ignora l’identità e di cui le è sempre negata la vista: se vedrà il suo amante, questa è la condizione, sarà immediatamente separata da lui. Tuttavia, istigata dalle due sorelle invidiose, Psiche trasgredisce il divieto e spia Amore mentre dorme, all’inevitabile, immediato distacco porterà rimedio la dolorosa espiazione cui Psiche si sottomette, attraverso varie prove, tra cui anche una discesa negli Inferi. La novella si conclude con le nozze e gli onori tributati a Psiche, assunta a dea. Interpretazione allegorica della favola di Amore e Psiche. Fin dall’antichità nella bella fabella (come Lucio definisce la favola di Amore e Psiche), venne riconosciuto un intento allegorico, con un moltiplicarsi di interpretazioni. Senso cristiano. La più antica che ci sia pervenuta è quella di Fulgenzio, che interpretò la favola in senso cristiano, come mito dell’incontro tra l’Anima e il Desiderio, inaugurando un filone interpretativo che discende sino a Boccaccio. Certamente è da escludere che Apuleio abbia scritto un mito cristiano: a dimostrarlo basta già l’aspra critica al monoteismo ebraico svolta in Metamorfosi. Senso platonico. Maggiore fondamento storico può avere l’interpretazione della favola come mito filosofico, di matrici platonica, in quanto tratteggia una qualche coerenze di pensiero tra Apuleio narratore e Apuleio filosofo. Senso isiaco. Non troppo discordante dall’interpretazione platonica, un’interpretazione più recente fa della favola un racconto di iniziazione al culto isiaco, valorizzando la natura del libro XI, che è sostanzialmente una celebrazione della divinità egizia. Al di là dei dubbi sulla serietà del platonismo di Apuleio o sulla sua effettiva religiosità, il contesto della favola non pare autorizzare interpretazioni così nette e recise, anche perché elementi platonici e isiaci in essa appaiono intrecciati e fusi indissolubilmente. Inoltre l’analisi della favola all’interno del contesto del romanzo difficilmente rivela un significato lineare, evidentemente positivo, come ci aspetteremmo da un racconto portatore di una rivelazione, filosofica o religiosa. Insomma, contraddizioni di varia natura sconsigliano un’interpretazione univoca della favola e suggeriscono di valorizzare piuttosto le delicate e complesse funzioni letterarie che la storia acquista nella struttura del romanzo. La favola di Amore e Psiche riproduce come un modello in scala ridotta l’intero percorso narrativo del romanzo e ne offre la corretta decodificazione. Se non disponessimo del racconto di Amore e Psiche (contenuto nei libri centrali), leggeremo i libri I, II e III come una specie di romanzo di avventura in cui il meraviglioso e lo scabroso hanno gran parte; non certo come un romanzo mistagogico, cioè come il racconto di un’iniziazione ai riti misterici. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 75 Tocca appunto al racconto secondario, contenuto nel corpo del romanzo, di rendere più complessa la prima lettura attivando una seconda linea tematica (quella religiosa), che non solo prefigura l’epifania della dea Iside, che chiuderà nel libro XI l’intera narrazione, ma si sovrappone anche alla prima linea tematica (quella dell’avventura) per piegarla verso un senso iniziatico. La veste letteraria della favola, probabilmente con una trama di base attinta in origine alla favolistica popolare (si è discusso se iranica o egizia o africana-occidentale), si unisce per un lato a elementi alessandrini e milesi, dall’altro a elementi specificatamente latini (Virgilio per la discesa agli Inferi e dell’elegia per gli amori di Amore e Psiche). Tutto è originariamente fuso e la vicenda è raccontata con quella superiorità e levità che ha fatto pensare a Ovidio, disinvolto narratore di miti. Sperimentazione di generi diversi in un disegno mistico-simbolico. Le altre digressioni inserite nell’intreccio principale sono costituite da vicende di vario tipo, dove il magico (nei primi due libri) si alterna con l’epico (nelle storie dei briganti), col tragico, col comico, in una sperimentazione di generi diversi che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico di questo testo. I numerosi motivi letterari di origine diversa si ordinano in un disegno che sembra denso di significato. Tutto il romanzo si struttura come un itinerario attraverso un mondo fatto di segni e di simboli letterari, verso una liberazione che si situa nella luce e nella moralità. La continua compenetrazione tra l’elemento mistico- religioso e il tessuto originario della favola milesia costituisce la qualità originalissima dell’opera. Le critiche che si sono volute muovere a una presunta non perfetta fusione dei due livelli di lettura, quello novellistico-popolare e quello mistico-simbolico, non valgono a scalfire l’immagine complessiva di esperimento riuscito, che il testo fornisce. Né va dimenticato che, con la sola eccezione del libro XI, dove la componente mistica ha il soppravvento e la forma animale di Lucio ha perduto quasi totalmente importanza, nel corso del romanzo proprio la presenza costante delle riflessioni dell’asino crea un effetto di continuità che uniforma i due livelli di lettura, e scandisce il senso complessivo della vicenda come iter progressivo verso la sapienza. In tal modo l’esito finale, che da una parte identifica il narratore Lucio con l’autore Apuleio indicandolo come Madaurensis e dall’altra suggerisce la chiave di lettura necessaria perché il romanzo sia interpretato come storia di una salvazione religiosa, non giunge del tutto inaspettato e si salda con il resto dell’opera: ne appare, anzi, il coronamento necessario. Gli interventi ironici dell’autore. Non a caso gli interventi diretti dell’autore si infittiscono negli ultimi libri, fino a produrre effetti di ironia, a rompere le convenzioni stesse del romanzo antico. Se il lector delle storie che formano i primi dieci libri era stato detto scrupolosus, e il suo comportamento ideale doveva essere quello esemplificato da Lucio stesso. Dopo la rivelazione isiaca, nel libro XI, lo stesso lector è detto studiosus, egli non deve più solo divertirsi, deve credere, e in cose ben diverse dalle storie di magia in cui credeva Lucio. Così il lector viene coinvolto dal gaudere che chiude l’ultima frase del romanzo, sostituendo o meglio, amplificando il laetari che nel prologo veniva promesso al lettore. Lingua e stile. La lingua apuleiana è un originalissimo impasto di tratti diversi: vissuto in un’epoca di fervori