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Gli ambiti di intervento del servizio sociale., Sintesi del corso di Metodi E Tecniche Del Servizio Sociale

sintesi del libro "gli ambiti di intervento del servizio sociale" del corso Metodi e tecniche del servizio sociale II

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 06/03/2023

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Scarica Gli ambiti di intervento del servizio sociale. e più Sintesi del corso in PDF di Metodi E Tecniche Del Servizio Sociale solo su Docsity! GLI AMBITI DI INTERVENTO DEL SERVIZIO SOCIALE (Annamaria Campanini). Capitolo 1: Servizio sociale tra passato, presente e futuro. 1.1. Uno sguardo internazionale. L'assistente sociale è una figura professionale presente a livello mondiale, dai paesi di cultura anglosassone, da cui ha preso avvio già nella seconda metà del XIX secolo, alla Cina, che in questi ultimi decenni sta sviluppando percorsi formativi, di ricerca e operativi molto interessanti. Le sue origini si ritrovano nel processo di professionalizzazione della filantropia, nell'esperienza delle Charity Organization Societies del Regno Unito e in quella dei Social Settlements negli Stati Uniti, che rappresentano, attraverso le due figure di riferimento Mary Richmond e Jane Addams, il duplice impegno di un lavoro orientato all'aiuto diretto della persona e di un intervento rivolto al contesto sociale. La vocazione internazionale del social work si può far risalire già alla prima conferenza tenutasi a Parigi nel 1928, in cui sono state create le tre associazioni: International Association of School of Social Work (IASSW), International Council on Social Welfare (ICSW) e International Federation of Social workers (IFSW), che riuniscono rispettivamente le scuole di servizio sociale, le organizzazioni in cui gli assistenti sociali operano e gli assistenti sociali stessi. Queste associazioni hanno messo in atto, nel corso degli anni, una serie di importanti iniziative, come ad esempio l'elaborazione di una definizione internazionale di social work. La definizione a cui oggi ci rifacciamo, proposta di comune accordo da IASSW e IFSW, è stata approvata nel convegno di Melbourne nel 2014 e recita: “il servizio sociale è una professione basata sulla pratica e una disciplina accademica che promuove il cambiamento sociale e lo sviluppo, la coesione e l'emancipazione sociale, l’empowerment nonché la liberazione delle persone. Principi di giustizia sociale, diritti umani, responsabilità collettiva e rispetto delle diversità sono fondamentali per il servizio sociale. Sostenuto dalle teorie del servizio sociale, delle scienze sociali, umanistiche e dai saperi indigeni, il servizio sociale coinvolge persone e strutture per affrontare le sfide della vita e per migliorarne il benessere. Un’altra iniziativa è quella relativa all’istituzione del World Social Work Day, il cui obiettivo è quello di dare visibilità al servizio sociale e rendere manifesto nel mondo il suo impegno a concretizzare i fondamenti valoriali ed etici attraverso cui si può promuovere lo sviluppo delle persone e delle comunità, il rispetto dei diritti umani e la giustizia sociale. Le tre associazioni, a partire dal 2000, hanno deciso di organizzare insieme il convegno mondiale che si tiene ogni due anni in un paese diverso e, proprio durante il primo convegno congiunto, hanno lanciato la Global Social Agenda, che raccoglie l’impegno del servizio sociale per i prossimi anni. 1.2. Il contesto italiano. La presenza della figura dell’assistente sociale si fa risalire al periodo fascista con la costituzione del servizio sociale di fabbrica e della Scuola superiore fascista di assistenza sociale di San Gregorio al Celio. Ma è alla fine della Seconda guerra mondiale che il servizio sociale si emancipa dalla retorica del regime e, attraverso il Convegno di Tremezzo del 1946, assume una nuova fisionomia, ispirata ai principi democratici e fondata sulla convinzione che sia necessario andare oltre la risposta immediata ai bisogni per accompagnare le persone in un processo di consapevolezza dei problemi e delle cause sociali che li hanno determinati, aiutandole ad aiutarsi. Gli anni ‘50/’60 sono caratterizzati dalla presenza della figura dell’assistente sociale nei numerosi enti assistenziali, che si qualificavano per un’impostazione legata alla specificità delle categorie a cui si rivolgevano e per una strutturazione su base nazionale con sedi decentrate sul territorio, ad esempio l’Opera nazionale maternità e infanzia (ONMI), l’Ente per l’assistenza agli orfani dei lavoratori (ENAOLI), l’Istituto nazionale di assistenza per gli infortuni sul lavoro (INAIL), l’Ente morale per la protezione del fanciullo (EMPF). Il servizio sociale si inserisce anche in altri enti locali come le Province e i Comuni, che prestavano assistenza alle famiglie in difficoltà attraverso sussidi economici o con provvedimenti di istituzionalizzazione per minori, anziani, persone con problemi psichicinon riesce però a emanciparsi dalle logiche assistenzialistiche e clientelari delle pubbliche amministrazioni, rendendo difficile la realizzazione degli obiettivi previsti dal Convegno di Tremezzo. Negli anni ’70 gli assistenti sociali, coinvolti nei processi di contestazione, criticano fortemente la dimensione di intervento individuale, troppo spostata sulla logica dell’adattamento della persona alle richieste dell’ambiente ed enfatizzano la necessità di operare cambiamenti a livello strutturale, impegnandosi in azioni più politiche che tecniche. Il processo di decentramento e lo scioglimento degli enti assistenziali (D.P.R. n.616 del ’77), con l’attribuzione delle competenze al Comune che, in forma singola o associata, è chiamato a gestire le competenze sociosanitarie, la riforma sanitaria con la creazione del Servizio sanitario nazionale (legge n.833 del ’78), insieme alle leggi che istituiscono i consultori familiari (legge n.405 del ’75), i servizi di prevenzione e cura delle tossicodipendenze (legge n.685 del ’75), i centri di servizio sociale per adulti in ambito penitenziario (legge n.354 del ’75), nonché la legge sulla psichiatria (legge n.180 del ’78) ridisegnano il contesto dei servizi in cui opera l’assistente sociale. Il filo conduttore di questa nuova organizzazione è quello di un intervento a livello del territorio inteso come luogo di ricomposizione dei bisogni e delle risorse, contesto aperto alla partecipazione dei cittadini e alla costruzione di nuove risposte più adeguate alle specifiche necessità dei territorisi afferma così la logica dei servizi territoriali, universalistici e non emarginati. Con la chiusura dei manicomi e la messa in discussione di tutte le forme di istituzionalizzazione (per anziani, minori, disabili), il servizio sociale è impegnato a realizzare interventi orientati alla domiciliarità, all’affidamento familiare, all’inserimento sociale, scolastico e lavorativo di persone in difficoltà e al reinserimento sociale delle persone detenute. I principi della prevenzione e integrazione caratterizzano l’azione professionale, orientandola verso un aiuto rivolto a ridurre le cause di malessere sociale e a considerare la persona nella sua globalità, come un tutto indivisibile, come previsto dall’Organizzazione mondiale della sanità, che definisce la salute uno stato di benessere fisico, psichico e sociale. Gli anni ’80 vedono un consolidamento dei servizi sociali articolati su base territoriale de in forte integrazione con i servizi sanitari. È negli anni ’90 che si assiste a un nuovo mutamento istituzionale, con la trasformazione in aziende delle Unità sanitarie locali (D.Lgs n.502 del ’92) e con la riforma delle autonomie locali (D.Lgs n.517 del ’93), senza che la comunità professionale riesca a cavalcare il cambiamento formulando proposte rilevanti a livello politico. La crisi economica colpisce l’Italia, così come gli altri paesi europei, e questo porta a tagli nella spesa pubblica, con una conseguente riduzione delle caratteristiche di universalismo e territorialità, e al fenomeno dell’esternalizzazione dei servizi sociali. La legge quadro di riforma del sistema integrato d’interventi e servizi sociali (n.328 del 2000), attesa per decenni, finalmente riconosce un ruolo chiave all’assistente sociale, individuando nel servizio sociale professionale uno dei livelli essenziali di assistenza che ogni ambito territoriale deve assicurare ai cittadini del proprio territorio. L’art. 7 di tale legge prevede un nuovo strumento per governare le politiche sociali a livello territoriale: il Piano di zonaad esso vengono attribuite funzioni di coordinamento e organizzazione dei diversi soggetti che intervengono nel territorio con titolarità differenti per contribuire alla risposta ai bisogni sociali: l’assistente sociale opera quindi anche in questo ambito, sia negli Uffici di piano sia contribuendo ai tavoli di progettazione. L'attuazione della legge 328/2000 si è però scontrata con la modifica del Titolo V della Costituzione (legge n.3 del 2001), che ha attribuito alle Regioni le competenze nell’area del welfareil servizio sociale si è così trovato a operare in contesti sempre più marcati da politiche regionali che hanno reinterpretato, secondo logiche proprie, l’organizzazione dei servizi sociali e inoltre, con la presenza di una crisi economica generalizzata, è venuta meno la connessione diretta tra l’erogazione dei servizi e l’impegno dello Stato. Una conseguenza di particolare gravità, prodotta da quest’ultimo fenomeno, è che i cittadini assumono la fisionomia di consumatori, mentre coloro che mettono a disposizione servizi sociali si trasformano in produttori, spesso con caratteristiche for profit. Lo scenario attuale vede la presenza sempre più consistente e riconosciuta di una pluralità di attori, con differenti responsabilità, fatto imprescindibile per mantenere in vita un sistema in crisila logica è quella di realizzare un welfare comunitario in cui tutti gli attori possano partecipare, sotto la regia dell’ente locale, alla programmazione dei servizi, mettendo in pratica il principio della sussidiarietà. Nel processo di aiuto, l’assistente sociale sviluppa una fase esplorativo-conoscitiva, ponendo particolare attenzione all’accoglienza e all’ascolto per creare una relazione significativa, all’analisi della domanda e alle sue modalità di presentazione, all’osservazione della situazione e all’individuazione del problema. L’a.s. deve poi effettuare il percorso di valutazione, necessario per la realizzazione di una progettazione efficace, definendo in modo chiaro gli obiettivi, i tempi e le risorse, per giungere poi alla definizione di un contratto. Da qui prende vita la fase dell’attuazione del progetto, che comprende sia interventi diretti a forte valenza relazionale, sia interventi indiretti attuati in un’ottica ecologica sul contesto della persona e con i partner del progetto, compiendo le verifiche intermedie, che consentono di introdurre eventuali modifiche al progetto stessosi giungerà così alla conclusione e alla valutazione dell’intero processo di aiuto e degli effetti che si sono prodotti. La valutazione, oltre che a rispondere a imperativi etici, è fondamentale per sviluppare una teorizzazione della pratica, per rendicontare la propria attività ed essere in grado di riorientare scelte operative e di politica sociale. La qualità dell’intervento professionale passa attraverso la capacità dell’assistente sociale di mettersi in gioco, di attivare percorsi di autovalutazione dello sviluppo processuale del suo intervento, per approfondirne la correttezza metodologica, l’effetto relazionale, l’efficacia e i processi di riflessività. L’a.s. che si pone in un’ottica riflessiva è capace di riflettere nell’azione, sull’azione e nel corso dell’azione per adeguare il proprio agire professionale a bisogni sociali e contesti organizzativi dominati dall’incertezza. La supervisione è un altro strumento fondamentale che, insieme alla formazione permanente obbligatoria (legge n.148 del 2011), costituisce uno spazio protetto in cui sviluppare un pensiero critico sul proprio agire professionale, accompagnati da un esperto che svolge la funzione di facilitatoreindividualmente o in gruppo si mettono in atto processi d’apprendimento dell’esperienza, di connessione tra la teoria e la pratica, di rinforzo dell’identità professionale attraverso una maggiore interiorizzazione delle competenze proprie della professione. Infine, la ricerca di servizio sociale rappresenta una parte integrante dell’agire professionale, sia intendendola come uno sguardo volto a rileggere in un’ottica diversa le informazioni che derivano dalla pratica quotidiana, sia in termini di capacità di porsi interrogativi che richiedono un apparato metodologico specifico. 1.6. Uno sguardo al futuro. È fondamentale che l’assistente sociale si adoperi con le sue competenze e per co-costruire relazioni di aiuto emancipatorie, non oppressive e non discriminatorie, basate su accoglienza, ascolto, orientamento e accompagnamento della persona, evitando di scivolare in un’ottica prestazionistica e burocratica. Ma è altrettanto importante mantenere viva l’attenzione alla complessità e non perdere di vista la dimensione strutturale e i cambiamenti possibili attraverso azioni di policy practice, la comunità con le sue risorse e l’organizzazione di appartenenza come ambito su cui è possibile intervenire con competenza professionale e creatività. Capitolo 2: Servizio sociale e adulti. 2.1. Adulti e famiglie coartefici di welfare. L’Italia appartiene a quei paesi europei di area mediterranea nei quali si realizza di fatto un sistema socioassistenziale appoggiato alle famiglie, ossia, nello sviluppo delle politiche sociali si è sempre dato per scontato che la gran parte delle funzioni di protezione delle persone debba essere principalmente a carico della famigliasi tratta di una sorta di welfare familistico nei confronti del quale la maggior parte delle amministrazioni pubbliche ha sviluppato servizi riconducibili a 3 categorie: I. Servizi di sollievo del carico assistenziale delle famiglie (centri diurni per persone non autosufficienti o disabili, assistenza domiciliare, telecontrollo-telesoccorso, assegni di cura, aiuti economici finalizzati per il mantenimento delle persone nella loro famiglia); II. Servizi di sostegno delle responsabilità familiari (servizi consultoriali, sostegno educativo domiciliare, centri diurni o centri sociali per minori, adolescenti, giovani, anziani, servizi per l'affidamento familiare temporaneo); III. Servizi sostitutivi o “di alternativa” alla famiglia nei casi di inadeguatezza o impossibilità delle funzioni di protezione e cura (comunità residenziali per minori e per anziani, strutture di accoglienza per persone disabili, residenze protette). La suddivisione organizzativa dei servizi sociali risponde prevalentemente a una categorizzazione delle prestazioni connesse alle fasi del ciclo di vita, distinguendo servizi rivolti all'età evolutiva, quindi minori e famiglie, all'età giovanile e all'età anziana; diversamente, l'età adulta non è categorizzata come assistibile in sé. In secondo luogo, va richiamata la particolarità del welfare italiano, che si può definire a macchie di leopardo, poiché la composizione dei servizi sociali non è diffusa in modo uniforme sul territorio nazionale e le soluzioni organizzative con cui vengono realizzati gli interventi non sono omogeneeogni Regione legifera a modo proprio, fornendo gli indirizzi generali di politica sociale entro cui i Comuni esercitano le funzioni amministrative riguardanti gli interventi sociali a livello locale. A seconda dell'area geografica, i servizi sociali possono essere gestiti direttamente dai Comuni oppure affidati ad Aziende pubbliche di servizi alla persona, o delegati alle Aziende sanitarie, oppure organizzati nella forma delle associazioni di Comuni e Comunità montane. Il tema della gestione associata da parte dei Comuni e della ricerca di una sempre più adeguata territorializzazione si è sviluppato a partire dal D.P.R. n.616 del ’77 e dalla regionalizzazione del governo dei servizi. Il D.Lgs. n.267 del 2000, ossia il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, ha previsto le varie forme possibili di gestione associate tra Comuni:  La convenzione fra enti locali al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati;  Il consorzio fra enti locali per la gestione associata di uno o più servizi e l'esercizio associato di funzioni (forma giuridica più diffusa a livello nazionale);  L'unione di comuni, ossia enti locali costituiti da due o più comuni confinanti, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza;  L'accordo di programma, per la definizione di interventi che richiedono, per la loro completa realizzazione, un'azione integrata e coordinata di Comuni e altri enti pubblici;  L'esercizio associato di funzioni e servizi negli ambiti e nei settori stabiliti dalla Regione, soprattutto per i Comuni di piccole dimensioni. Gran parte dei servizi sociali rivolti agli adulti usciti dalla condizione di normalità sono ideati e condotti da organizzazioni no profit e istituzioni religiose, oppure sono voluti dall’ente locale ma affidati in convenzione o in appalto a fondazioni, istituzioni private o cooperative socialisi realizza così il principio di sussidiarietà tra ente pubblico e libere forme di solidarietà civica, cioè l’ente pubblico incoraggia e supporta la capacità dei cittadini e delle organizzazioni sociali nel far fronte ai problemi emergenti. 2.2. Professionisti innovativi o contabili del sociale. Per l’assenza di elementi identificativi di una tipologia di utenti, la parte di servizi e interventi sociali rivolti all’età adulta (18-64 anni) corre il rischio di non essere riconosciuta o di essere considerata residuale. Sono considerati adulti:  I genitori che entrano a contatto con i servizi a causa di segnalazioni di vario genere per problematiche connesse alle responsabilità genitoriali (di norma sono seguiti da coloro che si occupano di minori);  I figli degli anziani non autosufficienti che svolgono il ruolo di caregiver;  Le persone tossicodipendenti (hanno un servizio specifico nei SERT o SERD);  I sofferenti psichici e le persone devianti;  Coloro che commettono reati;  Le persone diversamente abili. Fatto salvo quanto accade per il servizio sociale presente negli UEPE del ministero della Giustizia, rivolto ad adulti responsabili di reato, che agisce in stretta connessione con le disposizioni del Tribunale di sorveglianza, nella maggior parte dei casi l’assistente sociale che lavora con adulti non è costretto a rispondere immediatamente alle domande di altre autorità istituzionali, ma agisce soprattutto rivolgendosi al singolo cittadino che entra in contatto con i servizi attraverso le “porte di accesso” (Uffici di cittadinanza, di segretariato sociale), presentando un’esplicita richiestatali punti di accesso consentono al cittadino di scegliere e di essere indirizzato al servizio più idoneo alle proprie esigenze. È importante ricordare la distinzione dei servizi sociali a cui possono rivolgersi gli adulti in 2 livelli: I. Il primo è quello “di base”, ed è caratterizzato dall’immediatezza dell’accesso, veicolata comunque dai servizi di segretariato sociale; esso è diffuso nei Comuni e offre le proprie prestazioni e servizi alla popolazione residente in un determinato territorio. Tale servizio può assumere forme organizzative e denominazioni differenti: Unità operativa territoriale (UOT), Centri servizi territoriali (CST), secondo quanto normato dalle Regioni e dai Comuni; II. Il secondo è detto “specialistico” e offre le proprie prestazioni a una platea più selezionata di utenti che hanno una problematica particolare (es: tossicodipendenza). Il servizio sociale incontra i cittadini per qualsiasi esigenza di carattere sociale e offre risposte per prevenire/ridurre le situazioni di bisogno e di disagio sociale, ossia:  Accoglie le domande e avvia percorsi di aiuto per sostenere il singolo individuo, i gruppi e la comunità, al fine di risolvere o almeno contrastare le situazioni di difficoltà;  Informa e attiva risorse pubbliche e private per sostenere e favorire l'autonomia delle persone, svolgendo anche una funzione di tutela verso i soggetti più deboli;  Opera in modo integrato con altri soggetti , quali le organizzazioni del terzo settore, gruppi, famiglie e le organizzazioni attive nel libero mercato. In particolare, per gli interventi rivolti alle persone adulte, la prestazione assistenziale più immediata è l'aiuto economico erogato direttamente ai cittadini. Le contribuzioni in denaro sono di diverso tipo e rispondono a diverse esigenze: per accedere a tali aiuti uno dei requisiti fondamentali, oltre alla residenza nel Comune di competenza, è poter attestare una particolare condizione di