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GIORNALISMO & INFORMAZIONE DIGITALE - Donelli, Appunti di Giornalismo

APPUNTI COMPLETI DEL PRIMO SEMESTRE del corso di Giornalismo del prof. Donelli in preparazione all'esame orale.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 25/02/2023

Chiara-Gianfreda
Chiara-Gianfreda 🇮🇹

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Scarica GIORNALISMO & INFORMAZIONE DIGITALE - Donelli e più Appunti in PDF di Giornalismo solo su Docsity! 06/10/2022 Giornalismo: introduzione generale L’epoca in cui stiamo vivendo viene definita come l’epoca della digital revolution, transformation and disruption. Cosa significa? La rivoluzione digitale, nella quale siamo tutti immersi, cominciata nel 1990 e destinata a durare ancora decenni, è la quarta rivoluzione tecnologica nel corso di tre secoli e, come quelle che l’hanno preceduta, ha cambiato e sta cambiando la vita delle persone. 1. La prima grande rivoluzione è stata quella industriale nell’Ottocento, che ha introdotto la meccanizzazione e ha cambiato la vita di persone, facendole trasferire dai campi alle città, provocando un enorme stravolgimento sociale. 2. La seconda grande rivoluzione, agli albori del Novecento, è stata la rivoluzione elettrica: l’energia elettrica prende il posto dell’energia a vapore e così nasce la produzione di massa, ovvero le industrie velocizzano i processi e diventano più efficienti, aprendo così nuovi mercati: si parla della figura di Henry Ford, il grande pioniere della Ford. 3. La terza rivoluzione avviene a cavallo tra la fine degli anni ’90 e gli anni 2000 con l’avvento di Internet: il mondo diventa interconnesso, annullando tutte le distanze nella comunicazione attraverso una rete mobile. Si tratta di un processo rapidissimo: se la velocità delle auto fosse cresciuta con la stessa velocità con la quale è cresciuto Internet, oggi viaggerebbero a 675 km/h. All’interconnessione si accompagna un altro grande cambiamento, cioè i big data: si accumulano e si analizzano miliardi su miliardi di dati, prodotti da tutti coloro che usufruiscono del web. Siamo ai prodomi dell’ultima grande rivoluzione 4. La rivoluzione digitale , che sta cambiando il modo con cui vediamo le cose: ecco la transformation e la disruption, in quanto ha spazzato via molte cose. L’aspetto primario è l’innovazione continua e senza limiti. Sotto la spinta della transformation e della disruption sono necessari nuovi cambiamenti: pensiamo all’impatto sul sistema mondiale delle leggi, che si è ritrovato impreparato di fronte a questo cambiamento impetuoso; oppure al sistema della privacy, dato che oggi siamo tracciati in qualsiasi cosa; pensiamo anche al mondo della robotica e dell’intelligenza artificiale dove si nota un cambiamento velocissimo e stravolgente. Alcune delle nuove tecnologie digitali che stanno cambiando le nostre vite sono software, altre sono hardware, altre sono dettate dalla geoeconomy (su chiamata o temporaneo) e dalla sharing economy (condivisione di oggetti), favorendo lo sviluppo dell’industria  pensiamo ai taxi, che dovevano svincolarsi e memorizzarsi gli svincoli di una città; oggi invece chiunque può districarsi tra le strade di ogni città può viaggiare grazie al GPS, collegato ad un satellite. I tassisti devono fare anche i conti con Uber, un nuovo modo di spostarsi che ha avuto un forte impatto. A loro volta, Uber sta per essere soppiantato con la guida automatica. Il cambiamento è continuo ed è dovuto solo ed esclusivamente alle dinamiche evolutive del digitale. Con questo esempio, possiamo riflettere anche sui romanzi inglesi, come quelli di Jane Austen dove i protagonisti vanno a cavallo (unico mezzo di trasporto), mentre oggi l’andare a cavallo è un hobby. Possiamo quindi sintetizzare: nuovi modi per fare vecchie cose, ma anche per nuove opportunità. Se pensiamo al mondo dell’intrattenimento, ovvero lo show business, nessuno avrebbe pensato negli anni ’80 ai cinema, agli show televisivi e ai videogames che abbiamo oggi. In generale, noi non guardiamo più in là di 2 anni e sottostimiamo ciò che accadrà nei prossimi 10 anni. L’ex numero 1 di Google, Eric Emerson Schmidt, che l’ha guidato fino al 2011, ha affermato che Internet è la prima cosa che l’umanità abbia costruito e che essa stessa non comprende, il più grande esperimento di anarchia mai costruito. Lo smartphone è diventato il simbolo della rivoluzione digitale ed è ormai parte integrante della vita quotidiana. Con lo smartphone:  Possiamo ricevere e produrre news (informazione)  Possiamo guardare un contenuto televisivo, ascoltare musica e leggere un libro (intrattenimento)  Siamo sempre connessi e interconnessi (connettività). Lo smartphone ha inciso e incide sui comportamenti sociali con riflessi importanti sulla società, sulle dinamiche relazionali e perfino sull’ambito lavorativo. In particolare, nell’ambito dell’industria mondiale dell’informazione, lo smartphone è piombato improvvisamente come uno tsunami, travolgendo il mercato dell’informazione, ha cancellato realtà centenarie (come imprese editoriali che esistevano più di cent’anni) e ha polverizzato posti di lavoro. Questa innovazione si è scaricata soprattutto sulla stampa, in particolare sui 1 giornali quotidiani. Il modello di business dei giornali consiste nello stampare i giornali, distribuirli e i ricavi derivano sia dalle vendite ma anche dalle pubblicità inserite: questo modello prosegue fino al 2009-2010, fino alla crisi di vendite americane. Da allora si è susseguito un decennio di incertezza e logoramento speso per trovare compromessi tra il vecchio modello e il nuovo, mentre il livello professionale calava in modo drastico fino a quando nel 2020, con l’arrivo della pandemia, è arrivato il momento tragico della verità  la grave crisi economica si è scaricata sul sistema dell’editoria, già debole, e soltanto chi ha avuto più coraggio e si è aperto all’innovazione ha potuto affrontare la crisi del covid e ha ottenuto posizioni di vantaggio rispetto alla concorrenza  ci sono testate mondiali che hanno trasferito il core business dalla carta al digitale, potendo così correre ai ripari. È il caso, ad esempio, del New York Times e del Financial Times, dove l’edizione cartacea è considerata ormai un sottoprodotto/prodotto complementare rispetto all’edizione digitale a differenza di quello che avviene in Italia, dove i siti dei giornali sono accessibili gratuitamente, mentre, per accedere ai siti Internet dei giornali sopracitati invece bisogna pagare (pay wall). All’inizio le persone non hanno ben capito e c’era diffidenza, ma con l’avanzare del tempo le sottoscrizioni sono aumentate: la particolarità è che ci si può abbonare solo a determinati aspetti (ricette di cucina o cruciverba) oppure anche solo per un determinato periodo di tempo. Oggi il giornalismo è ancora concepito per l’era industriale, dalla quale, nel frattempo, il mondo è uscito per entrare nella digital era, basata su metodi differenti. I ricavi pubblicitari si sono spostati verso i colossi del web, come Google e Facebook, ma anche Instagram e TikTok. Questo primo grafico rende molto bene l’idea di ciò che è successo nel corso del tempo. La linea blu che sale e arriva fino all’anno 2000, in cui i quotidiani americani incassavano complessivamente 64 miliardi di dollari. Vediamo che erano partiti nel 1950 con 20 miliardi di dollari. È un grafico molto importante perché si tratta di dollari attualizzati, cioè i calcoli sono stati fatti per essere visti e analizzati al giorno d’oggi. Nel 2000 la curva precipita a 16.4 miliardi di dollari nel 2014  crollo spaventoso! Però, si sottolinea sempre un altro elemento: per arrivare a quei 67 miliardi ci sono voluti 50 anni. Invece, se guardiamo la linea rosa, che indica i ricavi di Google, che si impenna. Assieme alla linea blu, vi è la linea rossa, che rappresenta i ricavi dei quotidiani sul web, cioè 19 miliardi di dollari (facendo la somma tra i ricavi pubblicitari su carta e sul web). Si tratta di un’informazione drammatica e in parallelo ci sono le revenue di Facebook (linea verde). Mentre declina sui quotidiani, la pubblicità cresce in maniera impetuosa su Google, molto evidente nel secondo grafico. Il terzo grafico ci mostra in maniera drammatica il sistema dei ricavi tra la stampa (in grigio) e Google (in giallo). Anche in Italia succede qualcosa di analogo, ma la conseguenza di questo “dissanguamento” è stata che negli ultimi anni, preso il totale dei ricavi dell’informazione tradizionale, la fetta di torta relativa agli acquisti in edicola e abbonamenti si è allargata sempre di più: ma se hanno perso i lettori, com’è possibile? Si è ristretta la fetta di pubblicità. I giornali, cercando di rimediare, hanno cercato di governare le loro dinamiche e di fidelizzare i lettori rimasti con gli abbonamenti (negli USA era già consueta, mentre in Italia è impossibile) e la membership, cioè non vi sono solo abbonamenti, ma c’è la possibilità di accedere ad eventi esclusivi e a club, intesi come momento premiale della fedeltà. Nonostante tutte queste attività, il sorpasso dei ricavi da audience rispetto all’advertising è avvenuto nel 2013, evidente nel grafico, la parte in blu declina e quella in rosso aumenta. Nel 2017, il livello globale dei quotidiani era di 150 miliardi di dollari, dai quali 78 miliardi proviene dalla diffusione cartacea e digitale degli abbonamenti. La carta, a livello globale, genera ancora il 90% dei ricavi perché la pubblicità su carta viene pagata di più, la gente ha una maggiore propensione ad acquistare la copia cartacea e questo riguarda la parte adulta, mentre le generazioni giovani tendono ad utilizzare la versione digitalizzata. Allora, le organizzazioni editoriali più grosse hanno 2 giornalismo è pubblico, cioè è a portata di ogni cittadino, perché siamo tutti giornalisti ed editori. Se fino a ieri si voleva scrivere qualcosa, si mandava una lettera e si sperava che la pubblicassero; oggi invece ci si attacca a qualsiasi social media e si scrive, dove le cose vengono pubblicate. Questo fenomeno è sovversivo, chiamato negli USA open journalism, è rivoluzionario perché ha generato nel sistema delle news un cambiamento epocale al punto da notare un intreccio insolubile tra: 1. Giornalismo tradizionale avente come protagonisti i giornalisti freelance. 2. Abbiamo anche il citizen journalism, che ha per protagonisti i cittadini-utenti, passati da un ruolo passivo (da lettori semplici) ad un ruolo attivo all’interno della comunicazione generale. 3. Inoltre, vi è anche il brand journalism: ha per protagonista le imprese dei più variate settori merceologici che usano la rete per veicolare i loro contenuti brandizzati con casi estremi. Ad esempio, la CocaCola ha creato il CocaColaJourney, ovvero fa informazione, ha abolito l’ufficio stampa e parla con i suoi clienti attraverso questa piattaforma, quindi è l’azienda che si fa editore. Nella nuova era dell’open journalism, c’è un elemento distintivo, ovvero l’accesso alle fonti e al publishing non è più una prerogativa esclusiva di giornalisti ed editori. Alcuni studi hanno dimostrato come i citizen journalists tendono a citare maggiormente le fonti della società civile rispetto ai media tradizionali, che, di solito, preferiscono le fonti istituzionali. Ad esempio, l’episodio del disabile rom buttato fuori dalla finestra a Roma dalla polizia sarebbe stato chiamato una “controinformazione” negli anni ’70. C’è uno studio interessante condotto sulla “primavera araba”: nel momento in cui la rivoluzione è scattata, i confini sono stati chiusi immediatamente, per cui i giornalisti all’interno non hanno potuto raccontare cosa stesse succedendo; lo stesso valeva per eventuali giornalisti provenienti dall’esterno. Andy Carvin, produttore e giornalista americano della NPR, ha raccontato la vicenda utilizzando Twitter, nel senso che lui ha letto i tweet pubblicati dai cittadini dei paesi arabi, ha dato molta più voce agli attivisti che alle fonti tradizionali. Questa è una svolta che pone dei problemi, però: gli attivisti non sono proprio fonti attendibili, loro difendono una causa, per cui come si fanno a verificare le loro informazioni? La novità dell’accesso alle fonti, resa possibile dal web, ha letteralmente scardinato il sistema industriale dell’editoria e ha provocato uno sconquasso non assolutamente immaginabile da nessuno, i cui esiti non sono ancora del tutto definiti. 13/10/2022 Gli effetti dell’ open journalism 1. La diminuzione delle vendite e della raccolta pubblicitaria, come qualsiasi cambiamento, va considerato come creatore di opportunità notevoli; 2. La perdita di potere da parte di editori e giornalisti e un forte ridimensionamento all’interno del corpo sociale: anni fa i giornalisti erano gli unici ad avere accesso alle fonti, ora questa possibilità è estesa a tutti; un tempo i giornalisti decidevano cosa dovesse essere pubblico e cosa no, ora tutti possono rendere pubblico ciò che preferiscono. Inoltre, gli editori erano gli unici ad avere i mezzi per governare la comunicazione di massa, gli unici con possibilità finanziarie ed economiche; oggi chiunque può essere editore di sé stesso e di altri, distribuendo contenuti. Un tempo vigeva un disprezzo nei confronti dei lettori, mentre oggi i lettori sono sollecitati ad esprimersi e non solo: dialogano con i giornalisti attraverso i social network e i siti dei quotidiani; 3. La presenza di quasi capovolgimento dei ruoli fra il giornalista e il cittadino lettore: la dinamica, che in maniera riassuntiva, chiamiamo “top down” (il giornalista dice al lettore cosa deve leggere) si incontra e scontra con la dinamica “bottom up” (il lettore informa il giornalista dei propri interessi di lettura); infatti, ogni consumo di news online è tracciato grazie ai dati. In Italia, c’è poca considerazione agli analytics; l’attenzione dei giornalisti, ancora oggi, si riserva alle preferenze dei politici e altri, anteponendo il tornaconto personale: i risultati sono poi, infatti, disastrosi; 4. Il cambiamento comportamentale del cittadino fruitore: la rivoluzione digitale ha reso possibile la partecipazione dei cittadini alla costruzione dei contenuti, dunque, si usa l’espressione User Generator Content (UGC), la quale ha reso possibile la fruizione di tali contenuti su diverse piattaforme si parla di effetto Eco, inteso come viralità dei contenuti. Questa rivoluzione ha reso poi possibile l’accesso immediato e gratuito in modalità 24/7  gratuità dei contenuti online: 5 o Per accedere alla rete, si paga sulla base dei consumi o una tariffa fissa; o Si monetizza il nostro accesso con il datamining e la vendita di pubblicità profilata; o C’è una forte tendenza internazionale a limitare il contenuto free. Tutto ciò ha aumentato in maniera esponenziale l’interessamento al mondo delle news, in radio e televisione, delle versioni online. 5. L’ibridazione tra giornalismo professionale e Citizen Journalism: questa dà origine ad una nuova versione dell’informazione, intesa come fruizione che passa attraverso un mix dei vecchi e nuovi media digitali. Ormai, in diversi paesi, esistono agenzie specializzate nella vendita di quotidiani (d’informazione) dei grandi network; 6. La nascita di nuovi soggetti all-native digital nel mercato della comunicazione: l’informazione online ha subito un enorme crescita; o Blogger, per informare, commentare; o Aggregatori, algoritmi che setacciano la rete e danno le basi per la costruzione di un giornale specializzato; o Pure players, news brand attivi online senza un passato di carta (The Huff. Post, Media Part). 