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Gihad. Definizioni e riletture di un termine abusato - Patrizia Manduchi e Nicola Melis, Sintesi del corso di Islamistica

Sintesi del libro con integrate spiegazioni della terminologia in arabo

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 01/02/2021

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Scarica Gihad. Definizioni e riletture di un termine abusato - Patrizia Manduchi e Nicola Melis e più Sintesi del corso in PDF di Islamistica solo su Docsity! Introduzione Gihad è un nome verbale maschile, ma i dizionari aggiungono che può essere declinato al femminile o maschile, se non fosse che la declinazione al femminile colleghi molto più facilmente alla superficiale traduzione di ‘guerra santa’ senza considerare altre connotazioni ideologiche. Il gihad trova origine nel Corano e nella tradizione profetica (sunna), è disciplinato nei testi di giurisprudenza (fiqh) e ha riscontro anche su un piano spirituale ed esoterico: è la visione che trova riscontro nei manuali sufi. Su un piano ufficiale, jihad, può porsi come strumento propagandistico o come strumento di resistenza all’occupante imperialista. Se tenessimo poi conto degli scismi dell’Islam, l’analisi del gihad risulterebbe più complessa. Gihad significa ‘sforzo immane’, ‘impegno allo stremo delle forze’ che deve essere sempre e comunque sulla via di Dio (fi sabil Allah) e soprattutto con un fine eticamente valido. Va sottolineato che il campo semantico del termine include l’impegno spirituale personale e collettivo (jihad al-akbar) . Nei testi di giurisprudenza islamica (fiqh), il gihad è trattato in un capitolo dedicato, in cui si trattano le questioni di ordine pratico ed etico. Nei testi filosofici si ricollega, invece, alla disciplina della conduzione della cosa pubblica da parte del capo di Stato (imam). Per la dottrina, il gihad è uno dei più alti e meritori doveri della religione (ibadat), atto doveroso e obbligo se un numero sufficientemente grande di musulmani lo esegue almeno una volta l’anno (fard al-kifaya) L’evoluzione storica del concetto Il jihad è una pratica che non nasce con la rivelazione islamica, ha bensì antecedenti nei costumi preislamici. Il gihad prese forma attraverso le imprese belliche, offensive e difensive ma anche del suo esempio spirituale e morale. L’istituzione del gihad rientra nella declinazione della fede islamica e è stata elaborata da giuristi, teologi, mistici e filosofi. Storicamente il gihad nacque nell’Arabia desertica del VII secolo. La dinastia Omayyade assunse il jihad come un’ideologia finalizzata all’espansione imperiale. Successivamente con gli Abbasidi, lo Stato islamico conobbe un periodo di ridimensionamento e andò incontro alle prime vere sconfitte (Crociate, arrivo dei mongoli e Reconquista) così l’idea di gihad difensivo si mutò in un’idea di conquista. Con l’ascesa dell’Impero Ottomano il gihad ridiventò lo strumento propagandistico principale nelle mani dei sultani, i quali si opposero come i magnificatori della fede e assunsero il titolo di gazi (sinonimo di mugahidun). Il gihad, poi ,mutò il focus politico con l’affermarsi della dottrina wahhabita e dell’emirato saudita nell’800 fino alla costruzione dello stato nel 1932. Fu allora che il gihad venne istituito come combattimento contro tutti i musulmani che non si conformano con il movimento tanto da considerarli miscredenti. Il discorso del gihad finiva per contorcersi contro di loro come con il movimento degli ikhwan (fratellanza) wahhabiti negli anni subito prima della costituzione del Regno (1932). Ibn Sa’ud aveva infatti ampliato la propria base di potere grazie a questo movimento irregolare di beduini che si definivano puramente wahhabiti - la Fratellanza si ribellò a ibn Sa’ud ritenendolo traditore dell’idea di gihad. 1929, Sibila, sconfitta della Fratellanza. Gli aspetti dottrinali Il termine jihad è una complessa dottrina. Bisogna tener conto di due aspetti: la storia del jihad come agire storico e della storia del jihad come istituzione giuridico-teologica, perciò immutabile nel tempo. La letteratura accademica affronta l’argomento in termini teorici trascurando la sua evoluzione nel corso dei secoli. Nel XX secolo Mawdudi e Qutb elaborano delle teorie socio-politiche che hanno a che fare con le ideologie rivoluzionarie e terzomondiste dell’Occidente che non con la religione dell’islam. Lo reinterpretarono come giustificazione della lotta armata rivoluzionaria contro i regimi corrotti dei Paesi Islamici. Qutb rappresenta la figura paradigmatica di moderno fondamentalista, era digiuno di cultura religiosa tradizionale e mancava di quella competenza richiesta dalla tradizione islamica a coloro che si occupano di discipline islamiche. Uno dei problemi principali è rappresentato dall’Islam radicale che ritiene ammissibile una lettura del testo libera da vincoli di competenze e perizia, per cui chiunque può proporsi come interprete (autorevole) di riletture ideologiche svincolate dal sapere tradizionale e classico. La cultura islamica vanta un sistema dottrinale e di credenze che si è formato nel corso dei secoli. Si tratta di un sistema che deriva certamente la sua ispirazione dal Corano. Usama bin Ladin, Ayman al-Zawahiri, al-Baghdadi e tutti gli altri attuano una rilettura pretestuosa delle fonti ignorando il consenso dei dotti, quell’iğma che ha consentito nel corso dei secoli la formazione di un ricchissimo corpus. Il puritanesimo attuale stabilisce un principio da sempre avversato dal pensiero islamico tradizionale, “l'intoccabilità delle Scritture”. I fondamentalisti negano il valore della scienza ermeneutica tradizionale, caratterizzata da regole ben precise e oggetto di studio da parte di interpreti ed esperti qualificati. Il lessico Il termine gihad vanta di un campo semantico di pertinenza molto vasto. 1. Siyar: utilizzato nei primi secoli dell’Islam quasi come sinonimo di gihad ma finì per denotare il diritto internazionale islamico. 2. Dhimma: letteralmente significa ‘accordo’, indica la disciplina delle comunità minoritarie dei diversi Paesi islamici e nelle diverse epoche. Essenzialmente consiste in una sorta di rapporto contrattuale che lega le ‘Genti del Libro’ (ahl al-kitab: cristiani ed ebrei) all’autorità islamica costituita; esse godranno di una forte autonomia a patto che paghino due tributi: ğizya (testatico) e il kharağ (imposta fondiaria) 3. Muğahada: deriva dalla stessa radice di gihad che indica la lotta interiore, spirituale e è utilizzato con significato più tecnico di gihad nel discorso del sufismo, per indicare gli sforzi ascetici e le pratiche spirituali. 4. Hiğra: italianizzato in égira → esilio politico che la primissima comunità islamica fu costretta a compiere dalla Mecca a Yathrib nell’anno 622 dell’era cristiana. Assume il significato di migrazione da un territorio islamico che non consente lo svolgimento del culto islamico. Nel lessico più recente: in primo luogo i cosiddetti fondamentalisti hanno dato una particolare enfasi al concetto stesso jihad, ponendolo al centro del discorso islamico. Si tratta di takfir, ossia la pratica di dichiarare miscredenti i propri correligionari, una sorta di “scomunica” o “anatema”, che colpisce singole persone o intere schiere di studiosi, definendoli kafir (miscredenti) sancendone l’esclusione dal popolo dei credenti e, decretandone una sorta di “morte civile” dovuta all’assenza di qualsiasi rapporto personale o d’affari con il resto della comunità. A causa dell’uso di dichiarare miscredenti i propri correligionari, i kharigiti furono considerati come degli scismatici estremisti, come dei briganti (bughat) e dei terroristi. I fondamentalisti islamici di oggi hanno innalzato a proprio principipo ispiratore l’endiadi gihad e takfir. Nel linguaggio comune del mondo arabo, le diverse correnti sono definite appunto “takfirite”. Proprio takfirismo sembra il termine più corretto per designare il jihadismo. Nell’universo semantico legato al jihad degli estremisti islamici, vi sono molte parole per definire il “jihadismo” di media occidentali: takfiriyya è proprio uno dei termini più comuni insieme a tataruf al-islami (estremismo islamico) e usuliyya al-islamiyya ● opinioni celebri dei giuristi musulmani → igma (consenso di opinioni) e qiyas (opinioni individuabili) ● trattati, patti e altre convenzioni ● istruzioni ufficiali per comandanti, ammiragli, ambasciatori e altri funzionari statali ● legislazione interna per condotta in materia di stranieri e relazioni estere ● usi e costumi Capitolo 2 - La riscoperta del gihad: la lettura rivoluzionaria di Sayyid Qutb Sayyid Qutb è una figura di spicco dei Fratelli Musulmani recluso poi nelle carceri nasseriane dal 1954 e giustiziato poi nel 1966. Egli interpreta l’Islam come lotta, non solo morale e spirituale, ma anche e soprattutto materiale, nel senso militare. L’Islam è, secondo lui, aggressivo, integrale, intransigente, mondiale oppure non è. Essere musulmano significa essere mujjahid, appartenere ad una comunità di combattenti distinguendosi dagli ipocriti (munafiqun). Il jihad secondo Qutb è una prova - ibtila’ - che fortifica e allontana dalle passioni vane della vita, è l’unica modalità per rapportarsi con le società non musulmane. Non ha obiettivo specifico se non quello di combattere la fitna (sedizione, scandalo) e puntare alla realizzazione della vera pace. Qutb è molto influenzato dalle riflessioni del pakistano Abu’l-A’la Mawdudi dal quale egli riprendere molti concetti. Allo stesso tempo il suo jihad ha accezioni nuove. Il jihad per lui è uno dei quattro pilastri insieme a: 1. jahiliyya (società preislamica, ignorante) 2. hakimiyya (sovranità di Dio) 3. ‘ubudiyya (sottomissione a Dio) Che sono chiaramente tutte connesse. Bisogna tener conto della sua formazione → Fratellanza Musulmana - e quindi anche del contesto storico in cui ha maturato i suoi pensieri. Un Egitto ricco di ideologie contrastanti: panislamismo, panarabismo, nazionalismo, antimperialismo e poi socialismo arabo. Osserva e denuncia le disuguaglianze sociali e le ingiustizie in Egitto. Il jihad quindi assume connotati di una rivoluzione (thawra) contro ogni tipo di dominio dell’uomo sull’uomo: rivoluzione perché mirante al rovesciamento delle istituzioni politiche per lasciare il campo libero alla realizzazione del messaggio di Dio, alla shari’a. Diviene protagonista e vittima delle contraddizioni politiche in Egitto che vede trionfare ideologie laiche con Nasser che ben presto si contrapporrà al movimento d’opposizione della Fratellanza. Il suo ultimo scritto: Ma’alim fi’l-tariq è considerato il suo testamento politico. Venne poi diffuso tra i giovani militanti grazie alle sue sorelle e a Zaynab al-Ghazali. 2.1 Il Qutb rivoluzionario: dalla formazione al carcere Qutb nasce a Musha (Alto Egitto) nel 1906, già da giovanissimo venne coinvolto nell’atmosfera della tahwra al-muqaddasa guidata da Zaghlul. Nel 1933 si diploma e inizia poi a lavorare come maestro, poi come ispettore scolastico per il Ministero dell’Istruzione pubblica. Si iscrive presto al partito sa’adista e nel 1945 la volta della sua vita arriva quando venne mandato negli Stati Uniti per due anni - visto che rischiava l’arresto. Tornato rilega il suo diario: Amrika allati ra ‘aytu - L’America che io ho visto. Successivamente entra nella jama’at al-ikhwan al-muslimin. Nella rivoluzione del ‘52 Qutb fu a diretto contatto con Sadat e Nasser facendo parte della Fratellanza Musulmana, ben presto però iniziarono le spietate persecuzioni del movimento: Qutb venne arrestato, una volta liberato dirige la rivista “Al-ikhwan al-muslimun”, incarcerato subisce torture e dopo essere stato rilasciato nel 64 viene denunciato per presunto complotto dei Fratelli Musulmani, infine viene giustiziato nell’agosto del 1965. 2.2 La giustizia sociale nell’islam, l’odio per l’America, l’affiliazione alla Fratellanza Il tema del gihad compare già nello Zilal - essere musulmano equivale a essere un mujahid (combattente) cioè colui che deve combattere il male dentro di sé ma che nondimeno deve volgere il proprio sforzo verso l’esterno. Per far sì che sia una lotta vincente è necessario impegnarsi nel jihad. Il tema del jihad è collegato anche a un’altra opera di Qutb: Al-’adala al-ijtima’iyya fiìl-islam. Da questa opera emerge la predisposizione di Qutb verso la denuncia delle desugaglianze economiche e sociali. Esplicita uno dei suoi concetti: jahiliyya → la società ignorante del periodo preislamico che non conosce ancora la legge di Dio, la shari’a che pertanto può essere scomunicata con il procedimento previsto dalla antica giurisprudenza islamica (takfir). Lui specifica che la società egiziana del suo tempo è un esempio emblematico di società jahili perché non rispetta la Legge islamica ma adotta modelli esterni. E’ necessario, quindi, perseguire 3 obiettivi: a. libertà di coscienza b. uguaglianza c. solidarietà Che rientrano anche negli elementi base del jihad fi sabil Allah. La libertà di coscienza significa libertà dall’assertivismo alle leggi inventate e imposte dagli uomini (che quindi ostacolano la possibilità di sottomettersi a Dio), una volta eliminate l’uomo potrà liberamente scegliere di professare l’Islam.. Dopodiché il suo obiettivo è la realizzazione di una società in cui siano garantite l’uguaglianza in una comunità (umma) nella quale non esistono distinzioni di razza, natura e provenienza sociale, nella quale sia perseguita la solidarietà sociale verso i poveri e i bisognosi a partire dall’obbligo della zakat. Il tema della lotta contro la jahiliyya → profondo disprezzo nei confronti della civiltà occidentale (lettera di Qutb a Tawfiq al-Hakim). Successivamente fu il protagonista di un discorso in cui propugnava la realizzazione di una dittatura giusta per rifondare la società egiziana su nuove basi; tanto che Najib lo nominò unico membro non militare - consulente culturale - nel Consiglio della Rivoluzione. 2.3 La Ma’alim fi-l tariq: il libretto di istruzioni per il nuovo jihad Il suo ultimo scritto - Ma’alim fi-l tariq è stato stampato per la prima volta nel 1964 ed è stato scritto mentre era in carcere - contiene i suoi capi d’accusa maggiori che poi condurranno i processi alla pena di morte. Il quarto capitolo è dedicato al jihad fi sabil Allah - elabora le sue riflessioni come se virtualmente stesse rispondendo alle obiezioni dei falsi musulmani. Inoltre specifica che il jihad non deve essere solo un combattimento difensivo. Per Qutb l’Islam insegna che, se necessario, al proselitismo e allla persuasione (da’wa) si deve necessariamente affiancare un impegno concreto e personale sul campo di battaglia. La sua idea di jihad è in aperto contrasto con le correnti laiche. Anche la Fratellanza Musulmana e la Guida Suprema Hudaybi erano considerati mahzuzun: sconfitti dall’animo. L’adorazione va resa solo a Dio e solo a lui ci si deve sottomettere → condizione ottimale dell’uomo. Gli altri due pilastri di Qutb: 1. hakimiyya - sovranità di Dio → questo comporta che gli uomini debbano rivolgere la loro adorazione 2. ‘ubudiyya - sottomissione a Dio → solo verso Dio e non verso altri partiti o ideologie L’essere umano non può essere schiavo di altri uomini poiché questi ultimi a loro volta sono schiavi di Dio e si impossessano illegittimamente del potere facendosi adorare come idoli. La sottomissione a Dio → è dunque l’obiettivo finale dell’impegno per la liberazione contro gli usurpatori che rendono schiavi gli uomini. L’adesione all’Islam, è importante sottolineare, non va considerata una costrizione ma al contrario una libera scelta da fare una volta che si è affrancati da tutti gli ostacoli e gli errori della jahiliyya. La distinzione fra il jihad al-akbar e il jihad al-asghar → sottolinea che la vera differenza sta nel fatto che il jihad al-akbar è atto preparatorio al jihad bi-sayf. Le riflessioni di Qutb andavano contro le ideologie diffuse in Egitto al tempo: nazionalismo, panarabismo e socialismo. C’è bisogno di un’avanguardia benedetta che non abbia nazionalità o patria specifica, ma che sia intgernazionale, globale e riferibile alla tradizionale umma → che sarà incarnato poi nella figura di mujahid (combattente). Come deve agire questa avanguardia? Deve essere disposta ad abbandonare la sua condizione ideale, deve quindi incamminarsi nel percorso della lotta sul campo utilizzando forza e coercizione e non solo tecniche di convincimento. Questa lotta deve essere combattuta contro tutte le società non islamiche (tutte le società del mondo) poiché secondo Qutb non esiste di fatto una società che possa definirsi islamica. Siamo lontani dalla divisione di dar al-islam e dar al-harb che ha dominato il pensiero islamico. Qutb identifica