reddito basso, autocertificata mediante l’ISEE. I contributi possono essere continuativi, cioè rivolti a persone che non possono far fronte alle esigenze primarie della vita, coordinati o meno con progetti assistenziali individualizzati a seconda delle effettive condizioni delle persone, e contributi una tantum, erogati a fronte di specifiche condizioni intervenienti (es: forti morosità delle spese per l’abitazione e spese impreviste non affrontabili dal nucleo familiare). In alcune Regioni italiane si sta sperimentando l'adozione di diverse misure affini a ciò che è variamente denominato “reddito di base, minimo o di cittadinanza”, ossia un insieme di trasferimenti di denaro erogato a tutti i cittadini per il mero possesso formale dei requisiti economici (es: reddito per l’autonomia e la misura attiva di sostegno al reddito). Si sta sperimentando anche il “baratto amministrativo”, cioè la possibilità, per coloro che abbiano contratto debiti con la pubblica amministrazione, di risarcirli con attività lavorativa non retribuita. Un'altra forma di aiuto alle persone in difficoltà sono la microfinanza e i prestiti d'onore, cioè forme di prestito di cui si fa garante l'ente pubblico che, in caso di mancato pagamento, contribuisce alla copertura delle rate da restituirein tale modo possono accedere ai prestiti anche persone che, per diversi motivi, non possono utilizzare il normale circuito bancario del credito. Su questo fronte gli assistenti sociali svolgono il ruolo di:  “contabili del sociale”, ossia funzionari che registrano richieste standardizzate e filtrano l’utenza assistibile sulla mera base di parametri economici ben definiti;  “agenti di promozione” della capacità delle persone di partire dalla propria condizione per progettare possibili cambiamenti migliorativi. economiche, poiché, anziani occupati precocemente in lavori spesso poco qualificati o usuranti, hanno a disposizione bassi redditi da pensione. Le donne presentano condizioni di maggiori difficoltà perché le loro biografie sono caratterizzate da percorsi lavorativi precari, poco qualificati, con abbandoni per maternità, lavori di cura. Pur avendo una maggior speranza di vita, ricerche recenti evidenziano per le donne maggiori rischi di patologie, non autosufficienza, povertà e solitudine. Differente è la condizione degli anziani giovani i cui comportamenti e problemi sono perlopiù assimilabili a quelli dell'età adulta: una maggiore scolarizzazione, percorsi lavorativi molto articolati, entrata nel mercato del lavoro posticipata, maggiore attenzione alla salute e alla cura di sé, minore rischio di non autosufficienza, minore stabilità familiare e numero di figli. L’invecchiamento come processo attivo è l’obiettivo che le diverse organizzazioni (es: OMS) si pongonopromuovere salute, benessere psicofisico e sociale, ritardare gli effetti negativi dell’età, valorizzare le differenti risorse personali degli anziani diventano i principali scopi delle politiche integrate. L’invecchiamento attivo è quindi l’esito di azioni coerenti che interessano più attori, con significative ripercussioni personali e sociali; un ruolo attivo, in primis, lo ha la persona anziana, la quale deve essere in grado di prendere consapevolezza della propria realtà, stimolata ad acquisire comportamenti nuovi rispetto ad abitudini consolidatela praticabilità o meno di questo processo poggia sulle capacità di apprendimento della persona, costruite e praticate nel tempo, capacità che rischiano di non svilupparsi compiutamente se i contesti esterni sono poco ecologici, svalorizzanti e poveri di opportunità. Necessari nel processo di invecchiamento attivo sono anche gli spazi di vita, intendendo con questo termine tutti gli spazi fisici e di senso che si muovono e agiscono con e per l'anziano, ad esempio, lo spazio di movimento, lo spazio fisico dell'abitare, la famiglia, il contesto sociale in cui si sviluppano azioni e interazioni quotidiane. Comprendere il valore della dimensione sociale per la funzione che essa assume nel promuovere o rallentare l'invecchiamento attivo è di particolare rilievo per il servizio sociale, così come fondamentale è il ruolo della famiglia, che incoraggia l’assunzione di responsabilità, che è solidale verso i propri membri e funge da antidoto al tempo vuoto dal lavoro, alla perdita di un ruolo sociale e di relazioni pubbliche significative. Ma la famiglia può diventare al tempo stesso anche un campo ristretto, in cui si scambiano solo preoccupazioni per il futuro, si richiamano esperienze negative e si radicalizzano vecchi contrasti. La dimensione della socializzazione e delle relazioni personali è una componente fondamentale per promuovere l'invecchiamento attivo vivere pienamente nel proprio territorio, usufruendo delle opportunità presenti, rendersi disponibili per attività solidali e di impegno civico produce un duplice effetto positivo: promuovere l'invecchiamento attivo e offrire alla collettività l'apporto di competenze, esperienze, gratuità degli anziani. III.2. Ambiti istituzionali e legislazione nazionale. III.2.1. Servizi socioassistenziali e sociali: Fino agli anni 60, l'assistenza agli anziani, in quanto “persone inabili e bisognose di assistenza”, era affidata ai Comuni, i quali provvedevano al ricovero in Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), Istituite con la legge n.6972 del 1890, oppure in istituzioni private. Il ricovero garantiva all'anziano vitto, alloggio e assistenza; gli enti comunali di assistenza potevano inoltre erogare prestazioni economiche; altre forme di aiuto erano rivolte agli anziani appartenenti a specifiche categorie ed erogate da enti a ciò deputati (Opera nazionale per gli invalidi di guerra, mutilati). Un cambiamento radicale nell'offerta di servizi ai cittadini avviene con la costituzione delle Regioni a statuto ordinariodal ’72 lo Stato delega alle Regioni alcune funzioni amministrativo-statali in materia socioassistenziale. Molte regioni fanno ampio uso di tali deleghe e promuovono nuovi servizi, attribuendone la gestione ai Comuni o ai loro consorzi. Ma è con l'approvazione del D.P.R. n.616 del ‘77 che prende avvio un modello italiano di politiche dei servizi e si definiscono nuovi livelli istituzionali, legislativi e amministrativi; viene meglio definito il concetto di beneficenza pubblica, vengono soppressi molti enti categoriali e data centralità amministrativa al Comune, ente elettivo più vicino ai cittadini. Successivamente le Regioni avviano un processo di riordino dei servizi sociali con priorità e modalità anche differenti tra di loro, ma comunque innovative. Con riferimento specifico agli anziani, la legge 328/2000 assume come obiettivo qualificante il supporto domiciliare alle persone anziane non autosufficienti attraverso il sostegno al nucleo familiare, l'assistenza domiciliare e altre forme di aiuto con piani individualizzati. Le IPAB hanno perseguito, sin dalle origini, attività di assistenza ai poveri, agli anziani, agli infermiin ottemperanza all'art.10 della 328/2000, viene emanato il D.Lgs. n.207 del 2001, nel quale si prevede la trasformazione delle IPAB in aziende pubbliche di servizi alla persona o in persone giuridiche di diritto privato (associazioni o fondazioni), impegnando le Regioni a adeguare la propria disciplina ai principi del decreto legislativo. Ad oggi, non tutte le Regioni hanno recepito e legiferato in materia, quindi, alcune IPAB, a seconda della Regione di appartenenza, sono divenute aziende pubbliche di servizi alla persona o fondazioni, altre sono ancora normate dalla legge 6972 del 1890. L'art. 22 della 328/2000 introduce il tema dei LEP, erogabili sotto forma di beni e servizitali LEP, da prevedersi per ogni ambito territoriale, sono:  servizio sociale professionale e segretariato sociale;  servizio di pronto intervento per le situazioni di emergenza personali e familiari;  assistenza domiciliare;  strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali. Alla legge 328/2000 fa seguito la riforma del Titolo V della Costituzione, cioè la legge costituzionale n.3 del 2001, la cui finalità è di definire ulteriormente le competenze di Stato, Regioni e Comuni, nella prospettiva di una maggiore autonomia Lo Stato esercita le sue funzioni legislative esclusivamente nelle materie che garantiscono l'unitarietà nazionale e in materia di servizi alla persona (determinazione dei LEP); le Regioni hanno potestà legislativa concorrente con lo Stato, in materia di tutela della salute, potestà legislativa autonoma in materia di servizi sociali; i Comuni sono autonomi con propri statuti, poteri e funzioni nell'amministrazione e gestione dei servizi sociali. Le conseguenze della riforma del Titolo V non sono però tutte positive, in quanto si innescano conflitti istituzionali tra Stato e Regioni, si accentuano le differenze in materia di servizi sociali tra le Regioni e viene a mancare un riferimento regolativo a livello nazionale. Una legge importante, la n.6 del 2004, riguardante “l'istituzione dell'amministratore di sostegno”, introduce per la prima volta in Italia un istituto giuridico il cui scopo è quello di “tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte, di autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”l'amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare, si fa carico della persona disabile incapace di gestire i propri interessi: si tratta di un istituto di grande utilità per la tutela delle persone anziane non autosufficienti o affette da demenze, a cui si ricorre sempre più sovente. III.2.2. Servizi sanitari: L’anziano, come tutti i cittadini, ricorre ai servizi sanitari normati dalle leggi che si sono succedute a partire dalla legge n.833 del ’78, ossia la prima riforma istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Il progetto obiettivo “TUTELA DELLA SALUTE DEGLI ANZIANI”, approvato nel ’92, sul piano dell’offerta dei servizi prevede:  L’istituzione delle Unità di valutazione geriatriche, con funzioni di valutazione delle condizioni dell’anziano per l’accesso ai servizi (UVG);  Il Piano assistenziale individuale (PAI);  L’assistenza domiciliare integrata, con prestazioni sociali, mediche a domicilio (ADI);  Ospedalizzazione a domicilio, centri diurni di riabilitazione e lo sviluppo di residenze sanitarie assistenziali. Fondamentale è la normativa relativa a:  Livelli essenziali di assistenza (LEA)essi costituiscono l’insieme di prestazioni, servizi e attività che i cittadini hanno diritto a ottenere dal SSN in condizione di uniformità, cioè devono essere garantiti a tutti e su tutto il territorio nazionale, indipendentemente dal reddito. Il loro scopo è quello di rispondere alla domanda di salute nel quadro della frammentazione rappresentata dalle differenti politiche regionali. Differenti atti normativi (D.Lgs. n.229 del ‘99/ D.P.C.M. del 2001) hanno collegato i LEA a 3 grandi aree: I. Assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro (prevenzione); II. Assistenza distrettuale; III. Assistenza ospedaliera.  Differenziazione delle diverse forme di residenzialitàPer far fronte ai problemi di salute degli anziani, nell’ambito della revisione delle reti ospedaliere e di riordino delle case di riposo, il legislatore differenzia, sotto il profilo istituzionale, le seguenti forme di residenzialità: I. Residenze assistenziali (case di riposo, comunità alloggio per soggetti autosufficienti o parzialmente autosuff.)tali strutture appartengono al comparto assistenziale ed è prevista una quota sanitaria differenziata per gli anziani non autosufficienti a carico delle Regioni; II. Presidi di riabilitazione , per cure sanitarie prolungate nel tempo; III. Residenze sanitarie assistenziali (RSA), ossia presidi che offrono a soggetti non autosufficienti, anziani e non, con esiti di patologie fisiche, psichiche, sensoriali o miste, non curabili a domicilio, un livello medio di assistenza medica, infermieristica e riabilitativa, accompagnata da un livello alto di assistenza tutelare e alberghiera.  Fondo per la non autosufficienzamolti anziani con perdita di autonomia e bisognosi di assistenza, il più delle volte non desiderano essere ricoverati in strutture; le famiglie si trovano, perciò, a sostenere carichi assistenziali molti onerosi e ottengono aiuti limitati dai Comuni. La proposta è di istituire un “fondo per prestazioni di assistenza ai non autosufficienti, finanziato con una specifica tassa”, con lo scopo di non gravare sui bilanci comunali e sulle famiglie. La crisi economica, unita a differenti sensibilità e priorità, ha portato i governi che si sono succeduti a ridurre o annullare il fondo. III.2.3. Prestazioni economiche: Gli anziani traggono sostentamento economico, di norma, dalle pensioni, cioè da prestazioni in denaro sostitutive dei redditi da lavoro nelle circostanze di vecchiaia, invalidità e premorienzal’entità della pensione dipende dalla carriera lavorativa e dalla misura e regolarità dei contributi versati. Nella riforma pensionistica varata con la legge n.903 del ’65 viene istituita una prestazione assistenziale chiamata “pensione sociale” della quale possono usufruirne cittadini con età superiore ai 65 anni, sprovvisti di reddito e di altra tutela pensionistica, indipendentemente dal versamento dei contributi (maggiori beneficiarie sono le donne). Con il passaggio da un sistema retributivo ad uno contributivo, le pensioni sono più povereun aiuto economico importante a persone dichiarate totalmente invalide è rappresentato dall’indennità di accompagnamento, prevista dalla legge n.18 del ’80, ossia un assegno, a carico dello Stato, erogato dall’INPS, un vero diritto soggettivo che spetta per il solo motivo della minorazione, indipendentemente dal reddito del beneficiario e del suo nucleo familiare. Tale indennità consente agli anziani non autosufficienti di ottenere cure domiciliari o residenziali i cui costi non sarebbero sostenibili né dai soggetti né dalle loro famiglie. III.3. Interventi di servizio sociale per la popolazione anziana. L’anzianità, intesa non come sinonimo di malattia, di peso e costo sociale, bensì come ciclo di vita in cui perdite fisiologiche e funzionali si accompagnano nuove capacità, a potenzialità da esplorare e valorizzare, conferma il valore etico degli interventi del servizio sociale, fortemente caratterizzati da riconoscimento, sostegno, promozione delle risorse personali e sociali per favorire autonomia, autostima e identità. La crisi economica ha indotto i vari governi a ridurre o riorientare i finanziamenti pubblici già previsti per le politiche sociali e sanitariegli assistenti sociali, quindi, sono chiamati a operare in un sistema di offerta differente, più povero, rispetto a quello previsto dalle numerose leggi che si sono susseguite nel tempo, a fronte di un forte aumento, conseguente alla crisi in atto, di domande di aiuto, di sostegno economico, di accompagnamento. Gli ambiti istituzionali in cui operano gli assistenti sociali sono, oggi, i Comuni, le aziende sanitarie (ospedali, RSA, distretti), il terzo settore, le residenze socioassistenziali e le comunità per anziani autosufficienti e non. Assume particolare valore la proposta di legge della Fondazione Emanuela Zancan di “welfare generativo”, inteso come “l'insieme delle modalità di rigenerazione e rendimento delle risorse a disposizione del sistema di welfare, attraverso la responsabilizzazione dei soggetti destinatari di interventi di sostegno”. Il tema della responsabilizzazione dei soggetti destinatari di interventi deve poter interessare profondamente la professione che, nel suo essere a servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle aggregazioni sociali, ne valorizza l'autonomia, la soggettività, la capacità di assunzione di responsabilità. III.4.3. Il servizio sociale: Le condizioni lavorative di molte assistenti sociali sembrano favorire percorsi di riflessione, studio e approfondimento della specificità del proprio lavoro: contesti istituzionali orientati al cambiamento, in cui è coinvolto il servizio sociale; presenza di operatori di diversa formazione, conoscenze, orientamenti operativi, con i quali confrontarsi per favorire approcci olistici, in un'ottica di multidisciplinarietà, per promuovere la conoscenza e riconoscimento reciproco. Maggiori difficoltà a ridefinire il proprio campo di azione, sembrano invece incontrare gli assistenti sociali che operano in solitudine, in contesti fortemente burocratizzati, impegnati in molti campi amministrativiin questi contesti, alle domande pressanti di soluzione dei problemi da parte degli anziani e delle famiglie, gli assistenti sociali rispondono con l'erogazione delle molte o poche prestazioni presenti, con attenzione alle procedure più che a specifiche valutazioni professionali. Tale modalità di lavoro, realtà molto diffusa, nel tempo riduce il servizio sociale a funzioni di verifica dei requisiti, a garante delle procedure, a un lavoro burocratizzato e riduttivo delle competenze professionali. Sono necessari quindi, lo sviluppo di percorsi formativi mirati e la sollecitazione a costituire gruppi di professionisti per territorio o per tipologia di enti, al fine di approfondire e riflettere sul proprio lavoro. Una più ampia riflessione va avviata rispetto all'invecchiamento attivo e alla necessità di politiche generative: il servizio sociale, per i valori di riferimento, le funzioni svolte nei differenti campi di intervento, le potenzialità operative, può contribuire attivamente affinché gli assunti teorici, di principio, trovino concrete, sia pure parziali, attuazioniper il servizio sociale si possono aprire scenari nuovi per agire non solo con interventi di cura, ma con azioni di promozione, di prevenzione, di contrasto alle molteplici forme di disagio sociale che interessano gli anziani, in sinergia con i differenti attori coinvolti nel cambiamento. Capitolo 4: Servizio sociale e dipendenze patologiche. 4.1. Le dipendenze patologiche. Quando si parla di dipendenza patologica, l'immagine che più frequentemente appare nella nostra mente è quella del tossicodipendente da oppiacei che passa gran parte della sua vita a cercare, più o meno legalmente, i soldi per acquistare l'eroina e, una volta acquistata, a usarla per poi, finito l'effetto, ricominciare il circolo vizioso da capo. Occorre però specificare che il concetto di dipendenza, in realtà, fa riferimento a:  Dipendenze da sostanze psicotrope, generalmente definite “alcol e altre droghe”;  Dipendenze comportamentali, caratterizzate da atteggiamenti, stili di vita e abitudini che nel tempo si radicano nella vita della persona fino a influenzarne il benessere fisico, psicologico e sociale. Lo sviluppo della rete globale di Internet, dovuto alla facilità di uso, alla gratuità e all'accessibilità in ogni luogo, da un lato ha favorito l'affermazione di una dipendenza dal collegamento alla stessa rete e dai social network, dall'altro ha implementato l'insorgere e il consolidarsi delle dipendenze comportamentali che comprendono il gioco d'azzardo patologico (GAP), lo shopping e i cybersex compulsivi. Gli assistenti sociali che intendono orientare il loro impegno professionale in questo campo devono avere un quadro di riferimento che permetta loro di individuare gli elementi di base ai quali riferirsi per distinguere se, e in quale misura, la persona presenta i sintomi che identificano la problematica della dipendenza patologica. Il processo diagnostico secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, si sviluppa attraverso l'accertamento e l'assessment di 11 criteri diagnostici: per la dipendenza lieve si intende che siano soddisfatti 2 criteri, per la moderata e la grave, i criteri da riscontrare aumentano. I criteri diagnostici individuati per le dipendenze chimiche e per il GAP nel DSM-5 andrebbero quindi, aggiornati con riferimento alle dipendenze comportamentali, cercando gli elementi comuni che si possono così sintetizzare:  Il piacere e il sollievo: sensazioni gradevoli ma limitate ai periodi iniziali dell'uso della sostanza o della messa in atto del comportamentoè la fase della luna di miele, durante la quale è anche quasi sempre presente la negazione del problema;  La dominanza: la sostanza o il comportamento domina costantemente il pensierovi è l'impossibilità di resistere all'impulso di assumerla, vissuta con modalità compulsiva;  Il craving: l’appetizione e la sensazione crescente di tensione che precede l'inizio dell'assunzione della sostanza o del comportamento;  L’instabilità dell’umore : al principio limitata all'inizio dell'assunzione della sostanza; è successivamente sempre più generalizzata ed estesa a tutti gli aspetti dell'esistenza;  La tolleranza: la progressiva necessità di incrementare la quantità di sostanza, o il tempo dedicato al comportamento, per ottenere l'effetto piacevole, che tende, altrimenti, ad esaurirsi;  Il discontrollo: la progressiva sensazione di perdita del controllo sull'assunzione della sostanza o sull'esecuzione del comportamento;  L’astinenza : un profondo disagio psichico e fisico quando si interrompe o si riduce l'assunzione della sostanza.  