7. L’informazione 24/7: fino all’avvento della CNN (Channel News Network, nata del 1980), non era possibile per un cittadino avere copertura e disponibilità delle news 24/7, oggi è la norma e lo è in modalità bidirezionale (le news sono aggiornate e i brand vengono informati continuamente; questa si realizza anche grazie all’attività di posting, i cittadini che scrivono in modalità 24/7). Si parla addirittura di un ciclo di notizie dei minuti che compongono le ventiquattro ore del giorno; 8. L’informazione on-demand: il digitale ha introdotto l’interattività, che ha generato la possibilità di avere le news on-demand sui più diversi device. L’interattività del palinsesto, che ha a lungo scandito i media, convive con nuove forme di fruizione. Esempio: la mattina i pendolari sono alla ricerca di news veloci sullo smartphone, all’ora di pranzo il picco di notizie viene dai computer degli uffici, la sera invece, da tablet o smartphone. Uno degli esempi migliori è quello del Data Journalism, ma l’altro aspetto che emerge è che i lettori non si accontentato più, vogliono degli approfondimenti. Esiste un data base, costruito da un “Pro Publica”, un famoso puro player, in cui sono raccolti i finanziamenti delle case farmaceutiche dei cittadini americani; ovviamente prima del web questo non sarebbe stato possibile; 9. La rivoluzione del linguaggio: SMS, chat, Tweets, stanno costruendo una nuova lingua, che contempla anche gli emoticon. Twitter ha addirittura un suo dizionario, in quanto, per rispettare le 280 max servono dei termini che esprimano i concetti (1 per 4 parole). Con questo avvento, i giornalisti hanno dovuto adattarsi con velocità, così come accade ai giornalisti televisivi; 10. La nuova opinione pubblica: consenso e dissenso, adesione e rifiuto, si manifestano liberamente in rete e/o vengono incanalati nella formazione dell’opinione pubblica. I giornali non possono più ignorare questo fenomeno, che ha influenzato anche l’approccio alla visione politica. Esempio: in Egitto, il blog We Are All ha fatto da catalizzatore delle voci degli oppositori che non trovavano voce attraverso i media tradizionali durante i conflitti civili che ha visto protagonista il territorio. Utilizziamo le 5 W questions per capire di cosa ci occuperemo: 1. Who: ci occuperemo dell’open Journalism, di noi, per diventare utenti/cittadini consapevoli e non più utenti passivi; 2. What: poi, dell’informazione, per, di e fra tutti senza più limiti spazio-temporali, complicanze di linguaggio e non ha più limiti di fruizione (stanziale come radio e stanziale immobile) 3. Where: ed anche, i luoghi, della varietà dei canali attraverso i quali si diffonde l’informazione (Social Newtork, blog, vlog) 4. When: anche, passato, presente e futuro si intrecciano all’evolversi dei mezzi e delle proposte elettorali 5. Why: infine, il perché dobbiamo diventare cittadini consapevoli. Cioè, la consapevolezza del cambiamento tecnologico ma anche dei cambiamenti sociali che il ditale induce; dobbiamo imparare per sapere, sapere per capire e capire per formarci un’opinione. Dunque, l’unico dogma di cui dobbiamo impadronirci è quello della curiosità. 6 Web Journalism Dobbiamo partire dalla fine dell’oligopolio, in quanto esistevano solamente radio, giornale e televisione. Oggi le news girano su più dispositivi, questo significa un numero maggiore di newsgiver, più scelta e quindi dovrebbe significare anche più concorrenza. L’insieme di tali fenomeni più l’input e output che il digitale consente, ha fatto si che il sistema di Internet alimenti, non solo il web, ma anche la radio, tv e giornali, non più e non solo nella loro dimensione online. È un mare in cui sfociano:  Un mare di notizie e informazioni, anche private  Fotografie amatoriali e professionali  Video largamente sgranati e di alta qualità Tutto questo intreccio, tuttavia, comprende verità e menzogne. Sono i singoli gruppi, editori, agenzie, tutti portano incessantemente “acqua al mare delle news”, che su web si declina in mille modi diversi. Per tentare un approccio corretto a questo universo, bisogna individuare gli elementi primari. Quando sono nati i quotidiani online? Dalla nascita, all’euforia fino alla glocalizzazione. Il primo sito web di un quotidiano italiano, nato due anni dopo gli esperimenti degli USA, compare nel 1994, in una storica cittadina di Cagliari. Il giornale, una volta posseduto da un signore sardo di quarant’anni, Niki Grauso, una personalità geniale, è stato il primo provider internettiano, che ha creato Italia Online, acquisita successivamente da Telecom. Questo sito, purtroppo, ha avuto vita breve, in quanto una ridotta diffusione della rete, non ha permesso di svilupparla e l’audience ristretta all’ambito regionale non ne ha favorito la diffusione e l’acquisizione di popolarità. Nella stessa estate del ’94 nascono i siti del New York Times, che contenevano recensioni, elenchi tematici, e il sito del Washington Post. Tornando in Italia, i primi quotidiani sono nati nella primavera del ’95, quali La Stampa, Il Corriere della Sera e La Repubblica, ed il 30 agosto, nasce anche il quotidiano comunista di Gramsci, L’unità, che decide di pubblicare online l’intero contenuto. All’epoca il digitale era guardato con diffidenza, perché sconosciuto e costoso per il personale, tecnologie e manutenzione. Soprattutto però, il sentimento principale era quello della paura: gli editori avevano paura, timore, per le vendite fisiche, per i limiti della rete che era lente e cara, rendendola poco attraente e scarsamente frequentata. Agli inizi, bisognava disporre di un abbonamento che costava 200.000 lire, quasi 300 euro attuali. Peraltro, internet offriva una grafica poco attraente, dunque, un anno dopo, La Repubblica, cavalca le elezioni con un sito sperimentale che genera 350.000 contatti in appena 30 giorni; decisamente ottimo risultato visti i tempi. Il 14 gennaio 1997, nasce La Repubblica, che proponeva contenuti aggiuntivi e sempre aggiornati. Segue La Gazzetta dello Sport nel 2000, e poiché il sito riscosse successo, di conseguenza, ci fu una crescita di risorse. Sempre però nel ’97, si contano 25 periodici, numerose agenzie e 45 digital magazine. Nel boom della new economy, 1998, quando persino Microsoft inizia ad investire, gli editori non possono fare altrimenti. Si parla di miliardi di lire: si pensi a Cataweb, che quota in borsa il proprio quotidiano, oppure a Fiat che crea il portale CiaoWeb e il gruppo Caltagirone, il quale, allo stesso modo, punta tutto sul proprio sito  i quotidiani hanno una crescita esponenziale del 200%. All’inizio del millennio si contano 56 agenzie di stampa e 78 quotidiani. Alla borsa di Wall Street, tuttavia, la new economy suscita delle perplessità: come si guadagna? Come si fidelizza e come si rimane sulla piattaforma? Alla fine, la competizione, che ha caratterizzato gli anni dal 1997 al 2001, ha visto i brand tradizionali affidarsi ai pure players; tutti, al momento, sono schiacciati dalla globalizzazione, ovvero players che offrono servizi globalmente di carattere locale. Gli italiani sono interessati alle news online e soprattutto, le consultano? Il Data Media Hub, un blog, il 5 agosto di quest’anno, ha consultato l’Eurostat (risorsa Europea dell’ISTAT) sull’utilizzo della rete da parte dei cittadini europei, confermando la scarsità di penetrazione di Internet nel nostro paese, dovuta anche alla carenza di disponibilità delle infrastrutture. Inoltre, i dati relativi alla lettura online di quotidiani e riviste in 7 6. Scossa molto forte al giornalismo e alla figura del giornalista: ormai il giornalista è una figura incompleta se non è in grado di presidiare i social media e non è in grado di gestire la velocità e le complicazioni dei social media. In sintesi, i social media hanno trasformato la macchina dell’informazione completamente, innescando quattro novità: 1. Fonti: le fonti si ritrovano perlopiù online (es. invasione della Russia, un delitto, ecc.); 2. Produzione: il giornalista deve essere SME del proprio giornale, quindi deve presidiare la propria parte di social per raccogliere informazioni preziose e curare quel pezzo di social media che si trasforma per lui in fonte; 3. Distribuzione: la distribuzione dell’informazione è socializzata non più dall’alto (top-down), ma anche dal basso (bottom-up); 4. Feedback: ogni storia giornalistica si arricchisce dopo la pubblicazione grazie ai contenuti del pubblico di lettori. Facebook Facebook è nato il 28 ottobre 2003 ad Harvard, ma quando è nato non si chiamava Facebook, ma Face Smash. Si trattava della sua forma embrionale fondata da Mark Zuckerberg, un ragazzo di 19 anni. Quando va online, solo gli studenti di Harvard vi si possono iscrivere. Questo primo atto di Facebook dura solo pochi giorni, perché viola i criteri di sicurezza, di privacy e di copyright, tuttavia è un successo: oltre 22mila foto e 45mila visitatori e i siti di Harvard vanno in crash. Il punto di forza di Face Smash è la comparazione di due studentesse per decidere chi è la più bella (Miss Harvard). Face Smash chiude e Zuckerberg si becca 6 mesi di sospensione da Harvard, ma lui non si scoraggia e pochi mesi dopo, nel 4 febbraio 2004, in collaborazione con Eduardo Salerin e Andrew McCollon, lanciano Facebook. La partenza è comunque in salita, perché, neanche dopo una settimana, tre studenti di Harvard – Divyan Narenda e i gemelli Wimnclevoss – lo assaltano, perché lui aveva promesso aiuto per HarvardConnection.com, gli fanno causa e nel 2008 ottengono un risibile risarcimento  hanno ottenuto 65 milioni di dollari, ma, se poi pensiamo al valore attuale miliardario che ha raggiunto il business di Facebook, è abbastanza ridicolo. Nonostante le accuse e la denuncia, TheFacebook.com non si arrende e nel marzo 2004 metà della popolazione di Harvard è connessa e, molto rapidamente, questo primo social media della storia conquista Stanford, la Columbia e Yale, cominciando ad allargarsi al resto delle università degli USA. Due mesi dopo, anche la Boston University e il Boston College si aprono al social, Facebook è aperto anche ai licei e alle aziende. Dal 26 settembre 2006 chiunque al di sopra dei 13 anni può iscriversi. Notiamo quindi come un fenomeno chiuso alle università impiega solo qualche anno per diventare un fenomeno globale. Oggi Facebook ha 2,8 miliardi di utenti mensili attivi. Ovviamente, pur considerato polveroso, essendo stato il primo dei social media, gode tuttora del vantaggio tipico in tutti casi del first mover, ovvero di chi per primo ha aperto un nuovo segmento di mercato. Come gli altri social media, Facebook ha avuto un clamoroso successo operativo: da sempre rete di studenti per studenti, è diventato un gigantesco database appetito dalle aziende, prima di tutto, che hanno visto Facebook come un potente veicolo pubblicitario, ma anche dalle forze politiche  sono uscite delle zone opache nel percorso di Facebook, in particolare c’è un caso piuttosto famoso, ovvero il caso di Cambridge Analytica. Cambridge Analytica, fondata nel 2013 da un miliardario statunitense, fondatore di un sito d’informazioni dell’estrema destra, gestita da uno dei consiglieri di Donald Trump. Analitica raccoglie e analizza i dati relativi ai social media e in particolare Facebook; le informazioni sono elaborate da algoritmi che creano il profilo di ogni singolo utente che richiama la psicometria, capace di analizzare comportamenti, abitudine e aspetti della personalità. Le informazioni dicono siano anonime e aggregate in maniera generale su richiesta. Tornando al caso, questi algoritmi possono spesso risalire a nome e cognome dell’individuo e proporre prodotti personalizzati, in quanto hanno creato un sistema di micro-targeting comportamentale  costruire prodotti personalizzati, mirati, che vanno ad agire sulle emozioni, anticipando le risposte degli utenti. Il fondatore A. Kogan sostiene che bastano 70 “mi piace” per conoscere una persona rispetto ai suoi amici, se i “mi piace” sono 150 più dei genitori, se sono 300 più del partner e, andando avanti, si conoscono più cose sull’individuo rispetto a quanto egli sa di se stesso. Nel 2013, Alexander Kogan realizza l’app ThisIsYourDigitalLife, un’applicazione che permette di realizzare profili psicologici e di previsione del comportamento, basandosi su attività online. Il trucco sta nel 10 fatto che è un’app gratuita e che permette di fare login con Facebook: l’utilizzo di Facebook login regala l’indirizzo e-mail, l’età, il sesso e altre info private. Nel 2015, circa 270mila persone si sono iscritte con Facebook login. Inoltre, Facebook login permetteva di raccogliere dati anche sugli amici della persona, senza che questi ne sapessero qualcosa. Ciò che è stato estrapolato sono stati luogo di residenza, interessi, foto, posti visitati per un totale di 50milioni di profili Facebook. Lo scandalo si è aperto quando Kogan ha condiviso questi dati con Cambridge Analytica violando i termini d’uso di Facebook: l’app proibisce ai proprietari delle app di condividere i dati raccolti con società terze. Nel caso di Cambridge Analytica, la sospensione di Facebook è arrivata molto tardi e i giornali The Guardian e il New York Times, entrambi giornali di sinistra, accusano Facebook di aver nascosto la faccenda, facilitando il lavoro della Russia nel fare propaganda contro Hilary Clinton a favore di Trump. Si tratta di una sineddoche (una parte per il tutto) molto preziosa, che ci insegna:  Tutto quello che si posta sui social media viene tracciato  È utilizzato per mettere a fuoco il profilo di ogni singolo utente  Questo meccanismo di profilazione ha un tale valore commerciale che non solo compensa la gratuità del profitto, ma genera ingenti profitti  Ha un enorme valore sociopolitico perché canalizza contenuti finalizzati alla conquista del consenso Da qui, risulta centrale l’importanza dell’informazione digitale di Facebook: due anni fa, il CENSIS ha stilato una lista delle prime 10 fonti di info preferite dagli italiani: 1. Telegiornali 2. Facebook  stacco del 20% dai giornali online 3. Motori di ricerca 4. TV all news 5. Quotidiani cartacei 6. Giornali radio 7. Siti web di informazione 8. Youtube 9. Quotidiani online 10. Televideo RAI I media tradizionali hanno tentato di superare Facebook non riuscendoci, perché ogni volta che i quotidiani sono riusciti a raggiungere Facebook, lui ha cambiato algoritmo, allontanandosi sempre di più. Nel 2015, Facebook non ha dirottato più i siti web dai giornali dopo lo scandalo di Cambridge Analytica. Dopo lo scandalo anche delle fake news, Facebook ha deciso di diminuire la diffusione degli articoli a favore dei post condivisi dai post degli amici, anche se i giornali hanno continuato ad imbottire Facebook con i loro articoli. La ricerca del novembre 2019 condotta da DataMediaHub mostra le pagine Facebook di dieci quotidiani e fanpage: è venuto fuori che tutti gli old brand postano su Facebook una grande quantità di contenuti. Al top c’è Il Giornale con 133 post al giorno, seguiti da Fanpage e Il Giorno. Possiamo quindi dire che Facebook è una “discarica” di post, ma non c’è dialogo con i lettori, quindi è una modalità top-down, vecchio stile. La riprova è che il quotidiano con il maggior numero di risposte è Fanpage, che, però, in tre mesi ha generato 54 risposte. Il quotidiano con il maggior tasso di engagement è Open, la testata fondata da Enrico Montana e ciò che emerge è che non vi è alcuna correlazione tra il tasso di engagement e le testate giornalistiche  non si riesce ad avere un approccio ai social con sostanziale regolarità, quindi non ci sono condivisioni e neanche un investimento sui social media editors. Twitter Fino a poco tempo fa, si diceva “ma non bastava Facebook?”