arcaizzanti, Apuleio conosce la predilezione dei suoi contemporanei per la parola obsoleta e per gli autori arcaici (amò Plauto), ma fa rientrare tale predilezione in un generale ricerca di letterarietà. Alla “lingua letteraria” si riconosce l’intento primario di Apuleio, in quanto richiama continuamente l’attenzione del lettore sulla forma espressiva, prima che sul contenuto del messaggio. Si ha spesso l’impressione che in Apuleio sia particolarmente avvertibile la tendenza, comune in tutta la letteratura latina seppure a vari livelli, di condizionare la forma dell’espressione per mezzo del suono, di lasciare cioè che il pensiero e la lingua siano modellati secondo le esigenze dell’orecchio. Grande conoscitore di letteratura, egli sembra avere a disposizione una sorta di lessico letterario specializzato, raccolto e organizzato attorno ad alcune situazioni-tipo, formatosi sui classici. E’ come se conoscesse dei formulari, repertori di iuncturae consolidate, per descrivere scene di lutto, quadri di eroismo, effusioni di passioni e stati d’animo, ricombinando in modo nuovo e personale il materiale desunto dalla tradizione. La fortuna. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 76 Taumaturgo, filosofo, mago, Apuleio esercitò un comprensibile fascino sui fermenti dell’ultimo paganesimo e sulla cultura medioevale. Ma la fortuna e l’influenza, davvero notevole, dell’autore sulla letteratura europea sono legate al romanzo, la cui diffusione si deve la ritrovamento del codice, da parte di Boccaccio, il quale ne fece pure una trascrizione (il Laurenziano 54,32). Da allora il romanzo fu ovunque letto e apprezzato e, con l’invenzione della stampa,ne apparvero edizioni in tutti i paesi europei, fu tradotto in Italia dal Boiardo. Fornì temi e spunti per la novellistica (anche per il genere picaresco), dal Boccaccia a Calderon, a La Fontaine, ecc. I grandi romanzieri moderni hanno provato, dinanzi all’inesauribile ricchezza dei linguaggi e dei registri narrativi delle Metamorfosi, in cui si mescolano il serio ed il frivolo più irriverente, in cui la scurrilità si associa alla devozione mistica, profonda ammirazione. Ma uno dei critici letterari più grandi del 900, E. Auerbach, autore di Mimesis, opera in cui studia le origini e la storia del realismo nella letteratura, ha visto nell’ambiguità delle Metamorfosi il segno di “una tendenza alla deformazione spettrale e orrida della realtà […].” Il critico è rimasto sconcertato nei suoi principi di realismo: il barocco di uno stile narrativo inquietante, forse anche angosciante, si distaccava da una rappresentazione obiettiva del mondo. Qui, la letteratura vinceva, anzi stravinceva sulle “cose”. L’ATTIVITÀ FILOLOGIA. Nascita della filologia a Roma. Le nostre fonti sullo sviluppo della filologia a Roma si basano per un lungo tratto su notizie indirette e su fonti più tarde (cioè su testi giunti a noi integralmente, opere di eruditi, grammatici e commentatori vissuti tra il II e VI sec. d.C. particolarmente preziosa è la sezione De grammaticis del De viris illustri bus di Svetonio). La prima fioritura di studi filologici è strettamente collegata allo sviluppo in età arcaica di una letteratura colta, orientata verso modelli greci e attenta anche ai problemi tecnici dello stile e della poesia. Autori come Ennio, Terenzio, Accio e Lucilio mostrano direttamente nei loro testi dimestichezza con gli studi greci di filologia, di retorica e di poetica. (Filologo: il sintagma latino è infatti un calco greco di philologos). È chiaro che in questi letterari giunge a maturazione un’intensa frequenza della cultura greca di età alessandrina. Meno chiaro è quando a quest’attività di filologia intimamente connessa con la pratica letteraria si sia affiancata la pratica di studi filologici applicati ai testi. Un forte impulso venne intorno alla metà del II sec. a.C. dalla presenza a Roma di eminenti specialisti greci. Del resto, almeno fino all’età augustea, tutte le forme di educazione retorica, filologica, letteraria, restano concentrate sui testi greci. GRATETE DI MALLO. Un episodio casuale sembra avere avuto grande importanza nel primo sviluppo della filologia a Roma: il grande erudito Cratete di Mallo, giunto nella capitale per una missione politica, si ruppe una gamba e fu costretto a trattenersi qui piuttosto a lungo. All’epoca (l’ambasceria cui Cratete prende parte risale al 168 a.C.), Cratete è il principale esponente della scuola di Pergamo, che divide con Alessandria il primato degli studi umanistici. Cratete si proclamava non solo grammatico, ma anche kritikòs, “giudice” di cose letterarie. Scuole. Scuola di Pergamo. Scuola di Alessandria. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 77 Compose almeno cinque libri pieni di osservazioni su problemi virgiliani: questioni di contenuto, ricerche antiquarie, difficoltà di interpretazione. A partire da Igino possiamo seguire un filone continuo di ricerche su Virgilio, che ci porta direttamente ai commentatori del IV-V sec., che ci conservano la memoria di questa intensa attività nelle raccolte di scoli a noi pervenute. La filologia nella prima età imperiale. REMMIO PALEMONE. ASCONIO PEDIANO. Il grammaticus più in auge della prima età imperiale fu Remmio Palemone, personaggio di eccezionali qualità scientifiche ma di scarsa moralità. La su Ars grammatica non ci è pervenuta; dai frammenti che ci restano Palemone ci appare come un continuatore di Igino: anzi, è con lui che si afferma definitivamente l’introduzione degli autori moderni negli studi scolastici. Più o meno contemporaneo è Asconio Pediano, di cui ci resta un commento a cinque orazioni di Cicerone: due di queste, Pro Cornelio e In toga candida, sono perdute e il commento di Asconio è particolarmente importante ai fini della loro ricostruzione. L’opera è di taglio più storico che linguistico, e utilizza con notevole senso critico ottime fonti, spesso di prima mano. La filologia tra l’età dei Flavi e degli Antonini. MARCO VALERIO PROBO. Lo studio filologo e critico dei testi latini giunge a piena maturazione nel periodo tra i Flavi e gli Antonini. Nell’età dei Flavi si colloca l’attività del filologo più importante del secolo, Marco Valerio Probo, il grande studioso di Virgilio. Per quanto ne sappiamo, Probo è lo studioso latino che più si avvicina alla specializzazione di un moderno filologo, e che dedica la parte più rilevante della sua attività alla cura di edizioni attendibili dei classici. Probo si occupò di