tutte le società appartenenti all’epoca dell’ignoranza a cominciare da quella nasseriana. L’innovazione del pensiero di Qutb è che questa lotta non si rivolge solo contro al dar al-harb ma contro la stessa dar al-islam al cui interno si celano i peggiori nemici della religione. Lo scopo della lotta è l’instaurazione di uno Stato veramente islamico dove il rispetto della shari’a non sarà più appannaggio degli ulama ma di un gruppo di musulmani attivi: l’avanguardia islamica. Capitolo 3 - Il jihad dello spirito nel sufismo Sin dalle origini l’Islam maturò un’interpretazione incentrata su alcuni hadith. Il sufismo ha meditato a lungo sul concetto di lotta interiore, definendola sia come jihad al-akbar sia come mujahada ( dalla stessa radice j-h-d che implica una purificazione o mortificazione dell’anima) 3.1 Il jihad maggiore nelle fonti Il concetto di jihad spirituale è proprio del sufismo come interpretazione esoterica del senso più letterale del termine jihad quale ‘azione militare’. I sufi hanno elaborato un vocabolario tecnico e una singolare ermeneutica coranica fondata su alcuni detti (hadith) contenuti nella tradizione (sunna) del Profeta Muhammad. Questa base testuale è stata accettata nelle scuole di pensiero del sufismo, chiamate tariqa. I primi sufi erano anche esponenti di altre scienze (giurisprudenza, teologia) - infatti un’interpretazione spirituale del Corano e della Sunna portò alla formazione di un vero e proprio orientamento religioso → tasawwuf. Intorno al III secolo portò alla nascita del fiqh (diritto islamico) e del kalam (teologia)ò Le origini dell’Islam videro la creazione di ribat - fortificazioni ai confini della dar al-islam - la cui presenza fu associata ai sufi. Coloro che vi risiedevano erano chiamati murabitun (pii asceti e guerrieri impegnati nella difesa dei confini del territorio islamico). Il termine ribat, poi, venne impiegato per indicare gli ostelli dei sufi viaggiatori. Il jihad iniziò poi in termini di conquiste in Africa. Alcuni hadith sottolineano l’importanza e soprattutto la correlazione tra il jihad maggiore e il jihad minore. Alcuni versetti coranici fanno proprio riferimento alla necessità di purificare l’anima e si sono rivelati centrali nell’elaborazione dottrinale del Capitolo 4 - Il martirio come morte nel jihad: breve storia di una definizione Stati nazionali e movimenti politico-religiosi del mondo islamico hanno utilizzato il titolo shahid (martire) per definire chi è stato ucciso nel corso di un’azione militare per motivi e in contesti molto diversi fra loro. I paesi occidentali non hanno mai recepito il significato di shahid connotandolo negativamente come terrorista, kamikaze o attentatore suicida. Anche la religione cristiana ha avuto la sua influenza riguardo la connotazione del termine in quando nel paradigma cristiano il martire è colui che accetta di morire per rendere testimonianza non violenta della propria fede, vittima di una violenza che è agita unilateralmente dal carnefice. Anche il mondo islamico di per sé pone al centro delle proprie tematiche il termine shahid. Il misunderstanding di questi termini si deve alla riformulazione del concetto di martirio che tra XX e XXI secolo ha interessato anche la pratica stessa del martirio militare. L’inadeguatezza del termine ‘guerra santa’ per tradurre una parola che non ha alcuna relazione semantica con la santità o la guerra in generale perché, ribadiamo, jihad è la forma nominale del verbo jahada che significa ‘sforzarsi, applicarsi a qualcosa, lottare’ Analogamente si deve permettere che la parola araba che indica il martire shahid, plurale shuhada è costruita su una radice /sh h d/ che ha il senso di ‘vedere, essere presente ad un evento, essere testimone’. Si tratta di un calco semantico di “martus” dal greco → testimone in senso giuridico. La relazione tra shahid e martus non deve essere sovrastimata. L’idea del martire come ‘morto speciale’ era un tratto condiviso del panorama religioso del Mediterraneo tardoantico e doveva essere ben presente anche agli arabi prima della nascita dell’Islam. L’Islam sunnita definisce e precisa il concetto di martirio non in testi teologici o agiografici, ma in opere che si possono grosso modo suddividere in: a. commentari coranici b. raccolte di tradizioni profetiche c. biografie del Profeta d. storie universali o dedicate a specifici temi (conquiste dell'Islam per esempio) Il Corano non è stato inserito nella lista poiché il concetto di martirio è frutto di un’elaborazione essenzialmente post coranica. Esso si fonda e si sviluppa a partire da alcuni versetti del Corano che indicano chiaramente il merito acquisito morendo fi sabil ‘allah e menzionano una categoria di credenti, gli shuhada, da intendersi con il senso di ‘testimoni’ o forse già con quello di ‘martiri’. 4.1 Definire il martirio: la letteratura di hadith L’altro spazio testuale, contemporaneo ai tafsir, è quello della letteratura di hadith - corpus di testi che riportano il comportamento del profeta Muhammad trasmessi tramite una catena di trasmettitori scelti che dovrebbe garantire l’autenticità del testo. Alcuni hadith hanno valore narrativo, altri sono strutturati come meri elenchi dei tipi di morte che si possono considerare martirio. Il Sahih di al-Bukhari cita che 5 sono i tipi di morte: peste, coliche, annegamento, crollo e sul sentiero di Dio. L’ultima è quella che tratta dei mujahid (ovvero chi combatte per il jihad). Ci sono moltissime variazioni riguardo le morti considerate poi martirio: pleurite, in difesa dei propri beni o di parto. Allo stato attuale della ricerca possiamo dire che: 1. la definizione di martirio comprende sin dall’inizio tipologie non belliche di morte fi sabil allah 2. la morte nel corso del jihad è un martirio che si differenzia dalle altre tipologie per il prestigio religioso che ne deriva e per una tendenza delle fonti 4.2 Narrare il martirio militare: sira, maghazi e futuhhat Se la definizione di martirio comprende anche morti non belliche, resta il fatto che gli unici martiri intorno ai quali si produce una qualche forma di letteratura sono i combattenti caduti nel jihad. Le storie di questi mujahidun ricorrono in testi di natura biografica / agiografica che narrano la vita del Profeta comprese le battaglie. Storie di martirio sono presenti nella storiografia delle conquiste (attraverso il jihad portò il califfato a raggiungere in poco più di cento anni i Pirenei e l’Impero cinese. La cronaca delle futuhat (conquiste), con le sue vittorie e i suoi martiri, diviene quindi uno degli spazi in cui il monoteismo islamico si definisce. Dalla storia delle conquiste giunge quindi una conferma della missione profetica di Muhammad e le fonti sottolineano la dimensione spirituale che muove al jihad e che rende desiderabile il martirio. Ibn al-mubarak è uno degli esponenti più importanti e altri come lui elaborano una ideologia di jihad che enfatizza in modo particolare la dimensione spirituale e implicitamente anti-governativa e riattualizza l’esperienza della comunità medinese. In questi ambienti circolano materiali narrativi che enfatizzano la desiderabilità e l’eccezionalità connesse al martirio. Il corpo del martire non deve essere trattato come altri morti - no celebrazioni. Il martire al momento della morte non avverte dolore, esala odore di muschio e resta miracolosamente intatto anche dopo una lunga permanenza nella tomba. XIX e XX ci furono cambiamenti profondi e traumatici - alcuni intellettuali islamici come Sayyid Qutb (sunnita) e Khomeyni (sciita) gettano le basi di una cultura del martirio. La categoria del martirio, a partire da 900, viene adattata in un quadro di riferimento laico. Il momento di svolta: a. Iran vs Iraq - da ambo le parti la retorica del martirio serve a saldare identità religiosa e identità nazionale in una forma nuova. Lo stato nato dalla rivoluzione khomeinista rafforza la propria legittimità grazie a un culto dei martiri che gestisce direttamente. b. Afghanistan - resistenza dell’occupazione sovietica si articola come jihad transnazionale condotto da brigate internazionali i cui caduti sono ricordati in veri e propri martirologi. Capitolo 5 - il jihad dei sufi contro i colonizzatori Lo sforzo in vista di tale rinnovamento (tajdid) ha coinvolto intere popolazioni e singoli individui. E’ nota la distinzione tra jihad maggiore e jihad