Scarica APPUNTI integrati di Giustizia Amministrativa (Feliziani - UNIMC) e più Dispense in PDF di Giustizia Amministrativa solo su Docsity! GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA Prof. Chiara Feliziani - UNIMC Libro (“Lezioni di giustizia amministrativa” - Travi) e Appunti della lezione (2023/2024) 1 INTRODUZIONE 5 CAPITOLO II - Le origini del nostro sistema di giustizia amministrativa 8 CAPITOLO III - L’affermazione di una giurisdizione amministrativa 14 L’ENTRATA IN VIGORE DELLA COSTITUZIONE E L’ISTITUZIONE DEI TAR 19 CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (2010) 20 CAPITOLO IV - L’interesse legittimo 22 POMERIGGIO 26 4. L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e qualificata (cap. IV) 31 5. L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale 32 6. Quale “interesse” nell’interesse legittimo? L’identificazione del bene della vita 35 7. Interessi legittimi e diritti soggettivi 36 8. Interessi legittimi e risarcimento del danno 37 9. Interessi legittimi e interessi semplici; gli interessi 'superindividuali’ 41 CAPITOLO V - I principi costituzionali sulla tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione 44 1. I principi dei Trattati UE e della CEDU (cap. V) 44 2. I principi costituzionali 45 Cosa possiamo dire dovendo tirare le fila sui principi? (Pagine corrispondenti da 39 a 48 del libro) 54 CAPITOLO VI - La giurisdizione ordinaria nei confronti della P.A. 59 1. L’applicazione dei criteri per il riparto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa 59 2. I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di cognizione 61 3. La disapplicazione degli atti amministrativi 64 4. Il giudice ordinario e i procedimenti speciali nei confronti dell’amministrazione 66 5. Le disposizioni processuali particolari per il giudizio in cui sia parte un’amministrazione statale 67 6. Il giudice ordinario e le controversie di lavoro dei dipendenti dell’amministrazione 68 7. L’esecuzione forzata nei confronti dell’amministrazione 70 CAPITOLO VII - I RICORSI AMMINISTRATIVI 72 1. Principi generali 76 2. Il ricorso gerarchico 79 3. Il ricorso gerarchico: il problema del 'silenzio' (art. 6 d.p.r. n. 1199/1971) 82 4. Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione 84 5. Il ricorso straordinario 86 CAPITOLO VIII - Quadro generale della giurisdizione amministrativa 92 1. Premessa 92 2. Le classificazioni generali: la giurisdizione di legittimità 93 3. Le classificazioni generali: la giurisdizione esclusiva 95 4. La giurisdizione esclusiva nel c.p.a.: problemi aperti e nuove prospettive 96 5. Le classificazioni generali: la giurisdizione estesa al merito 100 SENTENZE VISTE A LEZIONE: 102 CAPITOLO X - Elementi preliminari del giudizio 112 1. L’azione per l’efficacia dell’amministrazione 112 2. Le parti necessarie 116 2 INTRODUZIONE Perché iniziare un corso di giustizia amministrativa parlando del provvedimento? Il provvedimento amministrativo è il prodotto di un procedimento amministrativo che a sua volta è una sequenza di atti e operazioni che sono funzionali all’esercizio del potere da parte della PA. Il provvedimento dunque, in quanto prodotto finale del procedimento, è un istituito nel quale si condensa e trova forma l’esercizio del potere amministrativo. Questo di regola, ma esiste anche l’istituto del silenzio così come esistono gli accordi. Restando però nell’esempio più ortodosso e classico, il provvedimento amministrativo è l’istituto nel quale trova forma l’esercizio del potere da parte della PA. Questa manifestazione del potere viene esternata fuori dal perimetro dell'amministrazione perché normalmente il provvedimento si rivolge a dei destinatari che sono i privati cittadini. Il provvedimento ha quindi una serie di caratteristiche che lo rendono idoneo a costituire manifestazione del potere, ad esempio il carattere unilaterale quando, in particolare, il procedimento ha avuto inizio d’ufficio, ma poi ha anche il carattere della imperatività ecc… È in questa relazione tra esercizio del potere e cittadino che si inserisce la giustizia amministrativa. Che cosa si intende? Se non ci fosse la PA e se questa non esercitasse un potere pubblico, di norma discrezionale, il giudice amministrativo non avrebbe ragione d’essere. Si deve sottolineare il fatto che, senza l’amministrazione, il giudice amministrativo sarebbe uno strumento senza alcun senso. Da questa descrizione, molto sommaria, si desume la risposta, o una delle possibili risposte, alla domanda da cui questo corso deve prendere le mosse. Che cos’è la giustizia amministrativa? Della giustizia amministrativa sono state date nel tempo diverse definizioni che riflettono un i tempi e il modo di intendere la PA, il potere pubblico e il rapporto tra cittadino e PA. 1. Nell’ambito della dottrina più risalente si è data prevalenza al cosiddetto momento oggettivo, o profilo oggettivo , della giustizia amministrativa. Questo laddove, ad esempio, si è detto che la giustizia amministrativa sta ad indicare un insieme di istituti, di qualsiasi natura, diretti ad assicurare l’osservanza da parte della PA dei limiti imposti all’esercizio della sua attività, o meglio, del suo potere. Questo autore, Guicciardi, sostanzialmente dice che la PA esercita un potere pubblico, ma deve farlo entro un certo periodo e con certi criteri. Dunque, la giustizia amministrativa è un insieme di strumenti funzionali a far sì che l’amministrazione eserciti il proprio potere entro un certo perimetro fissato dalla legge. 2. La dottrina di poco successiva, partendo da questa prima definizione, ha descritto la giustizia come un complesso di mezzi che l’ordinamento appresta per assicurare la conformità dell’azione amministrativa alle leggi e, in certi casi, scriveva Mario Nigro, ai principi della opportunità e della ragionevolezza . Ragionevolezza che è un principio non scritto del diritto amministrativo eppure viene considerato la stella polare che deve guidare la PA nell’esercizio della propria funzione. 3. In un’epoca più recente è stata valorizzata la componente soggettiva ; infatti, le definizioni precedenti di fatto pongono l’attenzione sul rapporto amministrazione/legge e, né Guicciardi né Nigro, menzionano il cittadino, bensì parlano dell’amministrazione in rapporto alla legge. Più di recente, invece, si è assistito ad una valorizzazione del profilo soggettivo, è stata valorizzata la figura del privato al cospetto dell'amministrazione. Ad esempio, si è parlato della giustizia come una serie di mezzi che sono concessi ai singoli per difendere le proprie posizioni nei confronti della PA. Ancora, Travi, ha descritto la giustizia amministrativa come 5 un insieme di istituti, non tutti di carattere giurisdizionale, diretti ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti della PA. Volendo schematizzare si può dire che si è partiti da una concezione della giustizia amministrativa funzionale a garantire che l’esercizio del potere da parte della PA fosse contenuto entro il perimetro fissato dalla legge, ad una concezione della giustizia amministrativa di fatto funzionale allo stesso obiettivo, ma non per un amore di legalità tout court , ma a beneficio del cittadino. Cioè, queste definizioni più recenti che valorizzano la dimensione soggettiva della giustizia amministrativa ci dicono che non è importante tanto che l’amministrazione rispetti la legge, quanto che l’amministrazione non leda la posizione giuridica soggettiva del singolo. Di fatto è la stessa cosa, ma questo diverso modo di intendere la giustizia amministrativa, inevitabilmente, ci porta a cogliere un mutamento di prospettiva che valorizza il ruolo del privato di fronte alla amministrazione. Come a dire, il privato non è suddito, ma è un soggetto che strutturalmente parte da una posizione di asimmetria rispetto all'amministrazione e la giustizia amministrativa sta a presidio degli interessi del cittadino per cercare di riequilibrare questa asimmetria di partenza. Ora, la domanda nella domanda, potrebbe essere: a che cosa è dovuto questo cambio di prospettiva? Questo cambio di prospettiva è dovuto al mutare dei tempi e ad un diverso modo di regolare, già dal punto di vista sostanziale, il rapporto tra cittadino e PA. Sappiamo che storicamente il pubblico potere era l’emanazione del Re e il singolo cittadino era, di fatto, suddito. La storia della PA è una storia volta a riequilibrare questo forte gap e, in particolare, negli anni 70’/80’ sono stati fatti grandi passi in avanti. Si pensi alla legge 241 del 1990 e a tutti quegli istituti che applicano la stessa disciplina, istituti che sono stati introdotti per salvaguardare delle prerogative dei singoli e quindi per riequilibrare quella asimmetria tra PA e cittadino (esempi di istituti: motivazione, accesso, partecipazione, termine di conclusione del procedimento). Soprattutto però è cambiato anche il ruolo della PA nella società , storicamente la PA, come dice Corso, era lacunosa nei confronti dei singoli, era un’amministrazione che tendeva a togliere, a punire, e in qualche modo vessava il singolo, poiché questo era suddito. Oggi non è così, forse sono più le volte in cui noi ci rapportiamo all'amministrazione per chiedere qualcosa. Si pensi ai servizi pubblici, questi sono infatti servizi che l’amministrazione appresta per garantire servizi alla stessa collettività (servizio sanitario, scuola, rifiuti, postale, idrico). Si pensi a tutti quei procedimenti che prendono inizio ad istanza di parte (rilascio del passaporto, iscrizione ad un albo professionale, partecipazione ad un concorso). Il professor Corso ci racconta come è cambiato questo rapporto tra amministrazione e cittadini, non abbiamo più solo una amministrazione che toglie, ma abbiamo soprattutto una amministrazione che da. A fronte di questo cambiamento, su di un piano sostanziale, della relazione tra PA e cittadini, non poteva non cambiare anche la giustizia amministrativa. Quell’insieme di strumenti di cui abbiamo parlato poco fa non poteva restare impermeabile al cambiamento che ha investito la PA da un punto di vista sostanziale. Questo perché tra l’amministrazione e il giudice amministrativo esiste una sorta di gioco di specchi (NIGRO), cioè i caratteri della amministrazione si riflettono sulla giustizia amministrativa, così come, in parte, la giustizia amministrativa riesce anche ad influenzare l’amministrazione. Questo perché sono due entità che procedono insieme, con una differenza di fondo, che se l’amministrazione stesse sempre nel perimetro indicato dalla legge, e ci stesse perfettamente, non ci sarebbe bisogno del giudice amministrativo, è come se il giudice fosse la 6 medicina che cura una patologia di una amministrazione.Ovviamente, più la relazione amministrazione/cittadino funziona e meno si dovrà adire al giudice amministrativo. Qualche anno fa si voleva, tramite una serie di riforme, cercare di giungere ad un punto in cui si potesse fare a meno del giudice amministrativo. La critica che la professoressa muoveva a questi intenti riformatori era data dal fatto che questi discorsi non coglievano molto nel segno, perché andavano a guardare alla medicina senza fare attenzione alla patologia. Nessuno metteva in evidenza le cose della PA che non andavano bene e tutti si scagliavano nei confronti del giudice. Fatto sta che, proprio alla luce di questi cambiamenti di cui abbiamo accennato, in letteratura si parla da quasi sempre della giustizia amministrativa associandola a termini come modificazione , trasformazione , transizione , trasfigurazione e queste sono tutte espressioni ricorrenti quando si parla di giustizia amministrativa nel sistema italiano, ma è interessante notare che, se allarghiamo un po’ lo sguardo, sono espressioni che tornano nella letteratura riferita ai sistemi di giustizia amministrativa di altri paesi, come quello tedesco. Questo è significativo perché sta a corroborare il fatto che c’è una sorta di adattamento della giustizia amministrativa ai cambiamenti che investono la società e il ruolo della PA nella società. Tutte queste espressioni e le riflessioni che vi ruotano intorno ci consegnano l’idea del cambiamento che investe i rapporti tra PA e cittadino. Che cosa si è trasformato? Ad essere interessati da questo cambiamento sono state le forme e i modi della giustizia amministrativa. È interessante, però, mettere in evidenza che la sua funzione non è cambiata, la funzione della giustizia amministrativa è quella di un meccanismo che sta a presidio degli interessi del cittadino nei confronti della PA. Questo mutamento ha interessato le forme e i modi della giustizia, come per esempio un ampliamento delle forme di tutela cautelare, un ampliamento delle azioni esperibili davanti al giudice amministrativo, un ampliamento dei mezzi istruttori ammissibili. Tutte queste novità, secondo qualcuno, dovrebbero portare a non parlare più di giustizia amministrativa, ma di processo amministrativo o di diritto processuale amministrativo . Questo soprattutto dopo l’avvento del Codice del processo amministrativo nel 2010 (c.p.a.). Si dice che la locuzione giustizia rimanda troppo alle origini storiche di questo sistema di tutela e non risponde più alla situazione attuale e quindi questa espressione dovrebbe essere considerata superata. Non c’è dubbio che ci sia stata una processualizzazione dei mezzi di tutela nei confronti della PA, così come non c’è dubbio che questa processualizzazione, in molti casi, ha coinciso con la tendenza alla civilizzazione del processo amministrativo per renderlo il più simile possibile al giudizio civile. La professoressa non è persuasa dalla bontà della espressione di diritto processuale amministrativo, perché giustizia amministrativa è una espressione che esprime meglio la connessione tra la dimensione sostanziale e quella processuale. Questo tipo di tutela, cioè la tutela erogata dal giudice amministrativo, nel suo nucleo più caratteristico, consiste nell’accertamento del corretto esercizio dei poteri da parte dell'amministrazione. Nel fare questo, il giudice amministrativo coopera in maniera determinante all’emersione dell’interesse legittimo, cioè concorre essa stessa alla formazione della fattispecie sostanziale, proprio per quel rapporto, molto stretto e biunivoco, che esiste tra esercizio del potere e sindacato sull’esercizio del potere. Non si potrebbe cogliere tutto questo se noi ci limitassimo a studiare gli istituti disciplinati nel Codice del processo amministrativo, anzi, a giudizio della professoressa, per capire bene che cosa sia la giustizia amministrativa e come funziona è quasi più importante conoscere del vecchio processo amministrativo che non del nuovo. Per capire la giustizia amministrativa oggi è necessario studiare come è nata e quali sono state le vicende storiche che nel tempo l’hanno interessata. 7 contenzioso involgente l’amministrazione fossero una stessa branca del potere esecutivo dello Stato . Come si poteva risolvere il problema? Le strade erano fondamentalmente due: il contenzioso amministrativo assumeva anche formalmente le vesti giurisdizionali, oppure questo sistema del contenzioso doveva essere abolito. A sostegno del sistema del contenzioso amministrativo risultavano invocati tre ordini di considerazioni: ○ Tutela dell’interesse pubblico: sembrava essenziale che l’attuazione dell’interesse pubblico non fosse ostacolata da un intervento del giudice; attraverso un sistema di contenzioso amministrativo sembrava che questa esigenza fosse meglio garantita. ○ Esclusione delle garanzie di inamovibilità ed imparzialità previste per i giudici ordinari: la mancanza di queste garanzie era ritenuta da alcuni un fattore positivo, perché avrebbe consentito di far valere in modo più efficace la responsabilità dei giudici del contenzioso amministrativo. ○ Specialità del diritto dell’amministrazione: le controversie demandate ai giudici del contenzioso amministrativo riguardavano istituti diversi da quelli del diritto comune. Sembrava quindi opportuno che fossero demandate ad un giudice diverso da quello ordinario, che acquisisse un’esperienza e una conoscenza più approfondita su questioni del genere. Questi argomenti erano criticati dagli oppositori dei modelli di contenzioso amministrativo: essi sostenevano l’esigenza che anche le controversie tra l’amministrazione e il cittadino fossero assegnate al giudice ordinario. SOLO un giudice estraneo all’amministrazione e dotato di tutte le garanzie previste per i giudici ordinari avrebbe potuto assicurare l’imparzialità necessaria per una decisione. L’imparzialità appariva ancora più necessaria proprio perché una parte in causa era l’amministrazione e che la controparte fosse un soggetto pubblico non era considerato un elemento di garanzia, ma accentuava il pericolo di collusioni o di prevaricazioni. Il giudice ordinario era il giudice della libertà dei cittadini; in ogni giurisdizione speciale sembrava annidarsi il privilegio per l’amministrazione. 3. La storia ci dice che è prevalsa la seconda opzione, anche sull’esempio di quanto era avvenuto in altri paesi europei, in particolare in Belgio, e questo ci spiega perché l’allegato E della legge n° 2248/1865 (“ Legge per l'unificazione amministrativa del Regno d'Italia ”) ha disposto, all’articolo 1, l’abolizione dei tribunali speciali del contenzioso amministrativo. Era composta da sei testi normativi, che furono allegati alla legge: ○ Allegato A - Legge sull’amministrazione comunale e provinciale ○ Allegato B - Legge sulla sicurezza pubblica ○ Allegato C - Legge sulla sanità pubblica ○ Allegato D - Legge sul Consiglio di Stato → Non erano previste particolari garanzie di indipendenza né per quanto riguarda la nomina dei suoi componenti, né per quanto riguardava la loro inamovibilità. La continuità con l’amministrazione era sottolineata dalla possibilità per i Ministri di intervenire alle sedute direttamente o attraverso delegati. Fu confermata l’articolazione nelle tre sezioni, che in alcuni casi operavano collegialmente in adunanza generale. Il Presidente del Consiglio di Stato poteva formare, per l’esame di questioni particolari, delle “commissioni speciali”, designando i consiglieri che ne avrebbero fatto parte. Al Consiglio di Stato erano assegnate competenze CONSULTIVE: in alcuni casi il parere era obbligatorio. In questa normativa si faceva riferimento al RICORSO al Re, spesso definito come ricorso STRAORDINARIO, perché poteva essere proposto solo 10 dopo l’esaurimento dei rimedi ordinari (cioè i ricorsi gerarchici). Il Ricorso al Re (anche se costituiva un residuo dell’esercizio da parte del Sovrano di poteri di giustizia ritenuti tipici dello Stato assoluto) formalmente era coerente con il dettato dello Statuto Albertino, che riferiva all’autorità del Re il complesso dell’amministrazione. Non rappresentava però uno strumento di tutela giurisdizionale e non comportava l’esercizio da parte del Sovrano di poteri tipici dei giudici speciali. In alcune ipotesi tassative il Consiglio di Stato esercitava funzioni giurisdizionali, come giudice speciale. In questi casi il procedimento aveva carattere contenzioso e la decisione poteva comportare l’annullamento dell’atto amministrativo. Oltre a tali competenze, gli venne conferita una competenza di particolare rilevanza istituzionale: la risoluzione dei conflitti tra amministrazione e autorità giurisdizionale. In questo modo sembrava realizzato un certo equilibrio, tra l’esigenza di evitare una prevalenza dell’ordine giudiziario rispetto all’amministrazione e l’esigenza di assicurare una decisione “giurisdizionale” e non “politica” del conflitto. ○ Allegato E - Legge abolitrice del contenzioso amministrativo → Questa legge nonostante convenzionalmente segni l’inizio della storia della giustizia amministrativa, non istituisce il giudice amministrativo, non fonda realmente la giustizia amministrativa, ma ne detta i presupposti. Perché diciamo questo? Perché l’allegato E, dopo aver disposto all’art 1 l’abolizione dei tribunali speciali del contenzioso amministrativo, ha stabilito la devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione ordinaria o all'autorità amministrativa, a seconda che si facesse questione di un diritto civile o politico, o di un affare non compreso. ➔ L’ art. 1 dispone l’ abolizione dei Tribunali speciali del contenzioso amministrativo e devolve le relative controversie alla giurisdizione ordinaria o all’autorità amministrativa. ➔ L’ art. 2 assegna al giudice ordinario le controversie, involgenti la PA, aventi ad oggetto un diritto civile o politico . La legge precisava espressamente che la competenza del giudice ordinario non poteva subire eccezioni per il fatto che parte in giudizio fosse un’amministrazione o che fossero coinvolti suoi interessi. In questo disegno della soppressione dei Tribunali del contenzioso amministrativo doveva perciò corrispondere un’estensione nell’ambito della giurisdizione ordinaria e nello stesso tempo il legislatore volle anche evitare che si riproducesse la situazione dove c’era una scarsa propensione dei giudici civili ad ammettere la loro competenza quando in gioco ci fossero degli atti amministrativi: fu sancito che la giurisdizione del giudice ordinario non avrebbe incontrato eccezioni per il fatto che si discutesse di “provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa”. ➔ L’ art. 3 assegna all’autorità amministrativa le controversie, involgenti la PA, riguardanti gli affari non compresi nella norma precedente. E’ stato fatto un bel passo in avanti, ma restano fuori quelli che la legge abolitrice del contenzioso amministrativo chiama “affari non compresi”. L’allegato E con questa locuzione individua, per sottrazione, tutto ciò che non è un diritto soggettivo, e afferma che deve essere devoluto dinanzi alla autorità amministrativa. Gli affari non compresi sono quindi un qualcosa di diverso dai diritti soggettivi, ma nelle relazioni tra PA e cittadino non sono certo meno numerosi. 11 Già allora i commentatori della legge dicevano che la vita civile è intessuta di atti amministrativi indirizzati al perseguimento dell’interesse pubblico, ma che nondimeno possono tornare a nocumento del privato. Quasi subito è quindi parso inaccettabile che la tutela di queste situazioni giuridiche soggettive, diverse dai diritti soggettivi, fosse deferita ad una autorità amministrativa. Si poteva trattare solo di vertenze che non avessero natura penale e che non avessero come oggetto un diritto civile e politico. In questo ambito riservato all’amministrazione erano introdotte alcune garanzie per i cittadini, segno che il legislatore aveva percepito la delicatezza della loro posizione in un ambito escluso dalla tutela giurisdizionale. In primo luogo era previsto che le autorità amministrative avrebbero provveduto con decreti motivati, con l’osservanza del contraddittorio con le parti interessate e previa acquisizione del parere di organi consultivi. In secondo luogo, nei confronti dei decreti assunti dall’amministrazione, fu consentito il ricorso in via gerarchica: a questo ricorso fu subito riconosciuta un’operatività molto ampia, tanto da farne a lungo uno degli istituti fondamentali per la tutela del cittadino. - Queste due disposizioni definivano in via generale il quadro dei LIMITI ESTERNI della giurisdizione civile nei confronti dell’amministrazione tali limiti esterni rispecchiavano la distinzione fra “le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico” e gli “affari non compresi”. La tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione era così articolata: nelle materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico era ammessa la tutela giurisdizionale, davanti al giudice ordinario; nelle altre materie, la tutela del cittadino si risolveva nell’ambito dell’amministrazione ed era ammesso solo il ricorso gerarchico. - Nelle controversie di competenza del giudice ordinario, ovvero quelle inerenti i diritti civili e politici, le ragioni della specialità dell’amministrazione non scomparivano del tutto, ma trovavano un riscontro nei LIMITI INTERNI della giurisdizione civile. L’equilibrio tra garanzia della tutela giurisdizionale e separazione dei poteri era ricercato ammettendo un sindacato del giudice ordinario solo sulla legittimità dell’atto amministrativo (e non sulla sua opportunità o convenienza, che solo l’amministrazione poteva valutare) ed era riconosciuto al giudice ordinario la competenza a sindacare la legittimità dell’atto, ma non ad annullarlo, revocarlo o modificarlo: un intervento del genere era riservato all’amministrazione. Con riferimento ai limiti interni della giurisdizione ordinaria s’introduceva il controverso istituto della “disapplicazione” dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario. Il sistema delineato nell’allegato E della legge n° 2248/1865 avrebbe potuto assicurare (in astratto) un’efficace tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione. Sarebbe stato necessario però, attuare in modo adeguato l’art. 3 della legge, sulla tutela del cittadino nel procedimento amministrativo e attraverso i ricorsi gerarchici; invece la norma sulla 12 CAPITOLO III - L’affermazione di una giurisdizione amministrativa I risultati della riforma del 1865 apparvero ben presto insoddisfacenti: la tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione era tutt’altro che realizzata e l’abolizione del sistema del contenzioso amministrativo aveva comportato un indebolimento delle garanzie offerte al cittadino. Di questa esigenza di “revisione” se ne fecero portatori uomini come Crispi, Mantellini (che elaborò un primo progetto di riforma) e poi Spaventa. Il tema presentava due profili fondamentali, tra loro connessi: - L’attuazione di una tutela più ampia ed incisiva del cittadino nei confronti dell’amministrazione; - L’individuazione dell’organo cui affidare tale tutela; Oggi si tende a risolvere il primo profilo nella tutela delle posizioni soggettive che risultavano non garantite dal giudice ordinario, dopo la riforma del 1865; secondo questa lettura, si doveva considerare un fatto compiuto e non più reversibile la giurisprudenza sui conflitti affermatasi con il Consiglio di Stato prima del 1877 e proseguita dalle sezioni unite della Corte di Cassazione dopo il 1877. Questa giurisprudenza affermava una tendenziale incompatibilità tra il diritto soggettivo (situazione soggettiva la cui tutela era demandata al giudice ordinario) e il provvedimento amministrativo: il diritto soggettivo del cittadino era riconosciuto e garantito nei confronti dell’amministrazione solo quando essa agiva “iure privatorum” e in poche altre ipotesi; là invece dove interveniva un provvedimento amministrativo di regola vi erano solo interessi. Di conseguenza si delineava una contrapposizione tra i diritti, che in quanto tali erano passibili di una tutela giurisdizionale in forza dell’art. 2 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, e gli interessi diversi dai diritti soggettivi, che erano privi di una tutela giurisdizionale anche quando risultavano di grande importanza per il cittadino e riguardavano profili dell’attività amministrativa disciplinati dalla legge. Sorgeva l’esigenza di introdurre uno strumento di tutela per questi interessi, configurabili quando l’amministrazione emana atti “di imperio” ed opera in base ad un potere assegnatole dal diritto pubblico. In questo contesto è maturato il progetto, innanzitutto politico, di istituire una IV sezione del Consiglio di Stato designata come sezione “per la giustizia amministrativa”. La IV sezione nasce grazie ad un disegno di legge presentato in Senato il 22 novembre del 1887, che poi diventerà la legge 31 marzo 1889 n° 5992 , meglio nota come legge Crispi, o legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato, istituito da Carlo Alberto nel 1831, prima della Unità d’Italia, era composto da 3 sezioni consultive, ovvero aventi funzione di rendere pareri all’esecutivo, rispetto alle tre materie più importanti, ovvero; affari interni, finanza e giustizia. La IV