Il conflitto: esso è la conseguenza dell'uso cronico della sostanza o del comportamento, che determina evidenti ricadute sull'adattamento familiare, sociale, scolastico e lavorativo;  La persistenza: l'uso della sostanza continua, nonostante la progressiva ed evidente associazione con conseguenze negative sempre più gravi;  Le ricadute: la frequente tendenza a riavvicinarsi alla sostanza o al comportamento dopo un periodo di interruzione;  Il poliabuso e la cross-dipendenza: elevata frequenza dell'assunzione di più sostanze, nonché di passaggio nel tempo da una dipendenza ad un'altra. Ad oggi, non è più possibile negare che le tre dipendenze più diffuse e più dannose in termini di salute e che, di conseguenza, pesano maggiormente sulle persone dipendenti, sulle famiglie e, non va dimenticato, sul bilancio dello Stato, sono la dipendenza dal fumo di sigarette, da alcolici e la dipendenza da gioco d'azzardotutte e tre, oltre a essere legali, paradossalmente rappresentano una cospicua voce nelle entrate dello Stato. 4.2. Fattori di rischio dell’insorgere, dell’aggravarsi e della ricaduta nelle dipendenze. La dipendenza è un fenomeno complesso nel quale sono coinvolte diverse dimensioni dell'individuo, che comprendono fattori che vanno dalla neurobiologia alla psicologia, dalla rete sociale originaria a quella acquisitasi tratta di fattori che difficilmente si presentano isolati e che tendono, con l'aggravarsi dello stato di dipendenza, a coinvolgere tutte le dimensioni della persona, minando il suo benessere e quello di chi le circonda. Fermo restando che ogni persona, nella sua unicità e irripetibilità, sviluppa e consolida il suo stato di dipendenza in modo originale e che, quindi, solo ponendola al centro dell'intervento e della relazione possiamo instaurare una relazione d'aiuto efficace, si possono individuare almeno quattro modelli che, nel tempo, si sono consolidati attraverso la ricerca e che costituiscono un paradigma di riferimento sulle cause eziologiche della dipendenza: I. Responsabilità e scelte individuali : la dipendenza è una scelta individuale che comporta una responsabilità diretta della persona: chi la accoglie dimostra una mancanza di autocontrollo, un disprezzo per le leggi e per le regole morali che è alla base dell’insorgere della dipendenza da sostanze. L’uso di alcune sostanze può essere messo al bando da determinate culture e da precetti religiosi (l’alcol nell’Islam), come può essere ammesso e incentivato in altre (cannabis nella religione rastafariana), quindi la persona dipendente ha optato per quel comportamento in piena autonomia potendo preferire di astenersenetale interpretazione è alla base delle politiche repressive che mirano a ridurre la domanda puntando su una motivazione estrinseca, che tendono cioè a fare in modo che le persone si astengano dai comportamenti di dipendenza per la paura di essere scoperti e puniti dagli organismi di controlloquesto tipo di motivazione, che pure ha i suoi effetti, favorisce dei cambiamenti labili e poco duraturi nel tempo, con la ricomparsa del comportamento disfunzionale nel momento in cui il controllo esterno si riduce. II. Predisposizione e fragilità individuali : tale interpretazione teorizza che la dipendenza sia dovuta a fattori interni all’individuo. Le più moderne tecniche diagnostiche, tra cui la tomografia a emissione di positroni, hanno permesso di rilevare la reale possibilità che possano esistere delle predisposizioni genetiche alla dipendenza, anche se i dati delle ricerche non sono univoci nel confermare questa ipotesiil grande rischio di questa visione eziologica della dipendenza è quello di farne un problema esclusivamente neurobiologico e di affrontarlo, con la logica medica, attraverso farmaci che agisce sulla fisiologia del cervello. III. Apprendimento sociale e socioculturale : le persone apprendono alcuni comportamenti osservando gli altri, soprattutto in famiglia e nel gruppo di paril’ambiente sociale è responsabile dell’insorgere di dipendenze, in quanto modella le convinzioni, i valori personali e i principi etici degli individui. In questo rientra il concetto di devianza, inteso come l’insieme dei comportamenti che non sono compatibili con le norme sociali e le leggi che regolano il vivere civile. Questa visione della dipendenza porta a concentrare gli interventi sull’aumento della disponibilità della persona a cambiare i gruppi di persone e i luoghi di frequentazione legati all’uso delle sostanze con l’apprendimento di abilità di coping cognitivo-comportamentali. IV. Visione multidimensionale della dipendenza: i modelli che tentano di spiegare l’eziologia della dipendenza mettono in evidenza una parte più o meno accentuata del rischio individuale di esposizione ai problemi di dipendenza. La realtà è che spesso le cause si intersecano e si alimentano a vicenda, come le stesse dipendenze tendono ad aggregarsi e a crescere di pari passo: l’alcolismo, ad esempio, è spesso associato al GAP e all’uso di sostanze stimolanti (es: cocaina)il servizio sociale ha sempre considerato al centro dell’intervento la persona, non il bisogno/problema, ed è fondamentale, come professionisti, essere aperti a una visione multidimensionale delle dipendenze. È importante tenere conto che le sostanze hanno effetti differenti per intensità, pericolosità per la salute, rischio di dipendenza e rischi legalil’esposizione agli effetti di una sostanza comporta, già in sé, un grave rischio per l’individuo e quindi sarebbe opportuno cercare di impedire che le persone, soprattutto i giovani, possano entrare in contatto con la sostanzaper raggiungere questo obiettivo è necessario combattere le organizzazioni che lucrano sulla vendita delle sostanze e dominano il mercato. IV.3. Principali riferimenti legislativi. Il principale testo di legge, che riunisce le norme relative alle sostanze stupefacenti e alle dipendenze, è il D.P.R. n.309 del ’90, ossia il “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cure e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”. Le Regioni sono poi intervenute con norme proprie a regolare diversi aspetti che riguardano l’organizzazione dei servizi pubblici, le modalità di intervento dei servizi privati, i requisiti per ottenere l’accreditamento regionale delle diverse strutture private, ma anche la possibilità di prescrizione e di rimborso di farmaci contenenti principi attivi per i quali è proibita la detenzione ma che hanno effetti terapeutici positivi per alcune patologie. È importante che gli assistenti sociali che lavorano, o si accingono a svolgere il loro impegno professionale, in questo campo abbiano riferimenti per accogliere informazioni affidabili da utilizzare nel corso della relazione professionale con le persone che a loro si rivolgono. Per non prendere cantonate e per cominciare a porre le basi per costruirsi un quadro legislativo di riferimento valido, bisogna tenere conto di qualche elemento fondamentale: IV.6. Sfide e prospettive. La sfida che tutti i servizi sociali devono affrontare consiste nel modo in cui i servizi e i professionisti del servizio sociale riescono a gestire la crisi delle risorse e la conseguente riduzione drastica dei nodi pubblici e privati della rete territoriale. Ad oggi l’impressione è che, nonostante il dilagare delle dipendenze patologiche, le azioni governative siano ferme, con un esecutivo che evita di affrontare la problematica in modo organico, con presunti interventi di prevenzione, portati avanti nelle scuole e spesso privi della necessaria possibilità di essere verificati nella loro efficacia. Vi è la prospettiva di riuscire a trovare strumenti e parametri per valutare la misura in cui gli aspetti relazionali, come l’empatia, l’accettazione, lo spirito collaborativo possano influire sugli esiti dei trattamenti per le dipendenze. Capitolo 5: Servizio sociale e persone con disabilità. 5.1. La disabilità. Al giorno d’oggi, gli individui invalidi, sia per nascita che per accidenti della loro vita, rientrano nella categoria dei poveri e dei diversi, indipendentemente dal fatto che la loro condizione manifesti un disagio fisico, sensoriale o psichico. Per molti decenni, dalla fine dell’800, l’assistenza a queste persone è stata affidata alle IPAB nell’ambito degli interventi rivolti ai poveri in stato di malattia e invalidità. A seguito degli eventi bellici della Prima guerra mondiale, lo Stato italiano inizia a considerare i bisogni dei mutilati e invalidi di guerra con provvedimenti specifici, sia di natura economica che sanitaria; successivamente i benefici sono stati estesi anche agli invalidi civili per cause di guerra e agli invalidi civili per cause di servizio e di lavoro. Nelle situazioni di maggiore gravità, ha prevalso comunque, l’ottica custodialistica: gli invalidi, i mutilati, i malati psichici erano collocati in ricoveri per anziani e per invalidi, se non nei manicomi. I valori dell’integrazione e dell’inclusione emergono come esigenza di sviluppo civile e sociale solo nella seconda metà del secolo scorso, sostenuti dalla Costituzione e da un progressivo cambiamento nella cultura e nella considerazione delle persone con disabilità: sempre di più si comprende la correlazione tra malattia-deficit (da cui deriva la disabilità) e l’handicap, che costituisce lo svantaggio che la persona vive a causa o in ragione della menomazione e della disabilità ed è strettamente connesso alle condizioni sociali, economiche, culturali e ambientali. Quando si parla di handicap di una persona, non si può non considerarlo correlato alla presenza o meno di sistemi di prevenzione e riabilitazione, sia medici che sociali. Nella seconda metà del secolo scorso si è data molta rilevanza al corretto riconoscimento della menomazione nei suoi segni e sintomi: la prima “classificazione internazionale delle malattie (ICD)” elaborata dall’OMS nel ’70, risponde all’esigenza di cogliere la causa delle patologie, formando per ogni sindrome e disturbo una descrizione delle principali caratteristiche cliniche e indicazioni diagnostiche. L’ICD rivela dei limiti nella comprensione del fenomeno e induce l’OMS a elaborare nel 1980 un nuovo strumento, ossia la “classificazione internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap (ICIDH)”, la quale introduce il concetto dell’influenza esercitata dal contesto ambientale sullo stato di salute, inteso come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, la sua globalità e l’integrazione con l’ambiente. Elementi critici presenti in tale strumento, hanno portato l’OMS, nel ’99, ad una seconda elaborazione, che rappresenta una tappa evolutiva del modello concettuale sviluppato poi nell’ultima “classificazione internazionale del funzionamento, delle disabilità e della salute (ICF)” nel 2001. Quest’ultima si delinea come una classificazione che vuole descrivere lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti esistenziali, al fine di cogliere le difficoltà che nel contesto socioculturale di riferimento possono causare disabilità. Tale classificazione è profondamente innovativa, perché pone al centro la persona sana, intesa come individuo in stato di benessere psicofisico, e non le limitazioni e i deficit che di fatto la ostacolanoin essa, oltre ai fattori biomedici e patologici, vengono considerati anche quelli riguardanti l’interazione sociale e l’approccio diventa così, multiprospettico: biologico, personale, sociale. 5.2. Ambiti istituzionali e normativa essenziale. La nostra Costituzione introduce una nuova concezione di persona, nelle sue differenti esperienze e caratteristiche, apre a una dimensione di umanità fino ad allora sconosciuta, introducendo valori innovativi: eguaglianza, solidarietà, diritto al lavoro, tutela delle persone invalide, tutela della salute, libero accesso alla scuola, diritto all’assistenza sociale, all’educazione e all’avviamento professionale (art. 2, 3, 34, 38). Il nuovo Parlamento democratico, tuttavia, non è sempre riuscito a raccogliere la sfida dei principi costituzionali e darne attuazioneè con la legge n.482 del ’68, e, ancor meglio, con la legge n.118 del ’71, che si dà inizio a un percorso nuovo, volto all’integrazione attraverso l’inserimento scolastico, lavorativo e professionale; le provvidenze economiche, l’assistenza sanitaria, l’eliminazione delle barriere architettoniche, sia negli spazi pubblici che nelle abitazioni private (legge n.12 del 1989). L’inserimento scolastico del bambino e del giovane con disabilità è stato caratterizzato, sino alla fine degli anni ’60, da un approccio prevalentemente medico, con una situazione di diffusa emarginazione e istituzionalizzazione che lo separava dal contesto familiare e socioambientaleda qui la creazione di scuole speciali, finalizzate all’educazione solo degli alunni con handicap, al fine di correggere il difetto conseguente alla minorazione, trascurando la personalità globale del bambino e il suo bisogno di dialogo con i coetanei e con l’ambiente sociale. In alcune scuole però, si erano sperimentate classi integrate, in cui anche i bambini con disabilità trovano accoglienza e formazioneè così che l’art.28 della legge 118/1971, in conformità agli art.34, 37 e 38 della Costituzione, apre loro le porte nella scuola per tutti: “l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvo i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l’apprendimento o l’inserimento nelle predette classi.” Essa stabilisce, inoltre, che i Comuni debbono mettere in atto il trasporto scolastico e l’eliminazione delle barriere architettoniche per garantire l’accessibilità degli edifici scolastici, delle aule e dei servizi igienici.  Solo con la legge n.517 del ’77, viene reso effettivo il principio dell’integrazione scolastica dei bambini disabili attraverso l’eliminazione delle classi differenzialiquesta legge istituisce formalmente le classi aperte, al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione della personalità degli alunni.  Con la legge n.180 del ’78 cambia radicalmente l’ottica dei servizi rivolti alle persone con malattia mentale, sostituendo la visione custodialistico-autoritaria con quella volta al prendersi cura della persona nel suo ambiente: si pone fine alla discriminazione nei confronti dei malati di mente rispetto agli altri ammalati.  La legge n.833 del ’78 introduce concetti fondamentali anche per le persone con disabilità sostenendo la priorità della prevenzione, insieme con la cura e la riabilitazione.  La legge n.104 del ’92 “legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” pone al centro la persona, nelle proprie diversità e nel suo percorso di vita, richiedendo l’attuazione di politiche attive volte a cambiare l’ambiente per renderlo più accogliente e fruibileprevenzione, rimozione delle situazioni invalidanti, integrazione sociale, sono i principi cardine che dovranno trovare attuazione nei diversi ambiti considerati dalla normativa: nella scuola, nel lavoro, nella sanità, nei trasporti e nel tempo libero. Secondo l’art.3, le persone riconosciute in tale condizione hanno diritto all’accesso ai servizi e alle prestazioni in modo prioritario.  A integrazione della legge quadro, la legge n.162 del ’98, sollecita le Regioni a introdurre programmi di aiuto alla persona, mediante piani personalizzati per i soggetti che ne facciano richiestaindipendenza e autonomia diventano obiettivo di vita di molte persone con disabilità e assumono un rilevante significato culturale o operativo per i servizi sociali e sanitari e diventano un impegno per le comunità locali.  La legge n.328 del 2000, all’art.14, prevede la collaborazione dei servizi sociali e dei servizi sanitari per la realizzazione del progetto di vita della persona con disabilità; all’art.22 sono riconosciuti tra i LEP, le misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti e incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana; la realizzazione, per i soggetti in condizione di gravità, di centri socioriabilitativi, di servizi di comunità e di accoglienza per quelli privi di sostegno familiare, nonché l’erogazione di prestazioni per la sostituzione temporanea delle famiglie nei limiti delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali.  Di rilievo risulta essere anche la legge n.68 del ’99, “norme per il diritto al lavoro dei disabili”, con la quale cambia l’ottica della normativa preesistente, focalizzata sul collocamento obbligatorio, per aprirsi alla logica del collocamento mirato, affidato alle Regioni (posto di lavoro adeguato a seconda delle caratteristiche della persona, attraverso l’analisi dei posti di lavoro, forme di sostegno, soluzione dei problemi connessi agli ambienti), attraverso il Servizio inserimento lavorativo disabili (SILD). Come diritto al lavoro, la promozione dell’inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone con disabilità riguarda persone con deficit psichico, fisico, sensoriale e intellettivo, persone invalide al lavoro, ciechi assoluti o con residuo visivo, sordi dalla nascita o prima dell’apprendimento della lingua parlata. Permane inoltre, l’obbligo dei datori di lavoro pubblici e privati alle assunzioni obbligatorie, che riguarda il 7% dei lavoratori occupati se occupano più di 50 dipendenti; 2 lavoratori se ne occupano da 36 a 50; 1 lavoratore se impiegano dai 15 ai 35 dipendenti.  Di particolare interesse anche la legge n.6 del 2004, istitutiva dell’Amministrazione di sostegno, che apre a una forma nuova di affiancamento e tutela delle persone che non sono in grado di provvedere autonomamente ai propri interessi.  La legge n.67 del 2006, “Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”, ha istituito una tutela giudiziaria che garantisce loro un sistema di accesso agevolato nelle procedure: “si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.”  Con la legge n.18 del 2009, l’Italia ha ratificato e reso esecutiva la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, la quale intende promuovere e tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone con disabilità, assicurandone il pieno ed equo godimento. Le priorità su cui essa si fonda sono:  Accessibilità di tutto per tutti;  Adozione di accomodamenti ragionevoli;  Rafforzamento del ruolo delle organizzazioni di rappresentanza;  Diffusione di buone prassi sulla disabilità nel processo globale di sviluppo. La Convenzione introduce anche una modifica del lessico: da “persona handicappata” a “persona con disabilità”, al fine di spostare l’accento dalle minorazioni alle abilità e alla completezza dell’individuo in rapporto all’ambiente in cui vive. 5.3. Il servizio sociale professionale: funzioni e responsabilità. L’ evoluzione culturale è testimoniata sia dalla normativa che nel tempo ha ridefinito obiettivi e strategie operative, sia dai cambiamenti nei sistemi di classificazionesi è passati da un modello medico, che considerava la persona disabile solo per gli aspetti patologici, diagnostici e prognostici, a un modello psicosociale importante. Con il modello sociale, ideato da Mike Oliver nell’ ’81, si apre una prospettiva operativa nuova, anche per le professioni sociali ed educative, un tempo impegnate a svolgere funzioni di supporto agli specialisti dell’area sanitariaquesto nuovo modello chiama in causa le competenze dell’assistente sociale come esperto del territorio, delle relazioni, dei contesti familiari e di prossimità; l’assistente sociale è chiamato a concorrere alla comprensione di quali problemi specifici sono vissuti dalle persone con disabilità, considerando la totalità dei fattori ambientali e culturali che rendono disabili. dalla comparsa improvvisa di agenti pericolosi di origine naturale o antropica, i quali non possono essere controllati tramite la conoscenza esistente”. Proprio in tale contesto di crisi acuta, l’as può esprimere la capacità della propria professione di saper affrontare la realtà di crisi per riordinare gli elementi sparsi e ricomporre itinerari costruttivi e riconoscibili. Le caratteristiche dei contesti emergenziali si intersecano con le funzioni del Servizio sociale che si pone tra l’individuo, il suo bisogno e le risorse istituzionali e della comunità in un’ottica di promozione, di sviluppo e di valorizzazione. 