. Twitter è nato nel 2006 con 10 milioni di utenti solo in Italia e vale un terzo di Facebook, eppure si sente sempre più spesso parlare di Twitter sui giornali, alla TV, alla radio e anche al bar, ma come mai? Twitter nasce a San Francisco il 13 luglio 2006 da un’idea di Jack Dorsey, 30 anni. Egli pensa ad una piattaforma online che permetta lo scambio di SMS, per non dover più spendere. Propone il suo progetto a Odeo, una società che registra e condivide podcast. I fondatori supportano lo sviluppo del progetto e il 21 marzo 2006 Dorsey pubblica il primissimo tweet “Just setting my twttr”, ispirandosi ad un sito di fotografie, ovvero Flikr. Tuttavia, presto lo ribattezza Twitter, dal verbo to tweet, che significa “cinguettare”, quindi una breve sequenza di messaggi. 11 Nove mesi dopo la nascita, Twitter investe 11mila dollari per posizionare alcuni maxischermi nei corridoi che danno accesso al South ..., un festival musicale e cinematografico che dal 1977 si tiene ad Austin, capitale del Texas. Per tutta la durata del festival, compaiono i messaggi live del social. È un boom di iscrizioni, perché gli utenti triplicano e nel 2007 si arriva a 100 milioni di tweet. Nel corso degli anni, Twitter cambia forma. All’inizio, si presenta con un sistema di messaggistica istantanea con un limite testuale (non oltre le 140 battute, oggi sono 280). Il limite di battute e la forte focalizzazione sull’istante portano effettivamente a definirlo l’SMS di Internet, ma già si vedono le differenze con gli SMS classici, perché Twitter punta sulla dimensione pubblica del messaggio ed è tutto molto più semplice rispetto a Facebook: se su Facebook bisogna essere amici di qualcuno per inviargli un messaggio (principio delle relazioni simmetriche), su Twitter non è necessario essere amici per mandare un messaggio, a meno che l’account non sia privato (principio delle relazioni asimmetriche). Gli utenti vengono chiamati eggs, ovvero “ovetti” nel caso in cui non ci fosse un’immagine impostata. Twitter è un social che tende a creare molta dipendenza, perché è facile e veloce, inoltre ogni giorno vengono pubblicati 500 milioni di tweet da una media di 100 milioni di utenti con 1.6 miliardi di ricerche. Come Facebook, anche Twitter vale in borsa ed Elon Musk vuole acquistarlo con 44 milioni di dollari. Nel corso del tempo, Twitter ha sviluppato un vero e proprio modello di social networking con una grammatica di termini propri:  Following: abbonamento gratuito ad un altro utente i cui tweet vengono visualizzati immediatamente  Follower: gli utenti che seguono il nostro profilo  Mention: si può citare un altro membro di Twitter con @ ed instaurare un dialogo con lui  Hashtag: # si visualizzano facilmente tutti i tweet che parlano di uno stesso argomento. Ai fini del nostro corso è quest’ultimo il più importante. Gli hashtag sono stati proposti da Chris Messina per la prima volta come metodo più facile per organizzare le discussioni: il primo uso intensivo è stato con gli incendi della California del 2007. Un utente ha proposto #SanDiegoFire per segnalare i danni e tutti gli utenti hanno seguito il movimento. Siamo in presenza di un servizio di pubblica utilità ed è un esempio tipico di informazione dal basso. Sempre più di frequente gli # sono diventati importanti per le campagne di marketing, soprattutto quando nel 2013 Twitter ha introdotto i Trending Topics, raggruppando i tweet più popolari per argomento. La lista è stata paragonata alla lista di un giornale, anche se il paragone non regge del tutto, in quanto i Trending Topics sono compilati in parte da algoritmi ed esseri umani; le aziende possono comprare un trending topic per migliorare la visibilità, per sponsorizzarsi. Twitter ha un merito molto grande: ha portato nel mondo disintermediato dell’open journalism fonti che erano inaccessibili ai molti, ad esempio il Papa: ha un account Twitter @pontifex, lo stesso vale per il presidente degli USA e per i politici italiani, sebbene all’inizio lo utilizzassero per lanciare contenuti pubblicati altrove, mentre oggi lo utilizzano per bruciare le fonti tradizionali e dare notizie di prima mano o dialogare con i seguaci. Ad esempio, il 25 dicembre 2012, Mario Monti voleva candidarsi alle elezioni politiche, ma pubblicò semplicemente un tweet in cui annunciava di “salire in politica”. Talvolta, i politici rubano il lavoro a fotografi e giornalisti: ad esempio Pierferdinando Casini pubblicò una foto con la didascalia “siamo tutti qui” con i tre esponenti che appoggiavano il governo Monti (Alfano, Bersani e Casini). Dopo questa foto, i fotografi erano stati tenuti fuori da Palazzo Chigi. Un altro esempio è l’Inauguration Day dopo la vittoria di Obama, dove si è raccontato l’evento con una raccolta di foto degli ospiti più importanti  questo tema di foto amatoriali VS foto ufficiali interessa moltissimi ambiti. In ogni caso, il segmento giornalistico in cui Twitter ha introdotto più innovazioni è il breaking news, un modo di interrompere qualunque processo per dare una notizia importante. Il breaking news beneficia di Twitter, soprattutto in caso di calamità naturali, guerre o esplosioni. Questa capacità è venuta fuori nel 2007 con gli incendi della California  messaggi in tempo reale La capacità di Twitter di dare scoop, quindi di dare un’esclusiva, si è realizzato nel 2009, quando un aereo della US Airways è planato nel fiume di Manhattan. Un utente di Twitter si trovava su un traghetto lì vicino, ha scattato la foto e l’ha pubblicata online  è la prima testimonianza di un evento fotografato, celebrato anche nel film Sully, dal nome del capitano che ha planato. La vicenda dell’uomo è stata ripresa dai giornali in tutto il mondo. Durante il terremoto di Tahiti e lo tsunami in Giappone, i primi alert sul sisma sono arrivati da semplici utenti che, pochi minuti dopo la scossa, hanno scritto un tweet con un testo e un’immagine poi visualizzata da milioni di utenti. Sempre nel 2009 Twitter fece comprendere la sua potenzialità: la prima fonte ad informare del terremoto all’Aquila fu il ventisettenne Vincenzo di Baggio, che twittò Terremoto!. La stessa cosa è successa durante il terremoto in Emilia-Romagna, dove le persone hanno raccontato la loro notte sismica. Su questa vicenda sono stati condotti degli studi: l’hashtag #terremoto è stato mappato ed è 12 Stanford, conosciuto durante la sua esperienza lavorativa da Ernst & Young. Nel settembre 2007 Koum e Acton lasciarono Yahoo per viaggiare nell’America Latina e a fine 2008 fanno domanda per entrare a Facebook, ma senza successo. Nel gennaio 2009, Koum compra un Iphone e rimane colpito dalla forza dell’App Store e riflette. Il 24 febbraio 2009 Koum e Acton creano WhatsApp Inc. L’idea originaria è quella di modificare la rubrica del telefono per inserire lo stato. Questa è l’idea giusta al momento giusto perché, di lì a poco, Apple inserirà le notifiche push al cambio dello status, all’inizio disponibile solo per gli utenti Apple. In maniera involontaria, Koum crea un servizio di instant messaging con 250 mila download in poche ore. A questo punto, Koum si reca da Acton, che sfrutta il network relazionale, contatta tutti i suoi colleghi di Yahoo per finanziare il progetto, aiutati poi da Sequoia Capital. Durante una cena, Zuckerberg propone a Koum e Acton di acquistare Whatsapp per 19 miliardi di euro. Koum prende tempo e ne discute con Acton e nel 2014 accetta. La notte prima, buca una ruota e si salva per miracolo e decide di firmare di fronte all’edificio dove lui e sua mamma prendevano i buoni pasto per mangiare. Nel 2018, Koum e Acton se ne vanno perché irritati dalle politiche sulla privacy di Facebook. Oggi su WhatsApp sono presenti tutti i media player e tutti i contenuti sono condivisibili anche su quest’app. Secondo il Digital News Reporter, il quale ha intervistato molte persone in paesi diversi, è emerso che l’uso di WhatsApp è triplicato rispetto all’inizio, insediandosi soprattutto nei giovani. Questo perché: 1. In alcuni paesi come Malesia e Turchia, la crittografia rende WhatsApp un luogo più sicuro rispetto ad esempio di Facebook, soprattutto nei dibattiti politici; 2. I consumatori sono scoraggiati dai dibattitti tossici e dalle notizie inaffidabili, quindi scopriamo che le reti alternative forniscono più leggerezza, privacy e, di conseguenza, i consumatori spostano la conversazione sulle applicazioni di messaggistica, dove c’è la certezza di non avere a che fare con sconosciuti. Agli old media non è sfuggito questo cambiamento, che ha posto enormi sfide alle News Agencies, in quanto dati privati, non condivisi, facendo diventare impossibile correggere qualsiasi informazione potenzialmente errate. Noi abbiamo solo la possibilità di sapere il numero di click ma non possiamo sapere chi ha cliccato, da chi a chi e nemmeno sappiamo se l’utente ha letto il messaggio inviato ma, soprattutto, è impossibile monitorare il flusso su WhatsApp. 27/10/2022 Visual Journalism Siamo nell’ambito dell’immagine e della cultura dell’immagine. Il giornalismo italiano non ha mai avuto una cultura dell’immagine: ciò è perfettamente allineato con la nostra nazione in tutto e per tutto; dallo Stato alla politica, l’Italia ha visto prevalere la cultura della parola. Nel panorama giornalistico italiano, solo il giornale Epoca di Mondadori si ispirava al quotidiano americano Life, grande e importante quotidiano fotografico, mentre, per il resto, le immagini sono sempre state vissute come un accessorio del tutto marginale. Si pensi al terremoto del Friuli, dove non fu mandato nessun fotografo del Corriere della Sera, nonostante ne avessero a disposizione undici. Negli ultimi anni, la situazione si è modificata, ma resta nettissima la superiorità della parola. Tuttavia, quando c’è l’uso dell’immagine, spesso non se ne fa un uso accurato, questo accade specialmente nei quotidiani americani.  La fotografia doveva avere e ha tutt’oggi il valore di notizia, di racconto, in quanto doveva rispondere alle leggi di quello che chiamiamo fotogiornalismo, cioè un racconto giornalistico per immagini. Tutto questo è un paradosso, soprattutto se pensiamo all’Italia che, per secoli, è stata succube della cultura dell’immagine, in particolare nel caso dell’arte, consegnandoci titoli importanti.  Lo scettro della cultura dell’immagine è ora di proprietà di Hollywood: grazie all’industria cinematografica, l’America ha dato un impulso straordinario alla cultura dell’immagine, premiando l’intero settore. In effetti, se nel paese si vuole documentare la storia di una persona, lo si fa per immagini. La perdita e successiva conquista del primato ci insegna come la cultura dell’immagine sia Pop, mentre quella della parola è Snob, dunque autoreferenziale; la prima funzione è relegata alla tv e ai social media ma, al principio era solo dedicata alla borghesia.  Tra l’epoca e la base sociale, c’è stato un vuoto in mezzo, di cui è anche stato oggetto di riso Silvio Berlusconi, il quale decise di puntare tutto sull’immagine e poco sulla parola nel momento in cui decise di scendere in politica. È stato deriso, dopodiché imitato, così com’è successo a Matteo Renzi, il quale ha 15 giocato sul lavoro d’immagine fino ad arrivare a Giuseppe Conte, che è arrivato alla guida del paese affiancato da Rocco Casalino: quest’ultimo ha puntato però tutto sull’immagine sbagliata. Dunque, grazie queste prime spinte e le rivoluzioni digitali poi, l’Italia è tornata a lavorare su questo aspetto. Ci è voluta la rivoluzione digitale per far rinascere questa cultura, in cui lo smartphone è il più grande piccone culturale di quest’epoca e l’editoria professionale è costretta ad inseguire il Self Publishing, perché oggi importano di più immagini e video di privati, piuttosto che quelli forniti dalle grandi testate giornalistiche. Una curiosità in più potrebbe riguardare il fatto che non esistono più le macchine fotografiche pocket-size, perché il digitale ha sconvolto anche il settore della fotografia e ha toccato con il self publishing le realtà editoriali.  Ma questo fenomeno quando è nato? Ci sono due pietre miliari importanti da ricordare. 1. Un pioniere inconsapevole, Abraham Zapruder, nasce a Covel, in Ucraina, è immigrato negli USA ed è un imprenditore tessile. Il 22 novembre del 1963 ha 58 anni. Quel giorno, come tutti, va a lavorare a Dallas e, sotto le finestre della sua azienda, sfileranno le auto di JFK e della First Lady. Pur consapevole di ciò, dimentica di portare con sé la cinepresa Bell and Howells. Allora, la sua impiegata, Marylin Sitzam, lo convince a tornare a casa a prendere la telecamera. Una volta recuperata, scende in Delay Plaza, filma il passaggio del corteo presidenziale, sale sul muretto di cemento e in 22 secondi fissa per sempre le uniche immagini dell’assassinio del presidente Kennedy avvenuto alle 12:30 del 22 novembre 1963. Tali immagini faranno il giro del mondo e rimarranno nella storia. Questo è un tipo di video sharing tramite telegiornali e organizzazioni televisive. 2. Pioniere più consapevole, Giannis Krums, nasce a Riga, in Lettonia ed è negli USA da quattro anni. Il 15 gennaio 2009 ha 23 anni, mentre è sul traghetto che attraversa il fiume Hudson che lo porta a lavoro e, nel frattempo, ragione su come aumentare il numero dei suoi followers con il suo iPhone: quella sera da 170 saliranno a 11.000. Nell’andare in New Jersey, di fronte al suo traghetto vede un aereo adagiato sul fiume  è il caso del famoso Airways Bus, aereo che è stato far atterrare sull’Hudson per salvare la vita a quelli a bordo. Lui inquadra uomini, donne e bambini, in piedi sulle ali dell’aereo. La sua immagine fa rapidamente il giro del mondo e, come il caso precedente, entra nella storia. Entrambi i casi sono importanti perché battono sul tempo l’intero sistema giornalistico italiano perché sono costretti a pubblicare un contenuto di un Citizen journalism. Senza lo scoop di Krums, non saremmo probabilmente a questo punto. Oggi, grazie a lui, sia Facebook che Twitter stanno diventando uno spazio editoriale many-to-many. Successivamente, c’è una terza pietra miliare che rientra nella dimensione di valenza editoriale ed è quella che stiamo per esaminare soffermandoci non su Facebook, non su Twitter, bensì su YouTube. Youtube YouTube nasce il 23 aprile 2005, alle ore 20:27. Quel giorno, in quel momento, Jawed Karim, uno dei tre fondatori, assieme a Chad Harley e Steve Chen, posta il primo video della durata di 19 secondi con titolo “Meet me at the zoo”, in cui davanti alla gabbia degli elefanti dello zoo di San Diego Karim saluta gli animali. Da quel giorno in poi, l’intero sistema mediatico globale è stato sconvolto. L’11 marzo 2011, dunque sei anni dopo la nascita, un terremoto che colpisce la costa orientale del Giappone innescando uno tsunami danneggiando persone ed economia. Tutti i media del pianeta coprono l’evento, tra loro c’è anche YouTube: i 20 video pubblicati su YouTube vengono visti più di 96 milioni di volte; quasi tutti i filmati sono stati girati e postati da testimoni oculari e il più famoso è stato girato dalla telecamera dell’aeroporto di Sendai. Questo terremoto ha normalizzato il fenomeno che un anno prima si era manifestato ad Haiti, i cui video erano arrivati proprio da cittadini e, ancora una volta, non da componenti di organizzazioni giornalistiche o agenzie di stampa. Tornando al 2011, questo fenomeno conferma che YouTube sta diventando una piattaforma di video news importantissima, tant’è che Google, acquista il 9 ottobre 2006 il sito per 1.650 milioni di dollari pagando con le azioni, una cifra che oggi appare ridicola se paragonata alla proposta di Elon Musk per Twitter. Dunque, i tre fondatori diventano grossi azionisti di Google, Ma come funziona YouTube e quali sono i temi? 16 Il PURE, un’azienda specializzata in ricerche di mercato e sondaggi, ha preso in esame per 15 mesi il settore attualità e politica del social, illustrando risultati inequivocabili: c’è una relazione simbiotica tra i cittadini e YouTube, ma anche i media tradizionali postano sulla piattaforma. Potemmo definirlo un canale video di news on-demand, ma non è sempre chiara la provenienza dei video e non va sempre data per scontata l’affidabilità.  