sezione avrebbe dovuto, nell’ottica dei fautori della legge Crispi, completare il sistema di giustizia delineato dall’allegato E, invece si rivelò essere un vero fattore di rottura, di rivoluzione del sistema, perché ha segnato il passaggio da un sistema monistico ad un sistema dualistico. La legge Crispi ha segnato il passaggio da un sistema in cui c’era una sola giurisdizione, un solo giudice ( monistico ) a un sistema a doppia giurisdizione ( dualistico ). Che è il sistema che abbiamo ancora oggi → giudice ordinario e giudice amministrativo. Dopo la legge Crispi, quindi, il cittadino che lamenta la violazione da parte della PA di una propria posizione giuridica soggettiva si dovrà rivolgere ad un giudice diverso a seconda che si faccia questione di un diritto soggettivo o di un affare non compreso, o per meglio dire di un interesse legittimo. E cioè, mentre dei diritti soggettivi dovrà occuparsi il giudice ordinario, ai sensi dell’articolo 2 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, degli interessi legittimi dovrà invece occuparsi il giudice amministrativo. Alla Quarta sezione era demandata la tutela di interessi, designati come “interessi d’individui o di enti morali giuridici”: la loro distinzione rispetto ai diritti si poteva ricavare dal fatto che la competenza 15 della Quarta sezione non poteva interferire con quella del giudice ordinario. La tutela di questi interessi si realizzava con ricorsi “contro atti e provvedimenti di un’Autorità amministrativa” e, quindi, nelle forme di impugnazione del provvedimento amministrativo. La posizione centrale riconosciuta all’atto amministrativo rifletteva la convinzione dell’incompatibilità tra diritto soggettivo e l’esercizio del potere d’imperio, di cui era espressione tipica il provvedimento amministrativo. Il provvedimento assumeva un ruolo decisivo, sia per la definizione della competenza della Quarta sezione, sia come fattore di raccordo tra l’attività amministrativa e la giustizia amministrativa. La tutela del cittadino si configurava, nella legge del 1889, come tutela contro il provvedimento amministrativo. I ricorsi alla Quarta sezione erano mezzi di impugnazione del provvedimento e producevano, come utilità per il ricorrente, l’ annullamento del provvedimento impugnato. ● La tutela era però ammessa solo nei confronti di un atto che fosse già produttivo dei suoi effetti ; era perciò una tutela successiva e non preventiva. In questa logica, l’art. 12 disponeva che “i ricorsi non hanno effetto sospensivo”; però “per gravi ragioni” su istanza del ricorrente, la Quarta sezione poteva sospendere l’esecuzione dell’atto o del provvedimento, ma la presentazione del ricorso di per sé non incideva sull’esecutività del provvedimento né sull’esercizio successivo della funzione amministrativa. ● Il ricorso poteva essere proposto dal cittadino per impugnare un provvedimento affetto da vizi tassativamente indicati dalla legge : ○ Incompetenza → intesa come vizio degli elementi soggettivi dell’atto amministrativo; era identificata principalmente nei casi in cui l’organo che aveva emanato l’atto impugnato non fosse titolare della competenza a provvedere. ○ Eccesso di potere → non veniva individuato nello “straripamento di potere” ma con un uso gravemente scorretto del potere discrezionale da parte dell’amministrazione. L’illegittimità dell’atto consisteva nel contrasto con alcuni principi generali, ritenuti vincolanti per l’amministrazione (es: il dovere di imparzialità), che in parte erano già stati elaborati dal Consiglio di Stato nei suoi pareri sui ricorsi straordinari. ○ Violazione di legge → fu inteso il vizio specifico rappresentato dal contrasto tra un elemento del provvedimento o del suo procedimento e una disposizione contenuta nella legge o in altra fonte del diritto. ● Inoltre, bisogna specificare che la legge del 1889 introduceva un rapporto preciso fra il ricorso alla IV sezione e il ricorso gerarchico. Il ricorso alla IV sezione era ammesso solo contro un provvedimento definitivo, ossia contro un provvedimento per il quale fossero stati esperiti tutti i gradi della tutela gerarchica . Invece, per quanto riguardava il ricorso straordinario al Re, l’articolo 7 della legge del 1889 introduceva la regola della sua alternatività con il ricorso alla IV sezione. ● Erano esclusi gli “ atti emanati dal governo nell’esercizio del suo potere politico ”; il senso della norma era di sottrarre al sindacato di autorità esterne determinati atti che non avevano carattere legislativo. ● La competenza della IV sezione si incentrava nel sindacato di legittimità sull’atto amministrativo. In taluni casi particolari, però, la legge del 1889 attribuiva alla suddetta sezione un sindacato anche “in merito”. In questi casi, la IV sezione, nel caso di accoglimento del ricorso, non avrebbe dovuto limitarsi ad annullare l’atto impugnato, ma avrebbe potuto esercitare poteri più ampi ed assumere una decisione sulla vertenza in sostituzione del provvedimento annullato. La legge Crispi non chiariva però la natura consultiva o giurisdizionale della IV Sezione del Consiglio di Stato e, in particolare, le perplessità circa la natura di questa IV sezione, erano accresciute dal fatto che la stessa legge Crispi definiva le pronunce della IV Sezione non come sentenze, ma come 16 decisioni , decisione che è un termine abbastanza atecnico. Infatti, mentre la sentenza è l’atto tipico del giudice, la decisione non sottende necessariamente l’esercizio di un potere giurisdizionale. La dottrina si pose quindi il dubbio di quale fosse la natura di questa IV Sezione e Orlando, insieme ad altri numerosi autori, sostenne la tesi della natura amministrativa della stessa. Si disse che il Consiglio di Stato nasce come un organo di amministrazione, le 3 sezioni del Consiglio di Stato solitamente hanno una funzione consultiva e quindi per la IV sezione, per analogia, varrà lo stesso discorso. In realtà, col senno del poi, noi sappiamo che non era proprio così e il crisma della natura giurisdizionale della stessa IV sezione è stato dato dalla Corte di Cassazione che venne indicata come giudice competente a dirimere i conflitti di attribuzione. La Cassazione infatti, in più di un'occasione, aveva dichiarato ammissibili i ricorsi per motivi di giurisdizione proposti contro le decisioni della IV sezione del Consiglio di Stato. Di conseguenza, è stato agevole desumere il carattere giurisdizionale della stessa IV sezione. In questo modo, quindi, complice la legge Crispi, e complice il contributo offerto dalla Corte di Cassazione, è nato un nuovo giudice, che poi è stato consacrato come tale, alcuni anni dopo, grazie alle legge 7 marzo 1907 n° 62 . Questa legge ha formalmente sancito la natura giurisdizionale della IV sezione del Consiglio di Stato. Come ha fatto? Attraverso il distinguo tra sezioni consultive, le prime tre, e sezione giurisdizionale, la IV. Questa stessa legge ha anche istituito una V Sezione , sempre con funzioni giurisdizionali. Oggi le sezioni del Consiglio di Stato sono 7 e la settima è stata istituita lo scorso anno (2022). Inoltre, questa legge ha previsto che il coordinamento tra le sezioni fosse demandato alle Sezioni riunite, quella che è ad oggi l’ Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, composta dai componenti delle varie sezioni. L’adunanza plenaria si riunisce quando c’è un contrasto giurisprudenziale in atto su una certa questione. Es. c’è un contrasto tra l’orientamento di una sezione del Consiglio di Stato e la giurisprudenza di I grado, la giurisprudenza dei Tar. Un caso recente molto suggestivo a questo riguardo è quello che ha portato alla pronuncia dell’Adunanza plenaria, 9 novembre 2021, delle sentenze gemelle 17 e 18, sentenze sulle concessioni balneari. Il problema giuridico di fondo era dato dal dovere della PA di non applicare una norma di legge che si sapeva essere in contrasto con il diritto dell’Unione europea. C’era una giurisprudenza di primo grado, il TAR Lecce, che sosteneva il dovere dell'amministrazione di applicare la legge interna, viceversa, la giurisprudenza del Consiglio di Stato riteneva che in questi casi non si debba dare applicazione alla norma nazionale. L’aspetto ulteriormente interessante di questa vicenda è che, mentre normalmente il ricorso all’Adunanza plenaria è sollecitato dalle parti e proposto da un collegio, in questo caso il rinvio all’adunanza plenaria è stato disposto d’ufficio dall’allora Presidente del Consiglio di Stato, Franco Frattini. Abbiamo quindi detto che: la legge abolitrice del contenzioso amministrativo devolve le cause di cui è parte la PA al giudice ordinario nella misura in cui si faccia questione dei diritti soggettivi, invece, degli interessi legittimi, si occupava l’autorità amministrativa. La legge Crispi cerca di porre rimedio a questa situazione che aveva creato un forte squilibrio di tutela istituendo una IV sezione del Consiglio Stato, ma non chiarisce la natura di questa sezione. Natura che viene chiarita, da un punto di vista fattuale, dalla Corte di Cassazione nella propria attività di arbitro tra le giurisdizioni e che poi viene consacrata come giurisdizionale dalla legge 7 marzo 1907 n° 62, la quale ha sancito formalmente la natura giurisdizionale della IV sezione attraverso un netto distinguo tra funzioni consultive, le prime tre del Consiglio di Stato, e funzioni giurisdizionali, ovvero la IV e la neonata V sezione, alla quale erano demandati i ricorsi con sindacato esteso al merito, mentre alla IV sezione erano riservati i ricorsi nei casi generali in cui il sindacato era limitato alla legittimità. 17 Subito dopo, con il d.lgs. 6 maggio 1948 n° 654 , venne istituito il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana, organo equiordinato al Consiglio di Stato, con funzioni consultive e giurisdizionali. Solo nella seconda metà degli anni ’60 l’incidenza dei principi costituzionali divenne più evidente, soprattutto in considerazione delle previsioni sull’indipendenza del giudice. La Corte costituzionale dovette dichiarare l’illegittimità di alcune giurisdizioni speciali, la cui disciplina non garantiva adeguatamente l’indipendenza dei giudici. In particolare, fu dichiarata illegittima la composizione della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale: di seguito a ciò le vertenze demandate alla giunta provinciale amministrativa, divennero di competenza, in unico grado, del Consiglio di Stato. Una sorte analoga ebbero le Sezioni dei tribunali amministrativi per il contenzioso elettorale (che erano state istituite nel 1966, per le controversie sulle operazioni elettorali). Gli interventi della Corte costituzionale e l’avvio delle Regioni a statuto ordinario resero più urgente l’attuazione dell’art.125 Cost, che prevedeva l’istituzione, in ogni Regione, di un giudice amministrativo di primo grado. Con la legge 6 dicembre 1971 n°1034 (legge TAR) furono istituiti, nei capoluoghi di ciascuna Regione, i Tribunali Amministrativi Regionali ; successivamente, in 8 Regioni furono istituite anche sezioni staccate presso altrettanti capoluoghi di provincia. I Tar furono istituiti come giudici amministrativi di primo grado, dotati di competenza generale per le controversie per gli interessi legittimi e per quelle sui diritti soggettivi devolute alla giurisdizione esclusiva; ad essi furono assegnate anche le controversie sulle operazioni elettorali per le elezioni amministrative. Nei confronti delle sentenze del Tar fu previsto l’appello alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato che pertanto, a partire dal 1971, sono giudici di secondo grado. L’assetto generale della giustizia amministrativa sembrava completato dal d.p.r. 24 novembre 1971 n° 1199 , che fu emanato nell’esercizio della delega legislativa attribuita al Governo dalla L.775/1970, per la riforma del procedimento amministrativo. Il d.lgs. 1199/1971 dettò per la prima volta una disciplina organica dei ricorsi amministrativi : il ricorso gerarchico e gli altri ricorsi ad esso assimilati, e il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (2010) Dopo l’istituzione dei TAR, gli interventi legislativi sulla giustizia amministrativa furono limitati: sembrava raggiunto l’equilibrio. Tra gli interventi più significativi, ci fu l’estensione della giurisdizione esclusiva ad alcune controversie con l’amministrazione in materia edilizia. In queste controversie spesso interessi legittimi e diritti soggettivi erano strettamente correlati: l’introduzione della giurisdizione esclusiva seguiva pertanto logiche precedenti. Elementi sostanziali di novità emersero invece nella legislazione a partire dai primi anni ’90 del 900. Gli interventi legislativi seguivano due indirizzi principali: ● L’introduzione di discipline speciali per accelerare lo svolgimento del processo. Bisogna considerare che, già nel decennio successivo all’istituzione dei TAR, emerse uno squilibrio tra il numero dei ricorsi proposti e i ricorsi decisi e, a causa di ciò, ci fu una dilatazione della durata dei giudizi. Quindi, il legislatore cercò di affrontare il problema introducendo delle disposizioni speciali che avrebbero dovuto assicurare una decisione più celere in ambiti di particolare importanza. Il tema ha assunto un rilievo maggiore per il riconoscimento nell’art. 111 Cost (come modificato dalla l. Cost. n° 2/1999) del diritto alla ragionevole durata del processo. Molte volte la durata di un processo amministrativo non ha rispettato il parametro costituzionale e lo Stato ha subìto frequentemente condanne ai sensi della l. 89/2001 (legge Pinto) per i pregiudizi derivati dall’eccessiva durata del processo amministrativo. 20 La l. n° 24/11990, nel prevedere il diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdusse per la sua tutela un rito speciale, di competenza del giudice amministrativo, caratterizzato da procedure celeri. In altri casi, fu dato rilievo alla rilevanza economica, finanziaria o sociale di certe vertenze, come per esempio, rendere celeri le decisioni dei ricorsi in tema di procedure espropriative e di affidamento di appalti pubblici: il legislatore voleva evitare che l’incertezza legata alla pendenza del giudizio e soprattutto un’eccessiva durata della sospensione dei lavori in seguito a misure cautelari del giudice amministrativo potessero compromettere gli equilibri di spesa e potessero pregiudicare l’interesse ad una sollecita realizzazione di opere pubbliche. ● L’ incremento dei casi di giurisdizione esclusiva , che non rispondeva solo all’esigenza (espressa nella riforma del 1923) di rendere più agevole la tutela del cittadino, evitando le incertezze e le complicazioni determinate dalla devoluzione a giudici diversi della tutela dei diritti e degli interessi legittimi. Si affermava anche il disegno di privilegiare il ruolo del giudice amministrativo nelle vertenze con l’amministrazione che risultassero più importanti per gli interessi generali della collettività. Furono assegnate alla giurisdizione esclusiva le controversie sugli atti delle Autorità indipendenti istituite per regolare i servizi di pubblica utilità. La tendenza ad estendere la giurisdizione esclusiva ricevette ulteriore impulso in occasione della riforma del pubblico impiego : il d.lgs. 29/1993 trasformò i caratteri del rapporto con l’amministrazione, perché si passò da un rapporto pubblicistico ad un rapporto contrattuale civilistico (di lavoro), anche se con profili di specialità. In coerenza con il d.lgs. 29/1993, nel 1997 fu conferita una delega al Governo per devolvere al giudice ordinario tutte le nuove controversie dei dipendenti assoggettati ad un rapporto contrattuale. Per conservare un equilibrio tra le due giurisdizioni, la stessa legge (l. 59/1997) conferì una delega al Governo anche per estendere la giurisdizione esclusiva alle controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, in materia edilizia, urbanistica e di servizi pubblici. La delega fu attuata estensivamente dal Governo, con il d.lgs. 80/1998, ma alcune disposizioni furono dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per eccesso di delega; il Parlamento ne ripropose il testo in una legge ordinaria ( legge 21 luglio 2000 n° 205 ). L’art. 7 della l.205/2000 aveva assegnato alla giurisdizione amministrativa anche le vertenze risarcitorie per lesione di interessi legittimi. Il contenzioso in questo ambito stava assumendo un rilievo particolare, dato che la Corte di Cassazione, nel 1999, superando il proprio indirizzo precedente, aveva riconosciuto in termini generali il diritto al risarcimento dei danni anche nel caso di lesione di interessi legittimi. La Corte valutò favorevolmente l’assegnazione di queste vertenze al giudice amministrativo, ritenendo che essa rispondesse a criteri di semplificazione della tutela e di celerità nella definizione delle vertenze. Fu importante anche per altre previsioni, che testimoniavano l’esigenza di una revisione della disciplina del giudizio amministrativo. ○ Vennero arricchiti i poteri di cognizione del giudice; ○ Venne integrato il quadro delle misure cautelari; ○ Venne istituito un rito specifico per le vertenze sul silenzio dell’amministrazione; ○ Venne ridefinito il rito speciale per le vertenze sull’affidamento degli appalti pubblici ○ Vennero stabilite alcune misure per accelerare la definizione dei giudizi. L’attenzione ai riti speciali fu confermata anche negli anni successivi, soprattutto per le controversie in materia di opere pubbliche e di affidamento di contratti pubblici; grazie alla direttiva 2007/66/CE, vennero introdotte altre previsioni specifiche → furono assegnati al giudice amministrativo poteri inediti, come quello di decidere (in relazione agli interessi coinvolti e alle situazioni concrete) se all’annullamento 21 dell’aggiudicazione dell’appalto dovesse seguire l’inefficacia del contratto o come applicare d’ufficio sanzioni all’amministrazione che avesse stipulato un contratto omettendo le procedura di evidenza pubblica o senza rispettare il termine dilatorio stabilito dalla legge. In seguito a questi interventi legislativi settoriali e frammentari, risultò forte l’esigenza di introdurre una disciplina organica del processo amministrativo; a tal fine il Parlamento conferì una delega al Governo con la legge 18 giugno 2009 n° 69. Il Governo affidò la redazione del testo del decreto legislativo al Consiglio di Stato (anche se poi s’intromise con alcune modifiche). La delega fu esercitata con il d.lgs. 2 luglio 2010 n° 104 e furono approvati 4 allegati : il primo con il CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO (c.p.a.) , il secondo con le norme d’attuazione al codice, il terzo con le norme transitorie e il quarto con le norme di coordinamento e le abrogazioni. Per la prima volta viene introdotto nel nostro Paese un “codice” del processo amministrativo: verrà regolato da una normativa unitaria, organica e più attenta ai principi costituzionali. Con l’entrata in vigore del codice venivano abrogate quasi tutte le disposizioni precedenti sul processo amministrativo; vennero abrogati il regolamento di procedura del 1907 e le disposizioni processuali contenute nel T.U. sul Consiglio di Stato del 1924, nella legge istitutiva dei TAR e nella legge n° 205/2000. La legge di delega prevedeva che il Governo, entro due anni dal suo primo esercizio, potesse emanare ulteriori decreti legislativi con le correzioni e integrazioni che l’applicazione pratica renda necessarie e opportune: in base a ciò furono introdotte “disposizioni correttive e integrative” al codice, prima con il d.lgs. 195/2011 e poi con il d.lgs. 160/2012 . Le previsioni del codice hanno subito ulteriori modifiche anche ad opera di leggi speciali: in particolare è stato più volte ampliato l’ambito della giurisdizione esclusiva e varie innovazioni hanno riguardato le controversie sull’affidamento di contratti pubblici. Una novità importante sul piano pratico è stata l’introduzione del processo amministrativo telematico , divenuto operativo dal 1° gennaio 2017, la cui utilità è stata apprezzata pienamente allo scoppio dell’emergenza epidemiologica Covid – 19 iniziata nel 2020. Dopo la nascita del codice del processo amministrativo, nacquero dei dibattiti che si basavano sulle scelte di fondo che stavano maturando con la nuova disciplina. Nel dibattito fu richiamato anche il tema della funzionalità del processo amministrativo, cioè la sua idoneità a rendere giustizia al cittadino in tempi ragionevoli. L’eccessiva durata del processo amministrativo rappresenta il problema più grave. Nell’ultimo decennio i progetti di riforma della giustizia civile, nel nostro paese, hanno dato ampio rilievo agli strumenti di conciliazione e di mediazione: vengono visti come strumenti “moderni” e come condizione di procedibilità dell’azione giurisdizionale. Per le vertenze sui contratti di appalto dell’amministrazione è stato proposto di valorizzare l’autorità di settore, ossia ANAC; il nuovo codice dei contratti pubblici ha stabilito che ANAC possa rendere pareri alle parti interessate, sulle questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara. ANAC ha emanato un regolamento (9 gennaio 2019) che ha escluso la possibilità del parere in esame quando la stessa controversia sia oggetto di un ricorso giurisdizionale. Il parere può essere vincolante per la parte che abbia dichiarato preventivamente di volersi attenere alla pronuncia dell’Autorità; ciò non comporta la perdita di qualsiasi tutela giurisdizionale, perché il parere vincolante di ANAC può essere impugnato avanti al giudice amministrativo. 22 Però, ci sono così in cui questo distinguo è un pò meno semplice. Teniamo fermo il primo esempio, sono creditore di una obbligazione pecuniaria, diritto soggettivo. D’altra parte, se sono interessata da un provvedimento che è espressione di discrezionalità tecnica o, se preferiamo, attività vincolata, qui non è sempre agevole capire se sono titolare di un diritto soggettivo o interesse legittimo. Se l’attività è vincolata si deve riconoscere che la legge prevede e quindi garantisce direttamente al cittadino un determinato risultato e in questo modo, la distinzione rispetto alle obbligazioni scompare. ● Esempio di attività vincolata: la presentazione della domanda di iscrizione all’albo degli avvocati. Se ho tutto il necessario per poter richiedere l’iscrizione, il consiglio dell’ordine non può dirmi di no. Io posso dire di vantare un diritto soggettivo o siamo sempre nell’ambito degli interessi legittimi? ● Esempio 2: io ho costruito una veranda sul balcone di casa, senza chiedere il permesso a nessuno. Stando al ragionamento di prima, dato che la casa è mia non dovrei, ma io vivo in centro e le facciate dei palazzi sono sottoposti a vincolo perché si tratta di un palazzo storico. Posso piazzare la veranda sul balcone? NO, e sicuro senza chiedere il permesso all'amministrazione. Se l’amministrazione se ne accorge, mi ordina il ripristino e magari mi applica una sanzione pecuniaria. Si tratta di un interesse legittimo o diritto soggettivo? Il fatto che noi ci poniamo questi dubbi, che la giurisprudenza se li ponga, deriva dalla mancanza di un criterio certo e univoco di distinzione tra i diritti soggettivi e gli interessi legittimi e quindi, a cascata, un criterio certo e univoco per il riparto di giurisdizione. Ora, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo si fonda sul cosiddetto criterio della causa petendi , vale a dire, la situazione giuridica soggettiva posta a fondamento dell’azione. Nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione, si fa riferimento all'oggetto della domanda e si menziona l’articolo 386 del cpc. Al fine di individuare la causa petendi, cioè la situazione giuridica soggettiva posta a fondamento dell’azione, non rileva la prospettazione operata dalle parti. Il giudice è chiamato a fare una valutazione su di un piano oggettivo e quindi a valutare il petitum sostanziale, il quale a sua volta va identificato in funzione della causa petendi, ovvero della natura intrinseca della posizione dedotta in giudizio e individuata dal giudice avuto riguardo agli allegati (Sentenza del 2020 n. 416 Sezioni Unite). Le Sezioni Unite ci dicono, quindi, che la giurisdizione spetta al giudice amministrativo quando la controversia ha come oggetto principale la contestazione della legittimità di atti amministrativi autoritativi. Riprendendo due note pronunce della Corte Costituzionale del 2004 e del 2006, c’è giurisdizione amministrativa ogni volta in cui si faccia questione dell’esercizio del potere da parte della amministrazione. Dunque, il presupposto fondamentale perché una controversia possa essere portata dinanzi al giudice amministrativo è che, a monte, l’amministrazione abbia esercitato il proprio potere. La giurisprudenza più recente, quindi, ci conferma la bontà di quello che si diceva all’inizio, il presupposto fondamentale per la giurisdizione amministrativa è l’esercizio del potere da parte della P.A. Ai fini del distinguo concreto tra giudice ordinario e amministrativo, la giurisprudenza, confortata anche dalla dottrina, è stata chiamata a trovare una serie di criteri per distinguere, antecedentemente, quando ci sia stato esercizio del potere e quando no. Questi criteri, però, non rilevano quando si è di fronte a materie attribuite per legge ad una data giurisdizione, ordinaria o amministrativa e, in particolare, si parla di una giurisdizione amministrativa esclusiva, speciale, nell’esercizio della quale il giudice può conoscere di diritti soggettivi e interessi legittimi. In questi casi per il riparto di giurisdizione non viene valutato dall’avvocato che presenta il ricorso o dal giudice che si pronuncia sulla causa, ma c’è una valutazione ex ante da parte della legge. È il legislatore che attribuisce una materia alla giurisdizione di un certo giudice. 