6.2. Il sistema della protezione civile. In Italia il sistema di risorse, mezzi e poteri che garantisce l’organizzazione e il coordinamento dei soccorsi in caso di emergenza, è la Protezione civilequest’ultima viene definita dalla legge di riordino n.100 del 2012 come “l’insieme delle attività e dei compiti messi in campo dallo Stato al fine di tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni che derivano dalle calamità”. Gli ambiti d’azione fondamentali sono:  la previsione: attività dirette all’identificazione degli scenari di rischio probabile e dove possibile, al preannuncio, monitoraggio, sorveglianza e vigilanza in tempo reale degli eventi e dei conseguenti rischi;  la prevenzione: attività volta a evitare o ridurre al minimo la possibilità che si verifichino danni conseguenti agli eventi calamitosi, la quale si svolge attraverso azioni di allertamento, pianificazione, informazione alla popolazione ed esercitazioni;  il soccorso: attuazione di interventi integrati e coordinati diretti ad assicurare alle popolazioni colpite ogni forma di primo soccorso;  il superamento dell’emergenza: attuazione coordinata con gli organismi istituzionali competenti, delle iniziative necessarie e urgenti volte a rimuovere gli ostacoli alla ripresa delle normali condizioni di vita. La Protezione civile è un servizio e una funzione attribuiti a un sistema complesso costituito da tutte le amministrazioni centrali dello Stato, le Regioni, Prefetture, Comuni e Comunità montane, che vi provvedono secondo i rispettivi ordinamenti e le rispettive competenzeaccanto alle amministrazioni dello Stato vi sono poi le strutture operative che hanno il compito di svolgere le attività previste dalla legge con compiti di supporto e consulenza per tutte le istituzioni che provvedono al Servizio nazionale della protezione civile (es. Vigili del fuoco). La Protezione civile agisce secondo il principio di sussidiarietà riconoscendo che, qualunque sia la natura e la gravità dell’evento, la prima risposta all’emergenza deve essere garantita a livello locale dall’istituzione più vicina ai cittadini, ossia il Comune (il Sindaco è la prima autorità di protezione civile ed ha il compito di assumere la direzione dei servizi di emergenza sul territorio del Comune, nonché il coordinamento dei servizi di soccorso e di assistenza alla popolazione colpita). Nel caso in cui l’evento non possa essere fronteggiato con i soli mezzi del Comune, si mobilitano i livelli superiori delle istituzioni pubbliche: Provincia, Regione, Stato, attraverso un’azione coordinata e integrata. 6.2.1. La pianificazione di emergenza e i piani di protezione civile: Lo strumento di riferimento per la pianificazione nel campo dell’emergenza utilizzato dalla Protezione civile italiana è il metodo Augustus, derivante dalla frase di Ottaviano Augusto secondo cui “il valore della pianificazione diminuisce con la complessità dello stato delle cose”ideato nel 1996, rappresenta una sorta di manuale operativo di tutte le attività connesse, prima, durante e dopo il verificarsi di un evento calamitoso. Esso si fonda sul principio secondo cui di fronte a situazioni complesse ed estreme (crisi) occorre rispondere con una pianificazione semplice e flessibile. La sua importanza sta nel fornire un indirizzo operativo e concettuale per affrontare un’emergenza che parte dall’analisi dei rischi presenti sul territorio al fine di delineare con chiarezza un metodo di lavoro per l’individuazione e l’attivazione delle procedure necessarie a coordinare le attività di protezione civile. I Piani di Protezione civile sono l’elaborazione coordinata delle procedure operative di intervento da attuare nel caso si preannunci e/o si verifichi l’evento atteso contemplato in un apposito scenario di riferimento, redatti dai Comuni e dagli altri enti individuati dalla normativa vigente per gestire bene un’emergenza ipotizzata nel proprio territorioall’interno di un Piano di Protezione civile comunale viene descritto il modello di intervento della sua struttura di Protezione civile denominata Centro operativo comunale (COC), in cui vengono individuati i responsabili delle funzioni di supporto, le aree di ricovero e di accoglienza delle persone, le risorse e i mezzi da mettere in campo, e vengono stilati appositi elenchi che individuano le categorie di popolazione più fragile e vulnerabileè necessario che tale Piano rientri nelle conoscenze dell’as. 6.2.2. La “Funzione 2. Sanità, assistenza sociale e veterinaria”: Nel caso di attivazione del COC, la funzione di riferimento per l’as in caso di emergenza esplica attività in sinergia con le altre funzioni previste e attivate dal sindaco in caso di emergenza, per:  il soccorso alla popolazione e agli animali, cercando di riportare al più presto le condizioni di normalità, secondo i propri piani sociali, sanitari e veterinari di emergenza;  garantisce l’assistenza alle persone più fragili;  gestisce l’accesso della popolazione sfollata alle strutture di accoglienza/ricettive individuate precedentemente e riportate nel piano di protezione civile;  Coadiuva il volontariato nella gestione dei campi di accoglienza. 6.2.3. La protezione civile e l’assistenza sociale alla popolazione:  Il D.M. 13/02/2001 nasce dall’esigenza di definire un modello nazionale di piano sanitario da adottare nelle emergenzeal suo interno vengono individuate ed elencate le attività della Funzione 2, tra le quali, oltre all’igiene mentale e all’assistenza psicologica, vengono considerate anche l’assistenza sociale, domiciliare e geriatrica (cura degli anziani).  Il D.P.C.M. 13/06/2006 riconosce l’importanza di prestare, nel contesto degli interventi a sostegno delle vittime di eventi catastrofici, massima attenzione ai problemi di ordine psichiatrico-psicologico che possono manifestarsi nelle popolazioni colpite e nei loro soccorritori e avvia l’équipe psicosociale per l’emergenza (EPE)tale équipe viene costituita in ambito regionale, di norma utilizzando le risorse esistenti nel sistema sanitario, e si compone di medici psichiatrici e psicologi formati. È il sisma che ha colpito l’Abruzzo nel 2009 a far emergere l’importanza della presenza del servizio sociale all’interno di contesti emergenziali e a promuovere la riflessione della Protezione civile su un possibile modello operativo per una più adeguata assistenza sociale alla popolazione. Dopo anni di riflessione, la Conferenza unificata del 24/02/2013 approva il progetto del Dipartimento della Protezione civile denominato Posto di assistenza sociosanitaria (PASS), una struttura non urgentistica con la finalità di supportare il sistema sociosanitario territoriale colpito dalla catastrofe e di contribuire a ripristinare, al più presto, il livello di assistenza sociosanitaria preesistente all’evento. Questa struttura è configurata con la presenza di almeno 5 aree:  Medici di medicina generale;  Pediatri di libera scelta;  Servizio infermieristico;  Psichiatri e psicologi;  Assistenti socialiil progetto definisce i compiti di essi e il numero minimo richiesto per poter attivare tale intervento. 6.3. Il servizio sociale in emergenza: cenni storici. L’importante contributo del servizio sociale in contesti emergenziali è riconosciuto anche nel Codice deontologico dell’assistente sociale, che all’art.40 cita “In caso di calamità pubblica o di gravi emergenze sociali, l’as si mette a disposizione dell’amministrazione per cui opera o dell’autorità competente, contribuendo con la propria competenza a programmi e interventi diretti al superamento dello stato di crisi”. La presenza degli assistenti sociali è stata molto importante fin dai primi momenti dopo l’impatto con l’evento calamitoso, perché la popolazione riconosceva in questi professionisti dell’aiuto la capacità di ascolto e di accoglienza della persona. Gli eventi però, ai quali si può ricondurre l’inizio di una vera e propria riflessione del mondo professionale sul proprio ruolo all’interno dei contesti emergenziali e all’interno del sistema di protezione civile sono 2: il sisma dell’Abruzzo (venne attivato un Ufficio di segretariato sociale, con la finalità di attivare interventi, raccolta e analisi dei bisogni, sostegno alle persone nelle tendopoli) e quello dell’Emilia Romagna (attivazione di un numero di telefono al quale potessero rivolgersi sia i cittadini che gli assistenti sociali; elaborazione di una procedura di attivazione delle disponibilità di as a supporto dei servizi sociali delle zone terremotate). 6.3.3. Il modello organizzativo del servizio sociale in emergenza: Sul piano operativo il modello organizzativo si configura in 2 direzioni: I. la 1° è interna al servizio sociale del territorio interessato dall’emergenza, costituita dai propri operatori di riferimento e dalle organizzazioni socioassistenziali locali, pubbliche e private; II. la 2° è costituita dagli assistenti sociali esterni e volontari che intervengono a supporto dei colleghi e dei servizi nella gestione dell’emergenza. 6.3.4. L’assistente sociale del territorio: è necessario saper distinguere l’urgenza dall’emergenza: la situazione di urgenza richiede pronta soluzione, intervento immediato per soddisfare i bisogni primari. Durante la prima fase dell’emergenza, l’azione del servizio sociale territoriale tende a modificarsi, anche in modo non consapevole, per necessità:  il personale viene coinvolto in prima linea nel supporto alla popolazione e l’organizzazione degli interventi e dei servizi per i cittadini insieme agli impiegati di altri uffici;  il contesto di lavoro è caratterizzato dall’assenza dei mezzi abituali e da un’interruzione dell’attività ordinaria per la presenza di bisogni urgenti e primari;  la popolazione ha bisogno di avere risposte concrete e chiare in tempi rapidi;  le informazioni disponibili agli operatori sono frammentarie e precarie;  vengono attivati luoghi di riferimento per i cittadini, in cui si organizzano l’accoglienza, l’ascolto e l’orientamento delle persone;  si gestisce la raccolta delle offerte di beni per la popolazione e gli abbinamenti con i cittadini che richiedono aiuto. 6.3.5. L’assistente sociale volontario a sostegno dei colleghi: Negli scenari di emergenza, oltre al personale territoriale coinvolto, afferiscono professionisti che, non colpiti dall’evento, decidono volontariamente di sostenere i colleghi e i servizi territoriali in difficoltàanche in questo caso vi è un modello organizzativo che consente agli assistenti sociali di intervenire con competenza e adeguate capacità:  è necessario intervenire garantendo tempestività e continuità nella presenza, in modo tale da essere di maggior aiuto ai colleghi del territorio;  essere esterni ed estranei alle dinamiche e alla stanchezza accumulata dai colleghi e dalle istituzioni permette ai volontari di poter accogliere e gestire con maggior serenità le dinamiche conflittuali che possono nascere tra la popolazione nei confronti dell’amministrazione;  l’as volontario deve essere formato a esercitare il sostegno ai colleghi, in quanto, anch’essi possono aver bisogno di uno spazio personale nel quale condividere l’esperienza vissuta;  lo stile di lavoro dell’as volontario deve essere caratterizzato da flessibilità, disponibilità alla collaborazione e spirito di adattamento. L’emergenza è caratterizzata da una rapida individuazione e soluzione dei problemi e dalla capacità di definire una scala di priorità degli interventi da mettere in atto.  Dagli anni ’80 al 2015 : norme in materia di adozione e affido, volte alla protezione e tutela dei figli minorenni. Un secondo gruppo di leggi che interessa la realtà familiare è costituito dalle norme che in vario modo mirano a sostenere e aiutare la famiglia (art.31)si tratta delle “politiche rivolte alla famiglia”, ossia quell’insieme di interventi e servizi che le leggi hanno costruito nel tempo a supporto della famiglia. Tra le diverse normative che intervengono in questo ambito, si possono evidenziare alcune direzioni in cui si sviluppano le politiche e i servizi per la famiglia:  La conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di cura: la legislazione italiana prevede la possibilità per i lavoratori di prendere congedi per la madre e per il padre entro una certa età del bambino e allo stesso modo sono previste alcune agevolazioni per i lavoratori nella cui famiglia sia presente una persona non autosufficiente;  Il sostegno alla coppia e alla genitorialità: vi sono interventi di vario genere, che possono essere ricondotti a 3 macro-tipologie: I. Servizi che aiutano la coppia sia nelle scelte normali della vita sia nei momenti di criticità, o quando, dopo una separazione, è necessario trovare il modo per continuare a essere genitori per il benessere dei figli; II. Servizi volti a informare/formare le coppie circa il mestiere dei genitori (es. periodo dell’adolescenza); III. Servizi di supporto ai genitori che lavorano e hanno figli piccoli, come gli asili nido o altri servizi per la prima infanzia.  L’aiuto/sostegno domiciliare e i servizi di sollievo: il focus di questi servizi è costituito dal lavoro di cura, svolto a favore di persone disabili/anzianeoltre ai congedi vengono predisposti servizi di assistenza domiciliare a livello territoriale nei Comuni, in molti casi in coordinamento con i servizi sanitari, per garantire le diverse tipologie di cure di cui una persona ha bisogno e a cui la famiglia non riesce a far fronte da sola. Per alcuni ambiti di particolare gravità, vengono previsti i “servizi di sollievo” (es. centri diurni).  Le agevolazioni fiscali e i sostegni economici: nella legislazione italiana possiamo distinguere 2 tipi di interventi: I. Quelli rivolti alle famiglie con i figli minorenni (es. bonus bebè); II. Quelli rivolti alle persone disabili e, indirettamente, alle loro famiglie (es: pensioni e altri sostegni al reddito). Un’altra tipologia di intervento presente nella Legge 328/2000, è il “Prestito d’onore”, ossia un prestito a tasso zero, garantito dai Comuni, per giovani coppie che si accingono a metter su famiglia o per famiglie che si trovano in un momento di difficoltà economica. 7.3. Il servizio sociale e il lavoro con le famiglie. Oggi, l’attenzione al contesto familiare rappresenta in un certo modo la lente attraverso la quale l’as deve guardare a ogni persona che incontra e con la quale intraprende un processo di aiuto. Già nella prima fase del lavoro con la persona, quando occorre individuare il problema e le risorse a disposizione per affrontarlo, l’assistente sociale cerca di capire in quale contesto familiare quel soggetto si colloca. Successivamente a questa prima valutazione potrà in alcuni casi essere utile e necessario, insieme alle risorse dell’interessato e a quelle messe in campo dall’assistente sociale attraverso il servizio in cui opera, coinvolgere nel processo di aiuto uno o più componenti della famiglia. In ogni caso, il lavoro sociale con le famiglie si sviluppa in maniera diversa a seconda dei contesti:  Famiglia, coppia e genitorialità: il lavoro in questo ambito viene svolto dall’as all’interno di 3 contesti organizzativi: I. Consultori familiari (servizi sociosanitari che rientrano nelle ASL) : l’as opera in équipe con altre figure professionali e ha tra i suoi compiti quello del sostegno a tutti gli aspetti della normalità della coppia, dalle relazioni tra i componenti agli aspetti connessi alla gestione della sessualità, alla scelta del come e quando diventare genitori. II. Servizi sociali comunali; III. Centri per le famiglie: il lavoro di sostegno e consulenza alla genitorialità ha visto svilupparsi nuove realtà, compresi veri e propri centri per le famiglie, nella maggior parte dei casi gestiti da cooperative o associazioni, in collaborazione con i Comunitali collaborazioni possono avere forme giuridiche diverse, ma in generale prevedono che i Comuni mettano a disposizione delle cooperative risorse economiche, che vengono da queste utilizzate per organizzare la gestione del Centro.  Un primo ambito di intervento a favore della genitorialità riguarda, la normalità dei cicli di vitaqui troviamo tutti quei servizi raggruppati nei “percorsi nascita”, volti a favorire uno svolgimento positivo dell’esperienza, da prima a dopo il parto ai primi tempi di vita del bambino (es. incontri di gruppo per mamme).  un altro aspetto è quello dell’informazione/formazione sulla genitorialità, nella consapevolezza che le competenze di tipo educativo e relazionale per favorire la crescita dei figli non siano necessariamente “date”, ma bensì apprese, migliorate (es. seminari, momenti di incontro e confronto tra famiglie, vere e proprie scuole per genitori).  spesso accade che la famiglia, o un membro di essa, si rivolga all’as ad esempio chiedendo un sostegno per pagare la mensa scolastica di un figlio e pian piano emerga che ci sono problemi nella gestione di un altro figlio, ossia che da una singola richiesta venga fuori molto altro. I percorsi di aiuto, brevi o lunghi, iniziano per lo più con un lavoro di informazione, orientamento e consulenza sulla responsabilità genitoriale e proseguono attraverso varie tipologie di interventi, a seconda dei problemi che di volta in volta vengono individuati, ad esempio:  sostegno educativo domiciliare: viene realizzato attraverso la figura di un educatore, che si inserisce nel contesto familiare per affiancare i genitori nello svolgimento del loro ruolo nei confronti dei figli, lì dove la loro responsabilità si presenta fragile. Si tratta di un intervento che a volte si colloca in un contesto in cui è già intervenuto il Tribunale, in altri casi è una preziosa misura preventiva che sostiene i genitori in un momento di difficoltà e li accompagna in un percorso di piena riacquisizione della propria capacità genitoriale.  la mediazione familiare : interviene lì dove c’è una separazione o divorzio, in particolare quando tale percorso porta con sé strascichi di vere e proprie contese tra gli ex coniugi, in cui i figli vengono usati come armi l’uno contro l’altro. Essa costituisce uno spazio per i due adulti coinvolti, alla presenza di un professionista, per ripensare le relazioni tra i membri della famiglia e per cercare di continuare a essere genitori anche quando non si è più coppia.  adozione: la genitorialità adottiva presenta caratteristiche diverse da quella biologica, di cui è importante tener conto: dalla durata dell’attesa (più di 9 mesi); il bambino ha già, nella maggior parte dei casi, un proprio “zainetto” di vita vissuta; presenza di un sistema che, a differenza della genitorialità biologica, deve valutare le capacità della coppia. In tale ambito l’as riveste un ruolo delicato, sia quando si trova a svolgere, insieme allo psicologo, l’indagine sulla coppia aspirante adottiva, sia nel successivo accompagnamento durante il periodo di affido preadottivo, dopo che si è formata la nuova famiglia.  Famiglia e disabilità: in questo ambito l’as, operante nei diversi servizi, non può fare a meno di collocare la persona con disabilità nel contesto familiare, il quale rappresenta la risorsa da cui partire, valorizzandola e sostenendola anche attraverso gli strumenti che le politiche sociosanitarie mettono a disposizione, per limitare il più possibile il rischio della solitudine nel prendersi cura del proprio familiare. In alcuni casi sarà necessario mediare tra le richieste dei genitori e le esigenze e le potenzialità dei figli.  Famiglia, anziani e non autosufficienza: l’as avrà, nella maggior parte dei casi, un primo contatto con un familiare dell’anzianoin tali situazioni il primo lavoro da svolgere riguarda il sostegno e l’orientamento in un sistema di servizi spesso poco o mal conosciuto; più in generale, si tratta di tenere insieme le esigenze dell’anziano e quelle dei suoi familiari, che talvolta sembrano andare in direzioni opposte. Altro aspetto fondamentale è quello del sostegno ai familiari caregiver, cioè coloro che si prendono cura dell’anziano, che può avvenire attraverso la promozione di gruppi di auto-mutuo-aiuto.  Famiglie migranti: nella maggioranza dei casi, arriva in Italia, inizialmente, un solo componente del nucleol’as si troverà dunque a interagire con una famiglia divisa dalle distanze, in cui gli affetti vengono mantenuti attraverso canali indiretti: una famiglia assente fisicamente ma intensamente presente dal punto di vista emotivo. Altro aspetto fondamentale è quello delle differenze culturali, delle quali non sempre gli operatori sono consapevoliè necessario, là dove questo possa costituire un limite alla costituzione di un rapporto di fiducia, porsi l’interrogativo rispetto al modello culturale familiare della persona che abbiamo davanti, perché spesso quella che ci può sembrare un’informazione non veritiera, fa semplicemente riferimento a un codice culturale diverso dal nostro. Nelle coppie miste l’as deve porre ancora più attenzione a entrare in contatto con le dinamiche della coppia, nella consapevolezza che, ad esempio in una mediazione familiare, sarà facilmente portato a condividere la lettura dei problemi con chi tra i due ha una visione del mondo più simile alla propria.  