Il PURE fissa sette punti chiave:  1. I video più popolari riguardano sconvolgimenti politici e disastri naturali  2. I video di news hanno una durata più effimera rispetto a quelli di intrattenimento ma spesso i superano nei click 3. Più di 1/3 di video sono stati pubblicati da gente comune  4. Il 39% dei video prodotti professionalmente sono postati da gente comune 5. Più del 58% sono stati sottoposti ad un processo di editing ma ben il 42% è andato online non editato 6. Nel segmento news di YouTube non ci sono star 7. La durata media dei video più popolari è di 2.01  La piattaforma può essere utilizzata come leva di marketing, come un serbatoio per attingere a video comuni, ma soprattutto come una possibilità per generare entrate. Dunque, l’app sta sviluppando partnerships con gli editori e vengono forniti video customizzati, il che ha portato YouTube a diventare il terzo destination site scelto e più visitato al mondo, dietro Google e Facebook.  Ogni mese accedono a YouTube oltre 1,9 miliardi di utenti, sono rilevate più di 1 miliardo di ore sulle piatteforme, ogni minuto vengono pubblicati oltre 500 ore di video e sono oltre 4 miliardi al giorno i video visti, di cui 1/3 provenienti dall’USA. Il 71% di utenti naviga su YouTube ogni giorno. Ormai Youtube è diventato un broadcaster televisivo: con questa logica, ha creato un Broadcast Program che incoraggia la riproduzione di contenuti da parte di vecchi e nuovi content, questo perché il rischio di impresa ricade sui partner, i quali dopodiché devono fare revenue sharing con la piattaforma distributiva. Oggi, Youtube è una piattaforma multichannels, non dissimile dai grandi network nella parte di intrattenimento ed è molto utilizzata anche sulle smart TV. Non a caso, attraverso la concessionaria di advertisement, YouTube raccoglie pubblicità con logica commerciale.  Come ha dichiarato un ex membro della rai, Google ha superato la Rai ed è il secondo operatore di Mediaset. Ken Doctor, esperto del settore, ha raccontato molto bene questo fenomeno su Niman Journalism Lab, una delle sue opere, che individua sei ragioni per la crescita: 1. Denaro: la pubblicità ama i video 2. Piattaforme: la loro moltiplicazione e la conseguente moltiplicazione degli schermi ha aumentato il consumo di video 3. Tecnologia: il costo per un collegamento in diretta via Skype o Zoom, Teams o Google Handout è zero; la trasmissibilità dei video è sostanzialmente free 4. Libertà: visione non lineare e dilagante  5. Semplicità: è facile fare video e i reporter che maneggiano da sempre le news oggi le filmano anche  6. News: esse sono il core business del giornalismo; la multimedialità obbliga a gestirle e rendere disponibili su tutte le piatteforme. Il che ci porta ad immaginare che non sia del tutto impossibile assistere in un futuro ad una convergenza tra grandi Tv e grandi giornali. In questi giorni una delle più grandi società di editing di quotidiani - il canale Fox – sta pensando di far convergere in un’unica società carta stampata e televisione. Questo perché si cerca un potenziamento dell’offerte sul digitale in rete per arrivare a raccogliere più pubblicità.   Un report chiamato The Video Revolution, scritto da e pubblicato da CIMA (Center for International Cinema Assistance), illustra otto aspetti particolarmente significativi: 1. Durante la primavera araba sono stati postati 100 mila video e i top 23 sono stati visti 5,5 milioni di volte  2. Bambuser, un sito svedese che permetteva di fare dirette riceveva 6 mila video al giorno, 25% relativo a situazioni di protesta  3. I 10 video più cliccati dello Tsunami sono stati visti oltre 135 milioni di volte  4. Il video del sindaco Arturus Zuokas è stato visto 5,6 milioni di volte (Arturus ha schiacciato un’auto in sosta con un carrarmato) 5. Il video più cliccato di Gheddafi è stato visto 2 milioni di volte 17 Ma cos’è un blog, com’è nato e quali sono le sue funzioni? È un sito internet che si può gestire grazie al CMS (Content Management System), un software che rende semplice pubblicare testi, foto, video. Al suo interno, si scrive come su una pagina word e poi il testo compare nel blog diventando pubblico, seguendo un andamento cronologico: in testa il post più recente, gli altri a seguire. Il nome blog viene da Weblog, ovvero diario della rete. Il blog si può attivare molto facilmente, assomiglia ad un diario e può essere più o meno aperto ai commenti di chi lo visita. I blog ormai sono milioni ed alcuni nati quasi per caso, poi sono riusciti a guadagnare vasta popolarità fino a diventare dei business profittevoli, questo perché hanno conciliato popolarità ed autorevolezza. Blog è un neologismo inventato nel 1995 da John Barger, 44 anni, programmatore dell’Ohio che ha coniato questo termine per descrivere il processo di Blogging the web: il suo progetto Robot Wisdom Site consisteva nell’inserire saggi, link sulle tematiche di James Joyce, l’intelligenza artificiale, la storia, la web culture, l’hyper text design e i trend tecnologici. Tuttavia, il New York Times attribuisce la paternità della creazione del blog a Justin Hall, uno studente di 20 anni della Pennsylvania che nel 1994 mette online Justin’s links from the underground, una sorta di prima mamma del neonato web. Tenendo conto che nel ’94 i motori di ricerca non esistevano ancora, i blog già nel 1997 diventano una gran moda e un anno dopo, nel 1998, il blog evolve verso la forma odierna grazie all’Open Diary, un embrione di social media che pubblica diari personali ed è curato da Blues e Susan Ableson, già conosciuti come The Diary Master&Mistress. Questo embrione, che arriva ad ospitare 5 milioni di blogger, chiude nel 2014 e rinasce nel 2018. Questo è il primo esempio nella storia del web della comunicazione orizzontale, ossia il primo esempio della interazione tra gli utenti. La seconda svolta arriva il 2 gennaio del 2000 dall’Ohio, quando lo studente Adam Kontrass diventa il primo video blogger della storia: egli racconta non solo con le parole, ma anche attraverso video il suo viaggio verso la California, dove va a cercare fortuna e diventa un musicista molto apprezzato. The Journey è il nome del suo videodiario, tutt’ora online, che egli aggiorna con un paio di posta alla settimana. In Italia, il videoblog arriva nel 2001, quando c’è un fiorire di sistemi gratuiti per gestirli (MySpace, Altervista, ecc.). Un anno dopo, il settimanale News Week scrive che i blog cancelleranno i media tradizionali: pur essedo esagerata, la profezia non è così infondata. Nel 2003 con Google, la pubblicità entra nel blog, riuscendo così a monetizzarne i contenuti. Più tardi, quattro anni dopo, 10 blog su 100 generano reddito e nel 2010 si contano più di 70 milioni di blog in tutto il mondo. Oggi sono 440 milioni. Che cosa si legge sui blog? Oltre a quelli di news, 4 sono le tipologie: 1. Il blog diario: il blog racconta sé stesso day by day; 2. Il blog tematico: blog su argomento specifico (cinema, viaggi, make-up); 3. Il blog letterario: blog dedicati a libri, film o telefilm; 4. Il blog aziendale: blog attraverso il quale un brand dialoga con i consumatori. I blog giornalistici sono quelli più importanti, tra cui The Huffington Post, The Daily Beast, Drudg Report, mentre in Italia c’è DagoSpia. I blog americani sono profittevoli, cioè vuol dire che guadagnano mentre DagoSpia è in perdita, anche a causa delle spese legali per far fronte alle querele. Come nascono i blog giornalistici? Seguendo le orme delle radio, i blog giornalistici vogliono rompere la cappa dell’informazione ufficiale, come è successo nel caso della radio e del monopolio statale. Nel caso dei blog, si punta all’oligopolio dei media. Tuttavia, essi nascono anche per dare voce ad un singolo o a piccole comunità organizzate. All’inizio snobbati, poi temuti, infine desiderati, i blog sono divenuti come oggetti di corteggiamento che hanno portato, in alcuni casi, alle nozze com Daily Beast e News Week, generando forti flussi di denaro come nel caso di Huffington Post. In America, sono ancora i più grandi antagonisti della stampa, mentre in Italia sono un puro strumento narcisistico (es. Il Post di Luca Soffri, L’Inchiesta di Christian Rocca). Ad ogni modo, i blog appaiono come attori irrinunciabili nel sistema dei media e, negli ultimi anni, la loro presenza si è normalizzata, ma non possono essere comunque considerati sostituitivi delle grandi testate giornalistiche, li possiamo considerare complementari in quanto hanno caratteristiche diverse dai giornali. Ad esempio, in America, tali aspetti di complementarità sono:  Velocità  Quantità  Un preciso focus editoriale  Lo stile soggettivo e “ruvido” da conversazione 20 Un post di un blog ha poco a che vedere con un articolo del Times. Aldilà delle contrapposizioni ideologiche, la verità è che le due forme di giornalismo convivono, sperando che si continui così, perché la democrazia e il pluralismo hanno bisogno dei blog e della leggera disformazione professionale. Sui blog, si indica il pulsante “pubblica”, facendo sì che il CMS renda disponibile il contenuto online non solo dagli individui ma anche degli aggregatori, come appunto i Feed. Feed è un termine inglese che si riferisce all’azione di dare cibo agli animali (verbo to feed) e indica i canali che pubblicano i contenuti separandoli dalla loro collocazione originaria. Lo standard di feed più famoso è RSS (Really Simple Sindacation). I feed alimentano soprattutto gli aggregatori, i quali regalano tre grandi opportunità: 1. Permettono al singolo consumatore di essere continuamente aggiornato 2. Fanno risparmiare tempo, perché non devo cercare il contenuto che mi piace 3. Facilitano la ricerca mirata Dunque, essi rispondono al bisogno per eccellenza di chi naviga per rete: l’immediatezza. Inoltre, potremmo dire che i feed sono la leva attraverso cui post e aggiornamenti di un blog, sito o social media si propagano per la rete  se si pensa alla velocità con cui essi lavorano e alla vastità del territorio tematico, si capisce bene il loro contributo all’informazione digitale. Attraverso gli aggregatori, si scelgono gli items disponibili, assembrandoli e creando un giornale personalizzato:  Viene continuamente aggiornato  Si sfoglia  È gratuito  Permette di interagire, postando i commenti Quindi, gli aggregatori sono una componente importantissima, tant’è che le grandi testate hanno preso accordi per fare in modo che alcune loro funzioni premium si possano sfruttare sui blog, senza rimandare al sito della propria testata. Quali sono gli aggregatori più importanti?  Feedly: aggregatore che ha meglio performato dopo l’uscita di scena di Google Riddle. Ha avuto successo per la sua interfaccia intuitiva: nella colonna di sinistra trova l’elenco dei feed RSS a cui è iscritto, nella parte destra può consultare le notizie, aggiungerle ai preferiti e condividerle;  InoReader: ha la stessa interfaccia del precedente ma si distingue per la ricerca avanzata. Si possono seguire news feed ma anche post di blogger, content creators e quotidiani grazie alla funzione Discovery;  New Blur: ha una schermata divisa in tre colonne. A sinistra l’elenco di blog e portali seguiti, al centro l’elenco dei post e notizie, a destra si apre in dettaglio la notizia selezionata;  RSS Owl: è un software da installare su hard disk con interfaccia divisa in tre: a sinistra i feed seguiti, parte alta di destra con i feed seguiti e parte bassa i contenuti. Ha funzionalità avanzate a semplici, con motore di ricerca capace di scandagliare tutti i feed e i filtri automatizzano i contenuti più importanti. Esistono anche i news feed dei social media: da Facebook a Instagram, entrambi inventati da Adam Mosseri, il quale, appena assunto, aveva 25 anni e oggi è il CEO di Instagram dal 2018, con risultati impressionanti. Nel 2019 Instagram ha fatturato il 25% delle entrate di Facebook. Mosseri, per anni ha modellato e rimodellato l’algoritmo che analizza i comportamenti dei singoli utenti e poi propone ad ognuno un flusso di feed personalizzato. Questo lavoro dell’algoritmo consiste nel mettere del flusso personalizzato post capaci di ingaggiare e stimolare l’interazione. Il meccanismo di Instagram è che più iscritti ha, più feed ha: ogni iscritto potrebbe vedere circa 2000 storie al minuto, ma l’algoritmo decide che ne vedrà meno. Questa potenza del social media ha spinto Google ad eliminare Google Reader, riprendendosi però su Google News e YouTube: ogni nostro gesto in rete è tracciato, analizzato e utilizzato al fine di generare reddito, questo perché la profilazione si sposa con i messaggi pubblicitari. Concludendo con le news online, potremmo dire che l’area visual dell’OP è quella dove la rivoluzione digitale sta avendo effetti sovversivi, perché sono crollate le vecchie certezze, demolite le forze dominanti e tutto è di nuovo in gioco per l’informazione digitale. Ad esempio, TikTok ha colto le opportunità che gli si presentavano, ma, al momento, la supremazia sembra essere di YouTube, che arriva ad insediare lo showbiz televisivo. Instagram e Facebook hanno aperto scenari fino ad allora sconosciuto assieme a Twitter, che, in mano ad Elon Musk, raggiungerà presto i primi due. 21 Abbiamo così capito quanto vasta e differenziata sia l’offerta dell’informazione digitale e quanto sia dura la competizione, specialmente per gli editori tradizionali che hanno dato il via al capitalismo delle piattaforme (Google, Facebook…), ma, soprattutto, abbiamo capito che le news sono commodity, per cui serve una rivoluzione e revisione continua. Radio nel Web La radio nel web merita una menzione d’onore perché la radio è il primo mezzo di comunicazione di massa (nata nel 1920) ed è uno strumento imprescindibile e il broadcasting radiofonico è diventato soggetto principale nel campo di intrattenimento che informativa ma ha anche anticipato il web. In un’epoca come la nostra, nella quale bisogna essere tempestivi, coinvolgenti, intriganti e interattivi, la radio fa ancora sentire forte e chiara la propria voce rivelandosi la matrice editoriale del web. Abbiamo prova di questo definendola con gli aggettivi: 1. Tempestiva: più veloce e snella della tv, arriva rapidamente con le notizie. Può farlo in qualsiasi momento interrompendo bruscamente la trasmissione; 2. Coinvolgente: la radio permette di essere sempre coinvolti nell’ascolto senza che ciò impedisca di svolgere altre attività (guidare, cucinare, guidare, lavorare). Non richiede un elevato grado di attenzione per arrivare e il suo essere così diretta la rende estremamente coinvolgente quasi più del web; 3. Intrigante: un buon contenuto può tenere a lungo incollati all’ascolto di una stazione radiofonica, guadagnandosi molto tempo dell’individuo; 4. Interattiva: la radio lo è da sempre. Si pensi alle dediche musicali, la partecipazione ai talk shows, le segnalazioni sul traffico, le testimonianze durante le proteste, le rubriche degli esperti. Si fonda tutto sul coinvolgimento e interattività con gli ascoltatori. Inoltre, ogni radio ha la propria community a cui si possono applicare le stesse accezioni del web. Se prendiamo il modello di business Free to Air della radio, si finanzia con la raccolta pubblicitaria: la radio è una sorta di primo motore mobile dell’attuale sistema mass mediatico digitale. Inoltre, la formidabile spinta innovativa ha contribuito a modellare il paesaggio mediatico di oggi. Ad esempio, il 24/7 della radio è prototipale dei canali informativi digitali All News e del Web Journalism, il mix contenutistico della radio è l’elica del DNA tanto della Tv quanto del web: due mezzi che hanno poi aggiunto e sottratto dal modello radiofonico costruendo un proprio specifico linguaggio. Ancora, la radio è stato il primo strumento global e glocal a battere ogni record [1 ora 10 min registrazione, ecc.]