25 Questo ha portato una parte della dottrina e, in particolare, il professor CLARICH ad osservare come il criterio di riparto per materie sia alternativo ai criteri di cui ci occuperemo nel pomeriggio e anche di come abbia una precedenza logica su quest’ultimi. Il problema del riparto tra giudice ordinario e amministrativo si pone quindi nella misura in cui la legge non abbia sancito che quella controversia sia attribuita, ex lege , ad una data giurisdizione. La giurisprudenza e la dottrina si sono dovute ingegnare per individuare dei criteri di riparto della giurisdizione , quindi, di fatto, per stabilire dei criteri volti a distinguere, nel caso concreto, i diritti soggettivi dagli interessi legittimi. Ci sono poi dei casi in cui è la legge stessa ad indicare quando rivolgersi al giudice ordinario o a quello amministrativo (casi di giurisdizione esclusiva). Tornando ai criteri, questi sono sostanzialmente 3, con la possibilità di essere usati in via cumulativa in talune circostanze. Questi 3 criteri sono: 1. Intorno alla metà del secolo scorso, soprattutto ad opera di GUICCIARDI, era stata affermata la necessità di distinguere tra norme di relazione e norme di azione: secondo questa concezione la disciplina dell’attività amministrativa sarebbe articolata in norme di relazione , che regolano un rapporto intersoggettivo e gli obblighi giuridici che ne derivano (es: le norme che regolano le obbligazioni contrattuali - tutela in via diretta l’interesse privato ) e norme di azione , che invece regolano l’uso dei poteri attribuiti all’amministrazione per perseguire l’interesse pubblico (es: norme che regolano l’esercizio del potere di esproprio - tutela in via diretta l’interesse giuridico ). A questa coppia di norme corrisponderebbe, nel caso di violazione, la coppia di qualificazione degli atti dell’amministrazione in termini di “illiceità – illegittimità”, e, sul piano delle posizioni soggettive, la coppia delle posizioni del cittadino in termini di “diritto soggettivo – interesse legittimo”. La figura dell’interesse legittimo troverebbe così il suo fondamento nella norma che assegna quel potere all’amministrazione e ne regola l’esercizio. La norma di relazione disciplina il rapporto giuridico tra la PA e il cittadino, nel senso di delimitare le rispettive sfere giuridiche. Ecco perché la figura giuridica soggettiva corrispondente ad una norma di relazione si dice essere un diritto soggettivo e come tale fondante la giurisdizione ordinaria. Questo ci lascia intendere che la violazione di una norma di relazione avviene solo ad opera di comportamenti della PA che sono qualificabili come illeciti e che quindi rientrano nello schema aquilano di cui al 2043 c.c., oppure attraverso un atto paritetico, cioè un atto che promana dalla PA che però, a differenza del provvedimento, è sprovvisto del carattere della autoritatività, appunto perché è paritetico. a. Caso in cui avviene violazione una norma di relazione da un comportamento che promana dalla PA, quando si può dire di ricadere nel 2043 c.c. La PA può erogare il servizio di scuolabus e quindi vi potrebbe essere il servizio per portare a scuola i minori non accompagnati. Sicuramente, il pulmino sarà di proprietà della PA, l’autista sarà un dipendente del comune. Se l’autista che ha accompagnato a scuola i bambini, nel tornare al deposito, tampona una macchina in una rotatoria, in questo caso l’amministrazione non ha violato una norma di azione, ma di relazione, cioè, il problema si instaura tra il conducente del pulmino e il soggetto privato che guidava la sua macchina. E’ stata violata una norma che regola i rapporti tra la PA e i cittadini, al di fuori dell’esercizio del potere (schema del 2043 c.c.). b. Occupazione sine titulo : la PA, a volte, per realizzare delle opere di carattere urbanistico ha bisogno di occupare dei terreni di proprietà altrui e, normalmente, questo avviene con l’espropriazione per pubblica utilità. Immaginiamo il caso in cui 26 la PA avvii il procedimento di esproprio nei confronti del privato e poi però vada a costruire la strada su un terreno diverso, o su una porzione di terreno più estesa. Questo è un esempio di occupazione sine titulo. In questo caso ricadiamo di nuovo nello schema di cui al 2043, non è stata violata una norma di azione, bensì di relazione. Il diritto soggettivo che è stato occultato illegittimamente è il diritto di proprietà. Queste sono quindi delle violazioni di norme di relazione che avvengono attraverso comportamenti della PA che sono qualificabili come illeciti, ai sensi del 2043 cc. c. Si pensi anche ad una serie di attività che la PA mette in essere attraverso degli atti paritetici , come per esempio l’atto che accerta il carattere demaniale di un bene sulla base dei criteri indicati dal codice civile, oppure l’atto che dichiara la decadenza di un soggetto dal ruolo di presidente di un ente pubblico economico per inadempimento, oppure perché semplicemente è scaduto il mandato. Questi sono esempi di rapporti tra privati e PA regolati da norme di relazione. Diversamente invece, la norma di azione disciplina l’attività della PA ai fini della tutela dell’interesse pubblico. Si tratta, quindi, di tutte quelle disposizioni contenute nella legge 241/1990 e che regolano l’esercizio della azione amministrativa, quindi della funzione amministrativa attraverso procedimenti. Si tratta di tutti esempi di norme di azione, ovvero di norme che indicano alla PA come comportarsi al fine di esercitare il proprio potere, potere che è istituzionalmente e funzionalmente preordinato alla cura dell’interesse pubblico, che la legge attribuisce a quella specifica amministrazione. Per esempio la mancata adozione della comunicazione di avvio del procedimento implica la violazione di una norma di azione, la mancata motivazione di un provvedimento amministrativo, laddove si tratti di un provvedimento che deve essere motivato, costituisce la violazione di una norma di azione. Il mancato svolgimento dell’istruttoria costituisce la violazione di una norma di azione. In tutti questi casi la posizione giuridica corrispondente è l’interesse legittimo e la giurisdizione sta in capo al giudice amministrativo. L’amministrazione può realizzare i suoi fini anche operando nell’ambito del diritto privato e rispetto ad atti di diritto privato le posizioni soggettive non possono che essere quelle del diritto privato (ossia, diritti soggettivi). Il potere amministrativo è considerato una situazione specifica del diritto pubblico: di conseguenza non è considerabile un interesse legittimo neppure in presenza di atti unilaterali dell’amministrazione, quando essi siano riconducibili al diritto privato (es: risoluzione unilaterale di un appalto pubblico). NON vale però la conclusione opposta: l’attività unilaterale dell’amministrazione disciplinata dal diritto pubblico non si configura necessariamente come potere amministrativo. In alcune situazioni l’attività svolta è certamente disciplinata dal diritto pubblico, ma non vengono riconosciute le caratteristiche del potere in senso proprio, tant’è vero che rispetto ad essa sono configurabili diritti soggettivi. Si pensi, per esempio, a vicende come la determinazione dell’indennità di espropriazione, o come l’iscrizione alle liste elettorali; in queste ipotesi il cittadino è titolare di un diritto soggettivo e il relativo contenzioso si svolge perciò avanti al giudice ordinario. L’ambientazione dell’interesse legittimo nel diritto pubblico pertanto non risolve tutti i problemi connessi all’identificazione di questa figura. 2. Il secondo criterio è quello che si fonda sul distinguo tra potere discrezionale e potere vincolato . La discrezionalità è un connotato tipico dell'amministrazione e dell’esercizio del potere da parte della amministrazione. Sappiamo anche che la discrezionalità, quando è riferita alla PA, 27 identificato per la prima volta, a partire dal 2005, la figura della nullità dell'atto amministrativo, distinguendola dalla annullabilità disciplinata dall’art. 21 octies. La nullità si configura, in particolare, nel caso del provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali e del provvedimento che è viziato da difetto assoluto di attribuzione. Sulla base di quest’ultima previsione, la Cassazione ha sostenuto che lo stesso legislatore avrebbe superato la figura della carenza di potere in concreto e che i casi di carenza di potere in concreto, sfociando nella annullabilità, sarebbero ormai riconducibili al cattivo esercizio del potere. Quali sono le cause di nullità? Mancanza di un elemento essenziale del provvedimento, elusione o violazione del giudicato, difetto assoluto di attribuzione e poi gli altri casi previsti dalla legge. Tra le cause di nullità, il difetto assoluto di attribuzione è stato interpretato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, come una forma di incompetenza assoluta, per distinguerla da quella relativa che è causa di annullabilità. La Cassazione ha quindi sostenuto che lo stesso legislatore avrebbe superato la figura della c.d. carenza di potere in concreto e che i casi di carenza di potere in concreto, sfociando nella annullabilità, sarebbero ormai riconducibili al cattivo esercizio del potere. E’ interessante notare che, nel 2005, quando il legislatore ha introdotto la nullità, aveva attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo l’ipotesi di un provvedimento nullo per elusione o violazione del giudicato. Questa scelta legislativa ha portato con sé una serie di interrogativi da parte della stessa giurisprudenza, perché di fatto c’era una nuova forma generale di invalidità del provvedimento, ma non anche un’azione generale per farla valere. Invece, con il codice del processo amministrativo, questo gap è stato emendato, ma l’azione di nullità è esperibile innanzi al giudice amministrativo, dal che noi ricaviamo che la differenza tra carenza di potere e cattivo uso del potere non è più sempre idoneo a fondare il riparto di giurisdizione. Nei rapporti con l’amministrazione disciplinati dal diritto pubblico il cittadino non è sempre titolare di un interesse legittimo: in alcuni casi è stato escluso che gli atti dell’amministrazione potessero essere qualificati come esercizio di un potere amministrativo e si riconosce al cittadino la titolarità di un diritto soggettivo, per esempio, nel caso dei diritti personalissimi (es: diritto all’integrità personale, al nome) sui quali l’amministrazione non può incidere perché non ha potere. In questi casi la rilevanza della posizione soggettiva implicherebbe una rigidità originaria, tale da precludere per legge qualsiasi compressione ad opera dell’amministrazione: si parla di diritti incomprimibili. Pertanto, negli stessi casi, anche in presenza di provvedimenti dell’amministrazione si configurerebbero sempre diritti soggettivi, e non interessi legittimi. La Cassazione negli ultimi decenni assimilò a questi diritti particolarmente importanti, altri come: il diritto alla salute e il diritto alla salubrità dell’ambiente. La giurisprudenza aveva operato una selezione delle posizioni giuridiche, individuandone alcune come dotate di una protezione giuridica maggiore e non modificabile nemmeno per effetto dell’esercizio del potere amministrativo: era così delineata la figura dei diritti costituzionalmente garantiti . 30 Questa figura ha ricevuto ampio sviluppo in vari ambiti: diritto alla salute, istruzione, professione e libertà personale. In questi casi la posizione del cittadino risulta correlata a provvedimenti dell’amministrazione; ciò nonostante, viene qualificata come diritto soggettivo. Questo però non è sempre vero, anzi, spesso anche in questi casi la PA si trova a dover operare un bilanciamento, come per esempio nel caso dell’Ilva di Taranto. Questa è anche la tesi della Corte Costituzionale che, ad esempio, in una sentenza importante del 2007, la numero 140, che aveva ad oggetto il rapporto tra salute e qualità dell’ambiente, in tema di diritto ad un ambiente salubre, ha detto che non sussiste alcun principio o norma del nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario, escludendo il giudice amministrativo, dalla tutela dei diritti costituzionalmente protetti. Tutto ciò corrobora il fatto che l’individuazione di un criterio di riparto tra giudice ordinario e amministrativo non è semplice, un po’ per come è nato il sistema di giustizia amministrativa e un po’ anche per la difficoltà intrinseca di distinguere tra le due posizioni giuridiche soggettive, cioè tra interesse legittimo e diritto soggettivo. Da pag. 66 a 88 sull'interesse legittimo (LIBRO) 4. L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e qualificata (cap. IV) Non è sufficiente però la configurabilità di un “potere” dell’amministrazione, perché si possa identificare anche un interesse legittimo. L’interesse legittimo è una posizione che identifica un interesse proprio del cittadino: per questa ragione non può essere considerato come una posizione meramente “riflessa” , rispetto al potere dell’amministrazione. Esso però non è nemmeno una posizione “diffusa”, di cui possano essere i cittadini in quanto tale, ma è una posizione soggettiva , di cui sono titolari solo soggetti determinati. L’esercizio di un potere dell’amministrazione può interessare, seppure in modi diversi, tutti i cittadini, per esempio, all’interesse che hanno i cittadini ad un corretto e regolare andamento dell’azione amministrativa. Non tutti i cittadini, però, sono titolari di un interesse legittimo rispetto all’esercizio del potere. Es. esproprio disposto da un Comune per un’opera pubblica, il titolare di un interesse legittimo è il proprietario che viene espropriato, non qualsiasi cittadino, anche se ogni cittadino può aver interesse a che l’ente destini nel modo migliore le proprie risorse e può essere successivamente utente di quell’opera. Di fatto, la giurisprudenza ha rivendicato a sé la capacità di individuare in quali situazioni sia configurabile la titolarità di un interesse legittimo: in questo modo ha introdotto un elemento di elasticità nel nostro sistema, traducendo e selezionando i diversi interessi e dando una risposta alle istanze sociali, che premono per un ampliamento della cerchia dei titolari di interessi legittimi (es. interessi in materia ambientale). Va osservato, però, che in uno Stato di diritto la titolarità di una posizione soggettiva dovrebbe essere definita dall’ordinamento giuridico e quindi dalla legge: al potere giurisdizionale spetta un ruolo nell’applicazione della legge, ma non dovrebbe spettare un ruolo creativo su un piano così fondamentale per lo status del cittadino; di conseguenza anche la titolarità dell’interesse legittimo deve essere stabilita in base a criteri predeterminati e ancorati alla legge. Ad ogni modo, in proposito, vengono considerati due criteri cumulativi : 1. Criterio della DIFFERENZIAZIONE: proprio perché l’interesse legittimo è una posizione soggettiva, esso presuppone in capo al titolare la sussistenza di una posizione di interesse diversa e più intensa rispetto a quella della generalità dei cittadini. Es. la posizione del commerciante, riguardo al provvedimento con cui venga autorizzato un esercizio analogo 31 nella stessa zona, è diversa rispetto alla posizione della generalità dei cittadini di quella zona: l’interesse del commerciante è coinvolto in maniera più diretta. L’interesse legittimo deve essere quindi differenziato: a causa della mancanza di questa differenziazione fu esclusa a lungo (in passato) la possibilità di considerare come interesse legittimo l’interesse dei cittadini di una certa zona alla salvaguardia dei valori ambientali ( interessi diffusi )→ la questione venne poi affrontata dal legislatore con la L.349/1986 che subì poi ulteriori interventi da parte della giurisprudenza. Non essendo un criterio però sufficiente, perché considerato dalla dottrina “approssimativo”, è stato proposto a sua integrazione: 2. Criterio della QUALIFICAZIONE: perché si possa avere un interesse legittimo è necessario che il potere dell’amministrazione coinvolga un soggetto che, rispetto a tale potere, sia titolare di un interesse non solo differenziato, ma anche sancito e riconosciuto dall’ordinamento. L’identificazione dei soggetti più direttamente interessati dovrebbe essere effettuata non secondo criteri quantitativi o economici, ma secondo criteri giuridici, e quindi sulla base della norma che disciplina il potere. Es: decisione di un’amministrazione di realizzare una strada → coinvolge negativamente sia il proprietario, il cui solo verrà espropriato, sia gli imprenditori che svolgono la loro attività che verranno svantaggiati. La giurisprudenza però ritiene che solo il primo abbia un interesse qualificato, perché assume una rilevanza specifica nella disciplina dell’attività amministrativa di progettazione ed esecuzione della strada. In realtà però non sempre la norma che disciplina il potere identifica i soggetti direttamente interessati. Solo in alcuni casi la titolarità dell’interesse legittimo può essere ricavata dalla stessa norma che disciplina lo svolgimento dell’azione amministrativa: per esempio, nel caso dei soggetti destinatari del provvedimento (concorrente rispetto al concorso pubblico). Frequentemente la qualificazione viene ricavata dalla giurisprudenza in base alla rilevanza attribuita a quell’interesse dall’ordinamento nel suo complesso e all’ incidenza concreta dell’azione amministrativa su tale interesse. Il dibattito oggi si concentra su due situazioni: a. [ riguarda le attività economiche ] → la titolarità di un interesse legittimo viene in genere riconosciuto all’imprenditore che possa subire un danno dal provvedimento rilasciato dall’amministrazione a beneficio di un altro operatore del medesimo settore. b. [ riguarda l’attività edilizia ] →la giurisprudenza amministrativa, ormai dagli anni ’70, riconosce a chiunque abbia una relazione stabile con quell’ambito di territorio ( vicinitas ) la titolarità di un interesse legittimo rispetto al permesso di costruire rilasciato dal comune per una nuova costruzione. c. In entrambi i casi la configurabilità di un interesse legittimo ha riflessi importanti anche dal punto di vista economico, sociale e istituzionale. Nello stesso tempo risulta difficile elaborare un criterio puntuale per identificare la “ soglia ” necessaria per riconoscere la titolarità di un interesse legittimo. 5. L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale In passato l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è concentrata particolarmente su un aspetto: le modalità della tutela nel caso di lesione di un interesse legittimo. Ciò si spiegava con il fatto che l’ordinamento sembrava risolvere la rilevanza dell’interesse legittimo nell’attribuzione al titolare dell’interesse di un potere di reazione, nel caso si fosse verificata una lesione; questo potere consisteva nella possibilità di impugnare il provvedimento lesivo e di porre così in contestazione l’esercizio del potere dell’amministrazione. Seguendo questa prospettiva si rilevava come la tutela 32 una serie di prerogative dirette a influire sull'azione amministrativa. Appare superata così anche la concezione dell'interesse legittimo come figura meramente 'passiva' o di 'attesa', sulla falsariga della posizione del debitore rispetto al creditore o della posizione di chi sia soggetto all'altrui diritto potestativo. 6. Quale “interesse” nell’interesse legittimo? L’identificazione del bene della vita La conclusione che l’interesse legittimo è una figura di diritto sostanziale consente di precisare alcune affermazioni. L’interesse legittimo non sorge per effetto della sua lesione ad opera di un potere dell’amministrazione e non assume rilevanza solo quando si verifichino i presupposti per l’impugnativa: esso è configurabile già nel momento in cui ha inizio il procedimento amministrativo e forse ancor prima, quando si realizzano i presupposti per il procedimento . Perché nasca un interesse legittimo non è sufficiente che vi sia un’astratta titolarità di un potere, ma non è nemmeno indispensabile che il potere sia già stato esercitato: è necessario che sussistano le condizioni in presenza delle quali l’esercizio del potere sia doveroso. Stabilito che l’interesse legittimo è figura di diritto sostanziale, bisogna chiarire in che cosa consiste (rispetto ad esso) quel BENE DELLA VITA , che costituisce una componente di tutte le posizioni soggettive di diritto sostanziale: in che cosa consiste l’utilità al cui conseguimento è preordinato l’interesse legittimo? a. Il “bene della vita” non sembra identificabile con un interesse alla legittimità dell’azione amministrativa: l’interesse legittimo è garantito giurisdizionalmente attraverso la contestazione della legittimità dell’azione amministrativa. Es. tutela giurisdizionale nel caso di un decreto di esproprio: il proprietario espropriato non può opporre una propria pretesa al godimento del bene e alla cessazione delle turbative da parte dell’amministrazione, ma deve contestare le eventuali illegittimità che si siano verificate nel procedimento amministrativo. Bisogna evitare di confondere la modalità della tutela di un interesse con il contenuto dell’interesse. È vero che la lesione di un interesse legittimo si verifica ogni volta che l’amministrazione eserciti il suo potere senza osservare le regole che lo disciplinano. Tuttavia la legittimità dell’azione amministrativa NON è essa stessa un bene della vita , né può essere concepita come un “bene della vita” proprio di un soggetto determinato: la legittimità dell’azione amministrativa può essere concepita come l’oggetto di un interesse generico, comune a tutti i cittadini, ma non come l’oggetto di una posizione soggettiva qualificata (= per poter individuare il suo oggetto, è necessario tenere in considerazione l’interesse specifico del titolare di essa). b. Per comprendere questa esigenza viene prospettata la distinzione tra due ordini di interessi: ○ Interesse materiale → che è proprio del titolare dell’interesse legittimo, ma che fuoriesce dalla rilevanza giuridica riconosciuta dall’ordinamento all’interesse legittimo stesso; ○ Interesse legittimo vero e proprio → di cui il primo costituirebbe solo un presupposto di fatto o substrato economico, solo quest’ultimo è passibile di tutela. ○ Per esempio, se pensiamo al caso di un concorso pubblico: il partecipante è titolare di un interesse legittimo rispetto agli atti del concorso. Questo interesse, però, non coinciderebbe con l’interesse materiale del concorrente all’esito positivo del concorso e alla conseguente assunzione. SE il concorrente non vince il concorso, ma non ci sono state irregolarità da parte dell’amministrazione, il suo interesse legittimo è ugualmente rispettato: non c’è stata lesione, anche se l’interesse materiale non si è 35 realizzato. L’interesse materiale costituirebbe quindi, solo un presupposto di fatto dell’interesse legittimo; quest’ultimo, a sua volta, si presenterebbe soltanto come pretesa all’esercizio legittimo del potere amministrativo. c. È stata avanzata una concezione diversa, spesso respinta dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ma comunque ritenuta interessante: l’interesse materiale non va considerato come un elemento pregiuridico, estraneo all’interesse legittimo, ma costituisce la componente essenziale di quest’ultimo, perché identifica proprio il bene della vita cui l’interesse legittimo è funzionale. Si può trattare di un bene della vita che il titolare dell’interesse legittimo vuole conservare (es: privato che subisce un esproprio) o di un bene della vita che intende conseguire (es: privato che richiede un’autorizzazione commerciale). Le modalità di attuazione di un interesse, sul piano giuridico, sono determinate dalle caratteristiche proprie dell’interesse stesso: perciò la realizzazione del bene della vita, nel caso dell’interesse legittimo, si attua in relazione al potere amministrativo e nel rispetto delle regole che disciplinano il suo svolgimento. La legge, nel caso di interesse legittimo, non garantisce la realizzazione del bene della vita per iniziativa autonoma del suo titolare (come invece vale per il diritto soggettivo). D’altra parte, se si accetta la categoria dell’interesse legittimo, non c’è la necessità di estendere all’interesse legittimo la stessa rilevanza che viene in genere riconosciuta al bene della vita nel caso del diritto soggettivo. La legge, nel caso dell’interesse legittimo, garantisce al bene della vita una tutela modellata sulla relazione con il potere dell’amministrazione. 7. Interessi legittimi e diritti soggettivi Il rapporto tra interesse legittimo e diritto soggettivo è al centro delle riflessioni della dottrina e della giurisprudenza anche in una prospettiva “dinamica”, che riguarda le vicende reciproche di queste posizioni in seguito al concreto esercizio del potere amministrativo. Già nei primi anni successivi alla legge istitutiva della IV Sezione furono analizzati alcuni procedimenti, come quello espropriativo, caratterizzati dall’incidenza del potere amministrativo su un diritto soggettivo del cittadino: venne osservato in proposito che, per effetto del decreto di esproprio, il diritto soggettivo si estingueva ( perché il privato non era più proprietario ), lasciando però posto ad un interesse legittimo (tant’è vero che poi, una volta emanato il decreto di esproprio, il privato lo poteva impugnare davanti al giudice amministrativo ). Il provvedimento amministrativo sembrava comportare, in questi casi, una metamorfosi nelle posizioni soggettive, una “ degradazione ” del diritto soggettivo in interesse legittimo. Lo stesso modello fu poi prospettato in modo simmetrico per i diritti in attesa di espansione, consistenti nella trasformazione di un interesse legittimo in diritto soggettivo, per effetto di un determinato provvedimento amministrativo con effetti costitutivi (come si verificherebbe nel caso dell’iscrizione ad albi o registri o, alla stregua della giurisprudenza recente, nel caso del rilascio del permesso di costruire). La “degradazione” in genere veniva ricondotta ad un carattere del provvedimento amministrativo, cioè l’ autoritatività , che determinerebbe l’estinzione del diritto soggettivo e quindi la sua trasformazione in interesse legittimo; ciò rifletteva l’importanza attribuita all’autoritatività del provvedimento amministrativo, ritenuta elemento caratteristico del potere dell’amministrazione e quindi anche per il riparto delle giurisdizioni. La teoria della degradazione veniva proposta anche per spiegare come l’annullamento del provvedimento comportasse il ripristino del diritto soggettivo; l’annullamento comportava l’eliminazione del provvedimento e, quindi, anche il venire meno della “degradazione” del diritto. Questa teoria NON è però accettabile. Nel corso di una procedura espropriativa, il proprietario del bene rimane titolare di un diritto reale fino al decreto di esproprio: tale decreto determina l’acquisto del bene in capo al soggetto espropriante e perciò l’estinzione del 36 diritto di proprietà del cittadino. Nel corso del procedimento espropriativo il proprietario è però titolare di un interesse legittimo, conformemente ai principi generali, e senza necessità di immaginare nessuna degradazione: l’amministrazione esercita nei suoi riguardi un potere in senso proprio. L’interesse legittimo sorge con l’esercizio del potere, perciò già prima del decreto di esproprio. Tant'è vero che, per esempio, nei confronti della dichiarazione di pubblica utilità , che è un provvedimento preliminare rispetto al decreto di esproprio, il proprietario può solo far valere un interesse legittimo (e può impugnare la dichiarazione di pubblica utilità davanti al giudice amministrativo), ma non può opporsi con le azioni previste dal codice civile a tutela del diritto di proprietà. In conclusione, non si verifica una “degradazione” del diritto soggettivo in interesse legittimo e tanto meno una “degradazione” è determinata dal provvedimento amministrativo. Che non ci sia una trasformazione del diritto soggettivo in interesse legittimo è dimostrato dal fatto che, nell’esempio proposto da ultimo, coesistono insieme il diritto soggettivo e l’interesse legittimo: l ’interesse legittimo rispetto al potere espropriativo e il diritto soggettivo ad ogni altro effetto. Che poi la configurabilità di un interesse legittimo non sia determinata dall’emanazione del provvedimento amministrativo, è dimostrato dal fatto che il proprietario rimane tale fino al decreto di esproprio, ma già prima del decreto è titolare di un interesse legittimo in relazione al potere espropriativo che viene esercitato dall’amministrazione. Tant’è vero che a tutela di tale interesse può impugnare altri atti (come la dichiarazione di pubblica utilità) e intervenire nel relativo procedimento. 