Tra povertà e disagio: le famiglie multiproblematiche: si tratta di nuclei in cui sono presenti vari problemi, che interessano più membri, talvolta anche tutti; si tratta di famiglie che richiedono l’intervento di più servizi e professionisti, spesso anche per più generazioni. La difficoltà economica costituisce spesso il motivo per cui si rivolgono all’as, ma dietro a questa si rivela la presenza di un ampio ventaglio di povertà di: risorse psicologiche e culturali nell’affrontare da soli quelli che per altri sono i normali passaggi tra cicli di vita diversi; capacità di gestire adeguatamente il denaro, ritrovandosi ciclicamente in presenza di debiti e pagamenti arretrati; relazioni che favoriscano l’autonomia e lo sviluppo dei singoli membri, per cui questi nuclei sembra che in ogni momento stiano per disgregarsi, ma poi si tengono così strettamente uniti da non riuscire a pensare, ad esempio, che un figlio cresca e possa separarsi dai genitori. Occorre che i diversi servizi e professionisti che si occupano di tali famiglie, si integrino tra loro, cercando di realizzare insieme una presa in carico globale della famiglia, prima ancora di cercare ognuno di individuare il miglior intervento per il proprio utente. Inoltre, è importante aiutare questi nuclei a trovare quelle risorse nascoste, rintracciabili proprio grazie al rapporto di fiducia instaurato con un professionista. 7.4. Sfide e prospettive. Tra le molteplici sfide a cui è chiamato l’as nel lavoro con le famiglie, vi sono:  La violenza nelle relazioni di coppia: vi è ad oggi la presenza di alcuni specifici strumenti legislativi:  Legge n.154 del 2001, la quale prevede la possibilità per il giudice di decidere l’allontanamento da casa di chi commette violenza all’interno della famiglia;  Legge n.38 del 2009, contro lo stalking;  Legge n.119 del 2013, contro la violenza sulle donne, che prevede misure particolari nel caso la violenza si verifichi all’interno di una coppia. Accanto agli interventi del sistema giudiziario, un ruolo fondamentale in questo ambito è svolto dai servizi in cui l’as, a fianco di altri professionisti si muove lungo 3 direttrici: I. Il sostegno diretto e indiretto alla donna che decide di uscire dalla spirale della violenza; II. La promozione di nuovi progetti a tutela delle vittime di violenza (es. Codice rosa, ossia il servizio presente presso il Pronto soccorso ospedaliero e che offre alle donne che vi giungono uno spazio di ascolto e consulenza psicologica, medica e sociale); III. La promozione di interventi informativo-preventivi.  Tra oggi e domani: lavorare con le famiglie in ottica comunitaria: negli ultimi anni si stanno sviluppando nuove esperienze in cui le famiglie assumono maggiormente il ruolo di protagoniste, ossia:  Gruppi di auto-mutuo-aiuto: nascono nella seconda metà del secolo scorso, prima in ambito sanitario e con un focus individuale, tra persone che soffrono di una stessa malattia o disturbo e che, trovano, attraverso il colloquio e la condivisione, un sostegno reciproco. Negli ultimi decenni nascono gruppi di di interrompere volontariamente la gravidanza entro i primi 90 gg, quando la prosecuzione, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle condizioni economiche, sociali, familiari. In consultorio sono previsti uno o più colloqui con assistente sociale e psicologo per esaminare le ragioni che hanno portato la donna a prendere in considerazione l’IVG e per essere accompagnata e sostenuta, qualunque sarà la sua decisione definitiva, dopo una settimana di pausa dal primo colloquio. L’assistente sociale può illustrare eventuali soluzioni alternative all’IVG e indicare gli aiuti possibili durante la gravidanza e dopo il parto. I colloqui possono essere effettuati con la donna o, nel caso in cui lo desideri, con il padre del concepito, ma la decisione finale spetta alla donna. La delicatezza di tale situazione è maggiore quando la richiesta arriva da una minorenne, la quale può chiedere di interrompere la gravidanza con l’assenso di entrambi i genitori oppure senza il loro consenso. In quest’ultimo caso, dovrà ottenere l’autorizzazione all’IVG dal giudice tutelare che decide sulla base di una relazione dell’as all’interno della quale la richiesta di autorizzazione deve essere completata da motivi e argomentazioni utili a supportare la sceltala relazione costituisce l’atto finale di un processo di sostegno e di analisi accurata della situazione che comprende anche il tentativo di coinvolgere i genitori della ragazza. Inoltre, è curata anche l’informazione relativa al diritto della giovane di non riconoscere il figlio procreato e il diritto al parto segreto. durante ogni colloquio, l’as attiva l’ascolto empatico, cercando di comprendere e di non forzare i tempi, di offrire sostegno e appoggio; le domande poste sono prive di pregiudizi: si tratta di non usare toni giudicanti e punitivi, di non condizionare la decisione finale, ma di aiutare la giovane donna a compiere la sua scelta. 8.5. Interventi di promozione ed educazione alla salute: la peer education. Il tipo di intervento che qualifica una funzione importante dei consultori, è riferibile alla promozione ed educazione alla saluteper sensibilizzare cambiamenti di mentalità e partecipazione è opportuno intervenire nei luoghi di vita dei giovani, prima di tutto a scuola, e poi in luoghi di ritrovo e di socializzazione per attivare modalità educative che vadano oltre la sola informazionesi tratta di stimolare il pensiero critico dei giovani rispetto alle scelte di salute nei rapporti affettivi, nel rispetto dei propri e altrui valori. È necessario quindi, smontare con loro stereotipi e pregiudizi, alcune informazioni errate e valorizzare le loro competenze e risorse, aiutandoli ad acquisire capacità, autonomia nelle scelte di comportamento adeguate. Un metodo che ha rivelato efficacia nella promozione della salute è quello della Peer education, ossia educazione tra pari, basato sulla responsabilizzazione di alcuni componenti di un gruppo i quali, dopo essere stati formati, assumono un ruolo tutoriale all’interno del gruppo di appartenenza, realizzando specifiche attività con i loro pari. Si tratta di prevedere un percorso, articolato in 8/10 incontri, sui temi della sessualità, con una metodologia interattiva, compreso l’utilizzo di giochi relazionali e di media education. l’as può condurre incontri di formazione dei Peer tutor e successivamente accompagnarli nella preparazione del programma, affiancarli in alcuni incontri del primo ciclo con i loro compagni, in modo da rivedere eventuali distorsioni e, allo stesso tempo, incontrare gli insegnanti per attivare un intervento di rinforzo all’interno del percorso curriculare, al quale seguirà una riunione finale di valutazione dell’intervento. 8.6. Conclusioni. Non valorizzare i giovani e non investire su di essi significa assumersi la responsabilità di impedire alle future generazioni non solo di realizzare il proprio futuro, ma anche di non contribuire allo sviluppo del paese. Molte esperienze innovative svolte a livello locale chiamano in causa 2 livelli per ragionare e agire verso un cambiamento di paradigma: I. Quello delle politiche pubbliche, cioè si tratta di immaginare il futuro insieme ai giovani, all’interno di una logica di sistema, di comunità, di sviluppo locale che comprenda scuola, lavoro, sostegno all’imprenditorialità; II. Quello delle professioni e dei servizi, cioè una prospettiva che mira a promuovere, in modo partecipato, il benessere sociale e la qualità della vita di tutti coloro che vivono, abitano, lavorano in un determinato territorio, attraverso dispositivi che potenzino i legami sociali, le relazioni rispettose tra le diverse appartenenze, l’inclusione e la giustizia sociale, senza eludere i conflitti comunque presenti. Le connessioni da attivare chiamano in causa la Policy practice, ossia la capacità degli assistenti sociali sia di attivare relazioni stabili con gli amministratori locali sia di partecipare ai processi di influenzamento delle politiche sociali al fine di contribuire a un cambiamento di paradigma e di prospettiva di intervento: lavorare per e con tutte le persone, non solo quelle che presentano problemi di disagio sociale. Capitolo 9: Servizio sociale e giustizia: il settore penale minorile e penitenziario degli adulti. 9.1. Introduzione. Il termine “riabilitazione” riferito al campo penale e penitenziario rappresenta un modello, ispiratosi al positivismo, che sposta l’attenzione dal delitto al reo. Il contributo di autori classici (es. Marx), porta a mettere in discussione le concezioni morali di colpa e di retribuzione e a porre al centro dell’attenzione la verifica empirica di fattori oggettivi che hanno condizionato il reo e hanno determinato il delittovi è l’attenzione ad aspetti preventivi e di controllo della criminalità. Secondo la concezione riabilitativa, la sanzione non assume una funzione retributiva, ma è vista come un mezzo giuridico di difesa contro chi viola la legge penale, che deve essere, quando possibile, “riadattato” alla vita sociale, seguito in un percorso di risocializzante. Alla fine del XIX secolo, si è affermata una visione positivista dello Stato che ha il compito di svolgere degli interventi che devono andare a beneficio del reo, con l’obiettivo di liberarlo dalla condizione che lo ha portato a violare le norme penalil’autore di reato viene quindi sottoposto a uno specifico trattamento penitenziario, rispetto al quale, nel corso dei decenni, vi è un fiorire sempre più raffinato di tecniche, di istituti giuridici, di risposte dello Stato, anche diverse dal carcerequeste si sviluppano dapprima nei paesi anglosassoni, alla fine dell’800, attraverso la pratica della probation e delle misure alternative al carcere. Diviene crescente e fondamentale il ruolo degli esperti e delle loro competenze, nell’ambito delle discipline medico-psichiatriche, psicologiche, sociologiche e di servizio sociale. Elizabeth Fry, ricordata per la sua attività nel difficile contesto delle carceri statunitensi nella prima metà dell’800, sosteneva che “la pena non deve essere finalizzata alla vendetta, ma a ridurre il crimine e a riformare l’autore di reato”il suo impegno era quindi volto a sollecitare riforme del sistema penitenziario e a promuovere interventi innovativi per quell’epoca come: visite regolari nelle carceri da parte di persone esterne e istruzione e lavoro all’interno e anche successivamente all’uscita, grazie soprattutto all’opera di volontari. Come professione e come espressione di una competenza esperta, il servizio sociale si afferma:  svolgendo i propri compiti attraverso il lavoro di relazione con le persone e con soggetti della comunità/territorio; operando in rapporto con l’autorità giudiziaria competente nel settore penale-penitenziario, in modo da indicare a essa elementi di comprensione delle caratteristiche dell’autore di reato, del suo contesto di vita. Negli anni il servizio sociale assume compiti che coniugano aiuto e controllo, con l’obiettivo della risocializzazione del soggetto, attraverso un trattamento individualizzato, attuato con la pena, e che si differenzia a seconda delle condizioni della persona. Il fine che l’ideale riabilitativo intende raggiungere diventa il reinserimento nella società; vi è inoltre una sempre maggiore enfasi sul tema dei diritti della persona in generale, anche dei diritti delle persone private della libertà. L’assistente sociale assumerà nel tempo un ruolo importante proprio in funzione del reinserimento sociale della persona, non solo quella che sconta la pena in carcere, ma anche quella che segue percorsi esterni, ad esempio di misure alternative. 9.1.1. Cenni storici: Negli anni 50 del XX secolo si ha, in Italia, la prima formalizzazione dell’ingresso dell’assistente sociale nel sistema della giustizia penale, con la previsione di tale figura professionale nel settore minorilein quest’ambito vengono dapprima costituiti in modo formale gli Uffici di servizio sociale per minorenni (USSM), con la Legge n.888 del ’56, la quale ne definisce i compiti, che riguardano 3 aree di intervento: I. Le inchieste sociali , riguardanti i soggetti considerati dal Tribunale per i minorenni per un eventuale provvedimento; II. L’azione rieducativa rivolta ai minorenni collocati in istituto, inerente i rapporti con l’esterno; III. Svolgimento di un trattamento in ambiente esterno dei minorenni affidati al servizio sociale. Gli USSM sono strutture periferiche, dislocate sul territorio nazionale, le quali oltre al lavoro diretto sui singoli ragazzi, operano anche nell’ambito della conoscenza del fenomeno della devianza minorile, nella progettazione di interventi e nella ricerca sociale. Successivamente vi è la previsione di un organico di assistenti sociali da impiegare per il funzionamento degli Uffici stessi (Legge n.1085 del ’62). Il ruolo dell’as si sviluppa e si consolida nei decenni successivi, parallelamente all’evoluzione della legislazione penale minorile, caratterizzata dai mutamenti avvenuti con il D.P.R. n.448 dell’88. Già negli anni 50, dunque, viene formalizzato che l’intervento su persone che entrano nel circuito penale deve essere svolto, fra l’altro, mediante l’utilizzo di competenze finalizzate a: I. Conoscere il soggetto tenendo in considerazione il suo ambiente sociale e culturale, le sue relazioni, le sue risorse all’esterno; II. Promuovere percorsi individuali in un’ottica riabilitativa; III. Seguire le persone attraverso attività di trattamento, che possono essere svolte non solo all’interno degli istituti, ma anche all’esterno, nell’ottica dell’utilizzo di alternative al carcere. Il servizio sociale per i maggiorenni in ambito penitenziario viene istituito con la Legge n.354 del ’75essa prevede la costituzione dei Centri di servizio sociale per adulti (CSSA), strutture periferiche del ministero della Giustizia, all’interno delle quali è inserita la figura dell’as. Con la Legge n.154 del 2005, la denominazione dei CSSA viene modificata in Uffici di esecuzione penale (UEPE). La scelta metodologica e non casuale di inserire il servizio sociale prima nel settore minorile e poi in quello adulto, è incentrata sulla specificità di una professione che interviene sul piano delle relazioni della persona, a partire da quelle familiari, che lavora con la persona, aiutandola e accompagnandola in un percorso di riconoscimento di esperienze e difficoltà, ma anche di promozione di capacità e di risorse. L’opzione del servizio sociale, nel settore del penale minorile e nel penitenziario degli adulti, si basa su obiettivi di cambiamento sociale in favore delle persone, per migliorare le capacità di interazione di queste e quindi anche le loro competenze nel trovare risposte a problemi e difficoltà. L’aiuto alla persona si esprime, nell’ambito dei mandati istituzionale, professionale e sociale, anche con funzioni di controllo. 9.2. Il servizio sociale nell’ambito della giustizia.  Il servizio sociale nel penale minorile: Il D.P.R. 448/1988 segna un punto di svolta nel panorama del procedimento a carico di minorenni. Il 1988 ha comportato una rivoluzione del pensiero sulla materia rendendo la legislazione penale minorile italiana una delle più avanzate ed efficacisi è passati dalla centralità del reato commesso da un minorenne, a un sistema del tutto innovativo, che vede il minore protagonista della sua vicenda penale rendendolo soggetto portatore di diritti da garantire e da tutelare: diritto all’infanzia, all’affettività, all’amore, a uno sviluppo armonico delle sue capacità e della sua personalità, all’istruzione, a una famiglia e al conseguente sforzo che le istituzioni devono compiere al fine di rimuovere tutti quegli ostacoli sociali, economici e personali che possono rendere tale sviluppo difficile e doloroso (centralità del minore). il processo penale minorile deve rappresentare un’occasione per intervenire educativamente sul giovane, non inserendolo in un meccanismo di tipo tradizionale per il quale a ogni infrazione al Codice penale deve corrispondere la sanzione prevista, ma introducendo, come elemento decisivo, l’indagine sulla sua personalità (art.29) e un’analisi del senso del reato rispetto alla sua vita, al suo contesto, al suo percorso di crescita. Il concetto di intervento educativo si sostanzia attraverso la predisposizione di progetti individualizzati in cui divengono fondamentali azioni di tipo psicologico, relazionale, sociale, economico, sportivo, scolastico ecc. l’intero iter processuale diviene uno spazio in cui giustizia e recupero sono quasi sinonimi. Si è creata una netta separazione tra un’area penale esterna, contraddistinta dalla predisposizione di interventi in sede locale (es. abituale contesto di vita), e un’area penale interna, che vede ancora protagonista l’intervento costrittivo e detentivo presso gli IPM. Dal punto di vista organizzativo, la struttura competente per la giustizia minorile a livello centrale è il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità (DGMC) del ministero della Giustiziaesso è stato istituito a seguito di una recente riorganizzazione del ministero della Giustizia che ha unificato, a livello centrale ministeriale, l’organizzazione e la gestione dell’esecuzione penale esterna dei minori e degli adulti.  La messa alla prova nell’iter penale minorile. L’art.28 del D.P.R. 448/1988 disciplina la messa alla prova, provvedimento giudiziario qualificante l’intera normativa della giustizia minorile penalesi tratta di quell’istituto che dà sostanza ai principi del processo penale: I. Centralità del minore; Le inchieste, disciplinate da una complessa normativa, sono provvedimenti applicati nei confronti di autori di reato considerati socialmente pericolosila durata della loro applicazione è fissata dalla legge nel minimo, ma è indeterminata nel massimo: la pericolosità sociale, infatti, viene riesaminata dal giudice. Le misure di sicurezza possono essere detentive e non detentive (es. libertà vigilata)rispetto ad esse, il servizio sociale ha come principali competenze quelle di svolgere inchieste sociali e attuare interventi di sostegno e assistenza, finalizzati al reinserimento sociale;  Attività riconducibili alla gestione delle misure alternative al carcere e dei relativi programmi;  Attività di collaborazione con il carcere per le persone detenute: su richiesta delle direzioni degli istituti penitenziari, gli UEPE danno la loro consulenza per favorire il buon esito del trattamento penitenziario, concentrandosi in particolare su relazioni e risorse della persona esterne al carcere. Nello svolgimento di queste attività, il servizio sociale è tenuto a riferirsi alla magistratura di sorveglianza, e, nella collaborazione con l’autorità giudiziaria, l’attività dell’as ha esclusivamente funzione tecnico-professionale. Tra le diverse funzioni della magistratura di sorveglianza vi sono quelle relative alle misure alternative al carcere, ai benefici di legge per i condannati e alle misure di sicurezzapoiché tali funzioni incidono sul servizio sociale, è fondamentale citare alcune competenze del Tribunale di sorveglianza e del magistrato di sorveglianza, rispettivamente l’organo collegiale e quello monocratico: il Tribunale di sorveglianza decide sulla concessione delle misure alternative come:  Art.47 o.p.: affidamento in prova al ss;  Art. 94 T.U. n.94/1990 : affidamento per tossico-alcoldipendenti;  Art.47 ter : detenzione domiciliare. il magistrato di sorveglianza ha tra le sue funzioni più rilevanti quelle relative:  alla modifica delle prescrizioni nel corso delle misure alternative;  al potere di sospendere le misure stesse;  alla decisione sul riesame di pericolosità sociale;  all’applicazione, esecuzione, trasformazione e revoca delle misure di sicurezza;  alla decisione su alcuni benefici dei detenuti (es. permessi premio e lavoro all’esterno). Fondamentale è la Legge n.67 del 2014, la quale istituisce la messa alla prova anche per i maggiorenniin essa vengono specificate in modo articolato, anche attraverso il richiamo dell’art.72 o.p., le attività degli UEPE e quindi dell’assistente socialequeste riguardano 2 fasi: I. quella precedente alla concessione della messa alla prova, durante la quale l’UEPE è tenuto a effettuare un’indagine sociofamiliare e a redigere un programma di trattamento, sul quale occorre acquisire il consenso dell’imputato; la relazione scritta sull’indagine e la proposta di programma di trattamento vengono poi trasmessi al giudice del tribunale che decide; II. quella successiva alla concessione della messa alla prova, in cui l’as segue la persona durante tutto il periodo del beneficio, al termine del quale è tenuto a relazionare al giudice. Le modalità di applicazione e le tecniche di probation, nei diversi paesi, hanno un denominatore comune rappresentato da diversi fattori:  la sospensione del processo di punizione in un certo stadio dello stesso;  l’affiancamento alla persona di professionisti che hanno una funzione di sostegno e controllo durante il periodo di prova, nell’ottica del suo reinserimento sociale;  l’imposizione alla persona di restrizioni e obblighi (quelli di natura riparatoria, risarcitoria, di restituzione sociale), che sono più tenui rispetto a quelli della detenzione in carcere. Nell’ordinamento italiano, sia la messa alla prova che l’affidamento in prova al servizio sociale prevedono che la persona si adoperi per risarcire il danno. La messa alla prova prevede espressamente l’obbligo del lavoro di pubblica utilità, da svolgere presso enti convenzionati con i tribunali (ONLUS, volontariato); possono essere inoltre previsti, nell’ottica della giustizia riparativa, percorsi di mediazione penale tra imputato e parte offesa.  