. Per comprendere meglio questa realtà, è importante la visione di questi video:  The Boat that Rocked  film comico britannico e colorato che racconta l’epopea delle radio libere. Così si chiamavano all’inizio le radio che negli anni ’70 mandarono a frantumi il monopolio di stato (RAI, BBC). In Italia, si intitolava I Love Radio Boat. Le radio libere furono considerate eversive sia da Londra sia da Roma perché: o Bypassavano la legge o Rompevano gli schemi, libertà di parola e di parolaccia o Provocavano un gioioso senso di libertà  Onde Anomale: reportage che si riferisce al fenomeno delle radio libere. I giornalisti della RAI in questione sono andati nelle sedi di registrazione ritrovando Gerry Scotti, Platinette, Vasco Rossi, ecc. La radio ha inventato questo mondo nuovo. L’aspetto interessante è che il filmato si conclude con la finestra “informatica” (oggi mondo digitale). Vedendo questo filmato, noteremo le affinità con il clima che ha accompagnato la nascita della rete con trasgressione, ribellione e controinformazione, senza contare che, quando queste radio vennero legalizzate, aprirono la strada a pluralismo televisivo, di cui ha approfittato Silvio Berlusconi. Parassitarie e cannibali, aspetti primari della radio, che saccheggia i giornali per i contenuti. La stampa compare non solo sul web, ma anche nei programmi di news e musica. Dunque, è un aggregatore ante litteram come oggi lo sono le testate che riprendono contenuti di altre. Inoltre, la radio usa molto anche il telefono, sia voce che SMS, sia il web sia la televisione; assolve anche un ruolo di servizio pubblico, perché diffonde news a getto continuo, in particolare: o Sul traffico, con ISORADIO 22 online ad ore diverse con titoli diversi (sempre con parole chiave). Questo per vedere quale attirava di più e scegliere poi quello più accattivante. Questo ha generato la follia degli altri giornali perché gli articoli di quei giornali avevano più visualizzazioni sull’Huffington Post rispetto alle testate originali. 10/11/2022 Politico.com Si tratta di un sito statunitense nato a Washington il 23 gennaio 2007, in piena crisi dell’informazione. Lanciare una testata in quel preciso momento storico significa avere idee molto chiare e una buona dose di coraggio. È totalmente focalizzato sulla politica americana e dal 21 aprile 2015 ha un gemello europeo che si chiama Politico.eu che ha sede a Bruxelles. Politico è glocal. È nato grazie alla spinta di un giornalista del Washington Post, John Erris e insieme a Jim VandeHei e Robert Allbritton hanno fatto una specie di manifesto programmatico, dicendo che si sarebbero concentrati su tre arene: 1. Congresso degli Stati Uniti d’America, con il flusso costante dell’ordine del giorno; 2. La campagna presidenziale del 2008, la prima campagna elettorale di Obama, quindi c’era la grande novità di un afroamericano in marcia sulla Casa Bianca? 3. Il lobbying: in America è legale, sono attività di pressione sulle forze politiche parlamentari perché vengano approvate leggi o modificate. I lobbisti sono regolarmente registrati in Parlameto e sono portatori di diversi corpi sociali. “Non inseguiremo la storia del giorno” preferiscono mettere l’accento sulle back stories, cioè quelle che illuminano le personalità, le relazioni, gli scontri e le idee. “Ci spingeremo oltre i limiti dell’informazione tradizionale, condivideremo con i lettori tutto. Quello che sappiamo”. C’è un senso di community, un rapporto confidenziale con il lettore. Che tipo di giornalisti vanno ad ingaggiare? Decidono di partire contemporaneamente con il giornale online e un’edizione cartacea che è limitata a 25000 copie, distribuite solo nella città di Washington. Ingaggiano le migliori firme di Time, del NYT, Washington Post, USA Today e scelgono tre tipologie di reporter: 1. Chi da regolarmente notizie prima di concorrenti, lo scoop è un elemento costitutivo di Politico; 2. Chi ha il dono dell’interpretazione per collegare i punti in modi illuminati; 3. Coloro che si distinguono per la brillantezza del racconto, chi si sappia distinguere. Che lettori vogliono? o Una delle caratteristiche si chiama parla al potere, quindi chiunque voglia postare un commento online, può farlo e a seconda del favore o meno che riceve l’articolo verra pubblicato anche sull’edizione cartacea; o Un’altra caratteristica è talker, ovvero il reporter legge i commenti e risponde per tutta la giornata. Sono nati da subito multimediali e questo è anche ragione del socio Allbritton che ha otto stazioni televisive e diversi siti di informazione locale con sede a Washington. Web, tv, radio e stampa. Ma è nel web che raccoglie i risultati più rilevanti, il 50% dei ricavi. Un altro 40% deriva da PoliticoPro, il fiore all’occhiello di questo business, pensato per i veri influencer e organizzazioni potenti che hanno bisogno di sapere subito cosa sta succedendo e i dettagli. Il restante 10% arriva da eventi che organizzano e dove gli ospiti sono Obama o Boris Johnson. Tutto questo permette a Politico di avere uno staff di 200 giornalisti e un fatturato di oltre 113 milioni di dollari. Quindi il modello di business di Politico è triplice: 1. Pubblicità sul sito generalista 2. Abbonamenti 3. Gli eventi pay Politico.eu ha 100.000 abbonati che pagano un abbonamento annuo a salire, partendo da 7.000€ in su. Nel settembre 2021, Politico è stato acquisito dall’editore tedesco Axel Springer per 1 miliardo di dollari. “Politico ha rivoluzionato il giornalismo politico digitale e stabilito nuovi standard ed è diventato una vera stella guida”. Axel era già socio al 50% del Politico.eu, ora ha la maggioranza assoluta del capitale e ha avuto il controllo Protocol (sito web specializzato nel settore tecnologico). 25 Negli Stati Uniti, ProPublica è il punto di riferimento per il giornalismo investigativo. È una società newyorkese senza scopo di lucro, creata nel 2008 e collabora con oltre 90 organizzazione giornalistiche e vanta 4 premi Pulitzer (premio giornalistico più importante degli Stati Uniti). È nata grazie ad un atto di generosità di una coppia di miliardari californiani, Herbert e Marion Sandler. Ogni anno, la loro fondazione finanzia ProPublica con 10 milioni di dollari, il resto del denaro arriva dai lettori. Si occupa esclusivamente di questioni di interesse pubblico e di forte impatto civico, spesso condivise con la Cnn, il New York Times. C’è un reportage di ProPublica che si chiama “Deadly Choice”. firmato da Sheri Fink sui casi di eutanasia praticamente al Memorial Medical Center di New Orleans, durante l’emergenza Katrina. Questo lavoro è durato 4 anni, 400.000 dollari ma per la prima volta una persona non giornalista, era un medico donna ha ricevuto il premio Pulitzer per la sezione giornalismo investigativo. Daily Beast è un esempio di web magazine, nato nel 2008, dall’idea di Tina Brown, ex direttrice di Vanity Fair ed è stata anche direttrice The New Yorker. Ha avuto affidati 18 milioni i dollari dalla Interactive Corporation. Ha un design pulito ed efficace e aggrega contenuti di particolare interesse da altre testate online e crea pagine speciali monografiche per ricostruito fatti o eventi rilevanti. La stessa cura viene implementata sul fronte pubblicitario perché ha deciso di puntare su progetti speciali di comunicazione, che vengono confezionati su misura per grossi inserzionisti. Attira più di 20 milioni d visitatori unici al mese. Nato nel 1995 da Matt Drudge, Drudge Report è diventato famoso grazie allo scandalo Levinski: Monica Levinski era una stagista della Casa Bianca e Bill Clinton ha perso la testa per lei, la tresca è venuta fuori da Drudge Report ed è stato uno scoop caloroso. Da lì, c’è stato il processo a Clinton. Prima di occuparsi di informazione, Matt Drudge faceva il commesso, ora con Drudge Report aggrega link che coprono ogni area delle news. In America, è nato il sito “Drudge Retort”, una replica che lo prende in giro e controlla la veridicità di quello che lui mette online. La Francia, da un punto di vista digitale, è stata protagonista di un’esplosione di start up giornalistiche online. “Minitel” (anni ‘80) era un telefono che aveva uno schermo 12x12 e i francesi con il Minitel sono arrivati ad un metro dall’inventare Internet, in quanto permetteva di chattare e anche di prenotare viaggi. Tutti i francesi avevano il Minitel. Dopo l’arrivo di Internet, è stato spazzato via. In Francia sono nate due testate native digitali di rilievo che si chiamano AgoraVox e MediaPart. AgoraVox nasce in Francia nel 2005 dall’idea di un italiano Carlo Revelli. Colpito dallo tsunami del 2004 e dal referendum sulla costituzione europea, egli si rende conto che manca un punto di aggregazione, un punto di dibattito politico al di fuori dei media e quindi decide di fondarlo, dandogli il taglio di “giornale partecipativo”. Oggi, AgoraVox ha 1 milione e mezzo di lettori e ha 40.000 reporter (lettori che partecipano alla costruzione del contenuto), tra di loro ce ne sono 3.000 stabilmente nella veste di moderatori (leggono gli articoli proposti dai lettori e decidono quali sono da pubblicare). Una volta che l’articolo è pubblicato, la comunità di AgoraVox è invitata a votarlo. Chi sono i moderatori? Sono utenti scelti dalla community, ovvero reporter che in passato hanno pubblicato almeno quattro articoli e hanno ottenuto una votazione eccellente. Gli articoli vengono selezionati attentamente e da giugno 2008, AgoraVox diventa una fondazione belga, indipendente, senza scopo di lucro e riconosciuto di utilità sociale. Si finanzia con il contributo degli utenti. MediaPart nasce come blog nel 2008 dall’ex caporedattore di Le Monde, Edwin Plenel. Questo giornale in Francia fa letteralmente paura perché ha raccontato i più grandi scandali di Francia. Hanno deciso un posizionamento ben preciso, ovvero creare un newsbrand che non abbia condizionamenti, infatti MediaPart non ospita la pubblicità e vivono solo di abbonamenti. Gli abbonamenti vengono parametrati in ragione dell’età del lettore. Nessuno credeva nel loro progetto e invece i fondatori erano convinti che “l’alta qualità giornalistica avrebbe permesso di raccontare storie mai raccontate dagli old media”. La loro intuizione è stata semplice, ovvero fare giornalismo di taglio investigativo. Nell’autunno 2009, MediaPart si è concessa di fare una riflessione critica sulla crisi dei media francesi, intitolata “combattre pour une presse libre”. Ne 2010, quando MediaPart scrisse per la prima volta dei finanziamenti illegali alla campagna di Sarkozy, che poi è stato condannato, la redazione subì molti attacchi e critiche dai più importanti politici francesi. Un giornalista, Fabris Arfi riceve addirittura minacce di morte. MediaPart gode di grande simpatia popolare e la crescita degli abbonamenti ha permesso di continuare a non ospitare pubblicità. Dai dati 2020, gli abbonati sono 218.000, 20 milioni di fatturato, 4 milioni utili, 118 dipendenti. MediaPart è blindata in una fondazione 26 no profit che si chiama Fonds pour une presse libre, la fondazione protegge l’indipendenza editoriale di MP, mantenendo il possesso del capitale, cioè la proprietà, attraverso una struttura intermedia che si chiama Société pour la protection de l’indépendance de MediaPart, che controlla il capitale di MediaPart ma FPL non è in grado di interferire con la gestione quotidiana o nella politica editoriale, ne garantisce solo l’equilibrio finanziario. Questo modello è lo stesso dello Scott Trust che dal 1936 garantisce l’indipendenza del quotidiano The Guardian. In Italia, il mercato delle news online è monitorato da due diversi soggetti: Audiweb e ComScore. Queste due società usano degli algoritmi diversi, quindi due criteri diversi di misurazione e non monitorano tutti i soggetti online (Facebook e Google non possono essere misurati). Siccome usano due sistemi diversi, se guardiamo Auditel, i primi tre posti della classifica sono occupati da Corriere della Sera, La Repubblica e TgCom24. Se guardiamo ComScore, ai primi tre posi ci sono Sitinews Gruppo Editoriale, FanPage e l’aggregato TgCom 24 (Sport Mediaset e Meteo.it). In seguito, troviamo Affari Italiani, CityNews, Dagospia, FanPage, Linkiesta, Il Post e Varese News. CityNews afferma la nostra conoscenza del territorio è unica, raccontiamo le storie delle persone che ci vivono. 250 giornalisti, gratuitamente su tutti i device, il modello di business è quello della raccolta pubblicitaria. Si definiscono gruppo editoriale leader nella produzione di contenuti di prossimità. Dichiarano 50 edizioni metropolitane, oltre 250 giornalisti e oltre 1300 news prodotte ogni giorno, 81% di copertura nazionale. Hanno 750.000 utenti registrati e 12,6 milioni di fan su FB. Fondata nel 2010 da Luca Lani (fondatore di studenti.it), con il suo socio Fernando Diana (giallozafferano.it), entrambi cresciuti in una società che è stata poi comprata da Mondadori, che si chiama Banzai, fondata da Paolo Ainio (Virgilio). All’inizio ha solo 5 edizioni, RomaToday, MilanoToday, NapoliToday, IlPescara, IlPiacenza; le ultime nate sono ReggioToday e MessinaToday. Si raccolgono la pubblicità da soli, fatturano molto. Roberto D’Agostino, classe 1948, aveva una rubrica sul settimanale L’Espresso, chiama Spia, 5 pagine d mondanità. Dopo una visita dell’avvocato Gianni Agnelli, D’Agostino scrive che Agnelli porta sfiga. A quel punto, Alain Elkann avverte Agnelli che chiama Caracciolo, proprietario de L’Espresso. D’Agostino capisce che certe cose non le può più scrivere e va a parlare con Barbara Palombelli nel 1999, che gli consiglia di crearsi un sito. Lui decide di andare da Paolo Mieli, chiedendo un consiglio, ma lui glielo sconsiglia. Il 23 maggio 2000 con un investimento di 10 milioni di lire, mete in piedi Dagospia e diffondeva solo 3 notizie al giorno. E dopo una settimana scrive: “Sonia Raule dal materasso alla rete”, perché l’allora amministratore delegato dell’Enel, Franco Tatò, voleva acquistare Telemontecarlo per piazzarci la sua compagna e futura moglie. Titolo forte e allusivo, che fa scoppiare un inferno perché l’assemblea degli azionisti dell’Enel blocca l’acquisizione e a quel punto capisce che un potenziale enorme tra le mani se dice la verità. Assomiglia a Drudge Report ma è il chiassoso nella grafica, fanno un lavoro di aggregazione e informazione. Gli articoli sono anonimi, senza firma, questo può riservare grande libertà all’autore perché non rischia di compromettere la sua rete sociale ma può portare alla leggerezza di non verificare tutto quello che scrivi. Il problema principale sono le querele. FanPage nasce nel 2009 su iniziativa di Gianluca Cozzolino (1972). Dopo aver lavorato per 10 anni nel settore immobiliare, nel 2002 fonda a Napoli una società concessionaria di pubblicità, chiamata “NASCAR” e diventa leader nel centro sud Italia, mettendo online 300 portali di aziende medio grandi. Lancia la start up chiamata “ciao people” per la realizzazione di progetti editoriali online, e nel 2009 il progetto FanPage prende corpo. La loro scelta iniziale è di puntare su FB per veicolare le news, è stata una scelta vincente perché a settembre 2011, la pagina FB arriva ad avere 2,1 milioni di iscritti e surclassa tutte le testate italiane presenti sui social network. A maggio 2011 CiaoPeople acquisisce “The Jackal”, specializzata nella ideazione, produzione e distribuzione di webseries (Lost in Google). A giugno 2012 nasce NewMedia, piattaforma video di giornalismo di FanPage che in un anno arriva a occupare 30 milioni di visualizzazioni su base mensile. FanPage ha 15 videoreporter in tutti Italia e 50 cronisti a Milano. Linkiesta è online da settembre 2010 e si auto definisce un giornale di opinioni, di analisi, di approfondimenti sull’attualità politica, economica e culturale italiana e internazionale. In dieci anni, ha cambiato guida ben 6 volte, finché nel 2019, Christian Rocca lascia IlFoglio e prende la direzione del Linkiesta e diversifica l’offerta con eventi, riviste, libri e merchandising. 