8. Interessi legittimi e risarcimento del danno Nel nostro Paese la disciplina della responsabilità dell'amministrazione è ricondotta tipicamente al diritto civile; nei suoi sviluppi, concernenti il risarcimento dei danni provocati da provvedimenti (o dal silenzio) dell'amministrazione, ha avuto notevole importanza per la figura dell'interesse legittimo. Nelle concezioni che affermavano il carattere tipicamente processuale dell'interesse legittimo la tutela del cittadino si attuava nell'annullamento del provvedimento impugnato; era difficile, invece, in quel contesto, ipotizzare una tutela risarcitoria, perché il diritto al risarcimento presuppone la lesione di un interesse sostanziale. Tuttavia anche il riconoscimento del carattere sostanziale dell'interesse legittimo non ha comportato sempre la conclusione che la lesione di un interesse legittimo fosse risarcibile: anzi, fino alla fine del Novecento la giurisprudenza era orientata nettamente in senso contrario. a) Fino alla fine degli anni ’90 la giurisprudenza civile (a cui spettavano le vertenze in materia risarcitorio) ammetteva una responsabilità civile dell’amministrazione solo nel caso di lesione di un diritto soggettivo : l’art. 2043 c.c. era interpretato nel senso che il “danno ingiusto” passibile di risarcimento si identificava con il danno arrecato a diritti soggettivi. Se il danno era arrecato ad un interesse legittimo, la tutela risarcitoria era esclusa. Le due condizioni della tutela risarcitoria erano: ○ Configurabilità di un pregiudizio ad un diritto soggettivo preesistente : il risarcimento del danno causato dal provvedimento amministrativo sarebbe stato possibile solo se il cittadino fosse stato titolare di un diritto soggettivo preesistente all’esercizio illegittimo del potere amministrativo che ha portato alla sua estinzione; non sarebbe stato possibile se il cittadino fosse stato titolare solo di un interesse legittimo. Es. esproprio illegittimo → con l’annullamento del decreto espropriativo, il cittadino risulta nuovamente titolare ex tunc del diritto di proprietà, dunque secondo la giurisprudenza avrebbe potuto chiedere il risarcimento dei danni cagionatogli dall’amministrazione con l’esproprio; il pregiudizio avrebbe riguardato non un interesse legittimo, ma il diritto di proprietà. Es. il cittadino chiede un permesso a costruire in piena conformità con le disposizioni 37 critiche. Innanzi tutto la stessa nozione di risultato utile fu condizionata dalla circostanza che (come d'altronde era stato richiamato dalle stesse Sezioni Unite nella pronuncia del 1999) già da alcuni anni la giurisprudenza civile ammetteva il risarcimento del danno per perdita di chance; la stessa soluzione fu subito accolta anche dalla giurisprudenza amministrativa. Si pensi al caso in cui l'illegittima esclusione dal procedimento (per esempio, da una gara d'appalto) pregiudichi per un'impresa la probabilità di un esito favorevole, ma non sia possibile stabilire con certezza se lo svolgimento legittimo del procedimento avrebbe prodotto un tale esito. La giurisprudenza amministrativa, in questi casi, ammette il risarcimento per perdita di chance , purché venga dimostrata una congrua probabilità di un esito positivo. Resta il fatto che il 'bene della vita' suscettibile di risarcimento può consistere anche in una chance, ossia in una 'probabilità' di conseguire un risultato utile, e non soltanto nell'esito favorevole del procedimento. Inoltre il cittadino, anche se non gli spetti un provvedimento positivo, può subire ugualmente un danno se l'amministrazione risponde tardivamente alla sua richiesta: si tratta del c.d. danno da ritardo . Esso assume rilievo pratico soprattutto quando il procedimento amministrativo comporti un'immobilizzazione di risorse economiche che il cittadino avrebbe ragionevol mente potuto destinare diversamente, se l'amministrazione gli avesse risposto subito con un provvedimento negativo. In questo caso il danno è provocato non da un provvedimento illegittimo, ma dalla condotta illegittima dell'amministrazione che non rispetta i termini per la conclusione del procedimento. Una parte della giurisprudenza ammise anche in queste ipotesi un risarcimento del danno, riconoscendo che l'interesse legittimo può essere leso non solo da un provvedimento illegittimo, ma anche da ogni altro svolgimento del potere amministrativo che non sia conforme alla legge. Questa soluzione fu criticata in un primo tempo dal Consiglio di Stato, che preferì attenersi alle tesi esposte dalla Cassazione nel 1999. Il Consiglio di Stato sostenne, infatti, che se non fosse spettato al cittadino un provvedimento favorevole non sarebbe stata neppure configurabile una lesione a un suo 'bene della vita' e senza una lesione al 'bene della vita' non vi sarebbe spazio per un risarcimento. Su questa conclusione non sembra aver inciso neppure un successivo intervento legislativo: l'art. 2-bis legge n. 241/1990 introdotto nel 2009 (e richiamato dall'art. 30, 4° comma, c.p.a.) ha riconosciuto espressamente il diritto al risarcimento del danno provocato dall«inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedi mento». La legge n. 98/2013 , in via sperimentale, per i procedimenti relativi all'avvio o all'esercizio di imprese, ha previsto per il cittadino un diritto al l 'indennizzo per «mero ritardo» , per il caso di inosservanza del termine di ultimazione del procedimento avviato su istanza di parte. Il diritto all'indennizzo per ‘mero ritardo’ ha, però, caratteri e presupposti diversi dal diritto al risarcimento: in particolare non è subordinato alla configurabilità di un illecito e di un danno. I due diritti possono anche coesistere; la loro concorrenza è espressamente regolata dall'art. 2-bis, comma 1°-bis, della legge n. 241/1990, pure introdotto (secondo cui «le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento»). ○ Anche la rilevanza riconosciuta dalle Sezioni Unite del 1999 all'elemento soggettivo è stata oggetto di riflessioni critiche. Discostandosi dalle tesi della Cassazione, la giurisprudenza amministrativa sostenne che l'illegittimità del provvedimento giustificava una sorta di presunzione di colpevolezza dell'amministrazione. L'amministrazione avrebbe potuto superare questa presunzione solo dimostrando di essere incorsa in un ' errore scusabile ': la scusabilità dell'errore doveva ammettersi in 40 presenza di incertezze giurisprudenziali, oscurità normative, ecc. Questa soluzione, che in definitiva dà ancora peso all'elemento soggettivo, si deve confrontare però con un indirizzo della Corte di giustizia UE, maturato sulla disciplina comunitaria sugli appalti pubblici. La Corte di giustizia ha escluso, più radicalmente, che l'elemento soggettivo potesse condizionare il diritto al risarcimento dei danni. In questo modo, però, diventa maggiore la distanza dal modello della responsabilità extracontrattuale fondato sul codice civile. A ben vedere, anche se continua ad essere invocato l'art. 2043 c.c., in realtà viene seguito un modello sensibilmente diverso: si pensi, appunto, all'elemento soggettivo. Le incertezze riscontrabili nella giurisprudenza maggioritaria sono sottolineate da un orientamento critico che preferisce ricondurre la responsabilità dell'amministrazione per lesione di interessi legittimi alla c.d. responsabilità ‘da contatto sociale qualificato' o, direttamente, alla responsabilità contrattuale. 9. Interessi legittimi e interessi semplici; gli interessi 'superindividuali’ Dal novero delle posizioni soggettive garantite nel nostro ordinamento sono esclusi i c.d. interessi semplici , ossia interessi che non assurgono né al livello dei diritti soggettivi, né al livello degli interessi legittimi; sono interessi semplici ad es. gli interessi non differenziati (es. interesse dei cittadini rispetto alle modalità di un servizio pubblico reso alla collettività). Ciò comporta l’esclusione di una loro tutela giurisdizionale (questa è prevista solo in casi eccezionali, azioni popolari ). Questa conseguenza ha aperto un grande dibattito: ● La discussione ha anzitutto riguardato gli interessi c.d. collettivi o di categoria , ossia interessi tipici di soggetti appartenenti ad una categoria lavorativa, professionale, di utenti, ecc. Nei confronti di atti amministrativi riguardanti la categoria, può configurarsi in capo a ciascun appartenente un interesse qualificato. In questi casi, in passato si riteneva che considerare l’interesse legittimo come interesse legittimo dell’organismo rappresentativo fosse incompatibile con il carattere “soggettivo” dell’interesse legittimo. Oggi, invece, la giurisprudenza amministrativa riconosce in capo agli organismi rappresentativi la titolarità dell’interesse di categoria e la capacità di farlo valere come un proprio interesse legittimo. Ciò comporta una tutela più assidua degli interessi collettivi. ● La discussione più vivace ha però riguardato gli interessi diffusi , ossia l’interesse generale dei cittadini a certi beni comuni (es. ambiente). In passato la giurisprudenza escludeva ogni tutela, argomentando proprio sulla loro distinzione dagli interessi legittimi. In seguito il legislatore ha ammesso la tutela di determinati interessi diffusi, demandandola però non al singolo cittadino interessato, bensì a particolari associazioni (es. ciò è avvenuto per la tutela degli interessi ambientali: l’associazione ambientale non è titolare di un interesse legittimo rispetto alle vicende del bene di rilevanza ambientale, ma gode di una particolare legittimazione processuale che le consente di far valere anche interessi ulteriori rispetto ai propri interessi legittimi). Si ammette che anche altre associazioni possano essere titolari di un interesse legittimo alla conservazione di interessi ambientali, purché questi interessi identifichino una situazione giuridica propria del soggetto collettivo. Questo requisito è riconosciuto a patto che l’associazione tuteli in modo effettivo e non occasionale gli interessi ambientali in questione, abbia come finalità statutaria la tutela di tali interessi e risulti che l’attività amministrativa li possa pregiudicare concretamente. SE si verificano queste condizioni, anche l’associazione non individuata nel decreto ministeriale è titolare di un interesse legittimo. 41 Queste vicende testimoniano un processo di espansione dei margini degli interessi legittimi rispetto ai meri interessi diffusi e nello stesso tempo il superamento di una concezione rigida, secondo cui il carattere soggettivo dell’interesse legittimo implicherebbe l’appropriazione esclusiva di tale interesse a vantaggio di determinati soggetti. La tutela degli interessi superindividuali assume notevole rilievo anche nelle riflessioni sui caratteri dell’interesse legittimo. Si tenga presente infine che, nel nostro ordinamento, la tutela degli interessi legittimi è contemplata con riferimento ai vizi di legittimità, mentre solo raramente è ammessa con riferimento ai vizi di merito. In genere la nozione stessa di interesse legittimo viene ricondotta alla legittimità dell’azione amministrativa, anche se in alcune ipotesi è ammessa la tutela degli interessi legittimi anche nei confronti dei vizi di merito. APPUNTI L’individuazione di un criterio di riparto tra giudice ordinario e amministrativo non è semplice, un po’ per come è nato il sistema di giustizia amministrativa e un po’ anche per la difficoltà intrinseca di distinguere tra le due posizioni giuridiche soggettive, cioè tra interesse legittimo e diritto soggettivo. Così è stato sin dall’inizio, le difficoltà si sono palesate sin da subito. Talmente subito che, ad un certo punto, il legislatore si è inventato l’istituto della giurisdizione esclusiva. La nascita della giurisdizione esclusiva è un evento a cui sul momento non si è dato grande peso, ma che invece è stato fonte di grande trasformazione del sistema di giustizia amministrativa. La giurisdizione esclusiva viene introdotta dalla l. n. 2840/1923 e poi viene confermata dal successivo Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato del 1924 . Entrambi questi atti normativi hanno introdotto la giurisdizione esclusiva. Il legislatore del tempo aveva la volontà di individuare una serie di materie in cui il giudice amministrativo doveva poter conoscere sia degli interessi legittimi che dei diritti soggettivi, con la sola eccezione dei diritti patrimoniali consequenziali che invece rimanevano sotto la giurisdizione del giudice ordinario. La giurisdizione esclusiva quindi nasce come una figura eccezionale di giurisdizione, eccezionale rispetto alla giurisdizione generale che è quella di legittimità, ovvero quella che da al giudice amministrativo il potere di conoscere dell’esercizio del potere da parte della PA al fine di tutelare gli interessi legittimi dei cittadini. Questa è la giurisdizione generale di legittimità, con cui sindaca dell’esercizio del potere da parte della PA attraverso il grimaldello dei vizi di legittimità. La giurisdizione esclusiva cambia un po’ le carte perché il giudice amministrativo può conoscere non solo degli interessi legittimi, ma anche dei diritti soggettivi. Il legislatore del 1923 individua la materia del pubblico impiego quale campione per poi compiere un progetto molto più ampio, tuttavia questo progetto più ampio non si è mai compiuto anche per il fatto che le priorità del legislatore, negli anni a venire, sono state altre. Resta il fatto che, volendo trarre un bilancio della legge del 1923, l’aver previsto la giurisdizione esclusiva, in via derogatoria per singole materie, è stato letto come una soluzione a metà rispetto al problema del riparto di giurisdizione. La questione si è riaperta nel 1929 con la sentenza del Consiglio di Stato del 10 maggio, sezione V , che aveva provato a rispolverare, ai fini della individuazione della giurisdizione, il criterio del solo petitum . Questo ha suscitato il disappunto della Cassazione e ha portato ad uno scontro tra Santi Romano, che all'epoca era il presidente del Consiglio di Stato, e Mariano D’amelio, che era il presidente della Cassazione. Botta e risposta che si è consumato a suon di sentenze. 42 indipendente ed imparziale, costituito dalla legge ... ». Questi canoni (in buona parte già desumibili da altre disposizioni della nostra Costituzione) furono recepiti nel 1999 nel nuovo testo dell’art. 111, 1° e 2° comma, Cost., sul c.d. giusto processo. Nella loro applicazione, però, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha elaborato soluzioni originali, giungendo talvolta a conclusioni più rigorose di quelle accolte dalla Corte costituzionale in riferimento all’art. 111 Cost. Per esempio, la Corte europea, richiamandosi all’art. 6 cit., ha censurato le leggi retroattive, quando siano dirette ad influire su giudizi in corso con pregiudizio per una parte in causa, favorendo così la revisione delle posizioni più accomodanti della nostra Corte costituzionale.Si tenga presente che l’art. 6 della Convenzione europea riguarda, oltre ai processi penali, le controversie relative a « diritti e doveri di carattere civile »; la Corte europea, però, ha riconosciuto questo carattere anche a molte controversie con l’amministrazione (per es. a quelle in materia di esproprio) ed ha chiarito che la tutela dei ‘diritti’ prevista dallo stesso art. 6 si estende anche agli interessi legittimi 2. I principi costituzionali Per valutare, rispetto al nostro ordinamento, i caratteri fondamentali della tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione, è comunque essenziale riferirsi alla Costituzione. Anche i primi articoli del codice del processo amministrativo, nell’enunciare i «principi generali» della giurisdizione amministrativa, richiamano particolarmente una serie di principi costituzionali, ribadendone così la rilevanza anche come criterio per l’interpretazione e l’applicazione del codice: in particolare sono richiamati; la pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale (art. 1 c.p.a. – art. 24 Cost.), «i principi della parità delle parti , del contraddittorio e del giusto processo previsto dall’art. 111, primo comma, Cost.» (art. 2, 1° comma, c.p.a. – art. 111, 1° e 2° comma, Cost.); la ragionevole durata del processo (art. 2, 2° comma, c.p.a. – art. 111, 2° comma, Cost.); la motivazione di ogni provvedimento «decisorio» (art. 3, 1° comma, c.p.a. – art. 111, 6° comma, Cost.). Se andiamo a vedere la nostra Costituzione troviamo dei riferimenti alla giurisdizione amministrativa, agli interessi legittimi, al giudice amministrativo, in più punti e con riferimento a profili tra loro diversi. Provando a sistematizzare si possono sicuramente distinguere: i principi relativi al giudice, i principi relativi all’ azione e i principi relativi alla giurisdizione amministrativa . PRINCIPI RELATIVI AL GIUDICE: Art. 111, 2° comma → ‘ Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata’. L’ imparzialità indica che il giudice deve decidere senza condizionamento dalle parti, la terzietà indica invece una situazione di equidistanza rispetto agli interessi delle parti. Vanno assicurate innanzi tutto rispetto all’organo giurisdizionale nella sua interezza: esso deve essere posto istituzionalmente nelle condizioni di giudicare senza subire condizionamenti di sorta dalle parti in causa. Vanno assicurate, inoltre, rispetto ad ogni singolo componente dell’organo giurisdizionale, che deve essere del tutto indifferente sul piano personale rispetto alla vertenza su cui è tenuto a pronunciarsi: per questo aspetto l’imparzialità e la terzietà trovano riscontro anche nelle disposizioni degli ordinamenti processuali sulle situazioni di incompatibilità (cfr. art. 51 c.p.c., richiamato per i giudici amministrativi dall’art. 18 c.p.a.) e negli istituti dell’astensione e della ricusazione del giudice (artt. 17 e 18 c.p.a.). 45 Art. 104, 1 comma → ‘La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere’. L’ indipendenza del giudice inerisce alla relazione dell’organo giurisdizionale con soggetti estranei al rapporto processuale, che potrebbero influire sulle sue decisioni: si tratta del Governo e del potere politico in generale. L’indipendenza da questi poteri rappresenta una sorta di condizione preliminare, di rilevanza ‘ordinamentale’, che precede tutte le altre ed è essenziale per l’esercizio della funzione giurisdizionale. Nella Carta costituzionale riceve particolare considerazione l’indipendenza del giudice ordinario (cfr. art. 104 Cost.), testimoniata dalla caratterizzazione della magistratura ordinaria come « ordine autonomo », dalla istituzione per essa del Consiglio superiore della magistratura, dall’affermazione del principio, in generale, dell’accesso per concorso, dalla garanzia dell’inamovibilità. Questa particolare considerazione per l’indipendenza del giudice ordinario non implica, però, in alcun modo l’accettazione di una concezione che giustifichi con il carattere ‘speciale’ della giurisdizione una posizione di ‘dipendenza’ del giudice amministrativo dal Governo o dal potere politico. L’indipendenza del giudice non è una caratteristica solo del giudice ordinario (art. 104 Cost.), ma è essenziale per l’esercizio di ogni funzione giurisdizionale (art. 101, 2° comma, Cost.) e vale pertanto anche per il giudice amministrativo e per gli altri giudici speciali (artt. 100, 3° comma e 108, 2° comma, Cost.). Il criterio per la distinzione fra giudice ordinario e giudice speciale non è costituito dall’indipendenza o meno del giudice rispetto al potere politico, ma solo dall’appartenenza o meno del giudice all’ordine giudiziario, nell’assetto delineato dagli artt. 104-107 Cost. L’importanza di questo modello non è sempre stata percepita appieno dal legislatore, che non ha saputo coglierne tutte le implicazioni, in particolare in tema di reclutamento dei componenti del Consiglio di Stato. L’art. 1 d.p.r. n. 579/1973, prevede ancora che una parte dei consiglieri di Stato sia nominata direttamente dal Governo, in assenza di qualsiasi procedimento di selezione; la Corte costituzionale ha ritenuto che la nomina governativa non violasse il principio dell’indipendenza del giudice (sancito espressamente dall’art. 100, 3° comma, Cost. con riferimento al Consiglio di Stato), sul presupposto che la norma imponesse comunque una seria valutazione della idoneità del soggetto da nominare. Il principio costituzionale dell’indipendenza del giudice ha avuto un ruolo fondamentale nell’assetto della giustizia amministrativa, determinando la soppressione di quasi tutte le giurisdizioni amministrative speciali , diverse dal Consiglio di Stato e dalla Corte dei conti. La VI disposizione transitoria e finale della Costituzione prevedeva la « revisione » di queste giurisdizioni speciali, da effettuarsi entro 5 anni: il termine, però, fu ritenuto non perentorio, ed esse continuarono ad operare immutate. Verso la fine degli anni ’60 del secolo scorso furono sollevate, tuttavia, questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni su questi organi giurisdizionali, in riferimento al principio di indipendenza del giudice (anche) speciale, sancito dagli artt. 101 e 108 Cost. La Corte cost. con sent. n. 55/1966, dichiarò così l’illegittimità delle disposizioni sulla composizione dei Consigli di prefettura (giudici speciali per il contenzioso contabile, di primo grado rispetto alla Corte dei conti), per il fatto che alcuni componenti del collegio giudicante erano per legge funzionari statali, che si trovavano in una posizione di dipendenza funzionale dal Governo. Per identità di ragioni dichiarò l’illegittimità delle disposizioni sulla composizione della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale e delle disposizioni sulla composizione delle Sezioni per il contenzioso elettorale, perché i componenti di esse erano in parte funzionari statali, per i quali era configurabile una situazione di dipendenza dal Governo, e in parte giudici designati da organi amministrativi, con la possibilità di riconferma alla scadenza dell’incarico (e la prospettiva del reincarico fu ritenuta incompatibile con il principio dell’indipendenza). I giudici amministrativi non sono soggetti al Consiglio superiore della magistratura, che è organo di autogoverno dei soli magistrati ordinari. Presso il Consiglio di Stato è istituito un apposito organo di autogoverno dei giudici amministrativi, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa . 46 Per analogia con quanto previsto per il Consiglio superiore della magistratura, la l. n. 205/2000, ha stabilito che del Consiglio di presidenza facciano parte, oltre al Presidente del Consiglio di Stato ed altri giudici amministrativi designati dal Consiglio di Stato e dai Tar, anche alcuni cittadini scelti dalle Camere. L’introduzione nel 1999 del principio del giusto processo (art. 111, 1° comma ss., Cost.) ha dato nuovo vigore al dibattito sull’attuazione dei principi di indipendenza, imparzialità e terzietà nella giurisdizione amministrativa. La discussione non si è ancora spenta e verte particolarmente sulla contiguità, nel Consiglio di Stato, di funzioni giurisdizionali e di funzioni consultive (esercitate da sezioni sì distinte, ma pur sempre componenti di un medesimo organo, e con un normale avvicendamento dei consiglieri dalle une alle altre sezioni); sulla prassi dei Governi di assegnare a consiglieri di Stato incarichi di stretta collaborazione con autorità politiche (il consigliere di Stato, in questi casi, di regola è collocato ‘fuori ruolo’, ma alla cessazione dell’incarico riprende normalmente l’esercizio delle funzioni giurisdizionali); sulle norme per il reclutamento (in riferimento alle nomine governative). La Corte costituzionale, pur non affrontando espressamente la questione, di recente ha sottolineato favorevolmente il cumulo nel Consiglio di Stato di funzioni giurisdizionali e di funzioni consultive (Corte cost. 21 ottobre 2011, n. 327), che d’altronde è previsto nelle stesse norme costituzionali (artt. 100 e 103 Cost.). Art. 100, 1° comma → ‘ Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione’. L’articolo 100 è nella sezione dedicata agli organi ausiliari dello Stato e ci dice che il Consiglio Stato è l’organo di consulenza giuridico amministrativa e di tutela della giustizia nell'amministrazione. Qui è fortissimo l’eco della storia, questa ambivalenza di organo di consulenza e anche di tutela giurisdizionale. L'art 100 al 1° comma ci rimanda all’ art. 103, 1° comma → ‘Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi’. Da qui ricaviamo che il giudice amministrativo è una sorta di giudice “speciale”, nel senso di diverso dal giudice ordinario. Questo articolo 103 quindi completa le indicazioni fornite dall’articolo 100, perché quest’ultimo ci spiega quelle che sono le funzioni del Consiglio di Stato, quindi il mantenimento della funzione consultiva e accanto a questa della funzione giurisdizionale, mentre l’art. 103 ribadisce che il Consiglio di stato, al pari degli altri organi di giustizia amministrativa, esercita una funzione giurisdizionale e la sua giurisdizione è di legittimità. Come abbiamo visto la scorsa volta è stato costituzionalizzato il sistema dualistico della legge Crispi. La Costituzione ha quindi dato il crisma del rango costituzionale al sistema dualistico che si è venuto a creare con la legge Crispi. Nella Costituzione possiamo rinvenire molte disposizioni che hanno a che fare con la giustizia amministrativa. PRINCIPI SULL’AZIONE : Art. 24 Cost. comma 1: ‘ Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi’. Il primo comma rappresenta già una grande conquista rispetto al nostro punto di partenza. Questo primo comma dice che un soggetto può essere titolare di 2 figure giuridiche soggettive, ovvero i diritti soggettivi, quelli che nella legge abolitrice del contenzioso amministrativo erano menzionati come diritti civili e politici, e poi si parla di interessi legittimi, cioè sarebbero gli affari non compresi. Non è 47 l’art. 24 Cost., che garantisce l’accesso alla tutela giurisdizionale. Art. 111, 2° comma → ‘ Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata’. Di questo articolo ci eravamo già occupati quando avevamo parlato della figura del giudice. Questo secondo comma rileva, anche dal punto di vista dell'azione, perché ci dice come questo giudizio si debba svolgere. Ci parla del contraddittorio tra le parti (art. 2 e 27 c.p.a.), parti che devono trovarsi in condizioni di parità (art. 2, 1 comma c.p.a.). Sappiamo infatti che il provvedimento è un atto della PA di cui quest'ultima conosce tutti gli antefatti dato che tiene in mano tutti gli atti dell'istruttoria, cuore del procedimento amministrativo. Questa posizione inevitabilmente di superiorità conoscitiva dell'amministrazione rispetto al cittadino necessita dei bilanciamenti, altrimenti non si potrebbe garantire il principio di parità tra le parti. Vedremo quali sono i presidi che la disciplina del processo amministrativo prevede per garantire la parità (come l’accesso agli atti amministrativi, o che consentono di integrarne l’oggetto, come i motivi aggiunti). Nel processo amministrativo il principio del contraddittorio, nella sua portata generale, è parso talvolta in conflitto con l’esigenza di rendere più spedito il giudizio, soprattutto nelle vertenze rispetto alle quali la durata del processo può compromettere interessi pubblici molto importanti, anche di ordine finanziario. Il bilanciamento fra la garanzia del contraddittorio e l’obiettivo di celerità del giudizio non è sempre facile. D’altra parte la celerità della decisione non è un fattore secondario: oggi assume un rilievo anche costituzionale, come componente essenziale del principio della « ragionevole durata ». Questo inciso è stato inserito con la legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, che ha inserito i principi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione. Questa legge costituzionale è stata adottata per allineare il processo penale ai principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Il problema della ragionevole durata non si era posto per il diritto amministrativo, la questione si pone seriamente con riguardo al processo penale e in alcuni casi al processo civile. La circostanza, tuttavia, che il legislatore costituzionale non abbia voluto specificare che ci si riferisse ad un tipo di processo piuttosto che un altro fa sì che oggi, la Carta costituzionale, parli di processo tout court , che sia esso penale, civile o amministrativo. Ai fini di celerità il legislatore è intervenuto in vari modi: ha previsto in alcune materie riti speciali «abbreviati» (art. 119 ss. c.p.a.) e, prima solo in determinate materie, poi in termini più generali, ha ammesso la possibilità di anticipare la decisione del ricorso già nella fase cautelare (art. 60 c.p.a.). Art. 111, 6° comma → ‘ Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati’. La sentenza di primo grado deve essere motivata perché la motivazione ha una funzione conoscitiva , spiega alle parti il ragionamento giuridico che sta alla base di quella decisione. Infatti, lo strumento dell’impugnazione, che vedremo sostanzialmente essere l’appello davanti al Consiglio di Stato, senza motivazione sarebbe uno strumento fine a se stesso perché la parte non saprebbe cosa contestare. La motivazione ha quindi la funzione di immettere le parti nella conoscenza del ragionamento che ha portato il giudice ad assumere una certa decisione, ma ha anche una funzione strumentale ai fini dell'esercizio del diritto di difesa. Tant’è vero che nel processo amministrativo, quando si propone appello, si deve stare attenti ai capi della sentenza di primo che si impugnano, perché la sentenza di primo grado potrebbe, in alcuni passaggi, dire qualcosa che va a mio favore, o comunque qualcosa che la parte ritenga di non dover o poter contestare, e poi ci possono essere dei passaggi che invece fanno di me la parte soccombente, e quindi io andrò ad impugnare quei capi. La motivazione del provvedimento giurisdizionale è uno strumento di fondamentale importanza ai fini dell'esercizio del diritto di difesa, quasi una sorta di presupposto per poterlo esercitare. 