Virgilio e Terenzio (che nella tarda antichità saranno quasi gli unici autori letti nelle scuole), ma anche di un suo contemporaneo come Persio. Probo correggeva gli errori che si erano prodotti nella tradizione manoscritta, apponeva segni diacritici. Si procurava manoscritti particolarmente antichi e autorevoli, ma senza arrivare alle moderne tecniche di raccolta e valutazione comparata dalle varianti della tradizione; pare, anzi, che egli si sentisse particolarmente libero di intervenire sul testo con correzioni e congetture proprie o espugnando i versi che trovava incettabili. L’opera di commentatore e insegnante svolta da Probo lasciò tracce durature presso eruditi e commentatori successivi (Gellio, Macrobio, Elio Donato, Servio) e rappresenta il meglio della cultura filologica latina. Verso una selezione degli studi scolastici. Una conseguenza dell’incontro tra educazione retorica e studio dei classici fu la tendenza a restringere progressivamente gli autori di scuola, separandoli dagli altri. Nella tarda antichità, alla fine di questo Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 80 LITTERATOR GRAMMATICUS ENARRATIO Maestro elementare, insisteva sull’alfabeto, la pronuncia e la recitazione. Maestro di letteratura, affrontava i testi poetici, o meglio la loro esposizone. Si trattava di esercizi i n cui i testi poetici erano ridotti a parafrasi in prosa, senza alcun approfondimento critico. processo di selezione, basato su criteri di purezza stilistica, chiarezza linguistica ed esemplarità morale, Terenzio e Virgilio formano praticamente la sola base dello studio scolastico. Ma nell’età che va da Traiano ai Severi, nel II sec., gli studi conoscono il massimo grado di apertura: metrica, grammatica, linguistica e retorica, autori arcaici e classici, greci e latini sono ampiamente studiati. Scoli. Verso la fine del II sec. abbiamo le prime raccolte di scoli, veri predecessori di moderni commenti. Gli scoli si presentavano come un commento perpetuo a un testo, diviso verso per verso, e quindi problema per problema, e preceduto da osservazioni introduttive. All’interno di questa produzione erudita si sedimentarono e fissarono una traccia semplificata ricerche precedenti (pensiamo agli studi di Igino o di Probo su Virgilio). Alla fine del II sec. si colloca l’attività di Elenio Acrone, qualificato interprete di Orazio. Il suo commento non ci è pervenuto nella forma originale, ma largamente rifatto da interpreti tardi e soprattutto medievali. Genuino e giunto sino a noi è invece il commento ad Orazio di Pomponio Profirione, un vero commento scolastico del III sec. d.C., uno dei più antichi esempi organici di scolastica giunti sino a noi. Di qui possiamo valutare quali fossero gli interessi dell’esegesi: da un lato, la ricostruzione dello sfondo storico con annotazioni biografiche, giuridiche, antiquarie; dall’altro l’analisi formale del testo, con attenzioni per le figure retoriche e le difficoltà di parafrasi. Movimento arcaizzante. II secolo. Si ricava che la caratteristica principale degli studi letterari e filologici del II sec. fosse il crescente interesse per la latinità arcaica in tutte le sue principali testimonianze: iscrizioni, antichissime leggi, testi di storia e di oratoria. Il ricorso a modelli linguistici e letterari arcaici è un fenomeno ricorrente nella storia della letteratura latina. Intorno alla metà del II sec., però, questo atteggiamento si fissò in una tendenza organica, in un nuovo gusto dominante per l’arcaico. Alcune circostanze favorirono questo ritorno al passato: nei cenacoli e nei circoli dotti di Roma, la ricerca erudita era diventata una vera e propria passione, come testimoniano le Notti Attiche di Aulo Gellio. Una classe ormai professionale si dedicava all’insegnamento della retorica, allo studio filologico dei testi antichi, in particolare di età repubblicana, e all’insegnamento di quella letteratura, nonché più in generale allo studio del lessico. Non solo Cicerone, Virgilio e Ovidio, ma anche autori più remoti e difficili. La cultura romana del II sec. è sempre più una cultura bilingue, a cominciare dagli imperatori (Adriano porta all’estremo il processo di grecizzazione della cultura e dell’arte, e Marco Aurelio scrive le sue riflessioni filologiche in greco). La cultura greca del II sec. è percorsa da un grande movimento arcaizzante. I letterati e i retori inaugurano una nuova forma di purismo, riscoprendo la lingua e lo stile dei grandi prosatori attici del V-VI sec. Scrivere come Senofonte o come Lisia significa compiere un artificiale distacco dalla realtà quotidiana, e proiettarsi, con un certo orgoglio nazionale, verso un mondo idealizzato e irraggiungibile. Questa tendenza, che si usa definire “atticismo” è un purismo del bello scrivere che ha poco a che fare ormai con la tradizionale opposizione tra atticisti e asiani. Questo complesso di fattori contribuì alla crescita del movimento arcaizzante a Roma. I testi della Roma repubblicana erano una realtà da scoprire, perché, nel fissare i loro modelli, gli oratori si fermavano a Cicerone, e i poeti al massimo a Catullo. L’arcaismo portò al successo professori di retorica e di letteratura; servì ai maestri dell’eloquenza da intrattenimento (Apuleio) per impreziosire il proprio virtuosismo stilistico, confermò i filologi nel proprio culto del passato e offrì un’efficace risposta da parte romana ai ritorni di orgoglio nazionale degli intellettuali di lingua greca. Capofila del gusto arcaizzante è Marco Cornelio Frontone, educatore dei principi Marco Aurelio e Lucio Vero. MARCO CORNELIO FRONTONE ≈100- ≈170. Africano, nato intorno al 100, ebbe una notevole carriera politica; morì forse verso il 170. Di lui però, è andata completamente perduta quella parte della produzione per la quale era così largamente celebrato dagli antichi, vale a dire le sue orazioni pubbliche. Resta invece il carteggio con i due discepoli imperiali, scoperto da Angelo Mai nel 1815 in un palinsesto milanese. Per quanto riguarda le sue teorie stilistiche, Frontone ricerca uno stile che suoni nuovo e originale senza essere moderno: si tratta quindi di attingere ai tesori della letteratura preaugustea, mirando soprattutto agli Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 81 insperata atque inopinata verba. Frontone ama la creatività linguistica ma non il neologismo: ama quindi la creatività degli arcaici su cui si è già depositata la patina dell’antico. Di Cicerone apprezza