27 Il giornale The Economist paragona Twitter e Facebook alle Coffe House, dove, nel ‘700, le news erano discusse e scambiate prima di vedere la carta stampata: una forma primordiale e ristretta. Oggi, la Coffe House è diventata mondiale e la velocità di propagazione delle news è maggiore rispetto ad anni fa.  Tuttavia, le differenze non si fermano qui: le Coffe House erano un luogo d’élite, così come i giornali di un tempo, mentre oggigiorno con i giornali si coinvolgono e mobilitano le masse. Il 37% degli internet users americani ha contribuito alla creazione e distribuzione delle news, dice una ricerca americana nel 2011. Come ha detto Arianna Huffington, “c’è una relazione dinamica con il sistema delle informazioni” e, naturalmente, con l’avvento degli smartphone e simili c’è stato un impatto maggiore anche a livello politico, arrivando a giocare ruoli importanti. Allora, due domande sorgono spontanee: che cosa sarebbe stata la primavera araba senza il contributo di tv e giornali? Cosa avrebbero potuto raccontare i giornali senza il contributo dei social?  È stata emblematica anche la guerra in Siria: Nicola Bruno e Raffaele Mastrolonardo hanno scritto La scimmia che vinse il premio Pulitzer, una raccolta di articoli. Bruno ha pubblicato un lungo articolo, poi apparso sul sito di Sky Italia nel 2012, in racconta dei Citizen Journalists che dal territorio mandano informazioni riguardo la rivolta siriana. Egli però non li considera i cittadini veri e propri giornalisti (se si pensa loro come normali cittadini che si trovano nel posto giusto al momento giusto riprendendo i fatti), ma, allo stesso modo, è grazie a queste figure di cittadini se da quando sono iniziati i massacri in occidente è stato possibile rimanere informati su quanto stava accadendo. È stato grazie, oltre ad Internet, alle grandi catene internazionali come BBC, CNN, i quali hanno fatto uso dei Citizen Journalists per raccontare il conflitto, in quanto molti reporter internazionali sono stati espulsi dal paese ed altri, addirittura, morti in Siria per raccontare ciò che stava accadendo. Persino i Video Journalists rischiano la vita ogni giorno, anche se con il tempo hanno imparato ad organizzarsi al meglio per sopravvivere e raccontare fedelmente la resistenza siriana. I media dicono che i Video Journalists siriani sono organizzati, strategici e intelligenti, in quanto i video realizzati con smartphone hanno uno scopo ben preciso che in alcuni casi, tuttavia, li portano anche a manipolare i propri video per rappresentare al meglio le tirannie occidentali del paese.  Bruno continua, affermando che sarebbe meglio parlare “media-attivisti”, ossia non di figure super partes, ma di figure che appartengono a più parti. In particolare, Channel4 mostra come si sono organizzati i media-attivisti, gli strumenti utilizzati e le strategie che usano.  La quantità di video che il Video Journalism ha portato è impressionante: servono organizzazione, strumenti, ricevitori, modem e, in alcuni casi, anche tecnologie più lente che offrono però una sicurezza maggiore. Con il tempo, questi media-attivisti hanno creato una scaletta: cercano sempre di riprendere un’azione cruenta, aggiungendo poi al filmato una voce fuori campo che descrive brutalmente ed emotivamente ciò che sta accadendo. Dunque, è molto controversa questa professione; d’altra parte, questi sono gli unici video che provengono dalla Siria. I video provenienti dalla Siria sono importanti ma senza le lenti del giornalismo non sono sufficienti, come ci insegna la storia attuale della guerra tra Ucraina e Russia e i missili lanciati ormai 48 ore fa. L’esempio più eclatante, fino a questo momento nella storia, è la caduta di schegge di meteorite sui monti Urali in Russia: nessun avvenimento naturale è mai stato coperto tanto efficacemente come questo fenomeno. È stato possibile avere una testimonianza, in quanto su tutte le auto russe c’è una webcam che riprende 24/7 quello che accade: perché? 1. A causa dell’enorme quantità di incidenti e l’irresponsabilità della popolazione russa 2. Inaffidabilità della polizia locale  3. Probabilità di essere aggrediti, perché la miseria può spingere anche a buttarsi sotto una macchina Le immagini, dunque, diventano elemento imprescindibile per stabilire la verità.  Fin qua abbiamo visto ciò che riguarda le hard News, ossia delle notizie di cronaca politica, anche se non è il ramo più studiato. In contrapposizione alle hard news c’è la fascia delle soft o light news. Cosa si intende per soft o light news? Di showbiz, di gossip, di Pleasure&Leisure, cioè la forma che più pervade la nostra vita quotidiana.  C’è chi li chiama Vortal (Vertical Portal), ovvero portali verticali ma si tratta di testate native del web che coniugano una marcata specializzazione (cosmetica, viaggi, lusso, auto, ecc.) con un approccio fortemente orientato alla socializzazione dei contenuti rivelatosi, infine, essenziale per il successo dei social media.  Essi sono presenti non soltanto tramite un sito web ma anche con applicazioni che offrono servizi aggiuntivi e sono molto attenti alle news; questi stanno cannibalizzano ciò che i settimanali producevano fino a poco fa, 30 perché sanno usare la tecnologia in modalità pervasiva e ciò che potenzialmente più interessi ai lettori.  Il peso specifico politico del più piccolo quotidiano di politica è sempre superiore a quello di un settimane femminile, seppure maggiormente redditizio. Ma, se si ragiona in termini di business, la situazione si capovolge. La stampa periodica ha sempre generato tonnellate di utili e quindi, ora, ci troveremo a fare uno spaccato della stampa periodica per capire la relazione con le soft news. In Italia ci sono molte case di periodici, come Mondadori, RCS (Rizzoli Corriere della Sera), Cairo Editore, Hearst e sono suddivisi in: a. Mensili: sono iper-specializzati, dunque in moda, arredamento, sport… così da coprire interessi e hobby particolari. Oggi li definiremmo Vortal. Quasi tutti, con l’eccezione di Focus e Quattroruote, hanno in termini di mercato la dimensione di nicchia di mercato. b. Settimanali: il settore dei viaggi è quello che ha sofferto di più. Le nostre scelte in maniera autonoma fanno sì che non ci sia più la necessità di una guida; il giornalismo dal basso è molto più temuto ed efficace rispetto a quello delle hard news. I settimanali sono divisi in: 1. News magazine (la rete non ha limiti di spazio, permettendo di arricchire la narrazione con audio, video e fotografie), Espresso e Panorama (sono stati ceduti, non appartengono più a Mondadori e sono ora di case editrici minori. Times e Newsweek oggi arrancano). 2. Famigliari: hanno perso potere, in quanto oggi in qualunque sala d’attesa, perfino gli anziani, sono intenti nell’uso dello smartphone; 3. Femminili: devastazione cominciata anni fa con Chiara Ferragni e Cleo Make-up, per citarne alcune. Sostanzialmente, le blogger hanno cannibalizzato i vecchi metodi, assieme ai programmi sempre nuovi dei canali femminili (Uomini e Donne, Pomeriggio 5), al punto tale che nei giorni scorsi Mondadori ha ceduto Grazia ad un gruppo editoriale francese, fondato nel 1923; 4. Guide Tv: con l’EPC (Electronic Programme Guide) oggi non servono quasi più, dando un colpo a questo settore dell’editoria. Ormai ci sono annunci sulle prossime messe in onda direttamente dalle star sui social media, nelle reti, andando a bruciare dunque i settimanili televisivi; 5. Gossip: oggi il pettegolezzo viaggia maggiormente sui social network come Twitter, Instagram e Facebook dove, ora, coloro che sono oggetto di gossip diventano, allo stesso tempo, soggetto di gossip, il tutto alimentato dai Citizen Paparazzi. Essi sono i raggruppamenti ma esistono anche gli allegati ai giornali. c. Bimestrali  Inoltre, bisogna dire che prima che Rizzoli acquisisse Il Corriere della Sera, la stampa periodica non era stata tanto contaminata con la politica. Grazie a questo, i periodici hanno conosciuto un grande periodo di prosperità, spesso incentivati da entusiasmanti testa a testa. Sul mercato ha sempre prevalso il modello Duale (uno VS altro), una dinamica competitiva che avvantaggia i consumatori. I periodici cercavano le esclusive, avevano cultura dell’immagine, avevano una cura maniacale nei testi, una grafica di alto livello e soprattutto una relazione stretta con le testate internazionali e in particolare con quelli statunitensi. Fino all’avvento della TV, che ha permesso agli italiani avere una finestra sul mondo, svolgendo anche un compito vicario rispetto alla snobistica mancanza di quotidiani italiani. Quindi, periodici come Gente, Oggi, Epoca ed Europeo sono stati i primi a raccontare fatti di guerra, politica e cronaca; inoltre, hanno portato agli estremi il giornalismo d’inchiesta, permettendo poi di coltivare interessi assai diffusi in tutto il paese. Al contrario, per una lunghissima stagione, i quotidiani hanno fatto cilecca.  Mondadori, Rusconi e Rizzoli, nonostante un inizio florido hanno dovuto adattarsi: all’inizio degli anni ‘70/80, quando iniziava a nascere la televisione al di fuori della rai, Mondadori crea Rete4 e Rusconi crea Italia1, finendo poi per cedere le proprie reti a Silvio Berlusconi. Non meno sciagurata, Rizzoli si è indebita per Corriere della Sera fino ad arrivare alla perdita del suo primogenito. In sostanza, potremmo concludere cheMondadori è un vero e proprio impero, mentre Rusconi è la provincia dell’impero di Hearst, Cairo è in mano a Cairo Editore. Nessuna delle famiglie che possedevano queste grandi case è più al potere. oggi l’unico editore che ricorda gli antichi è Urbano Cairo, proprietario anche di LA7.  I manager dominano oggi all’interno delle case editrici, trovandosi di fronte a: 1. Ampliamento offerta TV 2. Modernizzazione e crescita cartacea dei quotidiani 3. Dagli anni ’90 ad oggi, l’avanzare impetuoso del web 31 A fronte di questa crescita, i lettori hanno via via abbandonato la stampa periodica trovando miglior offerta e rapporto qualità prezzo nel social.  Le fonti Esattamente milioni di informazioni partono dalle fonti. Quando c’è una notizia è bene verificare le fonti, perché più di una può rivelarsi non attendibile. Le fonti possono essere tragicamente dei pozzi avvelenati: bisogna dunque sempre assicurarsi del valore, conoscendo la fonte per avviare una seria verificare. Ma cos’è una notizia? Una notizia è un’informazione che, sottoposta a tutte le verifiche e riscontri, si rivela corrispondente alla realtà dei fatti. Ovviamente, il tutto va accompagnato dalla consapevolezza che comunque non si raggiunge la certezza della verità Dig a lot, Write a bit (scava tanto, scrivi un po’), come dicono gli inglesi. Bisogna assolutamente prestare attenzione alle notizie che si leggono; nel web, spesso, a queste fonti attingono anche i media tradizionali. Vediamo, dunque, quali sono le fonti divise per ambito:  Politica: sono fonti importantissime per giornalisti e cittadini consapevoli. L’attività di governo è in assoluto la prima fonte di informazione della politica, o almeno dovrebbe esserlo perché la pubblica amministrazione genera continuamente fonti per i cittadini.  Dove si trovano le informazioni sulla politica? Sulla Gazzetta della Repubblica, che esce dal 1946 e che ha preso il testimone dalla Gazzetta del Regno del 1860. Giornale curato e stampato dall’istituto di Zecca dello Stato; Sotto la gazzetta ufficiale c’è un sito che si presenta come “tutta la legge è un cittadino”; tuttavia, la pubblica amministrazione usa un linguaggio difficile e che spesso vede indicati gli articoli a cui si fa riferimento solo con numero e data: insomma, leggerla e tradurla in forma comprensibile è un compito assai gravoso. Sostanzialmente, il giornalismo italiano rifiuta di svolgere questo compito, ad eccezione del Sole24ore che si occupa di ciò.  A quali fonti si abbeverano i giornalisti della politica? La Politique Politicienne, la chiacchiera politica (e non amministrativa, con invece maggiore impatto sulla vita quotidiana) attrae di più: meno complicata, socialmente più redditizia e professionalmente più prestigiosa perché ormai in Italia si è creato un criterio di assegnazione dei giornalisti che vede al primo posto coloro che si sono precedentemente occupati di politica.   Attenzione : mentre la politica amministrativa riporta solo cose tangibili e reali, la chiacchiera politica riporta anche gossip e dicerie. Chi sono le fonti? o Eletti parlamentari o Assistenti o Veline, inventate durante il fascismo nel 1935. Esse erano le disposizioni riguardo ciò che si poteva scrivere e cosa no. Si chiamavano così perché quando lo scrivano batteva a macchina, prima metteva fogli normali, poi carta carbone e poi la carta velina, facendo sì che venissero più copie oltre all’originale. Morte con il fascismo e rinate con il partito democristiano e comunista. Oggi esiste ancora il Velino, composto da 8/9 fogli: una newsletter contenente cronache politiche e parlamentari, evitando ai giornalisti di fare il giro delle agenzie di stampa: un copia e incolla di stampa ancora più accentuato rispetto al passato. Ora dilagano mille interviste a inutili onorevoli; tuttavia, ogni tipo di intervista “a chiamata” è di parte, incalzante e necessaria all’oratore per perorare la propria causa.  