50 Art. 113, 1° comma: → ‘Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa’. Mentre gli articoli precedenti hanno riguardo all’esercizio dell’azione giurisdizionale tout court, questo articolo ha riguardo specifico della PA e quindi del giudizio amministrativo. La tutela giurisdizionale «contro gli atti della Pubblica amministrazione ... è sempre ammessa»; la formulazione stessa della disposizione («sempre») sottolinea come il principio abbia carattere assoluto e non possa subire limitazioni neppure in situazioni particolari. La norma costituzionale precisa poi che la garanzia della tutela giurisdizionale contro gli atti dell’amministrazione vale sia per i diritti soggettivi che per gli interessi legittimi. La distribuzione della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere tale da assicurare la pienezza di tale tutela. Le logiche interne ai diversi modelli di giurisdizione devono cedere rispetto all’esigenza di garantire una tutela completa dei diritti e degli interessi legittimi. Per questi profili, l’art. 113, 1° comma, Cost. si ricollega all’art. 24 Cost., la cui portata viene precisata e integrata, nel senso che la pluralità delle giurisdizioni non può comportare un indebolimento della tutela complessiva nei confronti dell’amministrazione. Esempio: se un soggetto partecipa ad un concorso pubblico per diventare professore in un'università, fino al momento in cui non viene stilata la graduatoria, fino quindi al provvedimento con cui l’amministrazione individua il vincitore del concorso, trattiamo una fase ad evidenza pubblica. Per cui, il giudice è sicuramente il giudice amministrativo poiché il soggetto vanta un mero interesse legittimo; all’esito della procedura potrebbe tranquillamente emergere che il soggetto non sia idoneo a vincere il concorso. Una volta che si è instaurato il rapporto di lavoro, nel caso di specie il giudice del lavoro, per questo tipo di lavoro, è ancora il GA, ma è una eccezione alla regola. Ma se si fosse trattato di un concorso da dirigente dell’amministrazione dell’università, una volta stipulato il contratto il giudice di riferimento sarebbe stato il giudice civile, nella fattispecie il giudice del lavoro. In entrambi i casi, però, c’è un momento in cui, sia per il soggetto che fa il concorso da professore, sia per colui che fa il concorso da dirigente, viene in gioco il giudice ordinario, ed è laddove si vanti, per esempio, un credito nei confronti del datore di lavoro. La circostanza che un’amministrazione sia parte in causa, o che il giudizio verta su di un atto amministrativo non può in alcun modo giustificare limitazioni alla tutela giurisdizionale del cittadino. Anzi, la considerazione che si tratta di un soggetto pubblico deve condurre, nell’ordinamento democratico, al superamento della concezione dell’amministrazione come potere separato (come era invece nelle concezioni che si incentravano essenzialmente sul principio della separazione dei poteri) e alla affermazione di un particolare assoggettamento della sua attività alle esigenze della legalità, escludendo qualsiasi forma di privilegio processuale a suo favore. Art. 113, 2° comma: → ‘Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti’. Impedisce di circoscrivere i margini della tutela giurisdizionale, in relazione alla tipologia degli atti amministrativi impugnati o alla tipologia dei vizi fatti valere in giudizio. La norma ha determinato l’abrogazione delle disposizioni precedenti che limitavano il ricorso al giudice amministrativo solo ad alcuni dei vizi di legittimità. La garanzia si estende, però, solo ai vizi di legittimità: rimangono escluse da ogni specifica protezione costituzionale le possibilità di sindacato per vizi di merito (come la violazione di regole non giuridiche di opportunità, convenienza, economicità, ecc.). La norma costituzionale è stata invocata per giustificare il superamento del principio, affermato in passato dall’art. 31, t.u. Cons. Stato e oggi ribadito dall’art. 7, 1° comma, c.p.a., della esclusione della tutela giurisdizionale nei confronti degli ‘atti politici’. 51 Art. 113, 3° comma: → ‘La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa’. Questo perché solo il giudice amministrativo può annullare un atto della PA, il giudice ordinario lo può, al massimo, disapplicare. Questo perché Perché l'annullamento è la reazione che l'ordinamento appresta a fronte di un provvedimento illegittimo. Ma se un provvedimento è illegittimo lo può dire solo il GA perché è lui il solo organo deputato dalla legge a sindacare l'esercizio del potere. Questo ultimo comma dell'articolo 113 che potrebbe sembrare un po' ridondante, in realtà non lo è perché ci ricorda una cosa fondamentale: il giudice deputato a giudicare sull'esercizio del potere da parte della PA è solo il giudice amministrativo. La norma esclude che nel nostro ordinamento valga una riserva costituzionale a favore del giudice amministrativo del potere di annullamento degli atti amministrativi: non è stato ‘costituzionalizzato’ il principio affermato dall’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo sulla preclusione per il giudice ordinario di pronunce di annullamento. Di conseguenza non possono essere ritenute illegittime le disposizioni di legge ordinaria che conferiscono al giudice ordinario il potere di annullare provvedimenti amministrativi. Il coordinamento con il principio affermato nel 1° comma dello stesso art. 113 Cost. va ricercato nei termini che al giudice è sempre garantito il potere di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, ma non è sempre garantito che tale sindacato si debba risolvere necessariamente in un potere di annullamento (disapplicazione come esito alternativo all’annullamento). PRINCIPI RELATIVI ALLA GIURISDIZIONE: Art. 100, 1°comma → ‘ Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione’. Da questo primo comma dovremmo cogliere l'eco della storia del sistema di giustizia amministrativa in Italia. Noi sappiamo che il Consiglio di Stato è stato istituito prima dell’Unità d’Italia e si articolava originariamente in 3 sezioni aventi funzione consultiva, cioè dovevano rendere dei pareri al re. Queste 3 sezioni, anche se ad oggi sono solo 2 quelle che rendono pareri, sono ancora operanti. Il Consiglio di Stato è ancora un organo di consulenza giuridico amministrativa, ma è anche un organo di tutela della giustizia nella amministrazione ed anche qui si avverte il peso della storia. C'è stata la battaglia per la giustizia nell'amministrazione che ha portato alla nascita della IV sezione del Consiglio di Stato e poi al riconoscimento giurisdizionale della IV sezione. Quindi, noi sappiamo che il Consiglio di stato svolge ancora una funzione consultiva, benché sia recessiva rispetto a quella di giudice. Art. 103, 1°comma → ‘ Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi’. Anche questa disposizione non ci deve stupire, ci ricorda che il giudice amministrativo è il giudice degli interessi legittimi e quindi la giurisdizione generale è di legittimità, cioè è quella giurisdizione nell'esercizio della quale il giudice amministrativo può conoscere della legittimità nell'esercizio del potere da parte dell'amministrazione e, in particolari materie indicate dalla legge (tassativa), è anche giudice dei diritti soggettivi. Ci dice cioè che, in casi eccezionali e tassativi, ricorre la giurisdizione esclusiva che abbiamo visto essere nata nel 1923 con riguardo alla materia del lavoro e che poi ha conosciuto delle vicende alquanto peculiari. Questo primo comma fotografa però una situazione molto 52 Cosa possiamo dire dovendo tirare le fila sui principi? (Pagine corrispondenti da 39 a 48 del libro) Ne esce confermata la scelta per il sistema dualistico come si era formato fino a quel momento. Non si tratta però di una mera conferma, ma il sistema di giustizia amministrativo ne esce arricchito (pensiamo all'articolo 113 della Cost.). Il bilancio quindi, all’esito della assemblea costituente e dall'entrata in vigore della Costituzione, è un bilancio positivo. La storia della giustizia amministrativa però non finisce qui. Dopo il 1948 la giustizia è stata interessata da una serie di vicende tutt'altro che irrilevanti. Vicende che hanno comportato una serie di trasformazioni e che, nel loro complesso, confermano questa idea di un sistema di giustizia amministrativa in perenne transizione. La prima grande novità che ha fatto seguito alla Costituzione si registra nel 1971 con l'avvento della cosiddetta legge Tar. Abbiamo visto che nella Costituzione, rispetto al disegno di giustizia che era emerso sino a quel momento, l’art. 125 introduce una novità costituzionalizzando il doppio grado di giudizio, prevedendo in ogni regione un tribunale amministrativo regionale, ovvero di un organo di giustizia amministrativa di I grado. Questo articolo è stato però dimenticato per molti anni, poiché ci sono stati alcuni tentativi di attuazione dell'art. 125 della Cost. che poi però sono andati vani. Si pensi al progetto Porti del 1988, al progetto Lucifredi del 1953, entrambi finiti in un nulla di fatto. L’art. 125 ha ricevuto attuazione solo nel 1971 con la l. n. 1034/1971, “legge istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali". Come si è arrivati a questa legge? A riaprire la questione sono state tre sentenze della Corte Costituzionale. - 27 dicembre 1965 n. 93 - 3 giugno 1966 n. 55 - 22 marzo 1967 n. 30 - Sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 24 novembre 1967 n.15. In particolare, la Corte Costituzionale con queste sentenze aveva dichiarato l' illegittimità costituzionale dei consigli di prefettura e delle giunte provinciali amministrative , per accertata inidoneità costituzionale di tali organi a svolgere la funzione di giudice. Si apre quindi una situazione di sostanziale vuoto di tutela, nel senso che non c'era un organo che facesse da filtro e che svolgesse una funzione assimilabile a quella del giudice di I grado. In prima battuta il Consiglio di Stato ritenne di colmare questo vuoto attraendo a sé la competenza un tempo spettante alle giunte provinciali, era però una soluzione ponte, di carattere transitorio. La legge del 1971 si è inserita in questo contesto dando attuazione all'articolo 125 Cost. e istituendo i Tar. E’ stato così introdotto per le controversie amministrative un doppio grado di giudizio. Vi è stata l'istituzione, presso ogni regione, di un Tar e, nelle regioni più grandi, anche di sedi ancillari. Per esempio: in Lombardia abbiamo il Tar Milano e Brescia, nelle Marche il Tar ha sede ad Ancona. Quali novità in concreto ha portato l’avvento della legge Tar ? La ratio e l'impianto di fondo del giudizio amministrativo non sembrarono subire delle modifiche di carattere sostanziale. Tuttavia, sono state introdotte alcune novità di carattere processuale che, seppur li per li sono state sottovalutate, hanno prodotto delle conseguenze ben più significative di quelle originariamente immaginate dal legislatore. Si pensi all'ampliamento dell'area della giurisdizione esclusiva e alla possibilità di impugnare provvedimenti non definitivi. I primi commentatori, al pari del legislatore, non colsero in pieno i germi di novità insiti in questa legge. In letteratura si è parlato quindi di una riforma modesta, sia dal punto di vista dei contenuti normativi, sia dal punto di vista dello spessore culturale di questa legge. Una riforma, in sostanza, che secondo molti non coglieva pienamente nel segno in un momento di grande crisi per le istituzioni. 55 Altri furono ancora più critici, forse cogliendo più nel segno, una parte della dottrina si chiese se, così facendo, istituzionalizzando cioè il giudice di primo grado nelle controversie amministrative, non si corresse il rischio di una scoloritura della giurisdizione amministrativa. Ossia di un processo di livellamento delle tecniche delle giurisdizioni civile e amministrativa, livellamento che a lungo andare avrebbe potuto far dubitare della stessa ragion d’essere della giurisdizione amministrativa, di una ragione a sé stante per la PA. Questo, in sintesi, è il pensiero di Mario Nigro a proposito della legge Tar. Oggi, col senno del poi, possiamo dire che Nigro ci aveva visto lungo. Nel senso che, non tanto l'istituzione del giudice di primo grado, quanto tutto quello che ne è conseguito, ci consegnano oggi un GA che strizza molto l'occhio al giudizio civile. Motivo per cui, periodicamente, ci si è interrogati sull'opportunità di un giudice amministrativo. Infatti, molti istituti del processo amministrativo si sono appiattiti sul processo civile, in primis quello delle azioni. Come alcuni commentatori della legge Tar avevano pensato, negli anni successivi alla sua entrata in vigore, un ruolo fondamentale nella interpretazione di questa legge lo ha avuto la giurisprudenza, giurisprudenza che ha in più occasioni sopperito ad una sostanziale assenza del legislatore. Nei fatti ha riattualizzato la tutela cautelare , ha offerto una rilettura dell’istituto dell’ottemperanza e ha ampliato significativamente le maglie della legittimazione ad agire . In realtà, non è tutta colpa di un legislatore assente, ma quelli che la giurisprudenza è andata a colmare sono anche dei vuoti dovuti all'evolversi sempre più rapido della società. Poi, un fattore per nulla secondario, è stato rappresentato dal dialogo tra le Corti, laddove con questa espressione non si intende solo il dialogo tra giudice ordinario e amministrativo, ma anche l’influenza determinante esercitata dalla Corte di Giustizia e dalla Corte Edu. ● Qual’è la differenza tra la Corte di Giustizia dell’UE e la Corte Edu? La Corte di Giustizia dell’UE è il giudice del Diritto dell'Unione, dei trattati e del diritto derivato, ed è, in senso ampio, una istituzione dell'UE che ha sede a Lussemburgo. Interprete dei trattati e dei diritti dell’Unione. Quello che ricorre con maggiore frequenza è il rinvio pregiudiziale di interpretazione che è quello in cui la Corte di Giustizia viene investita da un giudice remittente, cioè da un giudice di uno stato membro, civile o amministrativo, per dare una interpretazione autentica del diritto dell’UE, di quelle disposizioni che rilevano per la risoluzione della controversia di cui è investito il giudice remittente. Invece, la Corte Edu ha sede a Strasburgo ed è una Corte internazionale il cui compito è quello di assicurare la corretta applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questa Convenzione non fa parte propriamente delle fonti del diritto UE, perché è invece un trattato internazionale, seppure si dice di portata regionale, convenzione europea. Uno dei caratteri che contribuiscono a rendere peculiare questo trattato è il fatto che questo prevede un giudice a presidio del trattato medesimo, giudice che è la Corte Europea dei diritti dell'Uomo. Si è molto discusso della possibilità dell'UE di aderire alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, lo stesso trattato di Lisbona sembra aprire uno spiraglio in questo senso, ma questo non è avvenuto per il timore della Corte di Giustizia di avere un giudice concorrente. In realtà, però, questa sorta di concorrenza tra le due Corti si ha comunque, perché ci sono dei settori in cui, per vie diverse, si trovano a pronunciarsi su medesime questioni. Questo confine è diventato ancora più labile a causa del riconoscimento della natura giuridica vincolante della Carta di Nizza, o Carta europea dei diritti fondamentali. Questa Carta è stata siglata nel 2000 e doveva essere una sorta di abbozzo di Costituzione dell’UE. In quanto Bill of rights questa carta fissa una serie di diritti fondamentali, uno dei più importanti è il diritto ad una buona amministrazione, ma anche quello ad una giustizia effettiva. Ovviamente la carta di Nizza non si è inventata nulla, perciò il giusto processo che ritroviamo nella Convenzione Europea dei 56 diritti dell’uomo trova una propria eco anche nella carta di Nizza, e questo spiega perché, nella materia di cui ci si occupa oggi, queste due corti si trovano spesso a decidere su questioni simili. Quel timore che la Corte di giustizia ha sempre avuto di una sovrapposizione da parte della Corte Edu è comunque presente nella realtà. Quello che a noi interessa è il fatto che questi 2 giudici negli anni si sono pronunciati con sentenze che hanno influenzato il sistema amministrativo italiano, anche dal punto di vista dell'impianto della tutela giurisdizionale, la giustizia amministrativa italiana, da un sistema chiuso ha preso a diventare un sistema più aperto alle interazioni con gli ordinamenti sovranazionali, quello europeo e quello istituito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tornando all'evoluzione storica di GA, non solo la Cost. non ha messo un punto fermo, ma c'è riuscita ancora di meno la legge Tar. Tant'è vero che, negli anni successivi alla sua entrata in vigore, si ebbero una serie di interventi di riforma del sistema di giustizia amministrativa. L'idea di fondo era che il sistema di giustizia amministrativa versasse in stato di crisi e che, rispetto a tale stato di crisi, la legge Tar non avesse offerto risposte certe o utili. Di qui il susseguirsi di una serie di progetti di riforma. In particolare, vale la pena ricordare il progetto della cosiddetta “commissione bicamerale” , ovvero la commissione parlamentare per le riforme costituzionali istituita con la legge cost. 24 gennaio 1997 n.1. Con l'istituzione di questa commissione si è riaperta la discussione intorno alla opportunità di un ritorno alla giurisdizione unica. Questa è una discussione che periodicamente ritorna, ogni volta in cui ci si trovi di fronte ad un momento di transizione . Che cosa accomuna la discussione in assemblea costituente da quella in seno alla commissione bilaterale? Entrambi i momenti sono stati di passaggio, la Costituzione segna il passaggio dalla monarchia alla repubblica, mentre la commissione bicamerale si situa sul crinale tra la prima e la seconda repubblica (momento molto pesante di grossa incertezza dal punto di vista istituzionale e di tenuta dello Stato). Quali erano i contenuti di questo progetto di riforma dal punto di vista della giustizia amministrativa? Intanto si prospettava un diverso criterio di riparto di giurisdizione, non più dettato dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive, ma un riparto per materie. Il progetto della commissione bicamerale voleva andare a riscrivere l'articolo 119 Costituzione nei seguenti termini; la giurisdizione amministrativa è esercitata dai giudici dei tribunali ordinari di giustizia amministrativa e dalla Corte di giustizia amministrativa sulla base di materie omogenee indicate dalla legge riguardanti l’esercizio dei pubblici poteri. - Riparto per materie significa un forte scetticismo nei riguardi della figura cardine della giustizia amministrativa, cioè l'interesse legittimo. - Allo stesso tempo significa anche aprire la strada ad un tendenziale ampliamento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, ipotesi che però nascono come eccezione alla regole generale che è quella della giurisdizione di legittimità, una sorta di ribaltamento nel rapporto regola/eccezione. Il progetto della commissione bicamerale si è risolto in un nulla di fatto, tuttavia una serie di interventi normativi successivi a questo progetto hanno proseguito nel solco di quanto previsto dal progetto stesso. In particolare i l d.lgs 31 marzo 1998 n. 80 e la legge 21 luglio 2000 n. 205 . Entrambi questi interventi normativi sono andati ad incidere sul profilo della giurisdizione. 57 del contenzioso amministrativo. Il criterio comportava la possibilità per il cittadino di far valere come “interessi” diritti soggettivi, ed implicava una sorta di relazione di “continenza” tra diritti soggettivi e interessi legittimi: i diritti soggettivi erano considerati (per definizione) come posizioni soggettiva più garantite degli interessi legittimi e quindi potevano essere fatti valere anche come interessi per fruire delle relative modalità di tutela. Una volta respinte le proposte di fondare la giurisdizione amministrativa sul potere di annullamento, il criterio venne abbandonato a partire dagli anni ’30. Le critiche nei confronti del criterio erano di due ordini: ○ Venne rilevato che interessi legittimi e diritti soggettivi sono posizioni distinte “qualitativamente”, e non in termini di minore o maggior tutela; ○ Venne rilevato che la tesi del petitum apriva la strada ad una doppia tutela , nel senso che la medesima posizione soggettiva poteva essere fatta valere alternativamente o cumulativamente, a scelta del ricorrente, davanti a ciascuno dei due giudici. La doppia tutela sembrava incompatibile con l’esigenza di una distinzione tra le giurisdizioni basata su criteri oggettivamente verificabili. Oggi, l’espressione “doppia tutela” viene usata per alcune particolari ipotesi in cui il cittadino, in una stessa situazione materiale, può agire davanti al giudice ordinario per far valere un proprio diritto, ma può agire anche davanti al giudice amministrativo: es. vertenze in materia edilizia → il proprietario che ritiene di essere pregiudicato da una nuova costruzione del vicino, può agire contro questi in sede civile, ma può anche impugnare il permesso rilasciato dal Comune per la nuova costruzione, davanti al giudice amministrativo. In realtà in questo caso non si ha una ‘doppia tutela' in senso proprio. Nel caso delle vertenze edilizie il cittadino non fa valere la medesima posizione soggettiva davanti al giudice amministrativo o davanti al giudice ordinario: il cittadino, in base alla legge, è titolare invece di due posizioni soggettive distinte, una di interesse legittimo nei confronti del Comune e l'altra di diritto soggettivo nei confronti del vicino. Se fa valere il suo interesse legittimo deve impugnare il permesso di costruire, promuovendo il giudizio contro l'amministrazione; se fa valere il suo diritto soggettivo deve agire contro il vicino, chiedendo la sua condanna alla riduzione in pristino della costruzione o al risarcimento dei danni cagionati. Le due posizioni si riferiscono ciascuna a rapporti distinti (il diritto soggettivo nei confronti del vicino, l'interesse legittimo nei confronti dell'amministrazione) e la tutela di ciascuna posizione segue la rispettiva disciplina. b. Il rigetto della prima tesi porta a considerare allora un altro elemento, ossia la CAUSA PETENDI : la controversia è di competenza del giudice amministrativo, se è fatto valere un interesse legittimo, mentre è di competenza del giudice ordinario, se è fatto valere un diritto soggettivo. Il problema però non è risolto, si deve capire alla stregua di quali circostanze si possa stabilire se sia fatto valere un diritto soggettivo o un interesse legittimo. A questo pro costituisce un termine di confronto la teoria della prospettazione → va attribuito rilievo decisivo alla “prospettazione” della posizione giuridica soggettiva, come risulta dagli atti introduttivi del giudizio. Se l’attore afferma di essere titolare di un interesse legittimo, la tutela spetta al giudice amministrativo; se si presenta come titolare di un diritto soggettivo, è competente il giudice ordinario. Ciò che rileva non è la consistenza effettiva della posizione giuridica di cui sia titolare il cittadino, ma è la situazione soggettiva che viene fatta valere , così come “prospettata” dal cittadino nella sua domanda giudiziale. La Cassazione ha respinto la tesi della prospettazione fin dal 1897 , rilevando come essa conducesse ad una incertezza di fondo nel riparto delle giurisdizioni, proprio perché assumeva come dato fisiologico che la 60 decisione ultima sull’individuazione del giudice competente potesse dipendere da valutazioni o da scelte di convenienza della parte. c. La tesi accolta dalla Cassazione è stata designata più di recente come tesi del PETITUM SOSTANZIALE : ciò che rileva ai fini del riparto di giurisdizione non è la prospettazione ad opera della parte della situazione giuridica fatta valere in giudizio, ma è l’effettiva natura di questa situazione, la sua oggettiva natura di diritto soggettivo o invece di interesse legittimo. Il giudice civile esercita la sua giurisdizione nelle controversie su diritti soggettivi e ciò identifica i “limiti esterni” della sua giurisdizione.Per stabilire però, se in giudizio sia fatto valere un diritto soggettivo, non può fermarsi a quanto dichiarato dalla parte, ma deve verificare d’ufficio se si sia realmente in presenza di un diritto soggettivo. Questa conclusione solleva altri problemi: - In primo luogo, la verifica della giurisdizione si presenta, di regola, come preliminare rispetto alla decisione sul merito. Di conseguenza, il giudizio sulla posizione soggettiva effettivamente in gioco finisce con l’essere caratterizzato da una certa astrattezza: si pensi alla verifica della giurisdizione in occasione di un regolamento preventivo. - In secondo luogo, si è consolidato un atteggiamento diverso, rispetto al tema della giurisdizione, da parte del giudice ordinario e da parte del giudice amministrativo. Infatti, l’insussistenza di una posizione di diritto soggettivo comporta, per il giudice ordinario che sia stato adito, una pronuncia di rigetto della domanda per infondatezza , mentre il giudice amministrativo, ove rilevi l’insussistenza di un interesse legittimo, è solito dichiarare inammissibile il ricorso (per difetto di giurisdizione), invece di respingerlo perché infondato. Evidentemente, nonostante l’adozione comune della formula del “petitum sostanziale”, non si è ancora formato un orientamento unitario dei due ordini di giudici in merito alla verifica e alla rilevanza della giurisdizione. 