soprattutto la vivacità dello stile epistolare, non il periodare canonico delle orazioni. È molto aperto verso il linguaggio colloquiale (come Apuleio) e non ha prevenzioni contro il grecismo: il suo arcaismo non è un purismo che rifiuta gli influssi stranieri e le commistioni con la lingua d’uso. La sua prosa è una rivendicazione della retorica come potere assoluto; si nutre di parallelismi, rime, figure di suono e di senso. Senza dubbio, questo culto della retorica va a scapito dei contenuti, come emerge per esempio dai Principia historiae, una premessa alla narrazione storica delle campagne di Lucio Vero contro i Parti. Le questioni di metodo storico sono liquidate con superficialità, la storia è vista come abbellimento retorico di una traccia occasionale e precostituita. L’epistolario con Marco e Lucio sembra dimostrare che Frontone interpretava il suo lavoro educativo come un puro e semplice allenamento alla retorica: difficile pensare che fosse coinvolto nella discussione di affari e problemi dello Stato. Per quello che possiamo cogliere, Frontone incarna un totale divorzio della retorica dalle responsabilità sociali che quest’arte aveva a lungo detenuto nel mondo romano; una restrizione della retorica a prosa d’arte, senza più alcuna pretesa, sia prue dimostrativa ed esibizionistica, di convincere e commuovere. AULO GELLIO ≈130. Nell’epoca dominata da Frontone da altri insegnanti di retorica, come ad esempio Sulpicio Apollinare, spicca la figura di Aulo Gellio, letterato dilettante ed eclettico lettore, sulle cui vicende biografiche possediamo solo la testimonianza delle Noctes Atticae, l’opera di cui Gellio è autore. Nato verso il 130, una generazione dopo Frontone e Sulpicio Apollinare, che fu suo maestro a Roma, Gellio fece il suo viaggio di istruzione in Grecia. Le Noctes Atticae, scritte poco prima del 170, si presentano infatti come una raccolta di appunti presi a veglia durante un inverno trascorso nei pressi di Atene. La struttura dell’opera, in venti libri suddivisi in capitoletti (si è perduto un brano della Prefazione e tutto il Libro VIII), cerca di preservare un effetto di spontanea varietà, senza alcun intento di sistemazione omogenea. Gellio si rifà evidentemente a una tradizione di successo, quella delle miscellanee con titoli come Silvae, Pratum o, al limite estremo, Naturali historia; rinuncia però del tutto a inquadrare il suo materiale, per esempio, raggruppandolo per argomento o disponendolo in un dialogo e in una situazione narrativa. Usi sumus ordine rerum fortuito: non stupisce quindi passare da un capitolo sui nomi dei venti a un’analisi comparativa dei poeti comici Menandro e Cecilio Stazio, e spaziare tra linguistica, poesia, oratoria, filosofia e diritto. Gellio ha un estremo interesse per tutta la latinità arcaica, in particolare per i comici dell’età plautina, ed è un appassionato ricercatore di tradizioni antiquarie e di particolarità linguistiche ormai estinte. A questa particolare sensibilità letteraria di Gellio, dobbiamo la conservazione di parecchi frammenti di poesia e prosa arcaica, accompagnati da aneddoti, informazioni e giudizi non peregrini. La sua passione arcaizzante non lo porta comunque a svalutare i classici: legge con lucidità i discorsi di Catone, ma ha anche un’equilibrata comprensione di Cicerone. Come Quintiliano, nutre ampia antipatia e rigetto per l’anticlassicismo stilistico di Seneca. A Quintiliano è abbastanza avvicinabile anche per lo stile: Gellio ha una scrittura scorrevole ed è un gradevole narratore, la sua prosa piacerà ad Agostino e la sua opera ricca di dettagli e di piccole scoperte d’antiquariato avrà notevole fortuna nel Medioevo. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 82 Terenziano Mauro. La definizione di poetae novelli è riferita dal grande metricista Terenziano Mauro (II-III sec.) ad alcuni poeti di cui abbiamo poverissimi resti. ANNIANO. Anniano, ricordato anche da Gellio, scrisse dei Carmina Falisca, composti in un verso anomalo (il “falisco”: tre dattili e un giambo), e dei misteriosi Fescennini. ALFIO AVITO. Poetò sugli uomini illustri della storia di Roma. MARIANO. Compose dei Lupercalia. SETTIMIO SERENO. Cantò tematiche rurali e pastorali. La più vistosa affinità di tendenze tra queste umbratili figure è lo sperimentalismo metrico, che si esplicita o nell’invenzione di forme nuove (il “falisco” di Anniano) oppure, sempre in segno di rottura rispetto ai grandi classici, nell’applicazione di metri inattesi e apparentemente impropri ai temi tradizionali. Così, Sereno tratta i temi pastorali non in esametri virgiliani, ma in diametri giambici, un metro che aveva avuto, se mai, tradizione scenica o epodica. Fioriscono poi forme di metrica figurata: distici “reciproci”, in cui il pentametro ricanta all’inverso le parole dell’esametro; o addirittura poesie che, arrangiate sulla pagina in versi di varia lunghezza, adombrano l’immagine dell’oggetto che vogliono descrivere (carmina figurata, come era fatto l’Uovo del poeta alessandrino Simia). Sotto questo aspetto i novelli riprendono lo sperimentalismo formale che caratterizzava sia certa poesia neoterica, sia la versificazione greca degli alessandrini. Inoltre, è evidente una ricerca di tipo antiquario e arcaizzante, che riguarda sia i temi descritti (titoli come Falisca o Lupercalia), sia il lessico impiegato. Scene idilliche, ambientate nell’antica campagna italica; parole in disuso, arcaiche, colloquiali, dialettali: certi aspetti della prosa di Apuleio e di Frontone trovano qui precisi corrispettivi formali. L’IMPERATORE ADRIANO. La figura di maggior spicco nel II sec. e anche la più interessante di questa fioritura minore è, quella di questo imperatore romano. Sappiamo dai biografi che Adriano era uomo di cultura raffinatissima e versatile. La sua politica di integrazione universale abbracciava Roma, le provincie, la Grecia e l’Oriente in uno sforzo di fusione culturale non meno che amministrativa. Adriano aveva una profonda cultura greca, letteraria e artistica, e incoraggiava ogni aspetto dell’arte e dell’erudizione. Fu anche, per quanto ne sappiamo, un pregevole versificatore, non a caso, componeva in entrambe le lingue di cultura dell’Impero. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 85 LA TARDA ETà IMPERIALE. CONTESTO STORICO. Il periodo che va da Settimio Severo a Diocleziano (193-305 d.C.) è caratterizzato da profonde tensioni sociali e politiche, su cui mancano fonti storiche omogenee. Fu anche un momento assai drammatico nella vita di Roma: la sopravvivenza stessa dell’Impero sembrò in dubbio di fronte alle ricorrenti guerre civili, che comportavano decimazioni dei ceti dirigenti, impoverimenti del sistema produttivo nelle regioni attraversate dagli eserciti, indebolimenti delle difese che alle frontiere dovevano resistere contro le pressioni barbariche. Come se non bastasse, i grossi cambiamenti interni (sociali-istituzionali-religiosi) rimisero in discussione i cardini stessi dell’ordinamento statale. L’impero riuscì ad attraversare questa che fu senz’altro la sua più grave crisi prima del definitivo sfaldamento alla fine del V sec. Dopo Commodo. Alla morte di Commodo, nel 192 d.C., a Roma i pretoriani acclamarono imperatore il senatore Flvio Pertinace, ma dopo soli tre mesi di governo lo eliminarono sostituendogli un altro senatore: Didio Giuliano. Nel 193 le provincie ebbero una serie di pronunciamenti riguardo la figura imperiale: • provincie danubiane: proclamarono imperatore il legato della Pannonia, Settimio Severo; • le provincie orientali il governatore della Siria, Pescennio Nigro; • le provincie occidentali sostenevano la candidatura di Clodio Albino. La lotta si risolse a favore di Settimio Severo, un provinciale di estrazione africana, che aveva sposato un’orientale (Giulia Dòmna) legata a tradizioni religiose siriache, ed era quindi privo di forti legami con il senato. DINASTIA DEI SEVERI 193-235 d.C. Settimio Severo 193-211 d.C. Nel 193 divenne imperatore il primo della dinastia dei Severi, Settimio, il quale era fedele alle forze che lo avevano eletto. Iniziò a smantellare il sistema governativo degli Antonini, dal 193 procedette all’epurazione del Senato, smobilitò le coorti pretoriane e le ricostruì procedendo alla leva fuori d’Italia. Istituì tre nuove legioni, le partiche, collocandone una di stanza in Italia. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 86 Nel 198 si associò il figlio Caracalla e nominò cesare l’altro: Geta. La soluzione dinastica tornava ad essere preferita all’adozione. Settimio condusse una campagna vittoriosa contro i Parti, nella quale riconquisto Ctesifonte. Nel 208 partì con i figli per una campagna in Britannia, ma nel 211 morì di malattia a York. Caracalla 211-217 d.C. Un anno dopo la morte di Settimio Severo, Caracalla si assicurò la supremazia assassinando il fratello Geta ed eliminando quanti all’interno della corte erano favorevoli all’impero collegiale. Nel solco della politica filoprovinciale del padre di colloca la Constitutio Antoniniana, promulgata da Caracalla nel 212, che concedeva la cittadinanza romana a tutti i liberi residenti nell’Impero. Perse ben presto il favore di cui godeva presso l’esercito, l’ambiziosa campagna contro i Parti, in crisi per l’emergere della nuova dinastia Sassànide di Artaserse, si risolse in un rovinoso insucesso. Caracalla fu ucciso a Carre nel 217 in un complotto ordito dal prefetto del pretorio Opellio Macrino. Elagabalo (Eliogabalo) 217-222 d.C. La dinastia dei Severi si perpetuò con il giovanissimo Eliogabalo, che la sorella di Giulia Domna (moglie di Settimio Severo), Giulia Mesa fece acclamare dai soldati ancora in Oriente per la campagna partica. Eliogabalo, sacerdote del dio siriaco Baal, cercò di imporre il culto a Roma in forme lontane dalla tradizione romana e difficilmente gradite all’opinione pubblica. Nel 222 d.C. una congiura di pretoriani lo eliminò e il potere passò al cugino tredicenne Alessandro Severo e di sua madre Giulia Mamea. Alessandro Severo 222-235 d.C. L’impero di Alessandro Severo rappresenta un tentativo di restaurazione, cui partecipò anche il giurista Ulpiano, in veste del prefetto del pretorio. Nemmeno Alessandro però riuscì a mantenere il favore dell’esercito. In Oriente la vittoria di Artaserse su Artabano V aveva sancito la fine del regno dei Parti e la nascita del nuovo impero persiano dei Sassanidi, la campagna condotta da Alessandro per frenare la spinta espansionistica persiane ebbe scarsa fortuna. Nel 235, impegnato sul fronte settentrionale contro Germani e Alamanni, Alessandro avviò trattative di pace che suscitarono il malcontento dell’esercito. L’imperatore fu ucciso dai suoi e sostituito dal capo delle reclute, Massimino Trace. GLI IMPERATORI SOLDATO DEL III SEC. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 87 A ogni tetrarca fu affidata una distinta sfera di competenza, ma l’Impero continuava a essere concepito come un’entità unica. Il potere imperiale, ebbe una sanzione ideologico-religiosa nella titolatura assunta dai due augusti. Insieme alla sanzione di natura divine del potere assoluto di definiva così una precisa gerarchia: Diocleziano esercitava una supremazia che garantiva l’unità di direzione al governo. La tetrarchia inoltre proponeva inoltre una ridefinizione del problema dinastico, prevedendo la successione dei due cesari al ruolo di augusti. Ma l’abdicazione contemporanea di Diocleziano e Massimiano nel 305 si risolse in una nuova lotta. La tetrarchia sul piano militare, risultò una scelta vincente, le rivolte furono domate e l’Impero fu capace addirittura di una nuova espansione. In oriente Diocleziano e Galerio riuscirono non solo a bloccare l’avanzata di Narsete verso Antiochia, ma lo respinsero avanzando a loro volta al di là del Tigri. La pace stretta nella città carovaniera di Nisibi nel 298 fissava condizioni estremamente vantaggiose per i traffici commerciali romani. Diffusione del cristianesimo. Nato prevalentemente come religione urbana dei ceti subalterni, arriva a contare, durante il III sec., adepti in tutti i ceti della società, e soprattutto a Roma riesce a conquistare molte donne di famiglie ricche e nobili, che assicurarono sostanziosi donativi e anche ascolto e prestigio perfino presso le fasce sociali più alte. Se il cristianesimo in Oriente si afferma sempre più come corrente di pensiero, e dà vita a elaborazioni filosofiche che raggiungono livelli tra i più alti nella storia della cultura del III sec., in Occidente un certo ritardo nelle elaborazioni teoriche si accompagna a una capacità organizzativa che impianta una struttura solida e capace di resistere alle ricorrenti persecuzioni del potere politico. Per tutto il secolo i rapporti fra le comunità cristiane e le istituzioni furono complessi e ambigui: a periodi di tolleranza, in cui i procedimenti contro i cristiani erano rari o del tutto assenti, se ne alternavano altri in cui i martiri