Cronaca: polizia, carabinieri, vigili urbani, pronto soccorsi ed ospedali. Si fanno diverse telefonate in varie fasce orarie del giorno, chiamate Giro di Nera, in cui il cronista chiama le fonti, certamente primarie, in cerca di delitti, disgrazie, furti, rapine ed incendi. Una volta trovata la notizia, le figure sopracitate dovrebbero farsi cronisti e setacciare il brogliaccio delle denunce così da trovare la notizia di cronaca. Deve essere dunque il poliziotto a determinare cosa può fare notizia e cosa no? No, sarebbe meglio l’occhio di un cronista affamato di notizia. Il paradosso è il briefing quotidiano della sala stampa dei carabinieri, politici, poliziotti con i cronisti in cui le figure dello stato danno delle informazioni; vengono anche convocate delle riunioni per aggiornare su foto video e intercettazioni telefoniche. Ricordiamo che con il briefing siamo nel perimetro dell’ufficiosità, non possiamo essere certi dell’informazione e tutto dovrebbe essere verificato per vedere, ad esempio, se alcuni video/foto siano stati compromessi con l’editing oppure se siano raw, crudi, dunque scattati e riportati senza nessun intervento. Un altro modo in cui l’autorità dialoga con i giornalisti è il modo confidenziale: da qui parte lo scambio di notizie che non possono essere attribuite (non-quotable). Sono news di verità o di parte? Sono news di parte, perché arrivano da una sola fonte, così come 32 televisione condiziona anche il mercato delle notizie  stabilisce il rating delle notizie. Da Striscia la notizia a Le Iene i cittadini sono diventati fonte d’informazione, a volte, tuttavia, esagerando. La fonte delle fonti in assoluto è Internet!!! Internet Internet è diventata la fonte per eccellenza ed è lo spazio dove tutto è apparentemente più facile: analizzare, interrogare le fonti ed è anche luogo in cui ogni navigatore può essere contemporaneamente utente e fonte. La rete si caratterizza come una sorta di meta e mega fonte di informazioni: dati, immagini, news e dati si possono acquisire. Se si è abili si possono fare anche scoop, come, ad esempio, Luca Neri in Macchia Nera, che è riuscito a scoprire il nome del soldato americano che sparò al posto di blocco in Iraq in cui fu ucciso Nicola Caripari, agente segreto italiano. Come ha fatto? Analizzando attentamente un documento dell’esercito degli Stati Uniti che si trovava liberamente sul web. Tuttavia, c’è un problema di diritti così come di affidabilità delle informazioni disponibili sul web e, anche per scandagliare la fonte più moderna, sono importanti i vecchi metodi del buon giornalismo, cioè la verifica. Siamo ancora in una fase iniziale ed immatura di Internet, tant’è che a volte pare che alcuni articoli siano stati scritti utilizzando la rete in modo inappropriato, come il copia-incolla, abitudinario nelle agenzie di informazioni. In Gran Bretagna c’è un’organizzazione chiamata Media Standard Trust, la quale controlla la BBC e le grandi testate nazionali per vedere quando viene fatto copia incolla dei comunicati stampa senza approfondimento o contestualizzazione. Si pensi a Wikipedia, altamente inaffidabile, che spesso può creare divergenze (in effetti negli USA dalle elementari all’università è severamente vietato utilizzare Wikipedia). Naturalmente mentre parliamo di Internet come fonte non possiamo non citare Twitter, fonte di informazione primaria soprattutto nel Citizen Journalism ma anche per giornalisti professionisti, i quali spesso privilegiano il social al loro giornale. Facebook è un grande schedario dove si trovano informazioni private, il quale viene saccheggiato quando ad esempio ci sono vittime su cui avere notizie. Instagram è un gigantesco archivio online di immagini e fonte preziosa di news su personaggi dello showbiz e dello sport. Dunque, questi tre, aggiunti a TikTok, sono veicoli potenti non solo come fonti ma anche importanti per il brand journalism: l’informazione viene direttamente gestita delle imprese per il lancio di nuovi prodotti e per annunciare le anteprime, come YouTube, che si inserisce nel ricco e vasto panorama delle hard e soft news. In rete c’è solo un problema di abbondanza di notizie, allora bisogna selezionarle, monitorarle e decidere cosa rendere pubblico o meno, sempre con la massima diffidenza. La capacità dei cittadini reporter di essere fonte è messa in discussione, perché, infatti, possono diffondere fake news o, in altri casi, possono diventare dei media-attivisti. Una criticità non minore riguarda il circolo vizioso delle informazioni: l’arrivo della tv delle informazioni ha creato un cortocircuito informativo, aumentando l’autoreferenzialità dei giornalisti. Spesso i giornalisti scrivono a beneficio della politica e dei politici, dunque, bisognerebbe eliminare questa autoreferenzialità italiana. Anche noi cittadini dobbiamo prestare attenzione, in quanto il web genera l’illusione di conoscere tutto di tutti e tutto. Sicuramente questo ci porta ad allargare alcuni confini di conoscenza ma può anche allontanarci da quelli che sono i calori della quotidianità. Soprattutto, bisogna tenere in considerazione che le cose esistono benché non si trovino sul web, allora bisogna avere il piacere della scoperta e, sebbene difficile, è necessario per una maggiore integrità e affidabilità. Facts checking Per facts checking s’intende la verifica dei fatti, arte poco praticata ma fondamentale. Partiamo dal caso di Sandro Ruotolo, senatore della Repubblica: 21 maggio 2012, Brindisi, Morvillo Falcone. Tutta l’attenzione è puntata sul criminale che ha piazzato una bomba nell’istituto uccidendo una ragazza, non si sa ancora quale sia il movente né si hanno notizie sugli indiziati. Tra gli inviati in Puglia c’è, appunto, Sandro Ruotolo, il quale su Twitter si definisce giornalista dal 1974 ed è proprio sul social che 35 decide di pubblicare informazioni in tempo reale: il pomeriggio del 21 maggio un sospettato è fermato e sottoposto ad un lungo interrogatorio e, prima ancora che si sappia tutto, Sandro riesce a sapere alcune informazioni riservate. Bonus VS Malus Successivamente egli condivide queste informazioni su Twitter, rivelando nome e cognome dei due indiziati e in meno di un’ora si crea una strage. Dalle notizie dell’interrogatorio emergono nuove informazioni e il senatore twitta ma, la sera, la questura di Brindisi libera i sospettati.  Nonostante il tweet finale, in cui diceva che non erano loro i responsabili, i cittadini hanno iniziato a fare bullismo e fare un processo mediatico ai i due sospettati, i quali non potranno mai più avere una vita normale. Questa storia non è per denigrare Ruotolo, tuttavia tutte le informazioni di un giornale devono essere prima filtrate da un capo redattore, mentre lui non ha avuto ne filtri relazionali né temporali: tutto è stato pubblicato in tempo reale e senza mediazioni, rendendo disponibile il flusso di notizie ad un pubblico decisamente ampio. Questo ci pone di fronte a delle domande: 1. È giusto pubblicare e poi verificare? 2. Cosa succede se questo modello si estende a tutto il mondo online? Bill Kovach e Tom Rosenstiel, due giornalisti illustri, scrivono I fondamenti del giornalismo. Ciò che i giornalisti dovrebbero sapere e il pubblico dovrebbe esigere, distinguendo quattro tipi di giornalismo: 1. Giornalismo della verifica: modello tradizionale anglosassone con i fatti accurati e verificati. 2. Asserzione: modello che mette valore sulle opinioni con la loro immediatezza e quantità (si predilige questo modello, dominante nei social). 3. Modello dell’affermazione: modello a cui interessa solo confermare le convinzioni del proprio pubblico, selezionando l’informazione per i propri scopi. 4. Interessi di gruppo: informazioni di giornali che sono progettati per essere indipendenti. Kovach e Rosenstiel proseguono e citano una ricerca, secondo la quale il 60% della programmazione che passa sui canali di news è live, quindi, trasmessa in maniera estemporanea e non filtrata, mentre nei TG serali il 90% del contenuto che viene trasmesso è registrato, il che fa presumere che tutto sia registrato e controllato da un redattore. Quelli che prima erano i punti forti, ora vengono trasmessi direttamente al pubblico. Questo modello di giornalismo definito conversazionale non ha solo lati negativi, purché sia molto dichiarato, quindi con un modello aperto e partecipativo. Sono tre i quotidiani che ci forniscono i modelli guida: 1. The Guardian, quotidiano inglese di sinistra. Sicuramente è stato il primo degli sperimentatori, soprattutto nell’introduzione di strumenti partecipatori per migliorare qualità e quantità informativa. Tra queste c’è il live coverage, cioè notizie multimediali con contenuti provenienti da diverse fonti non solo istituzionali, ma anche testimonianze di semplici cittadini che sui social condividono informazioni. I live coverage rappresentano la bozza grezza del giornalismo, ovvero il lavoro che prima avveniva nel chiuso nelle informazioni riservate e ora avviene in live, con una condivisione in tempo reale con i lettori. In questo caso si torna al modello assertivo dell’accuratezza, anche se il giornale invita da sempre ad evitare l’approccio passivo diventano fruitori attivi: in questo modo, si instaura un diverso contatto con i lettori, in cui il live coverage li rende fact checkers ed essi sono disposti a collaborare. Inoltre, un blogger inglese ha dimostrato al The Guardian di essere l’esperto maggiore nell’identificazione delle bombe utilizzate in Siria. Naturalmente ci sono molte critiche in questo approccio “prima pubblica poi verifica”. 2. La BBC ha adottato un approccio differente. Nel 2005, a seguito degli attentati nella metropolitana di Londra, la BBC viene inondata dal materiale inviato da testimoni diretti e, benché all’inizio questo sembrasse autentico, successivamente si scopre che così non era e allora si è deciso di creare uno spazio dedicato, trovando fonti affidabili in occasione di grandi avvenimenti di attualità: così nasce la BBC UGC Verification Hub, una redazione di 20 giornalisti al lavoro 24/7 con il compito di trovare e verificare fonti online sia per l’informazione radio, tv e all news sia per i giornali.  Così facendo la BBC intercetta i contenuti di valore ed evita anche di diffondere informazioni inesatte, perché i giornalisti usano tutte le tecnologie del caso, assieme allo strumento del buon senso. Quindi, sostanzialmente, la BBC non pubblica nulla, se non riesce a parlare con l’autore dell’informazione e confermare la realtà dei fatti. 36 3. New York Times: durante il confitto bellico in Siria ha creato un sotto sito “Watching Siria’s War”, un’interfaccia in grado di unire web e verifica delle informazioni. Quando viene trovato un video ritenuto degno di pubblicazione, i giornalisti del reparto lavorano ad una serie di ricerche di verifiche del luogo, contenuti simili e altre fonti online. In seguito, il video viene pubblicato online con una sinossi, una mappa e tre box di contesto:  What we know: notizie relativa al video che sono state accertate.  What we do not know: vengono elencati tutti I dubbi e le domande a cui non si è dato risposta.   Vengono indicati altri link a siti che divulgano la stessa attendibile info. In questo modo il NYT educa i lettori ad una visione più critica ai video che vengono condivisi online, quindi anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un’attività che ora si svolge in maniera pubblica. La sua interfaccia rende esplicite le tecniche utilizzate di digital fact checking, ossia l’insieme di strumenti che permettono di analizzare un contenuto per valutarne attendibilità e credibilità. Alcuni software verificano le parti di un’immagine che sono state registrate, permettendo di risalire a manomissioni e fotomontaggio (utilizzate in ambito legale). Ci sono anche i motori di ricerca inversa, che verificano se l’immagine è già stata pubblicata online per un altro evento. Le tracce su cui indagare sono molte, anche nel caso di risorse più difficoltose da verificare come nel caso di un tweet. Come si fa? Prima di riutilizzarlo per un contenuto giornalistico bisognerebbe fare cinque verifiche minime: 1. Guardare il time stamp (data, ora e località di pubblicazione); 2. Verificare che sia coerente con i tweet precedenti o successivi, per scoprire ad esempio se stesse twittando da un’altra località; 3. Verificare l’autorevolezza dell’autore; 4. Fare una ricerca su Google e Facebook, per cercare conferma alle info condivise; 5. Parlarci, cioè chiedere all’autore varie informazioni e se ci sono persone che possono confermare le informazioni.  Anche per i video ci sono delle modalità di verificabilità e credibilità e sono nove: 1. L’autore ha pubblicato altri video presi da altre fonti oppure pubblica contenuti propri? 2. È indicata la località, ovvero da dove di solito pubblica più video? 3. I suoi video sono stati ripresi in altre occasioni da media locali, nazionali o internazionali? 4. Accenti o dialetti nel video sono riconducibili alla località? 5. Ci sono altre persone del luogo che commentano lo stesso evento? 6. Coincide la luce o buio del giorno con l’ora riportata nel video? 7. Auto: le targhe coincidono? 8. Com’è il tempo atmosferico che si percepisce? 9. Che cosa diceva il meteo di quel giorno? Anche il digital fact checking richiede curiosità e capacità nel trovare le fonti giuste, così da raccontare i fatti con serietà e accuratezza. Essere cittadini consapevoli significa prima di tutto essere lettori consapevoli, confrontando e riflettendo sempre, lavorando inoltre sui dati.  Data Journalism Il giornalismo dei dati è molto praticato negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito, perché si può accedere a serbatoi di dati ricchissimi e pubblici, quali il data.gov statunitense e britannico.  Il data fact checking chiede di rispettare i principali dogmi giornalistici: ipotesi, ricerca e verifica, arricchendo questo processo con software capaci di mettere in relazione i dati disponibili.  Il giornalista Simon Rogers, oggi Data Editor di Google e in passato di Data Blog del The Guardian, ha scritto una guida di 10 punti che rispondono a tutte le possibili domande: 1. Il Data Journalism non è nuovo, esiste da quando esistono i dati. A metà dell’Ottocento, una giornalista inglese scrisse una relazione sulle condizioni dei soldati inglesi (1858). Nel 1821 sul The Guardian venne pubblicata una tabella con elencate tutte le scuole di Manchester con i vari dati finanziari. La differenza è che i dati in passato erano esclusivi e costosi ora i computer semplificano tutto ciò; 37 quotidiani e periodici, nei quali il condizionamento è forte da parte di chi investe pubblicità perché l’obiettivo è quello di generare attenzione, che va a favore degli inserzionisti. Allo stesso tempo, tuttavia, c’è un elemento di trasparenza, perfino nel product placement, dal cinema alle serie: ormai è dichiarata da tutti gli organi di informazione. La crisi sta intrecciando in maniera opaca contenuti redazionali informativi con contenuti pubblicitari, quindi sta diventando un luogo dove non sempre sono chiari i confini tra informativo e pubblicitario, in cui c’è una tendenza all’inganno, a quella che è chiamata pubblicità occulta. Questo si è verificato specialmente dopo la crisi, in quanto i giornali hanno dovuto mettersi nella condizione di sempre maggiore apertura, a causa anche della spinta concorrenziale di soggetti: commistione contenuto-pubblicità molto discussa e oggetti di attenzione dei governi di tante parti del mondo; naturalmente l’Italia è sempre in ritardo, provocando un calo delle vendite, la frammentazione degli ascolti e la digitalizzazione ha portato ad una brutta deriva.  Oggi sempre più, qualsiasi quotidiano sperimenta pagine speciali dedicate a prodotti o eventi in cui l’incentivo promozionale non è quasi mai dichiarato, che mischiano assieme degli elementi: 1. Pubblicità tradizionale tabellare 2. Articoli che descrivono i prodotti, articoli quindi graficamente distinguibili da quelli canonici del giornale 3. Articoli a tema spesso di firme autorevoli del giornale di contenuto valido e interessante per il lettore ma ispirato dal prodotto speciale che promuove quell’articolo  Di solito, gli sponsor degli eventi sono segnalatati nel titolo e nel contenuto: ad esempio, sul quotidiano Repubblica in un articolo sul tema del tempo cronologico, notiamo le promozioni e le pubblicità di orologi che costruiscono tutto il testo. In qualche modo siamo costretti a conoscere le ragioni che sottendono alla scrittura e pubblicazioni di un articolo ed è ciò che un tempo formava il publi-relazionale, cioè scritto in concordia con gli investitori pubblicitari; oggi giorno non ci sono mai inserzioni giustificate per ragioni promozionali più o meno diretti. Questa chiarezza prescinde dal contenuto, che porta purtroppo ad una marchetta (gergo professionale, in questo caso inteso come regalo fatto all’inserzionista). È del tutto inimmaginabile trovare il punto d’incontro tra questi due aspetti, c’è una certa ambiguità rispetto a quello che sta succedendo con queste forme di comunicazione che portano, inevitabilmente, ad un calo di credibilità. Il paradosso è che chi dovrebbe vigilare (AGCOM, Antitrust) non lo fa: l’unico che è stato punito è il Messaggero di Sant’Antonio. Attenzione! Questo inquinamento dell’informazione sta arrivando anche nel mondo della rete. Anche in rete, dove c’è un proliferare di foodblogger, sembrano emergere in maniera ancora peggiore i vizi che accompagnano la carta stampata ed è facile capirlo in quanto non c’è mai nulla che vada male (caso del fondatore di Gambero Rosso, Bonilli).  