Gli interventi del servizio sociale tra aiuto e controllo. Il D.P.R. n.230 del 2000. Il regolamento di esecuzione dell’o.p. del 2000, contiene riferimenti diretti al servizio sociale operante negli UEPE, sia per quanto riguarda gli aspetti organizzativi sia soprattutto rispetto ai compiti istituzionali. 2 sono gli aspetti chiave del servizio sociale a cui porre attenzione: I. Il legame con il territorio: il servizio sociale penitenziario è chiamato a integrarsi nel territorio, a coordinarsi con altre istituzioni e servizi: l’UEPE ha il compito di coordinare le attività di competenza nell’ambito dell’esecuzione penale con quella delle istituzioni e dei servizi sociali che operano sul territorio; II. Il lavoro di rete/in rete. Occorre evidenziare che gli interventi di aiuto sono connotati dal fatto di essere realizzati nell’ambito di una relazione di natura professionaleuna relazione non scelta spontaneamente dalla persona, ma che ha inizio e dipende dalla situazione giuridico-penale della stessauna relazione che tuttavia evolve rispetto alla partecipazione del soggetto stesso e che è compito dell’as saper promuovere. Al suo interno, la persona sperimenta anche il rapporto con l’autorità e le funzioni di controllo dell’as. Gli interventi del servizio sociale, articolati in un processo unitario e personalizzato sono caratterizzati da:  L’offerta al soggetto di sperimentare un rapporto con l’autorità basato sulla fiducia nelle capacità personali di recuperare il controllo del proprio comportamento, senza interventi di carattere repressivo;  un aiuto che porti il soggetto a utilizzare meglio le risorse nella realtà familiare e sociale;  un controllo, ove previsto dalla misura in esecuzione, sul comportamento del soggetto che costituisca al tempo stesso un aiuto rivolto ad assicurare il rispetto degli obblighi e delle prescrizioni dettate dalla magistratura di sorveglianza;  una sollecitazione a una valutazione critica adeguata, da parte della persona, degli atteggiamenti che sono stati alla base della condotta penalmente sanzionata, nella prospettiva di un reinserimento sociale compiuto e duraturo. 9.3. Tendenze attuali, tra sfide e prospettive future. Con riferimento al penale minorile, la caratteristica principale del D.P.R. 448/1998, è quella di spostare il focus dell’intervento dal carcere minorile all’area penale esterna. Oggi il 95% dell’utenza in carico ai servizi dell’amministrazione della giustizia non conosce e non conoscerà mai l’esperienza carceraria. Per quanto attiene al settore penale-penitenziario degli adulti, vi è l’ampliamento delle attività relative all’esecuzione delle misure alternative, verificatosi nel periodo successivo all’indulto del 2006, e di quelle per la messa alla prova. Un cenno va fatto, infine, alle prospettive future della collaborazione tra il servizio sociale e i servizi psichiatrici del Servizio sanitario nazionale, una collaborazione già presente, sia per le persone detenute che per l’area penale esterna. Con riferimento particolare alle misure di sicurezza detentive vi è la recente abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e la successiva istituzione di strutture non più gestite dall’amministrazione penitenziaria ma dal Servizio sanitario nazionale, dette residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS). Capitolo 10: Servizio sociale e Welfare aziendale. 10.1. Introduzione. Molte ricerche sociologiche degli anni ’70 misero in evidenza l’importanza dei fattori psicologici sul lavoro rispetto a quelli meramente economici. Maslow, si occupò dei processi motivazionali ed elaborò la sua teoria sulla gerarchia dei bisogni, ossia: I. bisogni sociali : esigenza di sentirsi parte di un gruppo e di ricevere approvazione; II. bisogni di autostima e status sociale : necessari per sviluppare un senso positivo della propria identità; III. bisogni di autorealizzazione : esigenza umana di conquistare la propria identità di base a personali aspettative e potenzialità, di occupare un ruolo sociale. Tali bisogni influenzano le scelte significative di studio e di lavoro e sono soddisfatti quando l’individuo percepisce di aver raggiunto le mete che si è posto in relazione all’immagine che ha di sé. 10.2. Quadro di riferimento normativo per un welfare aziendale. Nei diversi momenti storici, il servizio sociale ha cercato di favorire processi di inclusione sociale e lavorativa attraverso alcuni enti territoriali prepostitra di essi, vi sono gli Uffici di collocamento provinciali, sostituiti nel 1997 dagli attuali Centri per l’impiego, che hanno nuove competenze e un ruolo più attivo e offrono ai cittadini servizi di informazione, accoglienza, preselezione, orientamento e collocamento mirato. Anche l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) ha fornito e continua a fornire sul territorio nazionale interventi di assistenza e servizio sociale. L’attuale normativa ha portato a una revisione della mission dell’INAIL, che ha trasformato l’ente in protagonista attivo del welfare, passando da una logica di tutela assicurativa a una che pone al centro del sistema la persona e che persegue come primario obiettivo il suo reinserimento nel contesto familiare, sociale e lavorativo. Riveste il delicato e indispensabile ruolo di collegamento tra l’assicurato e l’Istituto, offrendo interventi utili a garantire al lavoratore, soprattutto in caso di disabilità permanente derivante da infortunio sul lavoro o da malattia professionale, risposte adeguate ai suoi bisogni personali. Per le persone svantaggiate, l’inserimento lavorativo con la progettazione di percorsi personalizzati e finalizzati all'acquisizione o al ripristino di capacità e attitudini lavorative. Inoltre, un'importanza rilevante hanno avuto la nascita e lo sviluppo di esperienze cooperative aventi come ragione sociale l'inserimento lavorativo di soggetti deboli che il mercato del lavoro altrimenti emarginerebbe. Nelle aziende che considerano il benessere organizzativo come positiva interfaccia tra l'organizzazione e le sue risorse, si sta diffondendo una nuova sensibilità e attenzione alle esigenze dei propri dipendenti. È significativo sottolineare che, almeno in Italia, alcuni dei servizi alla persona forniti nelle imprese sono soggetti a regolamentazione degli art. 51, 95 e 100 del Testo unico in materia di imposte sui redditi (D.P.R. n.917 dell’86) e per la loro implementazione è possibile usufruire di agevolazioni fiscaliattraverso piani di welfare aziendale si può in questo modo ridurre il cuneo fiscale, cioè la differenza tra quanto costa un dipendente al datore di lavoro e quanto riceve al netto lo stesso, calcolata in percentuale sul salario lordo. Negli anni i contenuti di welfare aziendale si sono ampliatialla tutela pensionistica complementare e all'assistenza sanitaria integrativa, che ne costituiscono il primo ambito di sviluppo, si sono accompagnati i servizi di assistenza alle personesi tratta di un'area che comprende una varietà di servizi, in particolare rivolti a soddisfare le esigenze di cura e assistenza dei dipendenti e della loro famiglia. È un settore in crescita in tutti i paesi europei, che risponde alla profonda evoluzione demografica, sociale e culturale e degli stili di vita dei nostri tempigli interventi in questo settore sono stati più importanti in Italia per la storica debolezza del welfare pubblico, che sostiene poco la famiglia e carica su di essa compiti sempre più gravosi di cura di figli e anziani. I servizi di assistenza comprendono:  interventi a sostegno di vari tipi di disagio sociale e psicologico;  attività di assistenza a portatori di handicap, invalidi e familiari anziani, specie non autosufficienti;  attività per bambini e adolescenti. Una crescente importanza stanno assumendo le misure per la conciliazione fra lavoro e vita privata e per la condivisione dei ruoli in famiglia: dai congedi agli orari flessibili, al part-time, alla banca ore, al telelavoromisure del genere hanno un impatto positivo non solo sul benessere delle famiglie e sul clima aziendale, ma anche sullo sviluppo economico, perché contribuiscono ad accrescere il tasso di occupazione femminile, in Italia estremamente basso. Per quanto riguarda l’area dei figli, vengono offerti:  servizi prescolare educativi;  diagnostica precoce dei casi di disturbo dell’apprendimento;  laboratori di studio pomeridiani,  orientamento e assistenza ai genitori sul percorso di studio dei figli e per il dialogo con quest’ultimi su temi delicati. Per l’area del sé vi sono:  supporto nella gestione dei conflitti familiari;  supporto psicologico;  strumenti relazionali;  percorsi di crescita personale e incontri informativi su tematiche di interesse comune. III. dimissioni protette volte a garantire al paziente la continuità del percorso socioassistenziale all’interno del proprio contesto familiare e sociale o di un altro contesto protetto:  segnalazione e/o invio ai servizi sociali territoriali e attivazione dei percorsi assistenziali domiciliari;  collaborazione nell’attivazione delle procedure necessarie all’inserimento in strutture residenziali e/o di accoglienza. 10.4. Sfide e prospettive per il futuro. Negli ultimi decenni, grazie alle nuove politiche di welfare e di agevolazione fiscale per le aziende, si nota un più intenso coinvolgimento del servizio sociale che si colloca come elemento innovatore e progressista nelle imprese. Risulta centrale, nell’ambito della formazione di base degli as, acquisire il valore-lavoro non solo come funzione di produzione di reddito al quale sopperire con risorse sostitutive, bensì come aspetto della dimensione della persona, della sua identità e del suo progetto. È indispensabile che la professione si adoperi a più livelli per:  sistematizzare le esperienze e la sperimentazione in percorsi innovativi di progressivo dialogo tra politiche sociali e attive del lavoro;  sviluppare un’analisi comparata dei modelli di intervento per l’inserimento lavorativo;  sollecitare e partecipare alle fasi di riarticolazione dei servizi per l’impiego, avendo ben chiari gli obiettivi di inclusione lavorativa e sociale di utenza nuova per condizioni e bisogni;  sperimentare strumenti di valutazione degli esiti dei processi. Le reali emergenze della realtà lavorativa, in termini di accesso negato e uscita forzata dal mondo del lavoro, sollecitano un’attenzione che estenda il concetto di fasce deboli includendovi un’area sempre più vasta di vulnerabilità legata a precarietà, rischio e incertezze del quotidiano. Capitolo 11: Servizio sociale e immigrazione. 11.1 Il fenomeno dell’immigrazione. L’immigrazione è un fenomeno presente nel mondo da secolile persone migrano per ampliare le proprie opportunità ma anche per fuggire da povertà, crisi politiche, guerre, violenze, persecuzioni, limitazioni delle libertà personali e violazione dei diritti, da territori inospitali a causa delle condizioni ambientali. Ci si riferisce a migrazioni volontarie o forzate, individuali o di massa, a migranti economici, richiedenti asilo e rifugiati, a minori non accompagnati, a ricongiungimenti familiari, tutte espressioni che identificano aspetti e profili diversi del fenomeno e che mettono in luce i molteplici livelli di complessità. 11.1.1. Alcuni cenni storici: L’immigrazione straniera è presente in Italia da oltre 30 anni, quindi si tratta di un fenomeno strutturale e destinato a permanere nel futuro. Dagli anni ’90, l’immigrazione si è intensificata e il nostro paese è al contempo, via di transito verso il Nord Europa e luogo di stabilizzazione. I primi flussi migratori si registrarono tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 con migranti provenienti da Marocco, Tunisia, Eritrea e Filippine. Nel corso degli anni ’90, la situazione iniziò a modificarsi a seguito di alcuni fattori: i ricongiungimenti familiari, il moltiplicarsi dei paesi di provenienza, l’arrivo di nuovi gruppi di immigrati non più solo volontari, ma che richiedevano protezione. Dalla fine del primo decennio del nuovo secolo, a modificare i flussi migratori hanno contribuito: la crisi economica e l’intensificarsi delle crisi politiche e sociali in Africa. 11.2. Modelli d’integrazione ed evoluzione normativa. L’Italia si configura come società multietnica e multiculturale, fattore che ha interrogato la comunità professionale del servizio sociale anche dal punto di vista etico, tanto che il Codice deontologico dell’as agli art.7 e 8 prevede che l’assistente sociale collochi “ogni persona entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente, inteso sia in senso antropologico-culturale che fisico e che non discrimini sulla base dell’etnia, nazionalità e della religione”. Gli articolo 33 e 35 indicano le responsabilità del professionista di “favorire o promuovere iniziative di partecipazione volte a costruire un tessuto sociale accogliente e rispettoso dei diritti di tutti, identificando le diversità e le molteplicità come una ricchezza da salvaguardare e da difendere, contrastando ogni tipo di discriminazione”. 2 sono gli elementi centrali delle leggi e delle politiche d’integrazione in base ai quali è possibile distinguere i diversi modelli di integrazione in Europa:  L’entità dell’intervento statale, in termini di finanziamenti a favore degli immigrati;  Il soggetto identificato, quale principale destinatario degli interventi. L’integrazione sociale non corrisponde all’omologazione con la cultura del paese d’accoglienza rinunciando alla propria identità. I paesi di vecchia immigrazione hanno, infatti, adottato diversi modelli d’integrazione:  Multiculturale: caratterizzato da un forte intervento dello Stato, finalizzato a promuovere iniziative di gruppi e di comunitàesso riconosce agli immigrati le differenze culturali e intende valorizzarle in quanto risorsa che favorisce l’arricchimento della società di arrivo;  Assimilazionista: caratterizzato per un forte intervento dello Stato che ha, però, l’obiettivo di rafforzare l’integrazione all’interno del sistema di valori e diritti della società accoglientesi tratta di politiche non dirette a valorizzare gruppi e differenze, ma a favorire l’adattamento alla cultura della società ospitante;  Liberale: l’intervento dello Stato è debole sia nelle politiche per gli immigrati sia in quelle sociali in generale;  Pluralista: si caratterizza per il riconoscimento dei diritti delle minoranze a patto che queste non interferiscano con i valori comunil’intervento a statale a favore di comunità e minimo. In Italia non si è ancora delineato uno specifico modello d’integrazione, ma il Primo rapporto della Commissione per le politiche d’integrazione degli immigrati, istituita con la Legge n.40 del ’98, “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” descrive il modello di integrazione ragionevolequest’ultima ha come cardini: la salvaguardia dell’integrità della persona e il perseguimento di una interazione positiva, base essenziale per una specifica convivenza.  Fino agli anni ’80, quando l’Italia era una realtà monoculturale, la normativa di riferimento si riferiva alla pubblica sicurezza e l’unico obiettivo era rilevare la presenza degli immigrati attraverso l’obbligo di presentazione alle autorità territoriali dello Stato.  Solo nel 1985 veniva emanata la 1° regolamentazione specifica con la Legge n.943, “Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine”tale norma si occupava prevalentemente di aspetti lavorativi e concepiva gli immigrati solo come lavoratori dipendenti con famiglie al seguito. Inoltre, pur riconoscendo formalmente agli immigrati il diritto di accesso ai servizi sociali, sanitari, scolastici e abitativi, non furono predisposti strumenti e risorse per la reale esigibilità dei diritti dichiarati.  Nel 1990, venne emanata la Legge n.39, “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n.416 del 1989, recante norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione di cittadini extrac. Ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato. Disposizioni in materia di asilo." LEGGE MARTELLI. In ambito sociale, essa ha previsto:  la creazione di un fondo per finanziare i centri di prima accoglienza;  la definizione dei criteri per la ripartizione del fondo alle Regioni;  le disposizioni per l’equiparazione dei titoli di studio;  l’assunzione di 200 assistenti sociali alle dipendenze del ministero del Lavoro da destinare agli Uffici del lavoro delle Regioni (oggi detti centri per l’impiego, in cui la figura dell’as però, non è più prevista).  Nel 1998, venne emanata la prima norma organica sull’immigrazione, ossia la Legge n.40, “TURCO- NAPOLITANO”. Essa delinea:  un sistema finalizzato a favorire l’integrazione dei migranti, attraverso il riconoscimento agli stranieri regolari del diritto di accesso ai servizi in condizione di parità con gli italiani;  il diritto all’istruzione deve essere garantito anche ai minori stranieri irregolari, così come quello alla salute, che è esteso agli adulti nella medesima condizione;  l’istituzione del Fondo nazionale per le politiche migratorie e della Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati.  È con il D.Lgs. n.286 del 1998 “Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione giuridica dello straniero” che si realizza il testo normativo organico ancora oggi di riferimento. Tra le riforme introdotte nel Testo unico vi è:  La Legge n.189 del 2002, “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo” “LEGGE BOSSI-FINI”con essa vengono ridotti alcuni diritti sociali:  Si prevede che l’ingresso e la permanenza siano subordinati al possesso di un contratto di lavoro che preveda anche l’obbligo del datore di lavoro di assicurare al dipendente straniero una sistemazione abitativa e le spese di rientro in patria in caso di licenziamento;  Si riduce la validità del permesso di soggiorno in caso di disoccupazione da 12 a 6 mesi ciò ha determinato la condizione di irregolarità per moltissimi immigrati che, collocati nella fascia più bassa del mercato del lavoro, non trovano nuove occupazioni in tempi così brevi.  Espulsione immediata per gli stranieri privi di permesso di soggiorno.  Istituzione del Programma nazionale asilo che definisce il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo. 11.3. L’assistente sociale e l’immigrazione. Già a partire dalla fine dell’800 gli assistenti sociali hanno avuto un ruolo determinante nel favorire la messa in campo di servizi e interventi a favore degli immigrati italiani negli Stati Uniti. Anche in Italia il servizio sociale è stato chiamato a contribuire per far fronte ai primi grandi flussi migratori dal sud al nord del paesetra il 1958 e il 1963 più di 1300000 meridionali abbandonano le proprie case per trasferirsi al Centro e al Nord Italia, una realtà sconosciuta, portando con sé stili di vita, culture, valori e visioni del mondo. Seppur nella prospettiva di un lavoro, e quindi con un sentimento di speranza per una vita migliore, non bisogna sottovalutare gli aspetti connessi all’incontro/scontro tra due diverse culture, ai differenti livelli di emancipazione della donna, ai modelli educativi, al linguaggio dialettale che ha determinato difficoltà di inserimento scolastico dei bambini. Il rafforzarsi di stereotipi e pregiudizi nei confronti dei meridionali ha determinato difficoltà nei processi di integrazione, forme di razzismo ed esclusione sociale. In tale contesto, varie sono le funzioni realizzate dagli as di enti diversi:  L’Istituto servizio sociale case per lavoratori (ISSCAL) ha operato nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica in termini di mediazione, organizzazione, promozione e sviluppo di risorse e di partecipazione, al fine di ridurre il disagio prodotto dallo sradicamento delle persone dai loro ambienti e di favorire la creazione di contesti accoglienti e partecipati.  