minore. L’espressione guerra santa (con cui viene tradotto il termine) è frutto di un malinteso che radici storiche, culturali e sociali. L’interpretazione giuridica ha favorito il piccolo jihad volta all’espansione dell’Islam - così il jihad è divenuto un obbligo proclamato in gran parte delle fonti al fine di estendere il regno della religione islamica, secondo un’ottica universalista. Per compiere il cammino verso Dio per i credenti significhi anzitutto sforzarsi lungo la Via che conduce a Dio. La ‘lotta’ che coinvolge l’individuo nel suo percorso di perfezionamento morale e religioso incontra ostacoli perciò è necessario seguire e imitare il modello profetico dell’uomo perfetto → al-insan al-kamil. La dimensione duale del jihad che è particolarmente presente e valorizzata nel sufismo propone ai suoi discepoli di impegnarsi nel jihad al-akbar - che implica lottare contro le passioni che assalgono l’uomo e le insidie del suo stessoi ego attraverso uno sforzo di purificazione dell’anima che permetta di contemplare la realtà dello Spirito e migliorarsi per avvicinarsi alla realtà divina. Il Corano esorta a seguire la via verso Dio e a combattere sulla via di Daio - nel Sufismo esistono molteplici vie (tariq, pl turuq). Il percorso viene associato ad un cerchio (zahir - forma esteriore - shari’a) e al suo centro (batin - aspetto interiore - realtà divina) raggiungibile attraverso molteplici vie. Ciò si esprime inoltre con due tendenze prevalenti nel rapportarsi a Dio: aspetto giuridico e aspetto di un’esperienza interore. La sintesi fra le due si compie con l’adab (=codice di cortesia spirituale sul quale poggiano tanto l’attitudine interiore quanto il comporamento esteriore. Il rispetto della ‘giusta condotta’ riveste un’importanza fondamentale per la religione islamica per la progressione spirituale del discepolo. Intorno al XIII/XIV secolo, le vie si sviluppano. Il potere, l’eccessiva venerazione della baraka hanno suscitato critiche. Riti come il dhikr, danze e musiche sono considerati come gli eccessi non conformi all’ortodossia islamica. La difficoltà per molti credenti tra la dimensione interiore e quella esteriore richiede uno sforzo enorme quindi affidarsi ad una guida che aiuti è indispensabile per gran parte dei discepoli sufi affinché non vengano travolti dalla lotta intrapresa. 5.1 Il riformismo islamico e il pensiero sufi sul jihad Numerosi intellettuali si impegnarono per riformare l’Islam mentre movimenti come quello wahhabita o salafita proponevano un ritorno alle origini. I riformisti sentivano la necessità di rinvigorite l’Islam restituendo a esso l’originalità e la forza della prima comunità islamica. All’epoca, molti ordini sufi venivano accusati di non osservare la sunna e la shari’a o di provocare negli adepti un’attiyudine di passiva rassegnazione. La teologia è spesso usata per demonizzare i nemici individuati, inversamente, può anche essere usata per promuovere la tolleranza o l’accettazione della diversità. Oggi gruppi sia salafiti sia sufi abbracciano e l’opzione violenta e non visto che anche loro si riescono ad accordare con musulmani di diverso orientamento. Ibn Taymiyya (m.1328) - Si scagliò contro ogni innovazione deplorevole (bid’a) come erano lo erano le pratiche sufi, il culto dei santi e la devozione presso le tombe o in occasione di alcune celebrazioni religiose. Il suo pensiero tornerà successivamente con al-Wahhab. Sulla scia di ibn Taymiyya anche la dottrina del wahdat al-wujud verrà contestata poiché si riteneva che portasse a identificare l’uomo con Dio: idea blasfema. Sufi, fachiri e marabutti hanno alimentato la letteratura coloniale sulle confraternite la quale insisteva inoltre sulla loro presunta arretratezza e pericolosità sul piano politico. Il jihad non si rivolge dunque solo a nemici esterni né indica nel sufismo l’esclusiva battaglia interiore e spirituale ma assume forme diverse. L’utilizzo del discorso coranico ha generato una notevole confusione intorno al significato di jihad - nella tradizione islamica il concetto di guerra santa si basa in gran parte sugli stessi assunti: i fedeli sono spinti a combattere per affermare la propria religione e instaurare un ordine sociale sotto il comando divino. 5.2 Resistere all’invasore. Il jihad anticoloniale sufi Il ruolo di figure autorevoli in seno al sufismo è stato fondamentale nel promuovere e organizzare la mobilitazione sociale e costruire identità e fedeltà collettive. ‘Abd al-Qadir integrò nel corso della sua vita lo sforzo interiore ed esteriore teso a realizzare la volontà divina. Di fronte all’occupazione francese i “marabutti” (‘santi’ capi villaggio o delle confraternite) decisero di reagire cercando l’aiuto del sultano del Marocco. Quando però il figlio del sultano decise di sottomettersi, i capi delle tribù chiesero ad Abd al-Qadir di guidare la resistenza. Nel 1832 proclamò jihad - guerra giusta contro gli invasori europei, ricorrendo anche a dei pareri religiosi (fatwà) per legittimare la resistenza nelle terre occupate. Jihad come categorizzazione per i combattenti motivati dall’investitura di sacralità della lotta in difesa dell’islam per evitare che i francesi, colonizzatori o altri potessero considerarli ribelli o miscredenti. La tattica dell’emiro era di disturbare e indebolire le truppe francesi. La Francia riconobbe la sovranità di ‘Abd al-Qadir ma i confini non erano tracciati. Nel 1834 Omar a pronunciare la khutba (sermone che procede la preghiera del venerdì) venne apprezzata dalla comunità religiosa e nel 2005 venne dichiarata imam per guidare la preghiera nella città di New York. Si può affermare che da un punto di vista epistemologico il femminismo islamico è un movimento di reinterpretazione dell’islam e della sua tradizione che avviene attraverso strumenti diversi. Sono 4 le categorie in cui si suddivide il lavoro delle femministe: 1. lavori che si concentrano sul Corano e sulla tradizione esegetica (Amina Wudud, Asma Barlas, Maysam al-Faruqi) 2. studi critici della giurisprudenza islamica (Ziba Mir-Hosseini) 3. disamine della tradizione degli hadith (Sa’diyya Shaikh) 4. emergenti scritti sul pensiero sufi e il suo ruolo di correttivo etico e teologico ai principi e alle dottrine della giurisprudenza islamica (Sa’diyya Shaikh) 6.2 Il femminismo islamico: la difficoltà del nominare Malgrado siano spesso usati come sinonimi: gender jihad e femminismo islamico, in realtà non lo sono secondo molte attiviste. La storia dei movimenti delle donne nel mondo islamico ha radici profonde e in Occidente è pressoché sconosciuta. Nell’ultimo decennio emerge l’importanza della partecipazione delle donne e delle loro rivendicazioni (onda verde in iran, primavere arabe, movimento gezi park in turchia, sollevamenti in algeria e sudan del 2019) Almeno tre anime compongono il tratto di un movimento di donne: 1. femminismo secolare 2. femminismo islamico 3. critica di genere portata avanti da donne impegnate in organizzazioni islamiste o nel movimento del risveglio religioso Femminismo islamico: rivendicare i diritti e uguaglianza in nome di una reinterpretazione dei testi sacri attenta all’uguaglianza di genere ed è dunque una corrente di un movimento più grande articolato. Il femminismo islamico presenta due problemi: 1. il problema con il termine “femminismo” 2. problema con l’espressione femminismo “islamico” Limitando l’area al mondo arabo, il termine femminismo è stato coniato solo nel 900 mentre prima si era soliti utilizzare nisa’iyya per tutto ciò che concerne le donne, successivamente è stato introdotto al-nisa’iyyat e dal 1923 nisa’i per esprimere un concetto di femminismo. Diverse donne, sebbene attive, non si definiscono femministe e non vogliono così essere definite perché considerano tale terminologia associata ai percorsi delle donne occidentali e con progetti coloniali e coloniali. Sostengono che portano alla liberazione delle donne da codici di legge e strutture sociali patriarcali non debbano necessariamente svilupparsi adottando il modello e il linguaggio universalista, bensì bisognerebbe accettare e reinterpretare la propria tradizione storica. L’espressione “femminismo islamico” è percepita come una definizione diffusa da studiose occidentali utilizzando un linguaggio colonizzatore perché etichettando, categorizzando gli altri in base ai propri standard e negando loro la possibilità di autodefinirsi vuol dire porli in una situazione subalterna e selezionare la voce. Alcune studiose non si soffermano sulla parola, altre preferiscono appellare le loro lotte come gender jihad. 