2. I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di cognizione Il tema dei LIMITI INTERNI della giurisdizione ordinaria attiene all’individuazione dei poteri che il giudice civile, nelle controversie di sua competenza, può esercitare nei confronti dell’amministrazione. Si tratta di stabilire quali pronunce possano essere assunte dal giudice civile, nelle controversie su diritti soggettivi, rispetto ad una P.A. A questi fini ha portata generale l’ art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo , che vieta al giudice ordinario di revocare o modificare l’atto amministrativo. Questo divieto è stato interpretato estensivamente, nella logica di assicurare una maggiore protezione dell’amministrazione da interventi del giudice ordinario; in questo modo risultava limitata la tutela dei diritti soggettivi del cittadino. L’incompatibilità di una conclusione del genere con i principi costituzionali ha avviato, nella seconda metà del 900, un’ampia riflessione critica che ha condotto ad elaborare soluzioni più idonee per una tutela effettiva dei diritti nei confronti della P.A. a. Bisogna analizzare la nozione di atto amministrativo , perché è decisiva per individuare i poteri del giudice ordinario nei confronti dell’amministrazione (in base all’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo). ○ PRIMA: questa nozione veniva identificata con qualsiasi atto dell’amministrazione posto in essere nell’interesse pubblico: se si accoglie questa concezione, si conclude che, oggetto di protezione, non possono essere solo i provvedimenti amministrativi, ma devono essere anche i comportamenti materiali dell’amministrazione di per sé non 61 regolari (perché non giustificati dai necessari provvedimenti), ma indirizzati a soddisfare un interesse pubblico. Dal momento in cui la figura dell’atto amministrativo acquistò maggior importanza, per giustificare tale conclusione venne sostenuto che questi comportamenti materiali dell’amministrazione sarebbero stati in realtà provvedimenti amministrativi taciti, ossia espressioni di volontà dell’amministrazione desumibili da un comportamento. Per cui, in base all’art. 4 della l. 2248/1865, il giudice civile con le sue pronunce, non potrebbe mai interferire su di essi. Questa interpretazione è stata considerata a lungo con favore dalla Cassazione; essa comporta però, una netta riduzione dei poteri del giudice ordinario, in funzione dell’esigenza generica di garantire l’interesse pubblico. ○ DOPO l’entrata in vigore della Costituzione: questa interpretazione non ha più alcuna ragione d’essere, oggetto di protezione non può essere una qualsiasi modalità con cui l’amministrazione persegua l’interesse pubblico, ma può solo essere ciò che già in base alla legge è soggetto ad un regime differenziato. La garanzia non può riguardare l’amministrazione in quanto tale, ma può riguardare solo l’atto amministrativo come espressione del “potere” dell’amministrazione: là dove l’amministrazione non esercita un potere conferitole dalla legge, non si può ammettere alcuna limitazione ai poteri del giudice. La garanzia dell’atto amministrativo trova la sua ragione e definizione del suo ambito nel principio di legalità e dove esso non operasse (caso dei comportamenti materiali) non ci può essere alcuna immunità dall’intervento giurisdizionale. Altrimenti si finirebbe con il configurare una situazione di “privilegio processuale” per l’amministrazione, in palese contrasto con i principi costituzionali. L’atto che, per un vizio radicale, risulti inefficace non può essere considerato espressione di un potere dell’amministrazione; perciò, il provvedimento che sia nullo perché manca degli elementi essenziali o è viziato da difetto assoluto di attribuzione (art. 21 septies L.241/90) non comporta alcun limite interno a carico del giudice ordinario. I limiti interni della giurisdizione civile salvaguardano soltanto ciò che costituisca, in base alla legge, espressione di un potere pubblico. b. Il tema dei limiti interni della giurisdizione civile è stato affrontato soprattutto con riferimento alle tipologie di sentenze che il giudice ordinario può emettere nei confronti dell’amministrazione. Anche in questo caso il dibattito trae origine da un’interpretazione estensiva dei limiti posti dall’art. 4 della L. 2248/1865; si sostiene che, anche nelle vertenze su rapporti di diritto privato, l’art. 4 vieterebbe al giudice ordinario non solo di incidere direttamente su atti amministrativi o di condannare l’amministrazione a revocare o modificare propri atti, ma anche di emettere sentenze per la cui esecuzione l’amministrazione fosse tenuta a svolgere un’attività amministrativa. Seguendo questa logica, le uniche sentenze compatibili con l’art. 4 sembravano essere le sentenze di mero accertamento e le sentenze di condanna al pagamento di una somma di denaro . Le prime erano ammesse proprio perché il loro carattere dichiarativo escludeva che potessero avere un’efficacia esecutiva e quindi garantiva da qualsiasi incidenza su un’attività provvedimentale dell’amministrazione. La sentenza dichiarativa si limita ad accertare la situazione delle parti rispetto ad un bene giuridico e non implica quindi da parte del giudice, l’esercizio di poteri dispositivi che possano incidere su atti dell’amministrazione, né rappresenta titolo per un’esecuzione. Per le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, la questione è più complessa: in definitiva, anche una condanna del genere obbligava l’amministrazione a realizzare una propria attività; tuttavia, la condanna al pagamento di 62 competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”. ● Art. 5: “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”. Le due disposizioni sono in un rapporto che è all’origine di un dibattito che non si è ancora risolto: l’art. 5 con l’inciso “in questo, come in ogni altro caso” sembra alludere ad una portata più ampia rispetto all’art. 4, probabilmente ha carattere rafforzativo e sottolinea la portata generale del principio affermato. La portata generale emerge anche dal riferimento ad ogni ordine di atto amministrativo: sono infatti anche richiamati i regolamenti. È pacifico, ad ogni modo, che i due articoli riflettono una logica comune sui “limiti interni” della giurisdizione civile. Il giudice civile non può revocare o modificare gli atti amministrativi; però, non deve applicarli, se li ritiene illegittimi. Di fronte ad un atto amministrativo illegittimo il giudice civile non può procedere all’annullamento, ma non è per ciò stesso vincolato dall’atto illegittimo; anzi, nella decisione di una controversia, deve prescindere dagli effetti dell’atto amministrativo illegittimo: è tenuto a procedere alla sua “disapplicazione”. Anche se questo istituto ha sollevato dibattiti e interpretazioni diverse, ci sono alcuni punti fermi, condivisi sia in dottrina che in giurisprudenza. Innanzi tutto, la disapplicazione presuppone una controversia su un diritto soggettivo : in caso contrario, la causa non sarebbe nemmeno devoluta al giudice civile. Quindi, se rispetto ad un provvedimento amministrativo il cittadino è titolare di un interesse legittimo, non può agire davanti al giudice civile per ottenere la disapplicazione di quel provvedimento, ma ha l’onere di impugnarlo davanti al giudice amministrativo. Inoltre, il sindacato del giudice sugli atti amministrativi e sui regolamenti ai fini della loro disapplicazione riguarda solo la legittimità e non l’opportunità degli stessi; attraverso la disapplicazione il giudice può sindacare la legittimità dell’atto amministrativo, anche d’ufficio, per il solo fatto che l’atto è un elemento rilevante per la decisione , senza la necessità di domande o eccezioni delle parti; il sindacato sulla legittimità dell’atto non è soggetto all’osservanza di alcun termine particolare (= la disapplicazione è possibile anche dopo la scadenza del termine per ricorrere al giudice amministrativo). In questo modo la disapplicazione si presenta come elemento di un modello di tutela alternativo rispetto all’impugnazione del provvedimento, e non come una specie di compensazione per il giudice ordinario del divieto di annullamento. L’istituto della disapplicazione è stato utilizzato in due ordini di controversie civili: ● Vertenze che riguardano un diritto soggettivo di un privato verso l’amministrazione che abbia come presupposto un atto amministrativo. Per esempio, le vertenze in materia di tributi o di sanzioni amministrative; ● È stato applicato nelle controversie tra privati, quando assume rilevanza un titolo rappresentato da un atto amministrativo. Si pensi alla controversia fra due privati, che facciano valere entrambi la qualità di concessionari del medesimo bene demaniale: criterio di preferenza fra le due pretese è la legittimità della con cessione, perché non possono coesistere legittimamente due concessioni analoghe su un identico bene. A tal fine il giudice civile deve procedere al la verifica della legittimità di ciascuno dei due provvedimenti: decide la vertenza disapplicando la concessione illegittima. È del tutto inutile invocare la disapplicazione con riferimento a contestazioni tra privati riguardanti provvedimenti “permissivi” dell’amministrazione (e non costitutivi). Es: cittadino che ottiene il permesso per costruire un edificio che risulti però in contrasto con la disciplina urbanistica sulle distanze nelle costruzioni e il vicino agisce davanti al giudice civile a tutela del suo diritto di proprietà 65 non deve richiedere la disapplicazione del permesso a costruire, perché per la decisione della causa è sufficiente verificare l’inosservanza, nel caso della nuova costruzione, delle norme sulle distanze nelle costruzioni e la circostanza che la concessione sia o meno regolare non assume invece rilievo. La disapplicazione presuppone che l’atto amministrativo sia rilevante per la decisione e quindi, sia produttivo di effetti da disapplicare. Di disapplicazione, ai sensi dell'art. 5, si può trattare quando il giudizio civile verta su un rapporto giuridico che sia determinato o condizionato da un provvedimento amministrativo: la disapplicazione si riferisce agli effetti prodotti dall'atto amministrativo e inerenti al rapporto dedotto in giudizio. Invece non è corretto in vocare la disapplicazione nel caso di un atto amministrativo ‘nullo': tale atto non è passibile di essere disapplicato, perché è comunque improduttivo di effetti giuridici, e le situazioni giuridiche delle parti non sono modificate da esso. Inoltre non è corretto invocare la disapplicazione quando l'atto amministrativo rilevi come mera circostanza di fatto: si pensi al reato di edificazione senza permesso di costruire 4. Il giudice ordinario e i procedimenti speciali nei confronti dell’amministrazione Le regole desumibili dagli artt. 4 e 5 della legge del 1865 hanno portata generale, anche se incontrano alcune DEROGHE . La stessa giurisprudenza esclude che i limiti interni possano essere invocati per circoscrivere la tutela possibile rispetto a diritti perfetti o diritti costituzionalmente protetti : la loro rilevanza costituzionale è incompatibile con l’individuazione di limiti posti da norme di grado inferiore. Di conseguenza, per esempio, è stato escluso che l'art. 4 potesse impedire al giudice ordinario di condannare l'amministrazione a un facere specifico o a un pati, anche con incidenza diretta sull'attuazione di provvedimenti amministrativi, quando ciò fosse richiesto dalla tutela di un diritto 'costituzionalmente tutelato'. Questa giurisprudenza, come abbiamo già ricordato, ha avuto svolgimenti importanti soprattutto in tema di tutela del diritto alla salute; si tenga presente, però, che oggi, molte vertenze in questa materia sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In alcuni casi, comunque, il legislatore ha disciplinato alcuni giudizi sulla base di un assetto diverso dei limiti “interni” della giurisdizione ordinaria nei confronti della PA. In particolare: ● Giudizi di opposizione alle sanzioni amministrative (L. 689/1981) La tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dei provvedimenti amministrativi con cui siano state applicate sanzioni amministrative pecuniarie (ordinanze-ingiunzioni) spetta in genere al giudice ordinario. Corte di Cassazione e Corte costituzionale hanno affermato che in questi casi il cittadino è titolare di un diritto soggettivo alla propria integrità patrimoniale , pertanto la competenza del giudice ordinario è coerente coi principi costituzionali. In materia di sanzioni amministrative il cittadino può ricorrere proponendo opposizione contro l'ordinanza-ingiunzione, mentre prima dell'emanazione del provvedimento sanzionatorio è ammessa soltanto la presentazione di difese e documenti nel procedimento sanzionatorio. La contestazione può investire qualsiasi profilo della pretesa sanzionatoria dell'amministrazione: può riguardare sia la regolarità formale del provvedimento, che la sussistenza dei presupposti per la sua emanazione, che la fondatezza delle valutazioni effettuate dall'autorità amministrativa. Il giudizio è regolato dal rito civile del lavoro; il giudice dell'opposizione può sospendere cautelarmente l'ordinanza-ingiunzione e, se accoglie l'opposizione, «annulla in tutto o in parte l'ordinanza o [la] modifica anche limitatamente all'entità della sanzione dovuta». Al giudice ordinario è espressamente riconosciuto un potere di sospensione, annullamento o modifica del provvedimento amministrativo. 66 ● Accertamenti per i trattamenti sanitari obbligatori in considerazioni di degenza ospedaliera. Il Sindaco dispone l’effettuazione del trattamento con un provvedimento immediatamente efficace, che deve però essere convalidato dal giudice tutelare entro un termine perentorio molto breve. Nei confronti del provvedimento convalidato, il destinatario, o chiunque vi abbia interesse (anche il Sindaco contro l’eventuale diniego di convalida del suo provvedimento), può ricorrere al Tribunale civile secondo le norme che disciplinano il rito sommario di cognizione (art. 702-bis e ss. c.p.c.) La tutela spetta al giudice ordinario, perché si tratta di diritti primari di libertà del cittadino. La legge riconosce espressamente al Tribunale il potere di adottare misure cautelari, che comportano la sospensione del trattamento obbligatorio. Tuttavia, non dispone se il Tribunale, accogliendo il ricorso, annulli il provvedimento del Sindaco, ma la logica dell’istituto e la stessa formulazione della norma (che parla di “ricorso contro il provvedimento”, oggetto principale del giudizio) inducono a considerare favorevolmente questa soluzione. ● Ricorso contro il provvedimento prefettizio di espulsione di stranieri In genere, il ricorso va proposto entro 60 gg al giudice ordinario, poiché nei confronti di un provvedimento di espulsione sono in gioco posizioni di libertà e diritti della persona. Tuttavia, nell’ipotesi di espulsione per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato e contro il diniego di permesso di soggiorno (motivo frequente di espulsione) è competente il Tar. Anche se la legge non precisa quali siano i poteri del giudice civile, per ragioni di effettività della tutela si deve ammettere che il giudice, se accoglie il ricorso, possa annullarlo . Questa conclusione è anche avvalorata dalla giurisprudenza costituzionale che ha riconosciuto al giudice, in via cautelare, il potere di sospendere in decreto di espulsione. Infine, la legge ammette che, in taluni casi, nei confronti dello straniero che si trattenga indebitamente nel territorio dello Stato, possa essere disposto l’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. In considerazione dell’incidenza del provvedimento sulla libertà personale (art. 13 Cost.), il provvedimento di accompagnamento forzato dovesse essere convalidato dal Tribunale nelle successive 48 h. Fino all’esito del giudizio di convalida, l’esecuzione del provvedimento è sospesa. Se la convalida non è concessa, il provvedimento perde ogni effetto. Analogamente è disposto per il trattenimento dello straniero presso un centro di permanenza temporanea. ● C.d. codice in materia di protezione dei dati personali La decisione del Garante su un ricorso proposto a tutela dei diritti di privacy può essere impugnata dagli interessati, entro 30 gg dalla comunicazione, davanti al Tribunale civile, al quale è espressamente riconosciuto il potere di sospendere in via cautelare l’esecuzione della decisione del Garante e di provvedere anche in deroga al divieto di cui all’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo (art. 10 d.lgs. 150/2011). 5. Le disposizioni processuali particolari per il giudizio in cui sia parte un’amministrazione statale La circostanza che parte in giudizio sia una PA non comporta, di per sé, alcuna variazione delle regole del processo comune. Unica variazione di rilievo rispetto alla regola ordinaria è quella determinata dalla disciplina dell’ Avvocatura dello Stato : ad essa spetta la difesa in giudizio delle amministrazioni statali senza la necessità di uno specifico mandato (in forza di legge), dunque senza la necessità di una procura. 67 la legge stabilisce che la pendenza del giudizio amministrativo non costituisce causa di sospensione del giudizio civile. Il potere del giudice ordinario di verificare la legittimità dell'atto amministrativo non è subordinato a quello del giudice amministrativo. 7. L’esecuzione forzata nei confronti dell’amministrazione Anche per l’esecuzione forzata valgono i principi del giudizio di cognizione, nei confronti dell’amministrazione è esperibile l’ esecuzione forzata prevista dal c.p.c. , anche in forma specifica. Emergono però questioni peculiari che attengono all’individuazione dei beni e dei diritti pignorabili. ● Non tutti i beni dell’amministrazione possono essere soggetti a esecuzione forzata. Sono esclusi: ○ i beni demaniali (né quelli del demanio necessario, che per definizione possono appartenere solo allo Stato o agli Enti territoriali, né quelli del demanio accidentale, che per il loro carattere demaniale “non possono formare oggetto di diritti a favore dei terzi”). ○ I beni del patrimonio indisponibile . L’art. 514 c.p.c. dichiara impignorabili i beni necessari “per l’adempimento di un pubblico servizio”. ○ sono passibili di esecuzione forzata solo i beni del patrimonio disponibile . ● L’espropriazione di crediti della PA è stata oggetti di discussioni che non sembrano ancora superate. Innanzitutto, era esclusa la possibilità di espropriare crediti di cui l’amministrazione fosse titolare in virtù di rapporti pubblicistici (è questo l’attuale orientamento della giurisprudenza in tema di crediti per entrate tributarie). Rispetto alle somme già nella disponibilità dell’amministrazione, e che essa normalmente detiene presso il proprio tesoriere, si riconosceva all’amministrazione una sorta di discrezionalità nella graduazione del pagamento dei suoi debitori, l’esecuzione era ammessa solo nei limiti degli importi che il bilancio dell’ente non avesse destinato a scopi specifici di interesse generale. In pratica, se l’ente pubblico non aveva stanziato nel suo bilancio una somma ad hoc , l’esecuzione era impossibile. Questa tesi era confermata dall’allora interpretazione dell’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo: se al giudice è vietato interferire sull’attività amministrativa, anche il bilancio dell’ente (atto amministrativo) rappresenta un limite ad ogni intervento giurisdizionale. Solo nel 1980 la Cassazione ha mutato indirizzo, riconoscendo che non poteva ammettersi discrezionalità là dove vi era un obbligo di adempiere ad una condanna al pagamento. Alle procedure di pagamento e ai bilanci deve essere riconosciuta una rilevanza “interna”. La Cassazione esclude solo i fondi pubblici soggetti a un particolare vincolo di destinazione specifica , diverso da quello risultante dal bilancio o da un mero impegno di spesa, e imposto da una legge speciale. In questo caso l’impignorabilità discende dal fatto che il vincolo di destinazione ha rilevanza esterna, in una logica analoga a quella espressa nell’art. 514 c.p.c. ● Una legislazione speciale ha introdotto nuovi limiti all’espropriabilità dei beni dell’amministrazione, precludendo del tutto l’espropriazione di beni e limitando l’espropriazione dei crediti alle somme non impegnate dall’ Ente per “servizi pubblici essenziali”. Inoltre, rispetto alle sentenze di condanna, è stato introdotto un termine dilatorio di 120 gg dalla notifica del titolo esecutivo per l’avvio dell’esecuzione forzata nei confronti di 70 amministrazioni ed enti pubblici non economici. Questo indirizzo legislativo è di dubbia legittimità costituzionale, perché introduce un privilegio processuale a favore della PA che non ha alcuna ragione giustificatrice sul piano sostanziale. La Corte costituzionale ha sempre respinto queste censure di illegittimità costituzionale, sostenendo che questa normativa attuerebbe l’interesse pubblico a un regolare svolgimento dell’attività amministrativa. ● La sentenza del giudice civile può essere eseguita , oltre che nelle forme previste dal c.p.c., anche in quelle del giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo. L’art. 112, II, c) c.p.a. ammette in via generale che il giudizio di ottemperanza sia esperibile anche per conseguire l’esecuzione delle sentenze del giudice ordinario (e degli altri atti ad esse equiparate) passate in giudicato. Nel giudizio di ottemperanza il giudice amministrativo esercita una giurisdizione “ anche in merito” (art. 134, I c.p.a.), e può provvedere direttamente o attraverso un commissario ad hoc ad assumere tutte le iniziative necessarie per eseguire la sentenza (114, IV c.p.a.). 71 CAPITOLO VII - I RICORSI AMMINISTRATIVI I ricorsi amministrativi appartengono all’ambito degli strumenti della tutela non giurisdizionale : infatti, non solo nel nostro ordinamento e sin da periodi un po’ più risalenti, è stato creato un meccanismo che concerneva l’esistenza di strumenti che potessero garantire al privato cittadino la tutela dei propri diritti soggettivi innanzi ad un’autorità differente rispetto all’autorità giurisdizionale. Quindi, qual è la particolarità degli strumenti di tutela non giurisdizionale? Finora abbiamo parlato e analizzato il procedimento, cd. processo, davanti all’autorità giurisdizionale, davanti al giudice amministrativo. Ora siamo al di fuori di questo contesto. Quindi questi rimedi non vedranno come autorità giudicante l’autorità giurisdizionale, ma un soggetto diverso. I ricorsi amministrativi sono una species rispetto al più ampio discorso che si può fare in merito ai sistemi di A.D.R. (= Alternative Dispute Resolution), che sono una serie di strumenti riconosciuti, tanto nell’ordinamento interno quanto, per volontà dell’UE, per risolvere e tutelare determinate situazioni giuridiche soggettive. Ora concentriamoci sui ricorsi amministrativi, che sono propri dell’ordinamento italiano. I ricorsi amministrativi sono ricorsi che vengono attivati davanti alla PA (poi vedremo che cosa si intende per Pubblica Amministrazione) e i sistemi di ADR (che sono diversi dai ricorsi amministrativi) prevedono anche loro una tutela dinnanzi a un soggetto diverso rispetto al giudice. Quindi entrambi, sia ricorsi amministrativi che sistemi di A.D.R. appartengono alla tutela non giurisdizionale. Quali sono le caratteristiche della tutela non giurisdizionale? È un sistema alternativo alla tutela giurisdizionale: non necessariamente l’uno esclude l’altro, cioè non necessariamente la stessa situazione giuridica può essere tutelata mediante un procedimento incardinato innanzi al giudice amministrativo o alla PA. Sono sicuramente degli strumenti di protezione giuridica dei cittadini che hanno per oggetto quello che è lo stesso oggetto per cui si può ricorrere dinanzi a un organo giurisdizionale, cioè quando si contesta il provvedimento o il comportamento o l’atto della PA. L’oggetto è sempre lo stesso . Caratteristica principale: mediante il ricorso amministrativo, la PA (parlando in generale, poi da vedere nel dettaglio) emette un provvedimento o assume un determinato comportamento (quindi sarebbe la parte resistente del processo, innanzi all’organo giurisdizionale, giudice amministrativo), mentre nei ricorsi amministrativi il privato che intende contestare il provvedimento/comportamento/atto della PA provvederà a incardinare un procedimento innanzi alla stessa PA che quindi sarà “organo giudicante” allo stesso modo. Quindi, in questo caso, la PA svolge una cd. attività giustiziale (non si può dire giurisdizionale perché non stiamo parlando di un organo giurisdizionale!) è chiamata a decidere in merito alla legittimità o al merito della questione controversa che il privato decide di incardinare davanti alla PA stessa. Il presupposto è lo stesso rispetto a quello che il processo ha incardinato innanzi all’autorità giurisdizionale: innanzitutto, deve esserci la lesione di una situazione giuridica soggettiva, determinata da un’attività da parte della PA, e poi deve esserci, secondo il principio dispositivo, la volontà del privato di ricorrere alla PA per tutelare la propria situazione giuridica soggettiva. I presupposti sono gli stessi . Nel caso dei ricorsi amministrativi, tale tutela non giurisdizionale è detta anche tutela amministrativa perché il soggetto che interviene a tutela di noi cittadini è la PA. 72 soggettiva, se non rientra in quello che è definito dall'articolo 2 dell’allegato E (quindi il deferimento della tutela dei diritti civili e politici al giudice ordinario)? Tutto ciò che non è ricompreso, gli affari non compresi , chi li tutela? Non erano deferibili al giudice ordinario perché non espressamente previsto. E qual è la conseguenza? Essendo stati aboliti i tribunali del contenzioso amministrativo, non potevano essere tutelati innanzi agli organi amministrativi. Qual era lo strumento? I ricorsi amministrativi! 3) Poi emerse un ulteriore problema, che abbiamo affrontato in merito al tema della giurisdizione: cioè il Consiglio di Stato a un certo punto dice anche un'altra cosa: dice che i provvedimenti della pubblica amministrazione non possono essere soggetti alla giurisdizione del giudice ordinario, perché non vertono sui diritti soggettivi! Quindi qui emerge il tema della discrezionalità amministrativa, degli interessi legittimi e tutto ciò che ha comportato (ne abbiamo parlato in merito di giurisdizione esclusiva), quindi è un ulteriore alt che viene imposto al giudice ordinario nella tutela di quelle controversie di cui è parte la pubblica amministrazione. 4) Poi viene emanata la legge Crispi nel giugno 1889 , che istituisce la IV sezione del Consiglio di Stato, denominata per la giustizia amministrativa, che abbiamo detto pronunciarsi in merito a ricorsi per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge contro atti e provvedimenti amministrativi. Quindi con la legge Crispi nasce il modello dualistico giudice ordinario e giudice amministrativo (e quindi tutto quello che poi abbiamo detto in merito al tema della giurisdizione esclusiva, ecc.). Questa era la problematica che intercorreva fra la nascita del Regno d'Italia e poi la legge Crispi che ha istituito la IV sezione della giustizia amministrativa. Si era detto: “sì, abbiamo determinati affari che sono ricompresi nella giurisdizione del giudice ordinario, ma il giudice ordinario non può fare tutto. Può solo disapplicare se i provvedimenti non sono conformi alla legge. Però il giudice ordinario non si può nemmeno pronunciare perché l'oggetto della controversia, quando è parte la pubblica amministrazione, non sono diritti soggettivi ma qualcosa di diverso”. Quindi praticamente il giudice ordinario non poteva fare niente. Poi c'è stata l’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato che ovviamente ha introdotto la cd. giurisdizione di legittimità, e quindi il doppio riconoscimento di due diverse autorità giurisdizionali: quello ordinario e quello amministrativo. Quindi al termine dei primi anni del ‘900, qual è il risultato? Abbiamo la giurisdizione ordinaria , abbiamo la giurisdizione amministrativa (con l'istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato per la giustizia amministrativa) e abbiamo i ricorsi amministrativi (che nel frattempo si erano fatti spazio in questa lotta fra le due giurisdizioni e che, per un determinato periodo di tempo, quindi, sono stati l'unico strumento di tutela per le controversie contro la pubblica amministrazione). Questo è il quadro storico che giustifica quanto detto all'inizio della lezione, cioè il fatto che per un determinato periodo di tempo i ricorsi amministrativi hanno trovato ampia applicazione, proprio per questo motivo legato al fatto che non si sapeva quale giudice dovesse pronunciarsi in merito alle controversie contro un'autorità pubblica. Detto ciò, parliamo di ricorsi amministrativi. Cosa sono i ricorsi amministrativi? Abbiamo parlato di rimedio giustiziale, di un rimedio che viene proposto innanzi a un' autorità amministrativa , quindi decide sulla controversia l’autorità amministrativa. Il presupposto è sempre lo stesso: la lesione della sfera giuridica soggettiva del cittadino all'esito di un provvedimento o di un comportamento della PA. In che cosa concerne il tipo di intervento che può attuare la PA in veste giudicante? 