L’Ente italiano di servizio sociale (EISS) ha promosso attività connesse alla prima accoglienza nelle stazioni ferroviarie, all’informazione e all’orientamento rispetto all’accesso ai servizi. Nei contesti migratori di oggi, l’azione professionale dell’assistente sociale si colloca all’interno dell’obiettivo del cambiamento e dell’emancipazione delle persone. A partire soprattutto dagli anni ’90 del XX secolo, la questione dell’immigrazione economica di soggetti stranieri, ha posto all’attenzione dei servizi sociali bisogni e problemi specifici, connessi alla complessità del processo migratorio, come le reazioni di spaesamento, stati di confusione, diffidenza, curiosità, ma anche ai differenti gradi di accessibilità e fruibilità dei servizi deputati a sostenere i processi d’inserimento sociale. 11.3.1. Lavoro con le famiglie: in quest’ambito l’attenzione deve essere posta alle differenze culturali: l’as deve quindi prendere coscienza dei propri quadri di riferimento attraverso i quali concepisce il soggetto culturalmente differente, decodifica le situazioni e analizza il problema. I minori possono trovarsi in una situazione di doppio rifiuto, in quanto possono non essere accettati dai loro coetanei, poiché stranieri, e al contempo non riconoscersi nei valori della famiglia. Uno degli aspetti di maggior complessità riguarda la costruzione della loro identità, che è correlata al vissuto sociale che i ragazzi sperimentano nei diversi contesti di appartenenzanel momento in cui un individuo, cresciuto in un determinato ambiente, emigra in un paese molto diverso dal suo, mette in atto delle strategie identitarie adattive per far fronte alle richieste del nuovo ambiente, nel tentativo di farsi accettare, riconoscere e accede ai contributi disposti dal ministero dell’Interno a valere sul Fondo nazionale per l’accoglienza dei MSNA. Sono qui evidenti il ruolo e la responsabilità dei servizi sociali dell’ente locale nel garantire la strutturazione del progetto personalizzato del minore che deve essere accompagnato nel suo percorso di autonomia.  Le vittime di tratta: la tratta è un reato grave e costituisce una violazione dei diritti fondamentali degli esseri umani: la schiavitù pone a pregiudizio diritti inalienabili come quello alla vita, alla dignità e alla sicurezza, alla salute e all’eguaglianza.  la Direttiva n.36 del 2011 del Parlamento europeo e del Consiglio afferma che “lo sfruttamento comprende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, compreso l’accattonaggio, la schiavitù o pratiche simili ad essa, la servitù, lo sfruttamento di attività illecite o il prelievo di organi”.  ad attuazione della citata Direttiva, il governo italiano ha varato il D.Lgs. n.24 del 2014, “attuazione della direttiva 2011/36/UE”, con il quale si definiscono strategie pluriennali di intervento per la prevenzione e il contrasto al fenomeno della tratta e del grave sfruttamento degli esseri umani, nonché azioni finalizzate alla sensibilizzazione, alla prevenzione sociale, all’emersione e all’integrazione sociale delle vittime e si prevede il Piano nazionale antitratta (PNA) per gli anni 2016/18esso propone un approccio coordinato e di sistema basato sulle sinergie che si possono produrre nelle collaborazioni tra i diversi livelli di governo. L’assistente sociale interviene nelle azioni di contrasto ed emersione del fenomeno e nei progetti di aiuto alle vittimenel primo caso può collaborare con le Forze dell’Ordine e i Tribunali attraverso segnalazione o fornendo notizie sulla presenza del fenomeno sul territorio, ad esempio indicando i luoghi di prostituzione all’aperto e al chiuso, realtà lavorative in cui sono presenti lavoratori sfruttati. Per contrastare il fenomeno, l’as parteciperà alla predisposizione di campagne informative e di sensibilizzazione del territorio e delle diverse istituzioni, anche attraverso la predisposizione di protocolli di collaborazione. nel lavoro diretto con le vittime si struttureranno interventi finalizzati da un lato alla protezione, attraverso l’inserimento in strutture segrete, dall’atro alla predisposizione di un progetto di autonomia socio lavorativo e abitativo con la collaborazione della rete territoriale. Capitolo 12: L’intervento dell’assistente sociale nell’area dei minori. 12.1. Introduzione e inquadramento generale. Quello con i minori è un lavoro delicato, con una forte disabilità pubblica, su cui spesso si aprono critiche e contestazioniciò è legato al fatto che è il benessere stesso dell’infanzia a essere oggetto di interesse e rilevanza per tutta la società, sia in termini formali e istituzionali che in termini culturali. La necessità d’intervento da parte del servizio sociale in questo ambito nasce dalla complessità stessa dell’essere genitori e dalla natura della famiglia, la cui vita si svolge nell’intreccio delle relazioni sociali. Un altro passaggio cruciale per cogliere la ragione dell’intervento del servizio sociale è il cambiamento della rappresentazione dell’infanzia e dei bambiniè oramai radicata la concezione che i bambini non siano più soggetti “minori” ma titolari di diritti a tutti gli effetti e veri e propri attori sociali (Convenzione sui diritti dell’infanzia)oggi, quindi, ai bambini è riconosciuta un’importante gamma di diritti, come quello a ricevere le cure e l’assistenza necessari alla crescita, a partecipare, ad essere ascoltati, a non subire violenza e a non essere sfruttati. Il servizio sociale ha, al centro del suo agire la difesa dei diritti e la costruzione delle condizioni sociali per soddisfarli. L’attività degli as acquista significato su 3 diversi piani: I. del bambino e della famiglia di cui si occupa perché agisce nell’intento di favorirne il benessere e la protezione; II. istituzionale e dell’organizzazione perché mostra la risposta del sistema organizzato per la tutela dei soggetti deboli; III. della comunità sociale , perché con la sua azione incrementa il coinvolgimento e la sensibilità collettiva verso i bambini e il benessere delle famiglie. Nel far fronte alle esigenze di tutela dei minori si possono individuare 2 diversi orientamenti: I. il 1° ha come priorità la protezione e la difesa dei bambini da abusi e negligenzepunta sull’identificazione dei rischi, con una tendenza a valorizzare l’attività dell’as in termini di monitoraggio e di controllo della famiglia. II. Il 2° si focalizza sulla promozione e il benessere e considera il maltrattamento e l’abuso in relazione al contesto di vita della famiglia e punta sulla prevenzione e il supporto alla famiglia. In Italia pare che si sia costituito un 3° assetto, in cui i 2 orientamenti trovano una composizione. 12.2. Gli ambiti istituzionali e la normativa. 12.2.1. Gli ambiti istituzionali d’intervento: Gli ambiti istituzionali in cui lavorano gli as nell’area della tutela minorile sono sostanzialmente 3:  Comune (gestione dei servizi per la tutela dei minori): con il D.P.R. n.616 del ’77, è stata assegnata la competenza dell’amministrazione di tutte le attività di beneficienza pubblica e degli interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili. I Comuni gestiscono una vasta gamma di servizi a favore dell’infanzia, adolescenza e famiglia, rivolti alla generalità della popolazione (es. asili nido, centri estivi) e di servizi destinati alle situazioni di fragilità (es. servizi educativi domiciliari, centri per le famiglie).  ASL : da essa dipendono 2 servizi di interesse per il lavoro nell’area minori: I. Consultori familiari si occupano del sostegno alla famiglia e della maternità; contribuiscono alla realizzazione delle attività necessarie per l’affido e l’adozione ecc. II. Servizi di psicologia e neuropsichiatria infantile trattano le problematiche dei minori con disabilità fisiche e psichiche. Entrambi i servizi hanno équipe multidisciplinari e gli assistenti sociali vi svolgono funzioni di valutazione, consulenza e sostegno e connessione con la rete. Spesso questi servizi gestiscono le unità operative specializzate chiamate a intervenire a sostegno dei minori vittime di violenze, abusi e maltrattamenti.  Cooperative o associazioni del terzo settore: svolgono servizi educativi di diverso tipo, da quelli territoriali fino alle comunità di accoglienza. Gli as minorili operano anche all’interno del ministero della Giustizia e, in particolare, nell’Ufficio di servizio sociale minorile, che ha il compito di intervenire con ragazzi che commettono reati. 12.2.2. La normativa: tutti gli interventi in materia minorile si inscrivono oggi nella cornice della Convenzione sui diritti dell’infanzia, ratificata dall’Italia nel 1991. A livello nazionale, è la Costituzione a stabilire il “diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli” e il compito della legge delle istituzioni a provvedere “nei casi di incapacità dei genitori” (art.30).  Il principale riferimento giuridico in materia di tutela dei minori è il Codice civile, che stabilisce sia l’obbligo dei genitori a “mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” (art.147), sia i diversi provvedimenti di tutela dei minori, da adottarsi quando i genitori non adempiono a tali obblighi. Partendo dai provvedimenti più gravi, il codice civile prevede che il giudice possa decretare la decadenza dalla responsabilità genitoriale qualora il genitore “violi o trascuri i doveri a essa inerenti o abusi dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio”(art.330). Quando invece “la condotta di uno o di entrambi i genitori non è così grave, ma appare comunque pregiudizievole al figlio”, il codice prevede che si possano adottare atri provvedimenti convenienti, meno drastici della decadenza della potestà, ossia:  L’allontanamento del figlio dalla residenza familiare (art.333), che viene adottato in presenza di gravi motivi;  Disposizione di altri interventi di sostegno al minore, di indicazione di comportamenti, prescrizioni e altre forme di limitazione della potestà genitoriale.  Il secondo asse portante è rappresentato dalla Legge n.184 del 1983, sull’adozione e l’affido familiare, modificata poi nel 2001 e che sancisce il diritto del minore “di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia” e secondo cui “a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto” (Legge n.149/2001). Tale legge stabilisce che quando la famiglia non è in grado di provvedere alla crescita e all’educazione del minore, questi debba essere inserito in una nuova famiglia, con la formula dell’affidamento familiare o, in seconda battuta, in una comunità di tipo familiare.  L’affidamento familiare è concepito come una misura provvisoria volta a tutelare il minore e prevede il suo rientro nel nucleo familiare originario;  L’adozione è concepita come misura definitiva, con la quale si rompe ogni vincolo di parentela fra il minore e i suoi familiari naturali attribuendo al bambino lo stato di figlio legittimo degli adottantil’obiettivo è quello di garantire una situazione stabile al minore per il quale è stato accertato lo stato di abbandono e l’impossibilità per la sua famiglia d’origine di garantirgli condizioni di sufficiente tutela. Dal punto di vista procedurale, questa legge ha stabilito anche il dovere da parte di tutti gli operatori di segnalare alla magistratura i casi di “minori in situazione di abbandono morale o materiale”(art.19). I provvedimenti di tutela sono adottati su ricorso di un genitore, dei parenti o del pubblico ministero e il procedimento giudiziario si avvia con una segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenniprosegue con l’apertura di un procedimento presso il Tribunale chiamato a decidere sulle necessità di limitazione della potestà dei genitori e tutela dei minori. In base alle prescrizioni contenute dei provvedimenti, gli as hanno il compito di svolgere le indagini psicosociali, di vigilare e di sostenere i minori e le famiglie, di provvedere all’accoglienza di minori allontanati dalla famiglia.  Il nostro ordinamento prevede una Tutela giuridica dei minori vittime di reato, come la violenza e lo sfruttamento sessuale o i maltrattamenti fisici.  La Legge n.285 del ’97 ha portato alla creazione di servizi dedicati alla promozione del benessere e al sostegno in continuità e alla connessione con i servizi sociali dedicati alla cura e alla protezione, tutti all’insegna della tutela dei diritti dei bambini. 12.3. Come e quando interviene il servizio sociale. 12.3.1. La prospettiva teorica: l’attenzione alle condizioni di vita dei bambini, per garantire loro igiene, alimentazione ed educazione adeguate, la loro tutela dallo sfruttamento lavorativo, l’assistenza alle madri sono stati il focus dell’attività di molte figure anticipatrici del servizio sociale, dalle attività dedicate ai bambini nei settlments, agli istituti di accoglienza e agli ambulatori di medicina per le donne (fine 800). In Italia, un’esperienza particolarmente significativa si sviluppa nell’ambito degli enti nazionali di assistenza e in particolare dell’Opera nazionale maternità e infanzia (ONMI)quest’ultima, costituita durante il regime fascista, allo scopo di proteggere l’infanzia e a fini propagandistici e di controllo, ha perseguito le sue attività fino alla fine degli anni ’70. Organizzata con sedi territoriali, in cui forniva assistenza sociale e sanitaria (ostetrica e pediatrica), e con istituti di ricovero per bambini e madri nubili, è stata a lungo l’unico luogo di assistenza e cura dell’infanzia. I movimenti di quegli anni, contro le istituzioni totali, hanno coinvolto anche l’ambito minorile e portato a una vasta mobilitazione contro i grandi istituti di ricovero per minorisia dall’interno che dall’esterno gli as premono per la loro chiusura e la realizzazione di altre forme di accoglienza. Con il decentramento e la costruzione di un nuovo sistema di welfare universalistico, territoriale e integrato degli anni ’80, si sperimentano i diversi modelli di sostegno e protezione dei minoriin collaborazione con psicologi ed educatori, gli as danno vita alle prime forme di affido, costituiscono piccole comunità familiari o educative, sperimentano forme di sostegno e assistenza a domicilio. La maggiore attenzione all’infanzia favorisce la presa di coscienza rispetto al fenomeno del maltrattamento e della violenza sessuale verso i bambiniNegli anni ’90 vi è la nascita di una rete di centri specializzati nel trattamento di questa problematica: insieme agli altri professionisti, gli as imparano a riconoscere e a intercettare precocemente i segnali di violenza, a sostenere e curare i bambini traumatizzati, a realizzare i necessari interventi di protezione e di cura delle famiglie abusanti.  resilienza e copingsi intende la capacità di resistenza flessibile e fronteggiamento nelle situazioni di avversità. Tali termini fanno rifermento a una concezione di salute sistemica centrata sulla relazione individuo-ambiente. Il tema salute, non può prescindere dalla dimensione socialeè importante quindi, che l’intervento sociale abbia come riferimento dei parametri teorici e operativi, per essere attuato e valutato. 13.2. La normativa e i contesti: la cornice del servizio sociale in sanità. In Italia le prime esperienze di servizio sociale ospedaliero fanno riferimento all’ospedale Gaslini di Genova, nel 1945. Negli anni successivi il servizio sociale è presente anche in ospedali specializzati e sanatorile competenze richieste hanno origine principalmente dalla necessità dell’ammalato di rispondere a problemi familiari, previdenziali, relativi alla dimissione ospedaliere e al lavoro. L’assistenza sanitaria, da quando fu introdotta in Italia, escludendo le prestazioni date dall’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro, era organizzata secondo tipologie lavorativesi crearono enti assicurativi, delegati dallo Stato a funzioni sanitarie, denominate “casse mutue”, fra i quali l’Istituto nazionale assistenza malattie.  La Legge n.132 del 1968, Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera, che trasforma gli ospedali degli Istituti pubblici di assistenza e beneficienza (IPAB), o di altri enti, in ospedali regionali o provinciali, legittima la presenza degli as in ospedale e individua la loro afferenza nella direzione sanitaria.  Il D.P.R. n.128 del 1969, Ordinamento interno dei servizi ospedalieri, definisce il mandato istituzionale e professionale dell’as evidenziando i seguenti aspetti: la sua è un’attività rivolta a trattare, in collaborazione con il personale sanitario, con il personale di assistenza diretta e con gli altri servizi ospedalieri, i problemi psicosociali degli assistiti.  Con la Legge n.833 del 1978, Istituzione del servizio sanitario nazionale, tale figura professionale non è ancora prevista stabilmente nell’organico. Essa prevede l’articolazione delle Unità sanitarie locali in Distretti sanitari di base, quali strutture tecnico-funzionali per l’erogazione dei servizi di primo livello e di pronto intervento, e l’ordinamento degli ospedali in dipartimenti, in base al principio dell’integrazione delle competenze, mediante il lavoro di gruppo e il collegamento tra servizi ospedalieri ed extraospedalieri. Tale legge è stata preceduta da importanti normative in settore:  Legge n.405/1975 , Istituzione dei consultori familiari;  Legge n.685/1975 , Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza;  Legge n.194/1978 , Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza;  Legge n.180/1978 , Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori;  Legge n.104/1992 , Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, nella quale sono previste prestazioni sanitarie e sociali integrate.  Con il D.M. del 1988, la presenza dell’assistente sociale in ospedale è ritenuta necessaria, in qualità di personale tecnico sanitario, nei reparti ad alta specializzazione come le unità spinale e le lungodegenze; è lasciata, invece, alla discrezione della direzione la sua presenza in altri reparti, tra cui la psichiatria, l’oncologia e la geriatria.  Con l’emanazione dei D.Lgs. n.502/1992 e n.157/1993, di Riordino della disciplina in materia sanitaria, si avvia una revisione della sanità, che prevede l’aziendalizzazione delle Unità sanitarie locali e l’istituzione di Aziende ospedaliere autonome.  Il D.Lgs. n.229/1999, introduce il concetto di prestazioni sociosanitarie, ossia tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione. Tale normativa coinvolge la professione dell’as, in quanto stabilisce che l’erogazione dei servizi e delle prestazioni avviene in seguito alla valutazione multidisciplinare, nel cui ambito di rilevazione e valutazione del bisogno è di stretta competenza dell’as, finalizzata alla realizzazione di un piano di lavoro integrato.  Il D.P.C.M. del febbraio 2001 effettua la distinzione delle diverse tipologie di prestazioni:  Prestazioni sanitarie a rilevanza sociale , di competenza delle Aziende sanitarie locali, finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, all’individuazione, alla rimozione e al contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite;  Prestazioni sociali a rilevanza sanitaria , di competenza dell’ente locale, con la compartecipazione alla spesa da parte del cittadino secondo i regolamenti dei singoli Comuni, che si caratterizzano per la forte componente sociale correlata a particolari stati di bisogno;  Prestazioni sociosanitarie a elevata integrazione sanitaria , per le situazioni in cui non è possibile definire la prevalenza di uno dei due fattori, sociale o sanitario, in quanto la complessità è tale da non poter scindere le 2 componenti.  Il successivo D.P.C.M. del novembre 2001 definisce le prestazioni sanitarie essenziali che consentono di rispondere ai bisogni di promozione, mantenimento e recupero della salute e individua le aree dell’integrazione sociosanitaria di competenza delle ASL ed erogabili a domicilio, in ambulatori, strutture residenziali e semiresidenziali.  Particolare attenzione all’integrazione dell’attività sanitaria e sociosanitaria è posta dalla Legge n.328/2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, che dà origine a un sistema universalistico di opportunità e di servizi per le persone, volto a promuovere la prevenzione del disagio. Tale legge riconosce la centralità delle competenze e delle funzioni dell’as, professionista che si prende cura del disagio dell’individuo, della famiglia e della comunità e coniuga il mandato professionale, stabilito dalla legge e dal codice deontologico, con il mandato istituzionale di contribuire ad assicurare la salute della persona mediante l’individuazione e l’attuazione di azioni di protezione sociale, volte a prevenire o a limitare i rischi connessi al disagio sociale che possono favorire l’instaurarsi della malattia o pregiudicare gli esiti dei maltrattamento sanitari. L’integrazione di responsabilità e risorse si declina a diversi livelli: 1. Istituzionale: promuove collaborazioni tra istituzioni diverse al fine di conseguire comuni obiettivi di salute, anche mediante strumenti quali le convenzioni, gli accordi di programma, i protocolli fra enti; 2. Gestionale: si colloca a livello di struttura operativa, nel distretto e nei diversi servizi che lo compongono, individuando modalità organizzative e di coordinamento atte a garantire lo svolgimento delle attività; 3. Professionale: sono necessarie alcune condizioni, tra le quali la gestione unitaria della documentazione, la costituzione di Unità valutative integrate, la predisposizione di progetti assistenziali individualizzati; 4. Partecipativa: attiva e sostiene processi di solidarietà e di aiuto, secondo il principio di sussidiarietà orizzontale, promuovendo riposte efficaci anche ai bisogni emergenti nella comunità locale. Il servizio sociale in sanità interviene nei diversi livelli di integrazione: dalla predisposizione di protocolli di intesa tra enti, alla definizione dei progetti individualizzati di presa in carico, che prevedono sia l’attuazione di interventi con i singoli cittadini, sia l’attività di promozione e collaborazione con le realtà associative.  