6.3 Jihadismo e donne Gender jihad - femminismo islamico ≠ jihadismo femminile, in quanto si fa riferimento al coinvolgimento delle donne in gruppi estremisti violenti che contemplano l’utilizzo della lotta armata per affermare un progetto politico ispirato a interpretazioni fondamentaliste dell’islam. Il ruolo delle donne è in evoluzione per quanto riguarda il jihad inteso come sforzo militare, accezione che viene tipicamente attribuita agli uomini. Nei testi classici sul jihad si parla di jihad delle donne riguardo il combattimento - anche se è spesso menzionato nel hadith riportato da al-Bukhari che il jihad delle donne è andare in pellegrinaggio. (Nonostante a loro non spetti) ‘Aliyya Mustafa Mubarak nel volume Sahabiyyat mujhaidat fa una lista di 67 donne che hanno combattuto in guerra al tempo del profeta o durante le conquiste islamiche. In jihad wa-al-qital fi al-siyasa al-shar’iyya, Haykal, sostiene che il numero di donne che in passato hanno affiancato gli uomini in guerra è esiguo. Crede inoltre che in uno Stato Islamico si debbano prevedere centri per formare le donne all’uso di armi perché in alcuni casi il jihad potrebbe divenire fard al-’ayn anche per loro. Nonostante i talebani e al-Qa’ida erano contro alla partecipazione delle donne, al-Zarqawi in Iraq sostenne che le donne potevano svolgere un ruolo attivo → 2006 primo attacco fatto da una donna. Lo Stato Islamico ha scelto di rivolgersi direttamente alle donne, attraverso la propaganda. Il jihadismo ha avuto un’espansione inaspettata con l’affermazione del Daish. Prima dello stato islamico né al-Qa’ida, né altre organizzazioni avevano reclutato donne. Le donne che hanno scelto di migrare in Iraq e Siria per affiliarsi all’ISIS (2013-2018) rappresentavano il 10-13 % del totale dei cittadini che avevano risposto all’appello di Abu Bakr al-Baghdadi (precedentemente autoproclamato califfo). Le ragioni alla base della loro scelta di affiliarsi sono: - difendere la umma islamica considerata globalmente sotto attacco - mettere fine alle ingiustizie - muovere guerra al secolarismo, imperialismo e ai governanti musulmani considerati empi - fare la hijra vero Siria e Iraq in quanto fard al-’ayn - guadagnarsi il paradiso (janna) La partecipazione femminile è volontaria, non presentano ruoli passivi o vittime, si definiscono attiviste (nashitat), sostenitrici (mu’azarat), emgranti (muhajjirat) e alcune anche combattenti (muhajidat). 6.4 Jihad al-nikah. Una lettura critica Le donne sono spesso descritte come ‘mogli dei combattenti’, utilizzate per soddisfare i piaceri degli uomini che combattono il jihad → jihad al-nikah che in giurisprudenza (nikah) significa contratto di matrimonio, letteralmente: rapporto sessuale che il matrimonio rende lecito. Dai mass media viene spesso tradotto come jihad sessuale o jihad del sesso. In inglese jihad brides o spose del jihad sono intese tutte quelle donne che sono partite per la Siria e Iraq per offrire supporto emotivo e sessuale a chi era ai fronti. Si enfatizza l’impegno solo nella sfera sessuale e matrimoniale. L’organizzazione prevede che la donna sia moglie e madre, idealizzata come una donna obbediente, remissiva che sostiene sessualmente, materialmente il marito sopportandone il jihad e generando nuova umma islamica. Dai 7 ai 15 anni per le donne è prevista un’istruzione riguardo materie religiose e corsi muliebri. Si evince (da un volume intitolato women in the islamic state: manifesto and case study) che la vita quotidiana delle donne sia sedentaria e rilegata a spazi familiari per sole donne, mentre agli uomini spettano gli spazi comuni. Il documento della brigata al-khansa esplicitamente incolpa la poca mascolinità degli uomini e quindi l’automatica responsabilità assunta dalle donne nel prendere il posto degli uomini. Lo stato islamico promette protezione e tenerezza alle donne che affiancano i mariti. Alle donne non sposate, invece, viene chiesto di amare chi è prescelto da Dio, di sposare per sostenere la causa islamica, di esprimere gioia per il martirio del marito, considerare le altre donne come loro sorelle. Le donne servono la causa jihadista con una pluralità di funzioni: propaganda, reclutamento, polizia morale, insegnamento, cure mediche e partecipazione materiale e simbolica alla costruzione dello Stato Islamico. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX si consideravano le donne come simboli silenti della nazione. La donna velata e svelata è stato oggetto di discussioni che si allontanavano pian piano in dibattiti del tutto politici e lontani dal problema principale. Lo stato islamico ha tentato diverse volte di sottolineare l’importanza della donna (es. scambio di prigionieri, cedendo Moaz al-kasasbeh in cambio dell’irachena Sajida al-Rishawi partecipe dell’attacco ad Amman nel 2005). Bisogna leggere le lotte di queste donne sotto una chiave diversa, l’agentività di esse seppur agita in una cornice patriarcale e conservatrice che riproduce gerarchie di genere, è importante. Bisogna discostarsi dall’idea di emancipazione come liberazione dal patriarcato ma come necessità di allargamento dello spettro delle possibilità e il riconoscimento della centralità di fattori rilevanti come: aderire a un modello di donna musulmana che spera di conquistarsi il paradiso nell’aldilà. Amel Grami sottolinea poi che il jihad al-nikah va considerato dalla prospettiva femminile, lo intraprendono come tentativo di sviluppare una società parallela basata su ciò che credono la shari’a in cui non si percepiscono solo come vittime ma come agenti attive per amore di Dio. 6.5 Le rivisitazioni del jihad e le trasformazioni del pensiero islamico e delle società musulmane Le varie rivisitazioni possono essere spiegate tramite 3 fattori 1. attinente al riposizionamento della religione nella sfera privata e pubblica - il ritorno al sacro ha prodotto la necessità di produrre nuove interpretazioni dell’islam. risultato: emergere di nuove correnti 2. dinamicità del pensiero islamico - gender jihad fa parte di una corrente più ampia denominata jihad del futuro, in cui si sa che le donne musulmane rivendicano qualcosa in più ai loro diritti. 3. affermazione delle donne e della loro agentività in tutti gli ambiti Capitolo 7 - Gihad e muqawama. Hamas e il discorso sulla resistenza Hamas, o Movimento Islamico di Resistenza (Harakat al-Muqawama al-Islamiyya) è un partito politico che dal 2006 governa Gaza. Il movimento, però, risulta iscritto alla lista dei movimenti terroristici degli USA già dal 2014. Hamas è quindi connessa allo stereotipo del terrorismo islamico. E’ facilmente paragonabile agli altri movimenti come Hezbollah in Libano e al-Qa’ida, quando in realtà ognuno di questi ha origine e impronte ideologiche diverse. Per Hamas, il jihad,m si estende ben oltre l’articolazione dottrinale. Si tratta di un movimento localizzato che ha come interessi la liberazione della Palestina. Erede, inoltre, di un discorso di resistenza che si sviluppa fin dalla presenza dei britannici. 7.1 La resistenza palestinese: creazione di significati e tradizione La resistenza palestinese si formò per contrastare il mandato britannico. La frammentazione dell’Impero Ottomano e la sconfitta della prima guerra mondiale portò alla definizione dei confini dei paesi arabi. 1916 già Francia e Gran Bretagna avevano stretto l’accordo Sykes ammetteva la possibilità del suicidio. Linguisticamente suicidio non viene mai utilizzato, si preferisce sacrificio. Operazioni di sacrificio si svolgono in 2 ondate: 1996-1997, e poi nel 2006. 7.4 Frequenza d’uso e collocazioni I comunicati di Hamas sono circa 1840 (800.000 parole circa) e all’interno di essi si nota l’utilizzo e la frequenza di alcune parole e concetti. In una classifica potremmo notare: 1. popolo 2. resistenza - muqawama 3. occupazione - ihtial 4. jihad 5. resistente - resistenza passiva - samid 6. liberazione 7. terrorismo 8. unità 9. fitna I primi tre sono collegati all’endogruppo (palestinesi) e all'eurogruppo (israele). Hamas deve liberare il “noi” dal “loro” con la resistenza. Il ruolo del popolo è articolato, è interlocutore privilegiato del movimento. Quando il movimento parla di pratiche di resistenza, queste non sono presentate come una scelta esclusiva del movimento stesso, ma attuate per il beneficio del popolo e la sua volontà. Hamas evoca il popolo come fonte di legittimazione. Per il jihad i risultati delle analisi dei comunicati sono diversi: muqawama rispecchia in maniera nota di trattare il popolo in politica, mentre jihad appare come accompagnare muqawama e legarsi al valore del martirio e del sacrificio. Muqawama: usata stabilmente in tutto il periodo di ascesa di Hamas Gihad: diminuisce nel tempo già dal 2004 Motto: Dio è la nostra meta. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra costituzione. Il jihad è la nostra vita. Morire sulla via di Dio è la nostra supremazia. 7.5 I valori della resistenza Il sistema dei valori si divide su 3 livelli: 1. valori legati alla lotta (samid, sabir e shahid) 2. valori legati al carattere 3. valori legati alla nazione Per quanto riguarda il primo punto, emergono appunto 3 modi principali di affrontare la resistenza: - essere samid: resistenti e resilienti - essere sabir: pazienti - essere istishhadi: disposti al sacrificio - diventare shahid: diventare martiri Perciò chi resiste deve essere disposto non solo ad agire, ma a sostenere uno stato d’animo di attesa e resilienza nei confronti delle avversità, accettando anche conseguenze più estreme. Il concetto di “sumud” emerge come proprietà del popolo. Da un punto di vista di prossimità testuale, il termine è associato a sumud, rispetto che a jihad. Il popolo è quindi samid (resiliente), murabit (determinato, vigile) e mujahid (combattente) Il popolo è musabir molto spesso, cioè paziente. Il valore del “sabr”, la pazienza, richiama alla mente un significato più profondo rispetto a quello esclusivamente letterale. Si intende più una determinazione e resilienza fra le proprie caratteristiche. Fa riferimento, inoltre, alla storia di Muhammad che raccomandava ai credenti di essere pazienti contro le avversità come gli ‘apostoli di Dio’. E’ anche una caratteristica essenziale per praticare il jihad minore. Il popolo palestinese e il combattente palestinese sono rappresentati come determinati, persistenti e coraggiosi. Altri termini attribuiti sono: tadhiya e istishhad (inteso come ricerca del martirio). Non si può prescindere dal significato di shahid, martire: radice → sh - h - d che in campo semantico significa vedere / essere testimone. Dunque, il martire non è necessariamente chi compie un atto concreto di resistenza e muore nel compierlo, ma anche chi cade come vittima durante un combattimento, pur senza aver combattuto. Nel discorso di Hamas, il martire è fondamentale; essi vengono continuamente menzionati come simboli della resistenza, il termine “martirio” è strettamente legato a jihad tramite la formula di chiusura: “Gihad: martirio o vittoria” (con cui spesso vengono chiusi i loro comunicati) In Palestina, le foto dei caduti sono accompagnate da riferimenti al partito politico di afferenza, se esistente. Perciò, menzionare il martirio (istishhad) come valore è atto che tocca corde profonde all’interno della società. Termine ricorrente legato a “martire” è ‘Yassin’ che riprende il nome di Ahmad Yassin, uno dei fondatori di Hamas ucciso in un bombardamento nel 2004. 7.6 Metafore Che tipo di metafore usa Hamas per parlare di resistenza? 1. Fa riferimento sia a muqawama, sia a jihad: “sulla via della resistenza”. Configura gli obiettivi dichiarati dal movimento, quindi la liberazione della Palestina intesta come destinazione finale, ponendo il focus sul percorso da seguire per arrivarci: percorso lungo, per cui la resistenza è una strategia a lungo termine. 2. Tariq e sabil: l’ultimo ricorda “al-jihad fi sabil Allah” preso dal Corano che inoltre stabilisce le regole base per combattere il jihad minore. Già negli anni ‘70, Sadat, aveva reinterpretato in chiave nazionalista il concetto coranico richiedendo ai propri soldati di combattere Israele “sulla via del martirio per la dignità della patria” (al-istishhad fi sabil karamat al-watan” Hamas non parla di ‘via di Dio’ o di ‘resistenza sulla via di Dio’: parla di azioni, comportamenti e atteggiamenti da attuare “sulla via della resistenza”. Resistenza: intesa come muqawama e jihad. Tramite i comunicati la metafora diventa una direzione a cui guardare e rivolgersi, e successivamente inneggiano alla potenza e alla violenza del jihad in sé, sempre riferito al popolo: “Il jihad e l’intifada del nostro popolo non avranno fine” (Comunicato n.480, 23 luglio 2002) 7.7 Una rappresentazione mutevole del jihad Nel 1988 Hamas utilizza un registro e delle formule simili a quelle usate da Azzam (Abdullah Yusuf Azzam) nel 1984 in cui il jihad è rappresentato come obbligo religioso. Nel 2017, invece, si rappresenta la resistenza in un quadro interpretativo radicato sulla morale e sugli aiuti umanitari. Il termine jihad diminuisce e incrementa quello di muqawama. Nel 1994 Hamas perde la componente religiosa. Il mujahid di Hamas non è altro che un riproposizione del fida’i. Il movimento, tuttavia, si concentra sulla Palestina e sul proprio sviluppo politico e si dirige verso un tentativo di legittimazione politica. Dunque è ragionevole interpretare il jihad in chiave politica. Capitolo 8 - Jihad e jihadismo. Lotta e progettualità La categoria ‘jihadismo’ non deve essere intesa come un semplice sinonimo di jihad armato, bensì come una ‘classificazione’ autonoma che raggruppa organizzazioni con proprie caratteristiche e specificità, tanto nella postura che assumono nei confronti di quelli che ritengono essere i loro nemici quanto nell’atteggiamento e nelle logiche che adotta nel relazionarsi con la sfera musulmana. Si sviluppa parallelamente ad altre iniziative militanti. 8.1 Jihad e jihadismo contemporaneo come oggetto di analisi Parlare di jihadismo significherebbe confrontarsi con una serie di paradossi. E’ utile comunque porre l’accento sugli elementi che rendono la categoria di jihadismo tanto dibattuta e contraddittoria così da comprendere la ricchezza delle implicazioni e i rischi dell’utilizzo. E’ lecito chiedersi se sia necessario come termine. Appare tanto forte nella capacità di descrivere varie storie particolari, quanto debole finendo per racchiudere qualsiasi gruppo o individuo si appelli alla lotta armata in quanto musulmano. Si potrebbe concludere quindi che ha poco senso parlare di jihadismo perché si dovrebbe piuttosto parlare di jihadisti o semplicemente del jihad armato nelle società contemporanee secondo le molteplici attuazioni e quindi del mujahid in guerra (colui che si impegna militarmente sulla via di Dio - fi sabili llahi) Presentandosi come l'estremizzazione della parola jihad mediante la desinenza -ismo, il termine rischierebbe di confondere il campo dell’analisi e del dibattito, impossessandosi in maniera quasi esclusiva del termine jihad. Contiene una pluralità di significati e implicazioni che il termine jihadismo solo in minima parte coglie e per di più lo compie sulla base di una precisa logica e razionalità che non può essere semplicemente definita ‘originariamente’ o ‘esclusivamente’ musulmana. Spartiacqua: attentato alle torri gemelle 2001, periodo post saddam hussein in iraq dal 2003 → conflitto siriano 8.2 Una prospettiva ideologica / ispirazionale Lo studio delle origini e dell’evoluzione del jihadismo si confronta spesso con i due complessi fenomeni dell’islam politico con la sua proposta di revisione strutturale del ruolo dell’islam nello spazio pubblico e all’interno della vita dello Stato e della Salafiyya. Per quanto riguarda il primo livello di relazione → il rapporto tra jihadismo e islam politico viene approcciato a partire dalla configurazione del primo (jihadismo) come una sottocategoria della sfera più ampia dell’attivismo islamista.Da qui discende la convinzione dell’esistenza più profonda della relazione fra jihadismo e islam politico. Questa connessione deriva dal ruolo che si pensa abbia svolto l’islam politico nell’aver definito una prima via per ripensare il ruolo dell’islam nello spazio pubblico delle società musulmane. Si può individuare quindi una relazione di continuità o comunque di ‘osmosi’ tra queste due realtà; è su questo piano che si sarebbero poste le radici dell’attuale jihadismo. Riferimento indiscutibile → Abul ‘Ala al-Mawdudi, attraverso l’applicazione del principio di rivoluzione all’islam e quindi al ricorso del jihad come strumento di propagazione; in secondo luogo → Associazione dei Fratelli Musulmani grazie alla loro funzione socializzatrice. Da un punto di 1. per il territorio - si sottolinea che l’avvento o l’imposizione dell’ideale globale qaidista non fu ineluttabile e dovette prima confrontarsi con approcci ben consolidati del mondo jihadista, quindi quella difensiva di al-Azzam e quella territoriale di matrice takfir di Ayman al-Zawahiri. 