erano all’ordine del giorno; particolarmente dura fu la persecuzione di Diocleziano, che colpì i cristiani nel 303-304 con quattro editti che autorizzavano confische di beni, distruzioni di chiese e punizioni esemplari. LA PRIMA LETTERATURA CRISTIANA. Il cristianesimo in Oriente. Per molti decenni il cristianesimo crebbe come una delle tante sette che movimentavano il panorama della componente giudaica dell’Impero romano. Nonostante gli influssi provenienti dal mondo greco introdotti da Paolo o da Luca l’evangelista, le posizioni di fondo in campo religioso e culturale del cristianesimo restano legate, in un primo tempo, al giudaismo. Il giudaismo in Palestina e soprattutto ad Alessandria si era da tempo aperto alle teorie di pensiero dominanti nel bacino orientale del Mediterraneo, senza mai rischiare di perdere però i propri caratteri di originalità, gli Ebri (e quindi i cristiani) scrivevano spesso, o addirittura prevalentemente, in greco; parlavano di logos e di pneuma, ma le loro elaborazioni discendevano sempre dal libro “nazionale”: l’Antico Testamento. All’interno di questo variegato mondo giudaico i cristiani si segnalarono presto per uno spiccato attivismo, componendo testi di notevole rilevanza, sia quelli che poi verranno uniti al Nuovo Testamento (i quattro Vangeli canonici, gli Atti degli apostoli, le Lettere canoniche, l’Apocalisse), sia vari altri che le generazioni successive non accoglieranno con la medesima devozione (vari altri Vangeli, detti “apocrifi”, altre Lettere, tutta una letteratura nella quale i rapporti con l’insegnamento di Gesù sono meno evidenti). Il cristianesimo in Occidente. In occidente lo sviluppo è relativamente più lento, certamente il cristianesimo arrivò in Italia già verso la prima metà del I sec., a Roma, a Pozzuoli, a Pompei e probabilmente in altri centri commerciali o marittimi, ma le possibilità di espansione erano notevolmente ridotte dalla scarsa considerazione in cui venivano tenute le comunità orientali, disprezzate come diverse, temute come potenziali portatrici di disordini e calamità. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 90 Le difficoltà derivanti da questa emarginazione quasi totale, e la lenta diffusione, legata per più di un secolo a quei gruppi che anche a Roma e in Italia parlavano greco, spiegano perché il greco sia stato per molto tempo, anche in Occidente, la lingua del cristianesimo; in greco erano scritti quelli che si cominciavano ad individuare come testi di fede. Per questi motivi i primi scritti cristiani composti in Occidenti sono anch’essi in lingua greca, come la lettera di Clemente Romano (secondo la tradizione, il quarto vescovo di Roma) o il Pastore di Erma, un’opera di un certo interesse anche letterario, che racconta cinque visioni simboliche in un greco ricco di ebraismi e di latinismi. E a scrivere in greco si continuerà fino agli inizi del III sec, quando l’esigenza di comunicare con gruppi più vasti, di lingua latina, aveva già da tempo fatto nascere, in parallelo, una letteratura latina cristiana. Le prime traduzioni delle Bibbia. Alle origini di questa letteratura si è soliti collocare le tradizioni dei testi sacri effettuate in Africa e in Italia. A partire dal II sec., comunità cristiane che non parlavano greco, dapprima più numerose in Africa, poi sempre più presenti anche in Europa, man mano che nel corso del III sec., si riduceva in Occidente la conoscenza di quella lingua, avvertivano l’esigenza di disporre di una Bibbia in latino. Questa antica traduzione del libro sacro viene comunemente indicata come Vetus Latina, cioè la “Vecchia traduzione latina”, vecchia rispetto a quella di Girolamo, che diverrà poi l’ufficile. Non si trattò di un’unica traduzione, diffusa presso i cristiani di tutto l’Occidente, c’erano sicuramente delle differenze fra i testi africani i Vetus Afra e quelli italici i Vetus Itala; in secondo luogo, anche all’interno di queste due aree geografiche le traduzioni furono ben più d’una, a volte anche abbastanza discordanti tra loro. Queste prime Bibbie in latino non ci sono pervenute direttamente perché la Vulgata di Girolamo le soppiantò tutte, ma ne abbiamo numerosi campioni, grazie alle citazioni degli scrittori cristiani fioriti prima che la Vulgata divenisse l’unico testo ufficiale. Per le esigenze dei cristiani di lingua latina, accanto alla Bibbia venivano tradotte anche altre opere che non fanno ora parte del Nuovo Testamento, ma che a quei tempi erano considerate assai autorevoli, della letteratura di Clemente e del Pastore abbiamo traduzioni latine che risalgono al II sec. Gli acta martyrum. I cristiani scampati alle persecuzioni redigevano dei memoriali, dove si intendeva perpetuare l’eroismo dei compagni mandati al martirio. Gli acta martyrum Scillitanorum, del 180, contengono i resoconti dei processi tenuti contro i cristiani durante una delle persecuzioni. Le narrazioni erano a volte redatte dagli stessi martiri, finché era loro possibile, e completate dagli altri fedeli per le ultime ore di vita e la descrizione delle esecuzioni. Si tratta quasi sempre di opere assai efficaci, essenziali, che devono soprattutto alla brevità dell’esposizioni e all’apparente distacco della scrittura la loro capacità di colpire ed emozionare il lettore. La produzione di questi Acta copre tutto il III sec. Passiones. Simili agli Acta sono le Passiones, opere tuttavia più personali, e meno legate alla forma di un resoconto ufficiale. Passio Perpetuae et Felicitatis. Capolavoro del genere è la Passio Perpetuae et Felicitatis, sul martirio di una giovane signora africana, Perpetua, della sua schiava Felicita e del loro catechista Saturo, avvenuto a Cartagine nel 202. Il testo è presentato, nella prima parte, come opera della stessa Perpetua, che racconta i tentativi fatti dal padre per farle rinnegare il cristianesimo in cambio della libertà promessa dai giudici, e le difficoltà che il carcere comportava per una giovane madre, che aveva con sé il figlio ancora lattante. Seguono alcune parti composte apparentemente da Saturo, il quale racconta alcune sue visioni, l’opera si conclude con la narrazione del martirio, avvenuto durante i giochi nell’anfiteatro, e raccontata da un anonimo redattore. Un dato di rilievo della Passio Perpetuae è, fra gli altri, il fatto che i personaggi additati all’ammirazione dei fedeli non fanno parte della gerarchia ecclesiastica di Cartagine, testimonianza, questa, di un momento in cui la proposizione di modelli esemplari non passava ancora necessariamente attraverso la meditazione dell’autorità ecclesiastica, che ben presto gestirà in proprio la propaganda dei martiri. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 91 L’efficacia della Passio Perpetuae viene confermata dal suo successo presso i cristiani; su di essa furono modellate altre successive Passioni africane, composte da gruppi ereticali, e se ne fece addirittura una traduzione greca. È questo un evento molto raro, per quei tempi, in cui il mondo latino cristiano era debitore di quello greco per elaborazioni di pensiero e opere letterarie, la Passio Perpetuae è senz’altro uno dei primissimi testi latini che gli orientali ritenessero opportuno conoscere. Le Passioni greche. In epoca più tarda il genere delle Passioni subisce un’evoluzione che lo accosta progressivamente ad altri componimenti narrativi, soprattutto il romanzo; nasce così la Passione epica, prevalentemente greca. In essa il martire assume il ruolo dell’eroe vincitore che, pur morendo, in realtà sconfigge il proprio carnefice, attraverso una serie di vicende fantasiose, colpi di scena, veri e proprio miracoli. La produzione di questi testi fiorisce dopo Costantino, quando il martirio non è più una realtà o una minaccia incombente, e per questo i fedeli si compiacciono in rappresentazioni appesantite e inverosimili di fatti mai avvenuti. Tali narrazioni, intinte di trionfalismo, venivano incontro alle esigenze proprie di un pubblico che aveva fino ad allora trovato una letteratura di intrattenimento nel romanzo greco, con cui le Passioni condividono il gusto per l’intreccio e l’attenzione all’elemento fantastico. Apologie. Accanto agli Acta martyrum e alle Passiones, ci sono anche le Apologie: forme di letteratura a volte popolare, ma non per questo meno interessanti anche sul piano della resa stilistica. La produzione letteraria che si propone la diffusione delle teorie cristiane e la loro difesa dagli attacchi dei pagani va sotto il nome di “apologetica”, e “apologisti” sono comunemente chiamati gli scrittori che operano in tal senso tra gli ultimi anni del II e i primi del IV sec. (in greco apologhia vuol dire “discorso di difesa”). Anche per queste opere c’è da segnalare un più rapido sviluppo in orientale, e un relativo ritardo in quello occidentale, le prime Apologie scritte a Roma sono opera di Giustino, martire nel 165, ma sono composte in greco, e ancora in greco sono varie altre opere di poco più tarde, scritte con le medesime intenzioni in diverse parti dell’Impero. I primi a scrivere in latino sono Minucio Felice e Tertulliano, ai quali spetta il titolo di primi autori latini cristiani. Quale dei due sia il più antico è un problema pressoché insolubile. Apologisti latini. SETTIMIO FIORENTE TERTULLIANO ≈ II sec-post 220. Notizie biografiche. Nacque a Cartagine intorno alla metà del II sec., da genitori pagani, studiò retorica e diritto nelle scuole tradizionali, dove apprese anche il greco; esercitò la professione di avvocato in Africa, e per un certo periodo a Roma. La conversione avvenne in età piuttosto avanzata, probabilmente verso il 195. Fu anche prete, e le sue posizioni religiose si dimostrarono molto rigorose, tanto che nel 213 finì con l’aderire a una delle sette ereticali più note per l’intransigenze e il fanatismo, quella dei montanisti; negli ultimi anni di vita abbandonò anche questo gruppo, e ne fondò uno nuovo, che si chiamò dei tertullianisti. Morì dopo il 220, anno a cui risalgono le ultime notizie cha abbiamo su di lui. Opere teologiche e di polemica contro il paganesimo. Di Tertulliano ci sono pervenute oltre trenta scritti, ad orientamento teologico e polemico, polemiche contro i pagani e contro i cristiani che non condividevano le sue tesi. Ad martyras. Esortazione a un gruppo di cristiani incarcerati e in attesa del martirio. Ad nationes.. Composti tutti e tre nel 197, per difendere il cristianesimo dagli attacchi dei pagani. De testimonio animae. Apologeticum. De praescriptione haereticorum. Del 200 circa, contro i cristiani che contaminano la loro fede con dottrine filosofiche pagane e propugnano interpretazioni troppo libere del testo biblico. De anima. Scritto intorno al 211, forse l’opera più notevole della maturità di Tertulliano, nella quale sono rielaborate ampiamente anche fonti pagane. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 92 2. Minucio fonda la sua argomentazione sulla logica e sul ragionamento pacato. 2. Tertulliano cerca di emozionare e di colpire i sentimenti. 3. Minucio si rivolge ai pagani colti, per convertirli, e cita quindi con abbondanza gli scrittori classici, astenendosi dai riferimenti alla Bibbia. 3. Tertulliano si scaglia contro i pagani per consolidare i cristiani nella loro fede, e tutt’al più può pensare di conquistare al cristianesimo le future generazioni, che non si siano ancora macchiate del peccato di idolatria. In conclusione, se Tertulliano colpisce il lettore per il suo gusto dell’esasperazione, Minucio Felice appare al contrario un modello di equilibrio di buon senso. Questa differenza ha spesso comportato per Minucio accuse di debolezza e di incapacità, di incertezza nella fede, di prevalenza degli interessi letterari su quelli religiosi; ma ad un animo sensibile non possono sfuggire le sfumature e i mezzi toni, non può sfuggire il fatto che l’autore rifiuta programmaticamente ogni scandimento di livello, ogni concessione al patetico. Ciò non toglie che, certo, che molta attenzione sia anche riservata all’aspetto letterario, Cicerone è un modello sempre presente nella costruzione del periodo. Col suo tono sereno e al tempo stesso malinconico, con la sua composta razionalità, l’Ocatvius segna la fine del mondo classico e il passaggio al cristianesimo sulla linea della continuità, non della rottura, come auspicava Tertulliano. È il cristianesimo dei ceti dirigenti, i quali non vogliono che il cambiamento di religione sia accompagnato da sommovimenti sociali, e sono convinti che debbano comunque sopravvivere la finezza e l’equilibrio costruiti da secoli di civiltà greco-latina. TASCIO CECILIO CIPRIANO ≈200-258. Notizie biografiche. Tascio Cecilio Cipriano nacque intorno al 200 a Cartagine, si formò nelle scuole di quella città, fu rinomato maestro di retorica fino al 246, quando si convertì e donò tutti i suoi beni ai poveri. Eletto vescovo alla fine del 248, dovette affrontare la durissima persecuzione decretata dall’imperatore Decio nel 