Con la Legge n.3/2001, Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione, si attribuisce alle Regioni il compito, nell’ambito della programmazione degli interventi sociosanitari, di determinare obiettivi, funzioni, criteri di erogazione delle prestazioni e dei relativi finanziamenti. Le Regioni emanano, negli anni successivi, leggi e Piani sanitari, sociali e sociosanitari che andranno a delineare differenti modelli regionali di gestione e di intervento dei servizi alla persona.  Al fine di uniformare l’erogazione delle attività sociosanitarie tra le diverse Regioni, la Legge n.296/2006, prevede la sperimentazione del modello assistenziale delle Case della Salutesi tratta di una struttura polivalente in grado di erogare in uno stesso spazio fisico l’insieme delle prestazioni sociosanitarie, che favorisce, attraverso la contiguità spaziale dei servizi e degli operatori, l’unitarietà e l’integrazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociosanitarie e rappresenta la struttura di riferimento per l’erogazione dell’insieme delle cure primarie.  La normativa più recente prevede la costituzione delle Aggregazioni funzionali territoriali e delle Unità complesse di cure primarie, al fine di garantire, mediante l’integrazione tra i professionisti delle cure primarie e del sociale, la condivisione dei percorsi assistenziali e un approccio proattivo nelle aree della cronicità. Nell’attuazione di questi indirizzi, però, al servizio sociale non si riconosce ancora il peculiare apporto professionale, necessario per attuare un approccio realmente integrato. 13.3. Gli interventi dell’assistente sociale nel sistema sanitario. Il servizio sociale ospedaliero, con la trasformazione dell’ospedale a servizio della collettività, evidenzia la necessità di ripensare l’ospedale nel contesto dei bisogni della collettività e in collegamento con tutte le istituzioni assistenziali e sanitarie presenti. L’as in ospedale instaura una relazione di aiuto, con i pazienti e con i loro familiari, al fine di costruire un progetto di intervento in collaborazione con le risorse presenti nel territorio e il supporto dei servizi sociosanitari. Attualmente le attività svolte dal servizio sociale in ambito ospedaliero fanno riferimento alle seguenti funzioni:  Consulenziale, assistenziale e previdenziale nei confronti di persone, famiglie e gruppi che manifestano bisogni complessi a livello fisico e psicosocialetale funzione richiede competenze relative al processo di aiuto e al lavoro di rete, oltre alle conoscenze del sistema sanitario. Prevede, inoltre, l’attivazione di interventi di segretariato sociale, la conoscenza di normative e di procedure per far accedere le persone ai servizi e alle prestazioni ospedaliere e del territorio;  Organizzativo-gestionali, di ridefinizione delle proprie attività attraverso una continua capacità di analisi della domanda sociale e sanitaria, di revisione dei processi in atto, di documentazione delle attività svolte e dei risultati conseguiti, di azioni progettuali per l’attivazione delle risorse;  Preventivo-promozionale, per favorire i processi di integrazione dei servizi, le scelte di educazione alla salute, l’evoluzione delle politiche sociali e sanitarie e il monitoraggio del lavoro del servizio sociale in ospedale;  Consulenziale-tecnica , nei riguardi dell’azienda sanitaria od ospedaliera e delle sue diverse articolazioni e verso l’autorità giudiziaria. L’aumento delle patologie croniche richiede lo sviluppo di una rete di servizi sociosanitari che si prenda carico dei problemi complessivamente. Migliorare la salute implica modificare lo stato dei fattori che la determinanoessa, infatti, deriva dall’azione combinata di diversi fattori, definiti “determinanti di salute”, dei quali alcuni non sono modificabili, mentre altri possono essere corretti e trasformati (es. stili di vita individuali, reti sociali e comunitarie, ambiente di vita e lavoro, contesto). Le nuove configurazioni di salute richiedono l'utilizzo di modelli che introducono metodologie di lavoro centrate sul progetto con la persona, la famiglia, la comunità, al fine di elaborare un progetto personalizzato e costruire percorsi di sostegno che consentano di affiancare la persona e la famiglia, affrontando insieme le problematiche a loro emergere, oltre che attivare una rete di sostegno nel territorioA tal fine, l'efficacia e l'appropriatezza delle prestazioni possono essere assicurate attraverso un sistema di azioni in cui gli elementi peculiari sono: l’accesso ai servizi, la valutazione multidisciplinare del bisogno e la definizione di un progetto assistenziale individuale. I punti di accesso del sistema di servizi sociosanitari sono contesti di ascolto in cui le persone vedono considerato, e poi trattato, il loro bisogno nel suo insieme, al fine di evitare il rischio che siano loro stesse a dover ricomporre le valutazioni e i conseguenti interventi offerti dai 2 diversi sistemi. L’attività svolta nei punti di accesso, definiti con diverse denominazioni è diretta:  alla cittadinanza, al fine di garantire unitarietà di accesso, capacità di ascolto e valutazione professionale, funzione di orientamento e accompagnamento, partecipazione dei cittadini;  ai bisogni del territorio , come funzione di filtro e funzione di osservatorio e monitoraggio dei bisogni e delle risorse, oltre che di restituzione alla comunità e ai soggetti titolari delle politiche sociali;  alla rete dei servizi , come visibilità dei servizi, funzione di trasparenza e fiducia nei rapporti tra cittadino e servizi, “sensore” dei rapporti tra servizi e bisogni del territorio. L'erogazione dei servizi e delle prestazioni delle prestazioni avviene a seguito di una valutazione multidisciplinare, finalizzata alla realizzazione di un piano di lavoro integrato, volto a produrre il progetto assistenziale individualeIn questo percorso la rilevazione e la valutazione dei bisogni sociali sono di competenza dell'asla costruzione di un piano assistenziale è un processo attraverso il quale l'assistente sociale instaura e utilizza le relazioni interpersonali con gli assistiti e gli altri soggetti che ritiene di poter coinvolgere. Nelle situazioni di cronicità, in cui il bisogno è complesso, oppure riguarda persone particolarmente fragili, il processo di aiuto attuato dall'as acquista la specificità di un accompagnamento, il quale rende centrale l'ascolto della persona e della famiglia nelle situazioni in cui emergono bisogni complessi, nelle quali è necessario uno Il passaggio al nuovo lessico (es: da manicomio a ospedale psichiatrico), così come al fatto di considerare la custodia in ospedale psichiatrico come strumentale e propedeutica a un percorso di reinserimento sociale, mise in luce l’insoddisfazione di larga parte degli operatori. Basaglia e Gentili evidenziavano la necessità di spostare il baricentro dell’intervento dall’istituzione al territorio. Ferranti e Zampighi (2 assistenti sociali), cercarono di indicare nuovi spazi d’intervento sociale nel settore psichiatrico:  sensibilizzazione non solo alla malattia mentale ma anche ai problemi sociali connessi;  creazione di adeguate strutture sociali;  interventi con i diversi sistemi della rete del paziente. Ponevano inoltre, l’accento sull’introduzione a scopo riabilitativo di esperienze di servizio sociale di gruppo e la necessità di includere, nella funzione preventiva, la ricerca sociale propria del servizio sociale, ma fino ad allora non utilizzata nell’ambito dei servizi psichiatrici.  Nel 1978 fu promulgata la Legge n.180, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatoril’attenzione è rivolta ai diritti civili universali, alla necessità di riscatto dei malati di mente da una condizione di segregazione manicomiale. Questa legge ebbe il merito di sancire la fine del manicomio mantenendo la possibilità di adottare soluzioni coercitive nei confronti dei malati di mente, soltanto attraverso il TSO.  Quest’ultima venne riassorbita dalla Legge n.833 del ’78, Istituzione del Servizio sanitario nazionale, legge di riforma non solo per la psichiatria, ma per la sanità nel suo complesso.  Il quadro di riferimento, successivamente, è meglio delineato dai Piani sanitari nazionali e dai 2 Progetti obiettivo: I. Il 1°, del 1994, definisce l’organizzazione delle strutture del SSN in forma dipartimentale e individua il Centro di salute mentale (CSM), struttura sanitaria territoriale e non ospedaliera, quale punto centrale della cura, prevenzione e riabilitazione della malattia mentale. II. Il 2°, del 1999, individua le priorità da affrontare per favorire e tutelare la salute mentale dei cittadini e pone l’attenzione sul rischio connesso al mancato coordinamento tra le varie figure professionali. In Italia l’assistenza psichiatrica pubblica è fornita dalla ASL attraverso i Dipartimenti di salute mentale (DSM), che si occupano di prevenzione, cura e riabilitazione del disagio psichico e dei disturbi mentali degli adulti. L’attività di ogni dipartimento è organizzata nei CSM, i quali elaborano progetti che possono prevedere la sola consulenza o presa in carico ambulatoriale attraverso la farmacoterapia, visite psichiatriche o psicoterapie o, in parallelo, la frequenza dei servizi semiresidenziali, i Centri diurni, l’inserimento in strutture residenziali. In caso di situazioni di acutizzazione della malattia o a scopo diagnostico è possibile il ricovero ospedaliero nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) o, dove presenti, nei servizi di day hospital. La presenza dell’as nei dipartimenti di salute mentale non è sempre garantita: quando è presente nell’équipe interprofessionale, è inserito nei CSM. 14.4. L’intervento del servizio sociale. Nell’organizzazione dei CSM, generalmente, il cittadino che manifesta un problema di tipo psichiatrico, nella fase di accoglienza della domanda incontra il personale infermieristico e il medico psichiatra. Solo dopo una fase iniziale di conoscenza è possibile che questi soggetti, rilevando una problematica di tipo sociale, chiedano l’intervento dell’as. Il Piano di azioni nazionale per la salute mentale (PANSM) individua 3 modelli clinico-organizzativi:  collaborazione/consulenza : prevede una modalità di lavoro strutturata di collaborazione tra il DSM è il sistema dei servizi sanitari, ed è rivolto a persone che non necessitano di cure specialistiche continuative. Generalmente l’intervento prevalente è dello psichiatra e non dell’intera équipe. L’intervento dell’as si colloca in un contesto di tipo informativo, cioè finalizzato al segretariato sociale, che permette l’orientamento nell’ambito previdenziale, la conoscenza e l’eventuale invio ai servizi del territorio tra i quali assume un ruolo di rilievo l’as dell’ente gestore delle funzioni socioassistenziali, che può valutare l’attivazione di interventi di supporto (es. sostegno del reddito).  Assunzione in cura : si attiva per persone che necessitano di un trattamento specialistico anche a medio e lungo termine, ma non di interventi complessi e multiprofessionali; si basa su una relazione duale psichiatra/paziente. Qui l’as oltre agli interventi di segretariato sociale, può essere coinvolto anche nel lavoro con le famiglie.  Presa in carico : le persone che si rivolgono al CSM presentano bisogni complessi per i quali sono necessari la valutazione e l’intervento di diversi professionisti. L’as può collocare il suo intervento nel contesto consulenziale o in quello assistenziale, e partecipa all’elaborazione del progetto di intervento che è comune tra i diversi professionisti dell’équipe. L’as del CSM, nella fase di raccolta delle informazioni, può avvalersi anche delle segnalazioni dei familiari, altri servizi o di altre figure di riferimento del contesto sociale del paziente. La valutazione della situazione complessiva viene condivisa con gli operatori del CSM attraverso confronti operativi e lavoro di gruppo. L’as partecipa inoltre alla costante verifica del progetto attraverso la valutazione dei risultati, l’eventuale riformulazione degli obiettivi progettuali, la definizione degli interventi, il confronto costante con il paziente. Nelle situazioni di presa in carico la persona che ha un problema di salute mentale necessità di interventi preventivi e riabilitativi multidisciplinari e multiprofessionali legati a diversi ambiti. Gli interventi concreti che l’as può offrire sono:  Misure di limitazione della capacità giuridica : nelle situazioni di patologie psichiatriche che limitano e influenzano le abilità e le capacità è possibile che si renda necessaria una protezione giuridica per quei soggetti incapaci, in parte o in tutto, a curare i propri interessi. In queste situazioni, come previsto dalla Legge n.6 del 2004, è possibile segnalare all'autorità giudiziaria l'occasione di valutare la possibilità di aprire procedimenti finalizzati all'interdizione (tutela), all'inabilitazione (curatela), o all'amministrazione di sostegno.  L'assistente sociale partecipa alla decisione di proporre la misura di sostegno, incontra il paziente e i suoi familiari per informare sull’iter burocratico, spiega il senso del provvedimento evidenziando limiti e vantaggi, sostiene l'interessato nell'individuazione di una persona di fiducia che possa assumere il ruolo di legale rappresentante laddove è possibile e opportuno individuarlo all'interno della rete primaria della persona. nella fase di segnalazione insieme allo psichiatra, redige la relazione che, oltre agli aspetti più strettamente clinici, deve contenere informazioni sugli aspetti economici, patrimoniali, sulle difficoltà della persona, sulle reti familiari e sociali. In queste situazioni l'assistente sociale assume, come previsto dalla Legge n. 84 del 1993, “Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell'albo professionale”, una funzione tecnico-professionale, fornendo al giudice gli elementi utili alla valutazione della situazione. Nelle fasi successive all'udienza sostiene il legale rappresentante nella gestione del provvedimento attraverso la collaborazione con i tutori, curatori e amministratori. Relativamente a questo ambito, si può affermare che l'assistente sociale svolge una funzione di mediazione tra le problematiche e i bisogni del paziente e la necessità di protezione, con attenzione alla minore limitazione possibile delle autonomie e libertà personali e nella piena garanzia dei diritti del pazientel’as si caratterizza per un ruolo di consulenza e mediazione, affinché la misura di limitazione della capacità giuridica sia vissuta come una reale protezione e un sostegno in riferimento alle difficoltà e non come una costrizione che non avrebbe finalità riabilitative ma di controllo, così come avveniva nel periodo manicomiale. L’as, inoltre, può farsi promotore di istanze al giudice tutelare.  Lavoro: esso nel tempo ha assunto il significato di intervento finalizzato all’inserimento o al reinserimento nel mondo del lavoro di persone che, per un disagio psichico, hanno perso oppure hanno visto ridursi alcune competenze, tra le quali le capacità relazionali e quelle organizzative. Gli interventi attuabili in questo ambito possono caratterizzarsi in forme differenti, in considerazione dei diversi obiettivi, caratteristiche e competenze dei pazienti. Le 3 aree principali sono quelle della formazione lavoro, dell’inserimento lavorativo non finalizzato all’assunzione e di quello finalizzato all’assunzione. Oltre ai vantaggi diretti per i pazienti inseriti in progetti lavorativi sono da segnalare anche i vantaggi indiretti, tanto nell’ambito familiare quanto in quello dei servizi, perché migliorando i livelli di autonomia aumentano di conseguenza i livelli di benessere, si riducono i ricoveri, si alleggerisce il carico familiare. In quest’ambito, il ruolo dell’as si sostanzia in:  incontri di verifica finalizzati alla mediazione del rapporto tra allievi/docenti e lavoratori/datori di lavoro e alla rilevazione precoce di eventuali momenti di disagio, disattenzione, rinforzo;  accompagnamento del paziente nel passaggio da corsi di formazione ad attività lavorative, dal passaggio tra l’inoccupazione e l’occupazione, in considerazione del fatto che si tratta di momenti di cambiamento significativi. l’as, nel contesto dei progetti formativi e lavorativi si pone nella fase attuativa come referente istituzionale che cura gli aspetti amministrativi (es. coperture assicurative) e ha funzioni di coordinamento e collegamento con altre istituzioni (es. Centro per l’impiego).  Famiglia, famiglie: nelle situazioni in cui il paziente psichiatrico è inserito nella famiglia d’origine, laddove questa è presente e coinvolta, l’intervento dell’as può essere finalizzato a un supporto della rete primaria per la comprensione ed elaborazione della malattia, per la verifica e il sostegno delle modalità relazionali, per l’aiuto nella risoluzione di eventuali conflitti e nella ricerca di soluzioni al disagiotali interventi possono essere effettuati tanto nell’ambito di colloqui con le famiglie quanto attraverso lo stimolo alla partecipazione a gruppi familiari o di genitori. può essere utile affiancare le famiglie nella ricerca di soluzioni alternative alla vita familiare, quando questa sia di pregiudizio e sia impossibile continuare la convivenza e sostenere il mantenimento dei rapporti anche successivamente alla collocazione eterofamiliare dei pazienti. nel caso di assenza delle famiglie o di famiglie non collaborative o marginali, l’intervento dell’as potrà essere finalizzato a una eventuale ricomposizione dei rapporti. famiglie nelle quali uno o entrambi i genitori hanno una malattia mentale necessitano di sostegno e interventi particolari alla base dei quali è fondamentale riuscire a stabilire relazioni collaborative e di supporto con le famiglie e, nello stesso tempo, proteggere i bambini da possibili dannil’as del CSM ha un ruolo importante all’interno dell’équipe, per via delle competenze nella lettura dei bisogni dei bambini, degli elementi protettivi e di rischio, della possibilità di favorire relazioni con i servizi di tutela minori che non si strutturino nei termini di una contrapposizione di interessi (adulto vs bambino).  Le sinergie con l’associazionismo e la comunità, mappatura e gestione delle risorse: qui si possono collocare tutti gli interventi che l’as del CSM effettua per rendere più semplice la conoscenza e l’accesso alle risorse da parte dell’équipe e degli stessi pazienti. 14.5. Sfide e prospettive. In ambito sanitario la risposta a un bisogno di salute deve essere data in tempi brevi, ma aumento i carichi di lavoro e non la dotazione di personale. In questa situazione diviene difficile conciliare la prassi quotidiana con un mandato professionale che orienta l’azione dell’as verso la promozione del cambiamento in termini personalizzati. Tra glia ambiti in evoluzione è inoltre da segnalare la crescente interazione tra patologie psichiatriche e patologie croniche, legate ai fenomeni di invecchiamento della societàl’attenzione dell’as dovrebbe essere rivolta anche al caregiver, spesso colui che chiede l’intervento, e può concretizzarsi in interventi di sostegno e facilitazione. Rispetto al fenomeno migratorio, i servizi di salute mentale italiani dovranno affrontare le problematiche fisiche e psichiche di persone che presentano domanda di protezione sociale dopo aver subito nei loro paesi persecuzioni a causa di ragioni differentil’as deve acquisire una formazione specifica, che permetta il riconoscimento delle diverse culture e differenze nell’approccio alla malattia. Si richiamano in ultimo gli interventi per pazienti autori di reatogli as pongono attenzione al sostegno dei pazienti nelle varie fasi: indagini, giudizio ed esecuzione. La recente normativa prevede che gli autori di reato debbano scontare le misure di sicurezza in strutture riabilitative e non più all’interno dell’istruzione. In tale ambito i DSM dovranno collaborare con il personale delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) e con gli as del ministero della Giustizia per individuare percorsi di reinserimento sociale.