2. per la seconda questione, l’attenzione nei confronti della definizione del profilo del nemico è ritenuta dirimente per comprendere come il fenomeno jihadista mutò nel corso di queste decadi. Il tema del nemico offre una chiave di lettura diversa; a partire dalla metà degli anni 90 i profili insurrezionalisti persero fascino frammentando il campo jihadista fra l'opzione internazionalista e quella di nazionalismo religioso. La prima sostenne la necessità di combattere il nemico lontano (adu al-ba’id): USA e alleati. La seconda rimase convinta della necessità di sconfiggere il nemico vicino (adu al-qarib). Il 9/11 nascerebbero nel solco di tale confronto e avrebbero determinato un radicale ri-orientamento e una riconfigurazione dell’ideale jihadista ‘tradizionale’ a favore dell'opzione globale. Il qaidismo rappresenterebbe una sorta di ‘anomalia’ piuttosto che l’essenza di un fenomeno jihadista. Le fasi successive (dall’Iraq 2003 fino ai giorni nostri) vengono considerate come ulteriori tappe nello sviluppo di queste dinamiche sia come l’espressione di una quarta ondata in seguito alla sconfitta dei Taliban in Afghanistan. Da una parte, già dal 2005, al-Qa’ida viene descritta come un’organizzazione cartello. Il suo prestigio si lega al leader Usama Bin Ladin e poi al successore al-Zawahiri. Dall’altra si assiste alla decentralizzazione e diffusione di questo mondo globalizzato all’interno di differenti fronti operativi. Questa fase di mutamento o transizione di al-Qa’ida è accompagnata anche dall’emersione di una generazione di pensatori che si concentra sul piano strategico piuttosto che su quello intellettuale della lotta armata. Tipo: Abu Bakr Naji - propose la necessità di ricavare santuari all’interno dei quali avviare esperienze protostatuali innescando un filone di riflessione riguardo le barbarie. Oppure, Abu Mus’ab al-Suri - si specializzò nello studio delle tattiche degli avversari suggerendo sempre nuovi correttivi per guidare la crescita dell’orizzonte jihadista. Il tema centrale di questo momento riguarda la definizione di una via sostenibile e duratura al jihad armato, le rivolte arabe della fine del 2010 hanno rappresentato una sorta di spartiacque. Buona parte degli snodi si collocano all’interno dell’arco temporale che va dall’invasione in Iraq del 2003 allo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011. I due fronti sono considerati i luogo da cui prende corpo la rielaborazione programmatica e ricomposizione del mondo jihadista. Su un primo livello il conflitto iracheno ha consentito la riflessione soteriologica di una parte del jihadismo salafita. Nel compiere ciò si è sia riconfigurato in chiave jihadista l’immaginario della lotta antimperiale e si sono allo stesso tempo recuperati e reinterpretati alla luce del ragionamento salafita i concetti di hakimiyya (proposto da al-Mawdudi), di takfir e al-wala wa-l-bara (lealtà e rifiuto) così da divenire la cifra ideale attraverso cui fondere piano teologico e politico. Attraverso l’epopea insurrezionalista di Abu Mus’ab al-Zarqawi in Iraq si giunge all'auto proclamazione del califfato da parte di Abu Bakr al-Baghdadi. al-Dawla al-Islamiyya non solo esprimerebbe la crescente tensione verso l’orientamento salafita ma porterebbe tale riflessione alle sue più estreme conseguenze con l’obiettivo di eliminare la cosiddetta idolatria (shirk) e imporre il tawhid (unicità di Dio) sul piano religioso, politico e sociale. Infine offrirebbe una rivoluzione della precedente scala di proprietà del mondo jihadista e di quello qaidista in particolare. Ha rimesso al centro della sua attività il territorio. Ciò trova combinazione nella decisione di promuovere autonomamente la rinascita del califfato. E’ stato sufficientemente rivelatorio il messaggio trasmesso nel 2014 da Abu Muhammad al-Adnani al-Shami (portavoce di al-dawla al-islamiyya) che ha riportato alla memoria lo stretto legame che univa il jihad in Iraq con al-Qa’ida. Su un secondo livello, il conflitto in Siria avrebbe assicurato un altro ambito di elaborazione che sta ancora influenzando il percorso di mutazione del jihad. La vicenda siriana si articola in una complessa microstoria di scontri interni, fratture e rivalità. E’ su questo fronte geopolitico ce la diade di al-Qa’ida e al-Dawla al-Islamiyya ha mostrato il potenziale disgregatore delle dinamiche in atto. Ciò che prima era un dissidio è diventato poi un solco all’interno della sfera jihadista. Da quel momento,il mondo di al-Qa’ida e quello di al-Dawla al-Islamiyya sono entrati in aperta competizione all’interno delle tre aree di azione: 1. campo di propaganda 2. quello del fronte dello scontro sul terreni 3. sfera della leadership del jihad globale Al-Dawla al-islamiyya ha guadagnato molto spazio, avvantaggiandosi rispetto ad al-Qa’ida, e in quel periodo al-Zawahiri aveva pubblicato dei documenti che miravano a rilanciare lo sforzo sulla via del jihad globale e determinava le nuove linee guida per la condotta del jihad. Sottolineava lo sforzo di ripensare e canalizzare il jihad all’interno di una prospettiva chiara e quanto più omogenea possibile per contestualizzare la lotta all’interno di contesti eterogenei e in continua evoluzione. Il documento fu forse di al-Qa’ida ponendo così un limite a quella che di lì a poco sarebbe stata l’alternativa offerta da Abu Bakr al-Baghdadi. la guerra in Siria dimostra come le evoluzioni e competizioni siano solo una parte di un processo più ampio. La presenza di Ahrar al-Sham al-islamiyya, Jabhat al-Nusra li-l-Ahl al-Sham e al-Dawla al-islamiyya - tre differenti formazioni sembrano convogliare e rendere attuali le tematiche e le posizioni che hanno animato in passato il confronto interno al mondo jihadista. Ahrar al-Sham - ha riproposto la questione del jihad armato nella sua versione più originale ossia l’abbattimento di un regime considerato illegittimo. Prende le distanze sia dall’orientamento globalista sia dall’idea che lo scontro con Damasco debba essere considerato come una semplice tappa nel lungo cammino jihadista globale. Jabhat al-Nusra - dissolse i suoi legami con al-Qa’ida che come evento volle sottolineare la volontà di imprimere una decisa accelerazione nel percorso di ‘sirianizzazione’ di un’organizzazione originariamente nata nel solco del jihad globale. Dal 2013 al-Nusra ha appoggiato la rivoluzione siriana secondo l’idea della difesa e della liberazione. Dawla al-Islamiyya - distinto per la sua radicale riconfigurazione di tutti i precedenti discorsi sul e del jihad armato. Ha rotto molte cautele e prudenze del passato, decidendo di proclamare un califfato, ha inoltre inteso fondere e riconfigurare discorsi e immaginari ben presenti nella sfera jihadista da tempo, imponendosi tanto come organizzazione per il jihad globale quanto come proto-Stato sul territorio. Capitolo 9 - Stato Islamico e frammenti di utopia nel jihad in Siria e Iraq Lo Stato Islamico è uno degli oggetti d’analisi, folklorizzati e ricostruiti per fungere da confine tra due mondi. Quando si parla di guerra santa, si intende una guerra necessaria contro i barbari nemici che irrompono nella nostra modernità ‘pacificata’ per minacciare l’ordine della nostra civilizzazione. Vincere Da’ish e il jihad armato è presentato come un imperativo categorico morale che si inserisce nella storia umana del progresso sociale e della democrazia. Nella pratica dell’IS il termine jihad si riferisce a una guerra strategica che mira semplicemente a fondare uno Stato-nazione nel senso moderno del termine. Secondo la linea statalista dell’IS, il jihad richiama una pratica moderna di fondazione di uno Stato in tempi di guerra civile, mentre la linea utopica tende a considerare il jihad come una pratica transnazionale. Capitolo volto a dimostrare quanto il jihad dello Stato Islamico sia una semplice riproduzione dei meccanismi moderni istituiti nei nostri Stati-nazione in Europa dalla fine del Medioevo. 