250, dimostrò grande coraggio. Non sfuggì, invece, alla persecuzione di Valeriano nel 257-258, quando fu processato e condannato all’esilio, poi richiamato per un secondo processo, che si concluse con la condanna a morte e il martirio, il 14 settembre del 258. Opere. A carattere apologetico. Ad Donatum. Opera sulla propria conversione. Ad Demetrianum. Sulle colpe dei pagani e le punizioni divine. Quod idola dii non sint. Della cui autenticità alcuni dubitano. Trattati connessi alla guida della diocesi di Cartagine. De lapsis. Sulla questione dell’atteggiamento da tenere nei confronti di quei cristiani che avevano rinnegato la fede durante le persecuzioni, ma si erano poi pentiti e volevano rientrare nella comunità ecclesiastica. De catholicae ecclesiae unitate. Ferma presa di posizione contro tutte le eresie e gli scismi, che Cipriano considerava una sciagura maggiore delle stesse persecuzioni contro i cristiani. De habitu virginum. Il quale verte sui comportamenti che devono tenere le donne che abbiano fatto voto di consacrarsi a Dio. Epistolario. Molto importante è anche l’Epistolario, che comprende ottantuno lettere, sessantacinque di Cipriano e sedici a lui inviate; da esso possiamo dedurre precise informazioni sulle condizioni di vita dell’Africa proconsolare alla metà del III sec., e sui problemi che le persecuzioni creavano alle comunità cristiane. L’equilibrio di Cipriano. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 95 Grande estimatore di Tertulliano, che apprezzava per la severità delle dottrine, in varie opere riprese argomenti e perfino titoli che erano già stati impiegati dal suo più anziano conterraneo ma, a differenza di Tertulliano, non si lasciò mai prendere la mano dal gusto dell’estremismo. La sua funzione di vescovo e gli obblighi che tale investitura gli imponeva nei riguardi di tutti i fedeli, un innato, ammirevole equilibrio, una notevole dose di buon senso gli consentirono sempre le scelte più ragionevoli. Così dopo la persecuzione di Decio, decise di riaccogliere nella Chiesa i rinnegati (lapsi) pentiti, nonostante l’opposizione di quanti avevano rischiato il martirio per non abiurare, ma impose severe penitenze per chi voleva meritare di essere riammesso alla comunione. Questo atteggiamento non va confuso con lassismo o il permissivismo, Cipriano dimostrò pochi anni dopo, col suo stesso martirio, di non essere disposto a cedimenti. Lo stile. Cipriano ha un sicuro possesso delle tecniche della prosa classica, nella quale inserisce citazioni bibliche senza alterare l’elegante costruzione della frase e la solennità grandiosa del periodare; lontano dalle provocazioni e dagli accessi di Tertulliano, ma meno sfumato e labile di Minucio, ha fornito il modello principale ai grandi prosatori cristiani del secolo successivo. Una Vita Cypriani, è stata scritta personalmente dal diacono Ponzio, che conobbe personalmente Cipriano, è il primo esempio latino di quelle biografie di vescovi e di santi che diverranno molto numerose nei secoli successivi. Tertulliano, Minucio Felice e Cipriano sono i tre principali scrittori di questo secolo. Accanto a loro fioriscono altri molti apologisti, a noi più o meno noti. NOVAZIANO. Notizie biografiche. Un prete di Roma, che nella questione dei lapsi si schierò contro Cipriano. Quando dopo più di un anno di sede vacante, nel 251, fu eletto papa Cornelio, il quale sul problema dei lapsi condivideva le posizioni di Cipriano, Novaziano, postosi a capo del partito rigorista, si lasciò eleggere a sua volta papa dai propri seguaci, dando vita a un’eresia che durerà più di un secolo. Opere. La sua opera principale è un De Trinitate. Compose inoltre un De spectaculis e un De bono pudicitiae, chiaramente ispirati a Tertulliano. VITTORIO DE POETOVIUM morto nel 304. Altro ecclesiastico che ci ha lascitao opere in latino; morì nel 304, vittima della persecuzione scatenata da Diocleziano. Scrisse molti componimenti biblici, sui quali ci informa Girolamo; di essi ci resta solo un commento all’Apocalisse, la più antica opera di esegesi biblica in lingua latina che ci sia giunta. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 96 LA PRIMA POESIA CRISTIANA. Fra i tanti scrittori in prosa, il cristianesimo delle origini produce un solo ma significativo poeta, Commodiano. A differenza degli altri scrittori cristiani, egli non mostra profonde competenze teologiche, né tantomeno particolare raffinatezza stilistica, la sua poesia si rivolge ai più semplici con un linguaggio elementare e toni apocalittici. COMMODIANO. Notizie biografiche. Le notizie su Commodiano sono talmente incerte che alcuni studiosi lo collocano addirittura nel V sec.. Ma sembra più probabile una datazione alla metà del III sec., quando scoppiarono le persecuzioni di Decio e di Valeriano, alle quali fanno forse riferimento alcuni suoi versi. Da un altro suo passo si ricava che era originario di Gaza, in Palestina, da dove però doveva essere partito per recarsi in Occidente, probabilmente in Africa, come dimostrerebbero le somiglianze di contenuto con le opere dei contemporanei apologisti africani e le particolarità metriche, che compaiono piuttosto simili in molte iscrizioni africane del III-IV sec.. Ma anche su questi punti gli studiosi sono in disaccordo. Opere. Le Instructiones. Opera in due libri, per complessivi ottanta componimenti in esametri, di varia lunghezza, da un minimo di sei a un massimo di quarantotto versi. Il Libro I comprende i carmi contro i pagani e quelli contro gli Ebrei. Il Libro II comprende le composizioni per i cristiani, rimproverati per i loro peccati ed esortati a una vita più devota. I carmi sono degli acrostici: le prime lettere dei singoli versi, lette tutte di seguito, formano il titolo del carme stesso, come per esempio De infantibus, con il primo verso che comincia per /d/, il secondo per /e/, il terzo per /i/, il quarto per /n/ e così via. Carmen apolegeticum. In 1060 esametri, il cui vero titolo era probabilmente: Carmen adversus Iudaeos et Graecos, o Carmen de duobus populis, è un’opera tramandata senza indicazione dell’autore, ma l’attribuzione a Commodiano è ormai ritenuta indiscutibile. L’argomento del carme è la storia del mondo, quella dell’Antico Testamento e quella di Roma, vista come scontro tra Dio e il diavolo, fino alla distruzione dell’Impero, all’apocalisse e al giudizio universale. Il poeta dei poveri e dei diseredati. Gian Biagio Conte. Letteratura latina. L’età imperiale.Pagina 97