La Native Advertising La pubblicità nativa è un nuovo termine controverso, ormai entrato nella nostra quotidianità. Secondo Dan Drimbgerg, CEO di Share True, è un “tipo di media integrato nel design e dove gli annunci pubblicitari sono parte del contenuto”.  Secondo invece Jan Shaffers, CEO di Deep Focus, è una “nuova versione dei publi-relazionali (advertorial), è pubblicità che sfrutta una piattaforma nel modo in cui questa viene usata dagli utenti”. In altre parole, è pubblicità integrata a contenuti di alta qualità che non dovrebbe risultare interruttiva agli occhi dell’utente. Perché si è arrivati a inserire la pubblicità nel flusso dei contenuti? Perché è nata questa esigenza? 1. C’è una cecità da banner che colpisce quasi il 100% degli utenti 2. La percentuale di azioni, di clic, è scesa a livelli vicini allo 0 3. I brand hanno sempre e comunque bisogno di diffondere il loro messaggio online, portare gli utenti sui loro siti ed aumentare le conversioni (dal sito all’acquisto) Dunque, anziché promuoversi in punti ciechi dello schermo, ora lo si fa all’interno dello stream dei contenuti dove lo sguardo si posa. La Native Advertising va a braccetto con i Branded Content, che occorre definire. 40 Branded content: contenuto brandizzato, fa riferimento ad un contenuto o di informazione o intrattenimento che è privo di un messaggio pubblicitario esplicito, prodotto ad hoc direttamente dal brand o su commissione del brand e ha l’obiettivo di veicolare e consolidare i valori connessi al brand. Una volta prodotto, esso viene trasmesso sui canali social o su una piattaforma creata appositamente e ciò distingue il branded content dalla native advertising, perché con quest’ultima la pubblicità è sempre pubblicata su una piattaforma esterna: in un caso o nell’altro il messaggio può essere più o meno esplicito ma è necessario che sia dichiarato e visibile. Lo storytelling può contenere info utili ai consumatori su uno specifico argomento e inoltre, utilizzando la leva dell’empatia può smuovere i consumatori; è importante che il tema e modo in cui viene affrontato sia coerente con gli interessi dell’audience del brand e con il suo tono di voce (voice tone). Quali sono i vantaggi, purché sia fatto con criteri seri? 1. È meno invadente e fastidioso per gli utenti, ovviamente a patto che entri nella conversazione anziché tentare di interromperla 2. È più remunerativo per il brand, perché aumenta la possibilità di farsi notare dai consumatori in maniera positiva 3. Aggira il meccanismo di difesa automatico, anzi ci offre informazioni preziose ed esperienze coinvolgenti e interessanti 4. Se il contenuto proposto è di qualità, alla lunga ci potrebbe essere un rovesciamento del canone: i consumatori inseguono il brand ricercando altri contenuti  5. L’effetto onda, cioè l’ottimo ritorno sui social se il contenuto è apprezzato, diventando rapidamente virale Naturalmente esistono esempi di flop che sono ben rappresentativi dei rischi che corre il brand che maneggia questa leva, utilizzata in maniera non adeguata; solitamente quando fallisce crolla anche il mezzo che lo ospita. Si pensi al caso di The Atlantic, un magazine americano fondato a Boston nel 1857 ed ha un importante presenza sul web. Il 14 gennaio 2013 siamo ai primordi di queste nuove forme di comunicazione. Appena dopo mezzogiorno, il magazine pubblica “David Miscavige: guida Scientology” con il sottotitolo “sotto la guida del leader ecclesiastico la religione di Scientology si è diffusa più nel 2012 che in qualsiasi altro periodo [..]”. Subito dopo la pubblicazione l’articolo ha ricevuto moltissime critiche. Nell’articolo vengono presentate le idee di nuove sedi come idea del nuovo rinascimento nel mondo, prendendo anche esempio di sedi inaugurate precedentemente, elencando le varie caratteristiche e pregi.  Nell’articolo in cui si santifica l’organizzazione arrivano le critiche, tra chi critica questo articolo ci sono anche i giornalisti di The Atlantic. Alle 23.00 The Atlantic è costretta a ritirare l’articolo, sostituendo con dei link l’articolo e annunciando che è stato anche necessaria un’azione di moderazione dei commenti sul contenuto per evitare ulteriori perdite. Naturalmente la cosa ha scatenato anche meme e The Onion, sito satirico, ha preso in giro il contenuto. Dunque, la vicenda ha dato il via negli USA ad una serie di interventi problematici sulla Native Advertising. Già un anno prima, sul sito Libertà di stampa. Diritto all’Informazione era stata pubblicata la traduzione di un articolo tecnologico di Zdnet, con titolo “Brand Journalism? Ci sono già le relazioni pubbliche e non sono giornalismo”. L’attacco ironico si deve a Tom Foremski, un giornalista che ha lasciato il Financial Times ed è diventato blogger, scrivendo questo articolo alla vigilia di un incontro sul tema. La risosta alla sua stessa provocazione è che le public relations non sono giornalismo, non esiste questo brand o Innovation Journalism o di qualsiasi altra cosa perché, il giornalismo è immediatamente riconoscibile. Tom Foremski nei confronti delle Public Relations Non si può mettere alla tastiera un addetto delle PR perché sarebbe tutto a favore dell’azienda, proprio perché sono abituate a comprare spazi senza capire come soddisfare le esigenze del lettore e dell’azienda. Foremski sostiene che nel 2004, quando diventò il primo giornalista blogger, c’era una grande confusione tra giornalista e blogger. Egli afferma di essere intervenuto in diverse conferenze, rispondendo a domande sulla professione del blogger con “Giornalista, quando vedi il risultato allora lo riconosci. Alcuni blogger sono giornalisti ma non hanno bisogno di una tessera per scrivere. Se qualcuno produce del giornalismo con costanza, allora questa persona è un giornalista; quando invece legge un comunicato stampa, non si vedono giornalisti. Le PR non sono giornalisti.” Aggiunge, “il problema per me è che le parole nelle PR non sono utilizzate nella maniera più consona: allora le PR diventano figure Media-Aziendali e all’interno di questo processo di può vedere l’inclusone di materiale dal giornalismo: CISCO, IBM e Intel impiegano giornalisti 41 dell’emittenza radio tv per produrre la loro editoria aziendale”. Continua, “EC = MC, Every Company is Media Company”. Cosa intende dire? Oggi un’azienda ha un patrimonio di conoscenza, di archivi e ricerche, una storia e delle eccellenze che se vuole, oggi nell’epoca del Self Publishing, a maggior ragione un’azienda può decidere di affacciarsi sulla rete ed essere editore di sé stesso. Bisogna contare su giornalisti esperti e purtroppo, finora la descrizione sopracitata a, è condotta solo da gente delle PR e del Marketing, il mondo del giornalismo non è stato coinvolto  Foremski dimostra che è possibile fare giornalismo all’interno dell’azienda purché Marketing e PR rimangano fuori dalla porta anche se, queste, non sono in grado di rispettare questi confini.  Per arrivare ad essere una Media Company bisogna capire cos’è, facendolo attraverso dei casi di successo. Il caso Red Bull Sul sito si troveranno articoli di storie di sport estremi legate alla società, perché Red Bull è partita da lattine fino a diventare una media company, producendo content e condividendolo sui social. Con una spesa in Content Marketig e Branded Content che vale il 20% del fatturato totale, Red Bull è diventata leader assoluta, con oltre 6 miliardi di lattine e una quota del 43%.  Il caso Illy caffè Un’azienda di eccellenza mondiale, che nel 2013 ha ideato una campagna con formula EC = MC, producendo dei mini-film da 10 minuti ciascuno e li ha mandati in onda su National Geographic. Artisti del gusto raccontano cosa c’è dietro alla preparazione di ogni tazzina di caffè, con le testimonianze dei baristi, quindi, da parte da chi ne condivide i valori.  Il caso Gatorade Nel 2016 in collaborazione con Mumbot, Gatorade imbocca la strada dei branded content facendo un cartone animato di 6 minuti intitolato “The Boy who learned to fly” basato su una storia vera. In questo cartone si parla di Bolt, l’uomo più veloce del pianeta, racchiudendo tutti i valori di cui Gatorade si fa portavoce: coraggio, grinta e la capacità di superare le difficoltà. La presenza del brand è minima ma comunque presente, coinvolgenti ed infatti il risultato è stato esplosivo. Il caso Lavazza Nel giugno 2016 in collaborazione con We Are Social, Lavazza lancia su Prime Video “Coffee Defenders: a part from coca to coffe”, realizzato da Oscar Ruiz Navia. La sostenibilità è uno dei valori storici di Lavazza, in cui racconta la storia di una coltivatrice di Gioana che reincarna la rinascita della Colombia, passata dalla coltivazione illegale della cocaina a quella del caffè. Lavazza, in totale coerenza, è attiva in Colombia con un programma di produzione sostenibile che ha modificato le condizioni economiche del paese. Il caso General Electric Nel 2015, General Electric ha scelto una forma di narrazione diversa, cioè il branded podcast, una serie di podcast. È in assoluto il primo a fare ciò e si intitola “The Message”, con 8 milioni di download e racconta in 8 episodi la storia di crittografi che indagano sulla trasmissione di messaggi alieni, utilizzando tecnologie reali vendute dall’azienda. Il direttore creativo, Andy Golbert, sostiene che General Electric ha creato una serie tv. Inoltre, nel 1928 ha fatto la prima trasmissione televisiva, diventando broadcaster, dando il via alla produzione di contenuti televisivi.  Tornando ai confini dell’informazione, negli USA è nato Semafor, che produce newsletter innovative. Nel primo numero sul clima, il quotidiano ha ospitato una conferenza di Shewron, produttori di carburante. Lettering e Grafica sono perfettamente uguali al contenuto giornalistico e tale contenuto è nel flusso giornalistico con solo una piccola scritta “a message from our sponsor”; anche un inserto di Repubblica “Green&Blue” ha fatto lo stesso, prendendo esempio con ENI, cioè una Native Advertising sugli ENI Awards inconfondibile con un contenuto sponsorizzato, fornendo copertura dell’evento al Quirinale. Commentando il caso americano, Emily Atking, nella sua newsletter Heated, dice che questo è un esempio da manuale di Green Washing, una tattica di disinformazione talvolta usata dalle società altamente inquinanti per dipingere le loro azioni come rispettose dell’ambiente; dunque, in questo campo bisogna prestare attenzione, a partire dall’azienda fino al media a cui ci si appoggia. In questo modo si impone una puntualizzazione finale:  42 Dunque, bisogna essere consapevoli dei cambiamenti avvenuti e di quelli che avverranno; perché è sempre più urgente ed indispensabile saper distinguere il vero dal falso, e, soprattutto, bisogna cogliere il senso di sé e di ciò che si muove attorno a noi  qui entra in gioco il ruolo dell’informazione, perché un cittadino informato per essere tale ha bisogno dei buoni media, nonostante l’ampia, forse eccessiva, presenza del panorama mediatico, che può generare confusione, e come sappiamo il negozio dell’informazione è aperto 24/7, con possibilità di cercare, produrre e condividere news: opzione straordinaria come mai nella storia, benché sia ricca di insidie sia per chi fa che chi riceve il contenuto. In un’epoca dove tutto si genera e si consuma velocemente è molto difficile, più che mai importante, distinguere e scegliere le buone e cattive fonti, capire quello che si sta leggendo e ovviamente riflettere, usando il cervello. Potremmo dire che da quando Gutenberg si ha regalato la topografia, tutte le attività precedenti sono state favorite, intermediate e generate dalla stampa; da quando Bill Gates, Seve Jobs e altri ci hanno regalato il PC, il ruolo della stampa è andato via via scemando, fino a quando, con Zuckerberg, il mondo è stato avvolto da un brusio continuo in cui è sempre più difficile gestire Vero e Falso.  Nel passaggio da Gutenberg a Zuckerberg, si è consumata la più grande rivoluzione della storia. Tornando alle fonti, fondamentali per stabilire il rating, facciamo un esempio: è la fonte che rende più o meno preziosa l’acqua, allo stesso modo è la fonte che rende o meno credibile l’informazione. Oggi, nel supermercato dell’informazione possiamo scegliere tra milioni di informazioni. Insomma, il rispetto che oggi portiamo al nostro corpo, lo stesso dev’essere alla nostra coscienza: ma come si fa? Proprio selezionando le fonti di informazioni con cura. Il tema delle fonti riguarda tutti noi e se la fonte non è attendibile è come se noi ingerissimo veleno, basta una lettura superficiale ed incosciente, basta altrettanto per smascherare una bugia, il che ha reso più complicata la vita ai corruttori e soprattutto anche noi, come cittadini, laddove si tratti di effettivi cittadini partecipativi, concorriamo alla demolizione delle menzogne e alla costruzione della verità, tanto che il libero accesso alle fonti ha generato il fenomeno di self publishing. È il caso del Citizen Journalism, che ha talvolta preceduto il giornalismo, ma non l’ha sostituito, anzi ha integrato il giornalismo tradizionale. Inoltre, il Citizen Journalism non si applica solo alle hard news ma anche nel campo della moda, della gastronomia, ecc.: oggi il paradosso è che esistono blogger, come Chiara Ferragni, che superano le giornaliste già affermate. Naturalmente, non tutti i blogger avranno la stessa fortuna della cremonese ma resta il fatto che, a partire dall’Huffingon Post a Media Part, sono cresciute nuove realtà editoriali. È il fenomeno che abbiamo chiamato come pure player, nuovo soggetto importante capace di drenare lettori, risorse, rubandoli alla carta stampata, capaci soprattutto di incalzare sul piano del racconto giornalistico, di innovare cioè lo story telling, fino ad arrivare all’one man band. Ribadiamo il concetto di fact checking, che richiama l’importanza delle fonti, per i nuovi giornalisti la rete è quasi un paese di balocchi con un clima gioioso e pieno di energia, come quello che ha permesso il generarsi delle radio libere  la radio come matrice del web. Come hanno reagito i giornalisti? a) Indifferenza b) Fastidio c) Arrabbiatura d) Depressione  Viceversa, chi ha cavalcato l’onda, sono state pubblicità e pubbliche relazioni, potremmo dire le aziende, che hanno saputo far leva sul cambiamento di data mining per indirizzare produzione e comunicazione, ma anche la multimedialità per aumentare il product placement, per creare i promo dei prodotti e addirittura i brand agiscono con abilità, disinvoltura e aggressività sui social network. Si parla dunque di Native Advertising e Branded Content, con la cecità da banners. Insomma, le aziende sono state più veloci dei giornalisti, con possibilità concrete praticate di grandi player dell’industria. Tutto ciò che precede è Open Journalism. Nel tempo presente nulla è più come prima, tanto che negli USA ci si interroga partendo dal presente sul futuro, cercando di innovare nella direzione del cambiamento (In Italia, ovviamente, siamo indietro). Bisogna dare un valore aggiunto all’informazione per rendere efficacie il paywall, a pagamento, per avere approfondimenti di notizie, il che dovrebbe garantire l’evitare di fornire il giornalismo spazzatura, che esiste anche se il tema non se ne parla così tanto. Parola chiave: dubbio Dobbiamo nutrirci di dubbi, mantenendo in forma la coscienza, che oggi è l’esigenza dell’aspirazione sociale. Non basta un corpo tonico e una coscienza flaccida, i veleni della cattiva informazione sono peggiori 45 della cattiva alimentazione. Curiosità, conoscenza, riflessione sono i nostri principi guida, con sempre un backpack, uno zainetto di strumenti, sempre bisogna andare alle fonti e liberarsi dal luogo-comunismo. Non bisogna avere paura di usare la testa, uscendo dal pensiero mainstream, di essere diversi. Mai avere paura delle proprie idee. 46