75 Per i ricorsi amministrativi, l'attività consiste, da parte della pubblica amministrazione chiamata a pronunciarsi, nel riesame di legittimità e di opportunità (cioè vedremo che ci sono rimedi, ricorsi amministrativi che possono avere ad oggetto semplicemente una “revisione” da parte della pubblica amministrazione sulla legittimità - i vizi soliti, che sono anche gli stessi per cui decide il giudice amministrativo nella giurisdizione di legittimità - e altri ricorsi che possono essere adottati e di cui la PA può pronunciarsi anche in merito all'opportunità). Qual è il fine del ricorso? La finalità è la stessa di quella che è riconosciuta all'organo giurisdizionale, quindi annullare il provvedimento impugnato, revocarlo, oppure riformarlo. Però qual è la conclusione? Se il giudice amministrativo si pronuncia con una sentenza, la PA chiamata a decidere adotterà un provvedimento amministrativo che quindi apparterrà alla categoria delle decisioni amministrative . Non abbiamo una sentenza! La sentenza la può pronunciare esclusivamente il giudice amministrativo. La distinzione appare evidente per il fatto che la funzione giustiziale dell'amministrazione non si attua secondo le regole sui procedimenti giurisdizionali, non si risolve in un atto idoneo a costituire cosa giudicata, e la decisione è soggetta ai rimedi previsti per gli atti amministrativi. Nel caso dei ricorsi 'ordinari' (ricorso gerarchico e ricorso in opposizione), la decisione amministrativa è inoltre soggetta alla possibilità di interventi successivi dell'amministrazione, come l'annullamento d'ufficio, che non sono invece configurabili per gli atti giurisdizionali. 1. Principi generali Nel nostro ordinamento sono previste varie tipologie di ricorsi amministrativi: la loro disciplina generale è contenuta nel D.P.R. n° 1199/1971 In questo decreto legislativo sono contemplate quattro tipologie di ricorsi: ● il ricorso gerarchico, ● il ricorso gerarchico improprio, ● il ricorso di opposizione, ● il ricorso straordinario. Fra essi hanno carattere di rimedi generali (e quindi la loro esperibilità non richiede una disposizione specifica che li ammetta) il ricorso gerarchico (che si ritiene sempre ammesso in presenza di una relazione gerarchica fra organi) e il ricorso straordinario (che è sempre ammesso nei confronti di provvedimenti definitivi). Gli altri, invece, hanno carattere di rimedi tassativi , perché sono esperibili solo quando siano espressamente previsti da una specifica disposizione. DISTINZIONE FRA RICORSI ORDINARI E RICORSO STRAORDINARIO: 1. RICORSO ORDINARIO : sono ammessi solo nei confronti di un provvedimento non definitivo . Per provvedimento ‘definitivo' si intendeva in origine l'atto emesso dall'organo di grado gerarchico più elevato competente a provvedere in quella materia, o l'atto dell'organo collocato al vertice della struttura gerarchica. Con la legge istitutiva della Quarta sezione, il ricorso giurisdizionale fu ammesso, di regola, solo nei confronti di atti definitivi, proprio perché sembrava opportuno che, prima dell'intervento di un'autorità esterna, l'amministrazione si potesse esprimere sino al più alto livello su quella determinata questione. Fino alla istituzione dei Tar, il cittadino, per ricorrere al giudice amministrativo, aveva perciò l'onere di esperire previamente i ricorsi amministrativi ordinari, proponendoli in più gradi così da percorrere tutta la scala gerarchica, 76 fino ad ottenere una decisione che costituisse un provvedimento definitivo (nell'amministrazione statale tale era, di regola, la decisione di un Ministro). Questa decisione era l'atto contro il quale era ammesso il ricorso giurisdizionale. Solo in seguito alla legge istitutiva dei Tar, il ricorso al giudice amministrativo fu ammesso, in termini generali, anche nei confronti di provvedimenti 'non definitivi': un'eccezione a questa regola vige oggi per le sanzioni disciplinari tipiche dell'ordinamento militare. Con il d.p.r. n. 1199/1971 è stata introdotta la regola secondo cui il ricorso ordinario è ammesso in unico grado : di conseguenza, se l'atto amministrativo da impugnare non è già di per sé definitivo, la definitività si consegue dopo aver esperito solo un grado di ricorso amministrativo. Ricorsi ordinari sono il ricorso gerarchico (proprio e improprio) e il ricorso in opposizione. 2. RICORSO STRAORDINARIO : ammesso solo nei confronti di provvedimenti definitivi (definitivi significa ora solamente che quell’atto non è assoggettato ai ricorsi ordinari). L’insuscettibilità ad essere oggetto di ricorsi ordinari deve desumersi dalla disciplina normativa dell’atto, e non da circostanze contingenti (es. se il cittadino ha omesso di proporre tempestivamente il ricorso ordinario e sono decorsi i termini per la sua presentazione, l’atto in contestazione non diventa per ciò stesso definitivo. Se nei confronti di un atto è ammesso un ricorso straordinario, la definitività si può conseguire solo con l’esperimento tempestivo del ricorso ordinario). Risultano utili alcune considerazioni: - nei confronti dei provvedimenti non definitivi lesivi di interessi legittimi , sono ammessi sia il ricorso al giudice amministrativo, che il ricorso amministrativo ordinario (eccezione per l'ordinamento militare); - nei confronti dei provvedimenti definitivi lesivi di interessi legittimi , sono ammessi sia il ricorso al giudice amministrativo, che (in alternativa al primo) il ricorso straordinario; - il ricorso al giudice amministrativo può essere esperito sia nei confronti di un provvedimento definitivo, che nei confronti di un provvedimento non definitivo; nei confronti dei provvedimenti lesivi di diritti soggettivi, la tutela giurisdizionale è devoluta di regola al giudice ordinario. Se la tutela giurisdizionale è devoluta al giudice ordinario, non è consentito il ricorso straordinario. Infatti oggi il ricorso straordinario è ammesso solo se la controversia sia devoluta alla giurisdizione amministrativa (art. 7, 8° comma, c.p.a.). DISTINZIONE FRA RIMEDI ELIMINATORI E RIMEDI RINNOVATORI: 1. RIMEDI ELIMINATORI : comportano solo l’ annullamento del provvedimento impugnato (es. ricorso straordinario: all’organo competente è attribuito solo il potere di decidere il ricorso). L’ “eliminazione” dell’atto impugnato non esclude la possibilità di ulteriori provvedimenti amministrativi sulla medesima pratica; si pensi al caso dell'annullamento di un diniego di autorizzazione, che comporta la necessità, da parte dell'autorità di primo grado, di prendere nuovamente in esame la richiesta di autorizzazione (c.d. rinnovazione del procedimento). Questi provvedimenti attengono non alla decisione del ricorso, ma all’esercizio di funzioni di amministrazione attiva. 2. RIMEDI RINNOVATORI : comportano la devoluzione dell’intera pratica all’organo competente a decidere il ricorso, il quale può annullare l’atto impugnato ma anche 77 emanato l'atto impugnato. La norma va interpretata nel senso che il ricorso va diretto all'organo ‘immediatamente' sovraordinato rispetto a quello di primo grado: se una legge speciale non prevede diversamente, la competenza a decidere il ricorso gerarchico non spetta più all'organo situato al vertice dell'amministrazione. La relazione di gerarchia che rileva ai fini dell'ammissibilità del ricorso gerarchico è solo quella di ordine 'esterno' , cioè la gerarchia fra 'organi', e perciò di rilevanza esterna, e non quella che attiene a rapporti di grado e di qualifica fra i funzionari, detta anche gerarchia interna, o personale. La gerarchia interna non interessa ai fini del ricorso gerarchico, perché non incide sui rapporti fra amministrazione e cittadino, ma riguarda solo l'organizzazione del lavoro in un apparato burocratico e, in particolare, i rapporti fra due persone appartenenti a una medesima struttura organizzativa. es. atto emanato da un ufficio dell'ente locale può essere impugnato al sindaco, o al dirigente di quel determinato ufficio. Quando si parla di intervento nei ricorsi amministrativi, cioè che interviene con un'attività di tipo giustiziale la PA, (dicevamo “in senso lato” proprio perché) nell'ambito del ricorso gerarchico non è propriamente la stessa amministrazione intesa come persona fisica che si pronuncerà sul ricorso, ma sarà l' organo sovraordinato dal punto di vista gerarchico. ● Tutela del CONTRADDITTORIO (cfr. art. 4, 1º e 2° comma, d.p.r. n. 1199/1971). Il ricorrente non è tenuto a dare notizia del ricorso né all’organo che ha emesso l’atto di primo grado né ai controinteressati (soggetti non destinatari dell’atto che però hanno un interesse qualificato alla conservazione dell’atto impugnato). Rispetto: - Organo di primo grado: non è prevista alcuna forma di contraddittorio, l’interesse dell’amministrazione è garantito dal fatto che il ricorso sia diretto all’organo sovraordinato. - Controinteressati: l’art. 4 impone all’organo adito con il ricorso di comunicarlo ai controinteressati, per consentire ad essi di presentare “deduzioni (memorie scritte) e documenti". Nel ricorso gerarchico non vi è una garanzia piena del contraddittorio, come invece è prescritto per il procedimento giurisdizionale. La previsione di un termine tassativo per la decisione (art. 6 d.p.r. n. 1199/1971) esclude, per esempio, che la decisione del ricorso possa essere rinviata fino al l'esaurimento degli scambi di memorie fra le parti; anzi, non è neppure garantito al ricorrente il diritto di replicare alle «deduzioni» dei controinteressati. Le difese delle parti non hanno come destinatari le altre parti, ma sono dirette esclusivamente all'autorità competente per la decisione: fra l'altro, non è prescritta l'istituzione di una sorta di fascicolo del ricorso gerarchico, e l'esame delle memorie e dei documenti acquisiti dall'amministrazione è possibile per tutte le parti, ma rappresenta una mera facoltà rimessa nel suo esercizio all'iniziativa di ciascuna parte. Non è prevista alcuna forma di tutela del diritto alla difesa nel caso di espletamento di adempimenti istruttori. ● ISTRUTTORIA (art. 4, 3° comma d.p.r. 1199/1971) I poteri istruttori di cui dispone l'organo competente a decidere il ricorso gerarchico sono definiti molto sommariamente nell'art. 4, 3° comma, d.p.r. n. 1199/1971: l'amministrazione può disporre tutti gli « accertamenti utili ai fini della decisione ». Il contenuto dei mezzi istruttori non è definito dalla norma: il termine «accertamento» non designa solo gli accertamenti tecnici, ma ha una portata generale, estesa a qualsiasi ordine di strumento istruttorio. Restano però fermi i limiti generali posti alla PA per l’esercizio dei suoi poteri istruttori: non sono ammessi i mezzi istruttori che incidano su diritti costituzionalmente garantiti (es. 80 perquisizioni domiciliari, etc.), né i mezzi istruttori che producano effetti sulla decisione incompatibili con i caratteri di un procedimento amministrativo (interrogatorio formale, giuramento). Sulle parti (in particolare sul ricorrente) non grava alcun onere della prova, perciò la verifica dei fatti segnalati dalle parti è a carico esclusivo dell’amministrazione. È controverso se l'amministrazione possa introdurre d'ufficio fatti diversi da quelli acquisiti nel procedimento concluso con l'atto impugnato o allegati nel ricorso gerarchico: sembra preferibile la tesi negativa, perché altrimenti sarebbe sminuito il carattere giustiziale del procedimento e si verificherebbe una confusione fra il potere dell'autorità amministrativa di decidere il ricorso. ● DECISIONE (art. 5 d.p.r. 1199/1971) L'art. 5 d.p.r. n. 1199/1971 individua i contenuti possibili della decisione del ricorso gerarchico. Tali contenuti riflettono: la distinzione generale fra decisioni di rito (rispetto alle quali è assorbente una questione attinente alle condizioni di ammissibilità del ricorso) e decisioni di merito (decisioni sulla fondatezza o meno dei motivi del ricorso), il carattere rinnovatorio del ricorso gerarchico (è contemplata espressamente la «riforma» dell'atto di primo grado), la pregnanza del principio della domanda (l'autorità competente può decidere il ricorso esercitando poteri rinnovatori solo se in tal senso sia richiesto nel ricorso stesso; altrimenti è necessario «il rinvio del l'affare» all'autorità di primo grado). La formulazione dell’art. 5, che elenca i contenuti possibili della decisione di un ricorso, non contempla l’esercizio di poteri di amministrazione attiva. Ciò non significa, però, che l’organo adito con il ricorso sia privato dei suoi poteri di amministrazione attiva: essi rimangono fermi e possono senz’altro essere esercitati, ma deve essere assicurata una chiara distinzione fra poteri di amministrazione attiva e poteri di decisione del ricorso, in modo che la decisione del ricorso non diventi essa stessa un atto di amministrazione attiva. La giurisprudenza ha attuato questa regola affermando che è essenziale, quando un organo adito con un ricorso gerarchico intenda esercitare anche poteri di amministrazione attiva, che tale organo ne dia atto e dia conto della sussistenza di tutti i presupposti specifici per l'esercizio di tali poteri, evitando qualsiasi confusione con la decisione del ricorso. ● Rapporti con il RICORSO GIURISDIZIONALE : Se nei confronti dello stesso atto venga proposto, dal medesimo cittadino, sia il ricorso gerarchico che quello giurisdizionale, secondo la giurisprudenza prevale sempre il ricorso giurisdizionale , con la conseguenza che il ricorso gerarchico, se proposto per primo, diventa improcedibile, ovvero, se proposto dopo quello giurisdizionale, è inammissibile. Questa soluzione riflette la convinzione che non sia possibile la contemporanea pendenza di due rimedi equipollenti nei confronti di un medesimo atto e che, come criterio per stabilire a quale rimedio si debba accordare la preferenza, debba valere la maggiore compiutezza di garanzie offerte dalla tutela giurisdizionale. La tesi della prevalenza del ricorso giurisdizionale non sembra invece considerare l'ipotesi della contemporanea pendenza dei due ricorsi, quando essi però abbiano contenuti diversi: si pensi al caso di un ricorso gerarchico che contenga solo censure di merito e al ricorso giurisdizionale proposto per motivi di legittimità. Ritenere che anche in questo caso si abbia una incompatibilità fra i due ricorsi e, pertanto, prevalga il ricorso giurisdizionale comporta effetti negativi per il cittadino che abbia proposto ricorso in sede gerarchica: infatti, di regola, in sede giurisdizionale, non sono ammessi ricorsi per motivi di merito. ● RIMEDI ammessi contro la decisione del ricorso gerarchico: la decisione del ricorso gerarchico costituisce provvedimento definitivo , è impugnabile con: 81 ○ Ricorso straordinario ○ Ricorso al giudice amministrativo se lede interessi legittimi o in caso di giurisdizione esclusiva. Mentre giudice civile se lede diritti soggettivi. La possibilità di impugnare in sede giurisdizionale la decisione del ricorso gerarchico si fonda sui principi generali sulla tutela giurisdizionale contro gli atti amministrativi. L’impugnazione segue comunque le regole ordinarie. Se vi è l'efficacia della pronuncia adottata all'esito del ricorso gerarchico, la pronuncia si sostituirà all'atto impugnato. Cosa accade se il ricorso viene rigettato? Accade che l'atto impugnato, in quanto atto non definitivo all'inizio del ricorso gerarchico, con la pronuncia del ricorso gerarchico acquisisce la definitività. Quindi cosa sarà possibile esperire nei confronti della pronuncia che sostituisce l'atto impugnato? All'esito del ricorso gerarchico, l'autorità amministrativa sovraordinata gerarchicamente si pronuncia su quello che era un atto non definitivo, perché altrimenti non era possibile avviare il ricorso gerarchico. Quindi quale sarà il risultato della pronuncia da parte dell'autorità amministrativa sovraordinata gerarchicamente? Al capo di Stato o alternativamente ricorso giurisdizionale. Sono alternativi. Ecco perché si parla di ricorso al capo di Stato come para giurisdizionale, perché ha delle caratteristiche molto più simili al ricorso giurisdizionale, che agli altri due ricorsi amministrativi. 3. Il ricorso gerarchico: il problema del 'silenzio' (art. 6 d.p.r. n. 1199/1971) Carattere essenziale dei ricorsi amministrativi è la costituzione di un dovere di provvedere; si tratta però di capire che cosa si verifichi quando l'amministrazione non decida un ricorso. Questa situazione è considerata oggi dall'art. 6 d.p.r. n. 1199/1971: «Decorso il termine di 90 giorni dalla data di presentazione del ricorso senza che l'organo adito abbia comunicato la decisione, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti e contro il provvedimento impugnato è esperibile il ricorso ordinario all'autorità giurisdizionale competente o quello straordinario al Presidente della Repubblica». Quali effetti produca la scadenza del termine è oggetto tuttora di ampie discussioni, che coinvolgono sia profili specifici del sistema dei ricorsi amministrativi, sia questioni più generali, relative al c.d. silenzio dell'amministrazione e al rapporto fra il 'silenzio' e l'atto amministrativo. Le stesse elaborazioni della giurisprudenza si incentrano ormai su conclusioni distanti dal testo della disposizione, tanto che, per capire quale sia la posizione accolta più di recente dal Consiglio di Stato, è necessario seguire le evoluzioni interne alla giurisprudenza stessa. La questione del rilievo da riconoscere al 'silenzio' su un ricorso gerarchico si impose praticamente subito dopo l'istituzione della Quarta sezione del Consiglio di Stato : se il ricorso alla Quarta sezione era ammesso solo contro un provvedimento definitivo, il 'silenzio' poteva costituire per l'amministrazione un comodo espediente per evitare il sindacato giurisdizionale sui propri atti. L'amministrazione, non decidendo il ricorso gerarchico, poteva evitare l'emanazione di un provvedimento definitivo. Questa soluzione, però, risultava profondamente ingiusta, sia perché era comunque pacifico che l'amministrazione fosse tenuta a decidere il ricorso gerarchico, sia perché un comportamento scorretto dell'amministrazione avrebbe finito col pregiudicare il cittadino, lasciandolo senza margini di tutela. 1. La prima giurisprudenza della Quarta sezione prospettò la conclusione che, in concorso con altre circostanze (in particolare, in presenza di una diffida a provvedere notificata dal privato al cittadino), il silenzio mantenuto su un ricorso gerarchico non precludesse la possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale. In una pronuncia del 1902 la Quarta sezione analizzò a fondo la questione, affermando specificamente che il ricorso giurisdizionale doveva ritenersi 82 Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione sono invece rimedi eccezionali : la loro esperibilità presuppone una specifica previsione normativa. L'art. 1, 2° comma, d.p.r. n. 1199/1971, sul ricorso gerarchico improprio, esclude che una tale disposizione normativa debba essere costituita necessariamente da una disposizione di legge: infatti sono contemplati espressamente, in alternativa alla legge, gli «ordinamenti dei singoli enti». Il ricorso gerarchico improprio e il ricorso in opposizione sono modellati sul ricorso gerarchico: il ricorso gerarchico improprio si caratterizza per essere diretto a un organo non gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che ha emanato l'atto impugnato, il ricorso in opposizione (cfr. art. 7 d.p.r. n. 1199/1971) è invece diretto allo stesso organo che ha emanato l'atto impugnato. La disciplina dei due rimedi è quella prevista per il ricorso gerarchico, salvo che per quanto diversamente previsto da singole normative speciali. RICORSO GERARCHICO IMPROPRIO : è previsto in alcune materie particolari (impiego scolastico, ordinamenti professionali, commercio, ecc.), in ipotesi nelle quali l'atto da impugnare sarebbe stato, alla stregua dei principi, già di per sé definitivo. Si pensi al caso di un atto emesso da un organo che sia collocato istituzionalmente al vertice della scala gerarchica, ovvero all'atto emesso da un organo collegiale (gli organi collegiali sono considerati tradizionalmente come organi estranei a vincoli gerarchici), ovvero all'atto emesso da certe amministrazioni, che siano però dipendenti funzionalmente da altre. In queste ipotesi talvolta è ammesso ugualmente un ricorso ad un organo diverso, anche se manca una giustificazione in un rapporto gerarchico. Ammesso solo nell'ambito di una identica amministrazione, o nell'ambito di amministrazioni riconducibili ad Enti diversi, legati però da rapporti funzionali (si pensi al caso dell'ente parastatale rispetto al Ministero che ne esercita la vigilanza), e non nell'ambito di amministrazioni diverse, caratterizzate reciprocamente da posizioni di autonomia costituzionalmente garantite (si pensi ai rapporti fra enti locali, Regioni e Stato). Infatti, in questi casi, il principio di autonomia esige che il sindacato sugli atti di altra amministrazione si eserciti solo nelle forme stabilite dalla Costituzione: altrimenti si verrebbero a configurare forme indebite di controllo. Questa impostazione non è accolta, però, dal Consiglio di Stato, che in sostanza tende a considerare con una certa larghezza la possibilità di ricorsi che coinvolgano amministrazioni diverse, in omaggio ad un preteso carattere 'giustiziale' dei ricorsi amministrativi, che li renderebbe estranei alla logica dei controlli sugli atti. La decisione del ricorso, secondo questa giurisprudenza, non atterrebbe alla funzione amministrativa coinvolta dall'atto di primo grado, ma atterrebbe a una funzione diversa, 'neutra', di garanzia del cittadino (c.d. funzione giustiziale). Quindi sarebbe possibile il ricorso gerarchico improprio ad autorità statale, anche nei confronti di un atto regionale (es. in materia di revisione prezzi per gli appalti pubblici). RICORSO IN OPPOSIZIONE: rappresenta uno strumento di limitata utilizzazione, previsto in ipotesi molto particolari , che ricorrono soprattutto nel pubblico impiego. Lo scarso sviluppo di questo modello di ricorso si ricollega, alla diffidenza verso la capacità dell'autorità che ha emanato l'atto impugnato di valutare in modo effettivamente imparziale il ricorso diretto contro il proprio atto. Il ricorso dà inizio a un procedimento contenzioso, di secondo grado, e non a un procedimento di amministrazione attiva. Pertanto appare ragionevole che anche per il ricorso in opposizione valga la distinzione fra elementi rilevanti per la decisione (sono solo quelli desumibili dal ricorso) ed elementi che possono essere presi in considerazione solo alla luce di una funzione distinta (sono quelli estranei al contenuto del ricorso e possono giustificare l'esercizio di poteri ordinari di amministrazione o di annullamento d'ufficio). Qual è la caratteristica (che lo fa distinguere dal ricorso gerarchico)? Il fatto che può essere proposto solo nei casi tassativamente previsti dalla legge, però, al pari del ricorso gerarchico, può essere proposto sia a tutela di diritti soggettivi che di interessi legittimi, sia per motivi di legittimità che di merito. 85 Es. di materie in cui è prevista espressamente dalla legge la possibilità di procedere con ricorso in opposizione: materia di compilazione di graduatorie di merito (quelle che vediamo nell’ambito scolastico) o per l’attribuzione di incarichi (ambito concorsuale). La peculiarità quindi è il fatto che, presentando il ricorso innanzi alla stessa autorità amministrativa che ha emanato l’atto, possiamo affermare che è come se si incardinasse un procedimento di secondo grado innanzi alla stessa autorità . Perché l’autorità si è prima pronunciata all’esito di un primo procedimento emanando l’atto, il privato ha poi reputato quel determinato provvedimento illegittimo dal punto di vista di motivi di legittimità o di merito (totalmente errato), in questo caso avvierà ricorso in opposizione innanzi alla stessa autorità amministrativa, quindi c’è un secondo procedimento che terminerà con decisione amministrazione (mai sentenza in questo contesto!) favorevole al privato ricorrente, o sfavorevole. Come per il ricorso gerarchico, anche per quello in opposizione sono ricorribili solo gli atti NON definitivi, ma in più solo nei casi previsti dalla legge, a differenza del ricorso gerarchico che invece non ha questa eccezionalità, questa tassatività (perché il ricorso gerarchico è un ricorso ordinario!). Qual è la finalità che l’ordinamento ha voluto perseguire mediante riconoscimento di questo tipo di strumento? Sicuramente, il fatto di mettere a disposizione della PA una seconda chance per poter rielaborare, per poter ripensare al provvedimento adottato, fa del ricorso in opposizione un rimedio che funge da filtro. È molto visionaria come finalità, perché non trova ampia applicazione in questo tipo di ricorso, sia perché il legislatore, essendo previsto solo nei casi tassativamente elencati dalla legge, lo ha previsto in pochi casi, ma anche perché c’è una evidente diffidenza da parte dei cittadini sulle capacità della PA di decidere in modo imparziale su un proprio atto. Cioè il cittadino potrebbe chiedersi: “per quale motivo la stessa PA dovrebbe optare diversamente ammettendo un errore?”. Certo, questo è alla base del principio di leale collaborazione, correttezza, ma c’è una certa diffidenza. Che è diverso dal ricorso gerarchico, perché quest’ultimo pone la decisione in capo a un’autorità diversa. Cioè il soggetto fisico, la persona fisica che deciderà nel ricorso gerarchico non è la stessa persona fisica che ha adottato l’atto impugnato, perché apparterrà all’autorità sovraordinata gerarchicamente. Quindi ci sta il fatto che il ricorrente possa trovare la propria garanzia nel fatto che a pronunciarsi sia un’autorità sovraordinata, quindi un’autorità sostanzialmente diversa rispetto a quella che ha pronunciato l’atto impugnato. Nel caso di ricorso in opposizione, invece, è la stessa autorità. Questo sicuramente non aiuta, non infonde coraggio nel privato nel ricorrere a questo tipo di strumento. 