9.1 Un pensiero statalista del jihad Come è concepito il jihad dallo Stato Islamico? Gli amministratori distinguono tra jihad e Stato Islamico. Abu Bakr Naji in La gestione della barbarie spiega: chi apprende il jihad teorico non sarà in grado di comprendere il punto. I giovani non conoscono la natura delle guerre. Coloro che intendono condurre un’azione di jihad mentre sono stanchi dovrebbero rimanere a casa. Inoltre spiega che i nemici non li risparmieranno se si mostrano gentili. Il resto considera il jihad solo come una fase per l’istituzione dello Stato Islamico o la guerra per consentire il tamkin (potere su una cosa, cioè la capacità di esercitare il potere su un territorio e una popolazione). L’intera produzione letteraria dell’IS fa del jihad un atto legato alla fondazione di un potere su un territorio localizzato piuttosto che una guerra senza un domani che prende una forma molteplice. Il jihad si risolve in una serie di atti che hanno un inizio: lotta armata, e una fine: realizzazione di uno stato islamico.Questa visione è incorporata in un’ottica statalista che chiamiamo ‘utopica’: i militanti che vedono nel jihad l’uscita da qualsiasi tipo di governo e di apparato di leggi che permettono che degli uomini esercitino potere su altri uomini. Il jihad, in questa visione, non è situato né localizzato su un territorio o in uno Stato e non ha l'obiettivo di fondare uno Stato Islamico. Secondo alcuni autori il jihad è destinato a tutti i mujahidin “qualunque sia la loro preparazione e il loro livello di istruzione”. La prima definizione della parola jihad: sforzarsi di fare tutto il necessario nella lotta contro i miscredenti e i seguaci dell’insubordinazione, affinché la parola di Dio sia la più alta e quella dei miscredenti la più bassa. I miscredenti e ribelli: nemico comune. Insubordinati: i musulmani che vivono sotto il territorio del califfato. Il testo si rifà alla storia degli imperi dell’epoca del califfato auspicando ad un ritorno a quella forma-Stato che ha il diritto di esercitare il suo potere assoluto all’interno dei suoi territori contro qualsiasi tendenza. Il libro contiene una definizione di Ibn Taymiyya: Il jihad nella sua essenza è uno sforzo per ottenere ciò che Dio ama, come la fede e le buone azioni, e per respingere ciò che Dio aborrisce come la miscredenza, la corruzione e la disobbedienza. Sayyid Qutb, invece, era tra i primi disertori dello Stato Islamico contro quella linea statalista che rende il jihad una pratica poliziesca a disposizione del governo per affrontare i dissidenti: Il jihad è la ricerca continua della lotta permanente per stabilire univocamente il giusto regime. E’ il jihad che rende l’Islam un perfetto equilibrio fra la fede dell’uomo e la sua fedeltà alla religione. La concezione del jihad tra gli amministratori dell’IS è una concezione statalista che mira quindi alla fondazione dello Stato, rimanda al potere della polizia che si occupa della repressione di ogni tendenza dissidente. 9.2 Lo Stato Islamico in Siria: jihad dei ‘moderni’ Stato Islamico, mentre gli intervistati ne parlano bene, dipingono un ritratto di una “amministrazione burocratica neutra”. Il processo per garantire la sicurezza all’interno dell’IS alla fine ha portato a una istituzionalizzazione diffusa di un regime di sorveglianza generalizzata e di violenza sistematica trasmesso attraverso una politica del terrore esercitata soprattutto dalla hisba e dalle amniyat. Esempio del 17enne decapitato perché riprendeva un bombardamento. Inoltre negli ultimi periodi internet venne bloccato, erano consentiti solo pochi cyber ma richiedevano dati sensibili. Se il Daesh avesse scoperto che qualcuno era in possesso di carte prepagate turche veniva decapitato. 9.5 Territorializzazione dell’IS La guerra jihadista secondo l’IS era condotta verso la formazione di uno stato. Diversi funzionari vennero reintegrati all’interno dello Stato con un salario. Prima del 2014 la città di Mosul era teatro di persecuzioni sunnite e contrattacchi kamikaze quindi da parte di gruppi armati. L’IS ristabiliva quindi l’ordine con la violenza. I venditori ambulanti potevano vendere in luogo circoscritto, se infrangevano le regole dovevano pagare una multa. Un venditore ambulante spiega la differenza delle istituzioni all’interno dell’IS: 1. Consiglio comunale al-baladiyya si occupava delle violazioni e della gestione legati al mercato e commercio 2. al-Hisba si occupava delle questioni relative alla preghiera e alle punizioni 3. al-amniyat invece si occupava di reati gravi che spesso portavano alla morte. Le scuole vennero chiuse dopo alcuni bombardamenti e gli insegnanti ricevettero 60.000 dinari. L’ospedale era a pagamento e aveva il Diwan al-Siha responsabile della gestione di tutti gli ospedali che, ad esempio alla nascita di un bambino, rilasciavano un certificato che andava precedentemente richiesto. I giornali erano cartacei e veniva utilizzata una radio per comunicare con la popolazione, vietata invece la tv. L’IS ha inoltre regolamentato i nuovi mercati che fino al 2003 erano senza regole. Altre istituzioni presenti: diwan al-zira’a, diwan al-zakat, diwan mahkamat al-shari’a, diwan al-tijara e makabit al-safar, la hisba ecc. Il diwan al-zira’a accoglie le persone per pagare la zakat: se hai un numero di capi di bestiame, devi pagare la zakat per ogni capo. Non si poteva far nulla senza passare sotto le regole dell’amministrazione. L’IS però preferiva governare le città in quanto elemento di modernità, le campagne continuavano la loro vita sotto le regole delle tribù, il deserto e i nomadi erano esentati dalle varie regole. Le tribù però dovevano dimostrare un atto di fedeltà, chi si ribellava veniva ucciso. In campagna non c’erano obblighi, o alcun controllo sulle preghiere. L’IS aveva controllo su: gestione del petrolio, tassa sull’agricoltura, rilascio di permessi di circolazione per autobus tra città e campagne, ricostruzione di strade. 9.6 Considerazioni sul jihad utopico: le parole del jihadismo L’IS è uno Stato che negozia le sue frontiere, difende le frontiere recuperate dallo sgretolamento dei vecchi stati, trasmette segni simbolici e non si avventura in attacchi contro le zone popolate da gruppi etnici conflittuali con il sunnismo. Si evince la supremazia della logica statale di gestione del territorio rispetto a una visione che potremmo chiamare escatologica e utopica. Un ex affiliato dell’IS iracheno esprime che ha testimoniato molte tragedie che non hanno alcun legame con la via islamica. Affermava che ci fossero lotte interne e oppositori che venivano scomunicati, giudicati per miscredenza e uccisi. L’IS uccideva con l’accusa di takfirismo. L’obiettivo dei massacri era per far sì che lo Stato rimanesse in piedi, non poteva rimanerci se le persone se ne andavano, quindi imponeva di rimanere. Lo Stato considera tutti gli abitanti come dei musulmani e ciò lo legittimerebbe a governarli, ed in questo senso la scomunica è proibita quando si rivolge all’insieme delle popolazioni o a gruppi consistenti. Essere musulmani era una forma di cittadinanza e di diritto in seno allo stato, scomunicare significa in fondo accettare lo statuto di minoranza nel mondo e diventa un modo per salvare la gente dalla guerra. La linea utopica rivendica il diritto di dare alle popolazioni siriane e irachene la scelta di unirsi o meno, appartenere o meno a quel che è concepito come califfato. Un ex affiliato esprime le due diverse concezioni di jihad: per lui era una questione di aqida (credo), questione di adesione a una fede. Credeva di aver trovato ciò che gli era stato promesso, ma dopo aver vissuto con i membri dello Stato Islamico ha capito che era una menzogna. Perché in quella dell’IS non vige la legge di Allah ma regna la passione di chi domina, il reclutamento coinvolge giovani che vogliono vivere in terra d’Islam perché repressi. Mentre l’IS funziona come zona di sterminio ed epurazione di quei giovani. Il jihad diventa sinonimo di un principio di promozione dell’antagonismo politico che chiama a lottare contro ogni tentativo di istruire un potere nella società. Appare una lotta soggettiva contro la volontà di sostituire alla sola sottomissione e adorazione di Dio un’altra sottomissione verso una legge, governo o rappresentanti che detengono e controllano un potere temporale.