5. Il ricorso straordinario RICORSO STRAORDINARIO AL CAPO DELLO STATO: Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (cui corrisponde, con alcune particolarità, nella Regione siciliana, il ricorso straordinario al Presidente della Regione, previsto nei confronti degli atti regionali dall'art. 23 dello Statuto speciale di autonomia) è ammesso contro provvediment i definitivi , in relazione soltanto a censure di legittimità , per l'annullamento dell'atto impugnato (art. 8 d.p.r. n. 1199/1971; di recente è stato sostenuto che col ricorso straordinario potrebbero essere proposte anche altre domande, corrispondenti alle azioni ammesse in via generale nel processo amministrativo, con qualche riserva per le domande di risarcimento del danno, ma si tratta di una tesi molto controversa). È un rimedio generale: pertanto la sua esperibilità non è subordinata a disposizioni puntuali che lo prevedano. L'art. 7, 8° comma, c.p.a. ne ha circoscritto la portata alle sole vertenze che risultino devolute al giudice amministrativo. Sulla legittimità di questa previsione erano stati sollevati dubbi per eccesso di delega, perché il ricorso straordinario non era neppure menzionato nella delega conferita al 86 Governo dalla legge n. 69/2009 per il codice del processo amministrativo, ma la Corte costituzionale li ha ritenuti infondati. Oggi, comunque, a tutela dei diritti soggettivi, il ricorso straordinario è ammesso solo se la controversia sia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo . Inoltre, il codice ha escluso il ricorso straordinario per le vertenze in materia elettorale (art. 128) e per le vertenze sulle procedure per l'affidamento di contratti pubblici (art. 120, 1° comma), evidentemente in considerazione della tipicità dei relativi giudizi; la giurisprudenza, per analoghe ragioni, l'aveva escluso anche per la tutela del diritto di accesso ai documenti amministrativi. Si caratterizza per l'attuazione più puntuale della garanzia del contraddittorio e, per l'introduzione di uno strumento specifico di garanzia, rappresentato dall'intervento del Consiglio di Stato (del Consiglio di giustizia amministrativa, nel caso del ricorso straordinario al Presidente della Regione siciliana). La decisione del ricorso, infatti, deve essere preceduta dal parere del Consiglio di Stato: l'art. 69 n. 69/2009, ne ha accresciuto il rilievo, assegnandogli carattere vincolante. L'intervento del Consiglio di Stato e la previsione di un termine per la presentazione del ricorso (120 giorni) più ampio a di quello previsto per il ricorso giurisdizionale avrebbero potuto assegnare al ricorso straordinario un rilievo significativo per la tutela del cittadino. Invece questo rimedio ha avuto un ruolo pratico marginale , a causa dei ritardi dei Ministeri nelľistruzione dei ricorsi; solo di recente il Consiglio di Stato ha cercato di restituire vitalità all'istituto, verificando l'osservanza dei tempi prescritti e censurando l'operato dei Ministeri inadempienti. Il termine per proporre il ricorso è di 120 giorni dalla comunicazione, notificazione, pubblicazione o piena conoscenza del provvedimento definitivo, ovvero dalla formazione del silenzio rigetto. Entro tale termine il ricorso straordinario, a pena di inammissibilità, deve essere notificato ad almeno uno dei controinteressati e presentato all' autorità amministrativa che ha emanato l'atto impugnato o al Ministero competente per materia . Se la presentazione avviene mediante l'invio del ricorso con raccomandata a.r., la data di spedizione vale come data di presentazione. I controinteressati, entro 60 giorni dalla notificazione del ricorso, possono presentare «deduzioni e documenti» ed eventualmente un ricorso incidentale. Se il ricorso è stato notificato ad almeno uno dei controinteressati, il Ministero competente dispone l'integrazione del contraddittorio, indicando le modalità attraverso le quali il ricorrente deve portare a conoscenza degli altri controinteressati il ricorso stesso (art. 9 d.p.r. n. 1199/1971). Su richiesta del ricorrente il Ministro adito può sospendere, in via cautelare, l'atto impugnato, previo parere conforme del Consiglio di Stato (art. 3, 4° comma, n. 205/2000). Una volta presentato il ricorso ed integrato il contraddittorio, il Ministero competente deve procedere all'istruzione del ricorso, raccogliendo tutti gli elementi utili per la valutazione del ricorso. L'istruttoria va completata nei 120 giorni successivi al termine per le deduzioni dei controinteressati. Scaduto inutilmente tale termine (come purtroppo si verifica di frequente), è consentito al ricorrente procedere all'interpello del Ministero e successivamente depositare direttamente il ricorso presso il Consiglio di Stato, per il parere prescritto (art. 11 d.p.r. n. 1199/1971). Una volta conclusa l'istruttoria, il ricorso, con tutti gli atti relativi, è trasmesso dal Ministro al Consiglio di Stato per il suo parere , che viene emesso da una sezione consultiva, o dall'adunanza generale, o da commissioni speciali costituite ad hoc (artt. 12 e 13 d.p.r. n. 1199/1971). Sulla base del parere del Consiglio di Stato, il Ministro formula la sua proposta di decreto al Presidente della Repubblica. La decisione del ricorso straordinario è assunta con decreto del Presidente della Repubblica, di cui, il Ministro proponente assume la responsabilità. In passato, il parere del Consiglio di Stato non era vincolante : era previsto che il Consiglio dei Ministri avrebbe potuto discostarsi dal parere. Questa prerogativa è stata soppressa, però, dall'art. 69 legge n. 69/2009, che ha stabilito che la proposta del Ministro deve essere «conforme al parere del Consiglio di Stato». Sono stati così modificati in modo profondo gli equilibri su cui si reggeva l'istituto. In passato si doveva riconoscere al Ministro un 87 lungaggini di molti ministeri nell'istruttoria, il carattere rudimentale del contraddittorio (il d.p.r. n. 1199/1971 non prevedeva per il ricorrente neppure la possibilità di conoscere le difese dell'amministrazione o delle altre parti, e di replicare ad esse) ponevano in dubbio l'affidabilità dell'istituto, tanto che alcuni ne proponevano l'abolizione. Tuttavia il legislatore nel 2009 ha preferito conservare l'istituto, anche se con modifiche sostanziali e la sua previsione è stata confermata nel codice del 2010. Oggi sono in atto alcuni tentativi di valorizzare l’istituto. Il Consiglio di Stato è intervenuto per accelerare l'istruttoria sul ricorso straordinario, soprattutto nei confronti dei ministeri interessati, ed ha rafforzato la garanzia del contraddittorio . In particolare, ha riconosciuto alle parti il diritto di richiedere copia degli atti dell'istruttoria e, dopo averli conosciuti, di presentare entro un certo termine documenti e memorie. È stata introdotta così, nel procedimento, una dialettica fra le parti paragonabile a quella propria di un processo. Negli ultimi anni, però, le analogie con i rimedi giurisdizionali sono state prospettate in termini ancora più stretti. All'origine di questi sviluppi è stato il dibattito sull' esecuzione della decisione del ricorso straordinario. Per eseguire una sentenza amministrativa può essere promosso il giudizio di ottemperanza , istituto di innegabile efficacia, che consente anche un intervento sostitutivo nei confronti dell'amministrazione inadempiente. In passato non era stato ammesso per eseguire le decisioni del ricorso straordinario, proprio perché non si trattava di sentenze. Più di recente, invece, argomentando su disposizioni del codice che in realtà sono tutt'altro che univoche, la Cassazione e il Consiglio di Stato hanno affermato che il ricorso per l'ottemperanza avrebbe potuto essere proposto anche per l'esecuzione della decisione del ricorso straordinario. Per giustificare questa conclusione, è stato sostenuto che, in seguito all'attribuzione del carattere vincolante al parere del Consiglio di Stato, la decisione del ricorso straordinario sarebbe assimilabile a un atto giurisdizionale. La Cassazione parla in proposito di atto 'sostanzialmente' giurisdizionale (Cass., sez. un., n. 20569/2013). La Corte costituzionale ha espresso posizioni più sfumate, parlando più prudentemente di « rimedio giustiziale », con caratteristiche però «in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo». L'assimilazione agli atti giurisdizionali sarebbe ormai così stretta da comportare che anche sulla decisione del ricorso straordinario si formi la cosa giudicata. Nella stessa logica, la Cassazione ha ammesso che anche le decisioni del ricorso straordinario possano essere impugnate per motivi di giurisdizione ai sensi dell'art. 111, ult. comma, Cost. Inoltre ha ammesso che nel corso del procedimento avviato con un ricorso straordinario, fino al parere del Consiglio di Stato, sia esperibile il regolamento di giurisdizione. Anche la possibilità per il Consiglio di Stato, in occasione del parere sul ricorso straordinario, di sollevare una questione di legittimità costituzionale, oggi viene ricondotta all'inquadramento giurisdizionale dell'istituto. L'assimilazione ai rimedi giurisdizionali condizionerebbe inoltre profili puntuali, come la notifica del ricorso. Secondo alcune pronunce, infatti, la notifica del ricorso straordinario ad amministrazioni statali dovrebbe essere effettuata oggi all'Avvocatura dello Stato, secondo la disciplina dettata per gli atti introduttivi di un giudizio. Questa giurisprudenza ha suscitato, però, più di una perplessità. È stato obiettato che il ricorso straordinario rappresenta tipicamente un rimedio amministrativo e che la sua decisione, nonostante le innovazioni recenti, non costituisce una pronuncia giurisdizionale . L'intervento del Consiglio di Stato, benché sia divenuto vincolante ai fini dell'esito del ricorso, è pur sempre un «parere», reso dalla sezione 'consultiva'. Il decreto del Presidente della Repubblica che reca la decisione del ricorso non è un atto giurisdizionale, tant'è vero che è impugnabile avanti al giudice amministrativo di primo grado. D'altra parte la Costituzione non consente l'estensione della categoria degli atti 90 giurisdizionali fino a ricomprendere atti che provengano da organi non giurisdizionali: la distinzione fra atti giurisdizionali e atti amministrativi non ammette compromessi. È un ricorso a livello di forma, uguale al ricorso innanzi al giudice amministrativo. Infatti, questo ricorso è molto più vicino ai ricorsi giurisdizionali che a quelli amministrativi (è presente il contributo unificato). Analisi complessiva sui ricorsi amministrativi: possiamo individuare degli aspetti favorevoli/ sfavorevoli, ovviamente nell’ottica della PA e del ricorrente? Oppure del sistema, in senso lato. Cioè possono apportare delle novità benefiche per l’apparato giurisdizionale (perché una delle principali caratteristiche dei ricorsi amministrativi è quella di deflazionare il contenzioso, quindi di non sovraccaricare l’apparato giurisdizionale)? Parlando in generale, sicuramente viene concessa con il ricorso ai rimedi amministrativi, la possibilità alla PA di riesaminare i propri atti. Questo non è un aspetto di poco conto, perché significa anche evitare che la PA sia chiamata per una qualsiasi motivazione (anche frivola) a rispondere, all’interno di un contesto di un provvedimento giurisdizionale, con spese, dispendio di risorse umane che questo comporta. Aspetti favorevoli: la maggiore celerità del procedimento, tanto per il ricorrente, che ha come motivazione principale quella di addivenire ad una decisione velocemente, senza particolari lungaggini; quanto per la PA, che trova una soluzione in tempi veloci. Poi anche per i minori costi per i cittadini, perché con riferimento per il ricorso al capo dello stato, il contributo unificato viene pagato al pari del ricorso giurisdizionale, però per gli altri due ricorsi, quelli in autotutela in senso lato, questo non c’è. Aspetti sfavorevoli: la facoltatività sancita fra i ricorsi amministrativi e la tutela giurisdizionale. Questa tutela differenziata, cioè il fatto che il privato possa facoltativamente scegliere tra una via e l’altra, vede una serie di garanzie maggiori in favore del ricorso giurisdizionale: art. 24, art. 103 Cost hanno sancito la preminenza della tutela giurisdizionale. Il privato si sente più sicuro ad adire un giudice amministrativo, il luogo dell’amministrazione, perché nel nostro ordinamento, la nostra cultura ci porta a riconoscere la preminenza della figura dell’autorità giurisdizionale. Quindi, questo in qualche modo ha portato con sé una serie di limiti e difficoltà applicative dei ricorsi amministrativi, che potrebbero invece essere una scommessa. A questo si collega l’introduzione anche nell’ambito del diritto amministrativo, della giustizia amministrativa, le ADR, cioè quei sistemi alternativi alla tutela giurisdizionale. Esiste un soggetto istituito a livello europeo ma anche a livello regionale (ogni regione ne è dotato), che ha il compito di sollevare, verificare delle inadempienze, delle inerzie, il cattivo funzionamento dell’amministrazione. È un modello alternativo alla tutela giurisdizionale. Questo è un esempio, ma si è parlato di introdurre forme di arbitrato, di mediazione, di negoziazione assistita (che sono i rimedi alternativi di giurisdizione per eccellenza, anche nella giustizia civile, commerciale, ecc). Il problema nel diritto amministrativo è che questi rimedi trovano sempre la limitazione del concetto di disponibilità degli interessi legittimi. Cioè, fino a quando ha a che fare con i diritti soggettivi, c’è la possibilità che il ricorrente possa addivenire a una contrattazione della controversia, quando si parla di diritti indisponibili come il potere pubblico che è la base dell’attività posta in essere dall’amministrazione, diventa complicato. Perché, che cosa accade con la mediazione? Si giunge ad un accordo. Ci sono diverse difficoltà concettuali nel nostro ordinamento, cioè fino a quando non si supera il concetto di disponibilità del potere pubblico, non si potrà parlare di ADR. Certo è che i ricorsi amministrativi, che pure fanno parte della tutela giurisdizionale, potrebbero avere una nuova visione, nuove regolamentazioni finalizzate ad incentivare dei ricorsi che potrebbero portare una serie di aspetti positivi, sia per il privato che per l’ordinamento. 91 CAPITOLO VIII - Quadro generale della giurisdizione amministrativa 1. Premessa Il ricorso alla Quarta sezione fu introdotto per estendere la tutela del cittadino nei confronti dell'amministrazione, offrendogli la possibilità di ottenere dal Consiglio di Stato una pronuncia costitutiva, di annullamento dell'atto amministrativo illegittimo. Il ricorso al giudice amministrativo fu configurato innanzitutto come mezzo di impugnazione dell'atto amministrativo. Accanto a questo primo obiettivo, il ricorso al Consiglio di Stato ha assicurato un obiettivo ulteriore, che ha finito progressivamente col diventare prevalente per l'interpretazione della giurisdizione amministrativa: la garanzia dell'interesse legittimo . Ragione essenziale della giurisdizione amministrativa è considerata non tanto l'impugnazione dei provvedimenti (come sarebbe stato se fosse prevalso il criterio del ‘petitum’), quanto la tutela dell'interesse legittimo. La tutela piena degli interessi è un carattere che risulta sancito dall' art. 103 Cost. , che identifica la competenza generale del giudice amministrativo con «la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi». La tutela degli interessi legittimi è devoluta al giudice amministrativo anche quando l'impugnazione di un provvedimento amministrativo non sia configurabile: si pensi, in particolare, alla tutela rispetto al 'silenzio' dell’amministrazione. In questo caso l'esigenza, di rango costituzionale, di assicurare una tutela degli interessi legittimi è risultata prevalente anche rispetto alle disposizioni sul processo amministrativo, che fino a tempi recenti riconnettevano la giurisdizione amministrativa all'impugnazione di un atto. Così, per le controversie sul 'silenzio' dell'amministrazione rispetto a istanze del cittadino, a partire dagli anni '60 del secolo scorso venne ammesso un giudizio che prescindeva da un'impugnazione, ancorché fittizia, di un atto amministrativo e fu costruita un' azione dichiarativa , anche se non prevista da alcuna disposizione di legge (Cons. Stato, ad. plen., n. 8/1960 e n. 10/1978). Sul piano legislativo una tutela non impugnatoria nei confronti del 'silenzio' fu introdotta dalla legge n. 205/2000; oggi trova piena conferma negli artt. 31 e 34 c.p.a. Nel codice, inoltre, la tutela impugnatoria non esaurisce i modelli di tutela neppure quando venga impugnato un provvedimento: infatti è contemplata anche un'azione per la condanna al rilascio del provvedimento richiesto dal cittadino all'amministrazione (art. 34 c.p.a). Infine la tutela impugnatoria risulta sostanzialmente estranea al giudizio di ottemperanza , che è diretto a garantire l'esecuzione di una sentenza (art. 114 c.p.a). Un ulteriore elemento di complessità, per valutare il quadro generale del giudizio amministrativo, è rappresentato dalla giurisdizione esclusiva . Nel codice del processo amministrativo sono previste azioni diverse (cfr. artt. 29-31), talvolta articolate distinguendo fra tutela degli interessi legittimi e tutela dei diritti soggettivi (cfr. art. 30, 1° comma, c.p.a.), e a tali azioni corrispondono contenuti diversi delle sentenze di merito (art. 34 c.p.a.). E’ evidente lo sforzo di superare definitivamente il modello che identificava la tutela offerta dal processo amministrativo con l'impugnazione degli atti amministrativi. Nello stesso tempo, però, particolarmente nei primi tre libri, nel codice emerge anche la volontà di assicurare una omogeneità del processo amministrativo, proponendone una disciplina unitaria, anche a 92 locazione, non fa stato quanto all'accertamento del diritto del cittadino rispetto a quei locali. Solo per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone (fatta eccezione per la capacità di stare in giudizio, di cui ciascun giudice può decidere in via principale) e per l' incidente di falso , ogni decisione è riservata al giudice ordinario ( art. 8, 2° comma , c.p.a.). Infatti, si tratta di questioni che possono essere decise solo con efficacia di giudicato ; perciò non possono essere oggetto di cognizione, neppure soltanto in via incidentale, da parte di un giudice diverso da quello istituzionalmente competente. Rispetto all'incidente di falso, che assume più spesso rilevanza nel processo amministrativo, la riserva al giudice ordinario comporta inconvenienti non indifferenti: il giudice amministrativo, se ritiene che il documento sia rilevante, deve sospendere il giudizio, fino a quando non passi in giudicato la sentenza del giudice ordinario sul falso. Si pensi al caso di formazioni politiche che partecipino ad elezioni amministrative o regionali grazie a liste le cui sottoscrizioni siano state autenticate, ma in realtà siano false: il giudizio sulle operazioni elettorali, se venga dedotta la falsità, va sospeso fino a quando, in sede civile o in sede penale, non si sia formato il giudicato sul falso. Molto spesso, prima che si formi il giudicato, matura però la scadenza naturale del mandato elettivo. La pregiudizialità del giudizio civile o penale sul falso comporta dunque, in questi casi, che la sentenza del giudice amministrativo intervenga quasi sistematicamente troppo tardi. La Corte costituzionale, tuttavia, non ha ravvisato in questa disciplina alcuna violazione della Costituzione, sostenendo che la scelta di riservare al giudice ordinario ogni pronuncia sul falso sarebbe espressione di una legittima discrezionalità del legislatore (Corte cost. 11 novembre 2011, n. 304). Rispetto alla giurisdizione estesa al merito, la giurisdizione di legittimità appare invece qualificata nel codice da una minore ampiezza dei poteri decisori del giudice. Nei casi di giurisdizione di legittimità il giudice amministrativo, che accolga un ricorso proposto contro un provvedimento, di regola può annullare l'atto impugnato, se lo ritenga viziato per incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere (cfr. art. 29 c.p.a.) e in alcuni casi può ordinare all'amministrazione di emanare un provvedimento (art. 34, 1° comma, lett. c, c.p.a.), ma non può anche sostituire l'atto impugnato con un proprio atto . 3. Le classificazioni generali: la giurisdizione esclusiva 5° comma: è riferito alla giurisdizione esclusiva, “nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall'articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi” . Accanto alla giurisdizione generale sugli interessi legittimi, in alcuni casi è assegnata al giudice amministrativo una giurisdizione anche sui diritti soggettivi (c.d. giurisdizione esclusiva ). In questi casi il cittadino può agire davanti al giudice amministrativo non solo per tutelare i suoi interessi legittimi o per ottenere il risarcimento dei danni cagionati a tali interessi, ma anche più in generale per tutelare i diritti soggettivi che egli vanti nei confronti di un'amministrazione (art. 7, 5° comma, c.p.a.). I casi di giurisdizione esclusiva sono stabiliti dalla legge: la riserva di legge è prevista dall'art. 103, 1° comma, Cost, Di conseguenza la giurisprudenza non può introdurre nuovi casi di giurisdizione esclusiva. Non è ammessa una modifica della giurisdizione per motivi di connessione. Le materie devolute alla giurisdizione esclusiva,sono sempre più numerose e importanti, come risulta anche dal loro elenco nel l'art. 133 c.p.a. L’art. 133 è rubricato “Materie di giurisdizione esclusiva” e prevede (di seguito solo le più importanti): 95 1) le controversie già assegnate alla giurisdizione esclusiva dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e succ. modif. (art. 133, lett. a e a-bis, c.p.a.). Sono quelle in tema di risarcimento del danno per inosservanza del termine per la conclusione del procedimento e di indennità per ' mero ritardo ' nell'ultimazione del procedimento (art. 2-bis l. n. 241/1990), in tema di accordi pubblici (artt. 11 e 15 l. n. 241/1990), in tema di segnalazione certificata di inizio attività, o di dichiarazione o denuncia di inizio attività (art. 19 l. n. 241/1990), in tema di silenzio-assenso (art. 20 l. n. 241/1990), in tema di indennizzo dovuto per la revoca di provvedimenti (art. 21-quinquies l. n. 241/1990, introdotto nel 2005), in tema di nullità dei provvedimenti adottati in violazione o elusione del giudicato (cfr. art. 21-septies legge n. 241/1990), in tema di accesso ai documenti amministrativi. 2) le controversie concernenti la concessione di beni pubblici (art. 133 lett. b, c.p.a.). La giurisdizione esclusiva, che in questa materia era già stata introdotta dalla legge istitutiva dei Tar, non si estende alle controversie concernenti indennità, canoni o corrispettivi, per le quali vale il criterio generale di riparto fondato sulla distinzione fra le situazioni soggettive (Cass., sez. un., n. 20682/2018). Inoltre non si estende alle controversie sulle concessioni di beni del demanio idrico, per le quali è competente un giudice speciale, il Tribunale superiore delle acque. 3) le controversie concernenti atti o provvedimenti in materia di urbanistica e di edilizia (art. 133, lett. f, c.p.a.). I due termini vanno letti in via disgiuntiva: la giurisdizione esclusiva è prevista pertanto sia per le vertenze con l'amministrazione in materia edilizia (permessi di costruire, contributi sanzioni amministrative, ecc.), sia per quelle in materia urbanistica (piani regolatori, convenzioni urbanistiche, ecc.); 4) le controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime pubblicistico (c.d. pubblico impiego , art. 133, lett. i, c.p.a.). Costituivano nella riforma del 1923 l'ambito più importante della giurisdizione esclusiva. Oggi la loro rilevanza pratica è minore, per effetto della c.d. privatizzazione attuata fra il 1993 e il 1998. Si ricordi che sono invece devolute al giudice amministrativo le controversie concernenti le procedure di concorso per l'assunzione in pubbliche amministrazioni, anche per il personale in regime contrattuale; la giurisprudenza ha precisato però che si tratta di un caso non di giurisdizione esclusiva, ma di giurisdizione di legittimità, e che di conseguenza al giudice amministrativo sono devolute solo le vertenze concernenti interessi legittimi. 5) le controversie concernenti i provvedimenti adottati dalla Banca d'Italia , da alcune Autorità indipendenti (Autorità garante per la concorrenza e il mercato, Autorità nazionale anticorruzione, ecc.), da alcuni organismi di vigilanza nel settore previdenziale e finanziario, e da alcune Agenzie nazionali (art. 133, lett. l, z-ter e z-quater, c.p.a.). La giurisdizione esclusiva non si estende però ai ricorsi contro provvedimenti sanzionatori della Consob e della Banca d'Italia, perché le revisioni del codice che assegnavano anche tali vertenze al giudice amministrativo sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per eccesso di delega. 6) le controversie concernenti i provvedimenti del Sindaco (anche contingibili e urgenti) in materia di ordine e sicurezza pubblica, di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, di edilità e polizia locale, d'igiene pubblica e dell'abitato (art. 133, lett. q, c.p.a.). Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo può pronunciarsi, con efficacia di giudicato , sia su interessi legittimi che su diritti soggettivi, ferma restando la competenza del giudice ordinario per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone e per l'incidente di falso. La competenza si estende inoltre alle domande risarcitorie, sia per lesione di diritti soggettivi che per lesione di interessi legittimi. 96 4. La giurisdizione esclusiva nel c.p.a.: problemi aperti e nuove prospettive La giurisdizione esclusiva, fu introdotta dal legislatore perché in molte vertenze (come in quelle in materia di pubblico impiego) il criterio di riparto fondato sulle situazioni soggettive risultava insoddisfacente sul piano pratico. In questi casi interessi legittimi e diritti soggettivi risultavano strettamente correlati e un riparto fondato sulla natura delle posizioni soggettive avrebbe potuto obbligare il cittadino a promuovere una pluralità di giudizi, davanti al giudice amministrativo e davanti al giudice ordinario, in relazione a una identica vicenda: l'assegnazione di una vertenza alla giurisdizione esclusiva doveva invece rappresentare un elemento di semplificazione. Così, per individuare il giudice competente non sarebbe stato più necessario procedere alla verifica, spesso complessa, della natura delle posizioni soggettive e sarebbe stato sufficiente stabilire se la vertenza rientrava o meno nell'ambito devoluto dal legislatore al giudice amministrativo in via esclusiva. Al criterio di riparto fondato sulla distinzione fra le posizioni soggettive subentrava, nei soli casi di giurisdizione esclusiva, quello fondato sulla riconduzione della vertenza alla 'materia' (art. 7, 5° comma, c.p.a.). Le vertenze riconducibili a quella certa materia vanno proposte davanti al giudice amministrativo, anche se il cittadino faccia valere in giudizio un diritto soggettivo. Non è sempre agevole, però, stabilire se la vertenza inerisca o meno a una 'materia' devoluta alla giurisdizione esclusiva. Le difficoltà nascono da varie circostanze. Innanzi tutto anche nel codice le disposizioni sulla giurisdizione esclusiva non sono omogenee e rispecchiano una nozione di 'materia' non uniforme. Nell'art. 133 c.p.a. in alcuni casi la devoluzione al giudice amministrativo è prevista rispetto a una generalità di controversie , definite semplicemente per l'inerenza a un istituto generale, comprensivo di una serie di rapporti giuridici diversi (si pensi al pubblico impiego); in altri casi, invece, è disposta rispetto a istituti specifici (si pensi alla tutela del diritto d'accesso), in altri casi ancora è contemplata solo rispetto a singoli procedimenti o provvedimenti . Anche gli istituti contemplati non sono omogenei: sono considerati atti e provvedimenti unilaterali, ma anche accordi, in alcuni casi semplicemente 'condotte comunque riconducibili («mediate») a espressioni del potere amministrativo talvolta vertenze di ogni genere purché inerenti alla ‘materia’ (si pensi al pubblico impiego); compare anche una figura marcatamente non provvedimentale e posta in essere da un privato, come la segnalazione certificata di inizio attività. Di fronte a queste difficoltà in passato Cassazione e Consiglio di Stato avevano dibattuto soprattutto sulla possibilità di adottare criteri estensivi o restrittivi per la lettura delle previsioni di giurisdizione esclusiva. In realtà centrale fu l'intervento alla Corte costituzionale, che con la sentenza n. 204/2004 , sottolineò l'esigenza di una interpretazione della giurisdizione esclusiva rispettosa dell'art. 103 Cost. Secondo la Corte, l'assegnazione di materie, da parte del legislatore, alla giurisdizione esclusiva deve presupporre una relazione («coinvolgimento») fra l'ambito devoluto alla giurisdizione esclusiva e un 'potere amministrativo’ . Non può essere sufficiente individuare un ambito del vivere civile in cui preponderante è l'azione della PA, tipo l'edilizia, ma è essenziale che in questo ambito, l'amministrazione abbia fatto esercizio del suo potere. L'esercizio del potere a fronte di cui si ha una posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo è il presupposto fondativo e giustificativo della giurisdizione amministrativa. Es. immaginiamo un appalto, una procedura di evidenza pubblica per la fornitura dei computer all'università e immaginiamo che, terminata la fase di evidenza pubblica, si arrivi alla stipula del contratto e che la PA non ottemperi a quanto stabilito nel contratto. In questa seconda parte del rapporto tra PA e soggetto che fornisce i computer, la PA non opera nell'esercizio del proprio potere, ma opera sulla base del diritto privato. Dunque, sulla scorta di esempi di questo genere la Corte Cost. ha detto che la giurisdizione del giudice amministrativo non può essere 97