Scarica guidorizzi Letteratura greca I parte e più Sintesi del corso in PDF di Greco Antico solo su Docsity! Età arcaica Un mondo senza scrittura Nella fase più antica la poesia greca fu affidata esclusivamente alla recitazione orale. Questo perché il tracollo della civiltà micenea (fine del XIII secolo a.C) diede inizio ad un periodo di profonda regressione culturale, infatti il tipo di scrittura sino ad allora utilizzata, la Lineare B cadde in disuso. Solo nel VIII secolo a.C venne introdotto un nuovo alfabeto sulla base di quello fenicio. Durante i secoli XII-VIII a.C. in assenza di scrittura il patrimonio letterario venne trasmesso oralmente per opera di CANTORI ANONIMI per quanto riguarda la poesia epica l’esecutore prende il nome di aedo/cantore (= il compositore) oppure di rapsodo/cucitore di canti (= esecutore d canti già esistenti da lui organizzat)i. Tali figure sono spesso sovrapposte tra di loro, perché ogni nuova esecuzione comporta un riadattamento dell’esecutore che diviene così coautore del testo. I cantori si esibivano presso corti aristocratiche o davanti ad un uditorio convenuto per feste pubbliche, durante le quali si tenevano gare di recitazione poetica, soprattutto durante giochi pitici (Delfi), feste carnee (Sparta), panatenee (Atene), e varie feste religiose. Il poeta è un personaggio socialmente attivo ha la capacità di trasmettere ad un uditorio più o meno vasto il patrimonio letterario e mitico è il padrone della memoria collettiva e l’unico mediatore di questa (in assenza di scrittura). Quindi la trasmissione delle opere avveniva oralmente (fino alla fine del V secolo a.C. – termine dell’età classica). I testi venivano comunque scritti in precedenza ma recitati oralmente; si parla di fenomeno dell’auralità: nuova tecnica di registrazione che lascia poco spazio alla possibilità dei rapsodi di apportare modifiche. Differentemente, l’oralità è un testo concepito e recitato senza la mediazione della scrittura. Tutte le manifestazioni letterarie della Grecia arcaica ed in genere poetiche si basavano su una comunicazione di tipo orale e non si può prescindere da questo in sede di una loro analisi. La funzione sociale della poesia e i suoi strumenti La poesia nell’età arcaica fu un fenomeno importante a livello sociale, infatti aveva la funzione di trasmettere alle nuove generazioni il sistema fondamentale dei valori della civiltà. I poemi omerici sono stati infatti definiti una “Enciclopedia tribale” dell’identità popolare del popolo. Caratteristiche del testo poetico prodotto oralmente: • Testo prodotto con la compresenza di autore e pubblico, il quale: • Commissiona un certo canto; • Esige che vengano raccontate determinate cose piuttosto che altre; • Partecipa alla performance con trasporto psicologico; • Il poeta impiega determinati strumenti espressivi: • Utilizzo di espressioni formulari; • Scelta di situazioni tipiche famigliari a tutti; • Utilizzo di linguaggio conformista; • Pensare per immagini e non per concetti; • Comunicazione di massa La memoria assume un ruolo fondamentale; le Muse stesse, ispiratrici del poeta, sono figlie di memoria. Il poeta deve, infatti, ricordare migliaia di versi ed è addestrata da maestri che trasmettono all’allievo il proprio sapere. Gli elementi che sono destinati alla memoria sono selezionati e rielaborati per poterli conservare e trasmettere alle generazioni future. Spesso vengono incorporati nel mito, che diviene così il collettore di tutto un passato e che viene trasposto poi in forma poetica. Il poeta e l’uditorio: la psicologia dell’esecuzione orale L’ispirazione corrisponde alla radice dell’opera di un poeta. Si parla anche di possessione, ossia uno slancio fantastico della mente in uno straniamento dalla dimensione razionale. Questo processo creativo non è un processo psicologico, ma un fenomeno di origine esterna alla mente umana: è un’ispirazione divina: le muse prendono possesso del poeta e gli offrono magicamente energie creative. Tra uditorio e poeta si creava uno stretto legame emotivo; si era in uno stato di provvisoria alienazione mentale che permetteva al pubblico di identificarsi con il processo creativo dell’artista il sofista Gorgia affermava: “grazie alla parola l’anima prova come proprie le emozioni altrui”. Secondo Platone il poeta è un posseduto dalle Muse, la dimensione logica cede e la mente subisce un forte trauma emotivo lo spettatore viene portato ad attingere a livelli profondi ed inconsci della sua personalità che in condizioni normali gli sono preclusi. Durante l’esecuzione si crea una totale identificazione tra esecutore, pubblico e oggetto della poesia: l’esecutore si immedesima nell’azione tanto da provare intense reazioni psicosomatiche e il pubblico “vede” le parole del cantore traducendole in immagini come se fosse reali. Il mito Quasi ogni composizione, a partire dall’epica omerica, ha come argomento un mito. Il mito è un racconto tradizionale trasmesso per via orale, lo stesso termine significa parola/ racconto; non è semplice fantasia o ornamento poetico, ma elemento sostanziale per il funzionamento di una società tradizionale. Esso contiene e trasmette il patrimonio di idee, tradizioni e racconti che costituiscono la “cultura” di un popolo illetterato. Il poeta non inventa un mito, lo trova già pronto nella memoria collettiva del suo popolo e lo impiega nel corpo della sua storia, ma, poiché è trasmesso per via orale può essere soggetto a variazioni. In generale narra un evento che si pensa essere accaduto in un lontano passato; quest’ultimo non è considerato fittizio, ma assolutamente vero. Il mito può: • Trasmettere la storia sacra di un popolo (contiene storia di miti, istituzioni, forme narrative ecc..) • Motivare le origini di un oggetto o di un rito (Mito eziologico) • Proporre modelli comportamentali a cui attenersi trasmissione di valori morali di una civiltà; • Conservare in forme fantastiche la memoria di fatti e di eventi del passato. Il mito è l’espressione dell’immaginario collettivo, infatti esprime il modo in cui una determinata civiltà pensa se stessa e definisce i suoi rapporti con la realtà. Il mito è anche un modo per pensare che si sviluppa attraverso immagini e non schemi logici ed astratti (ma non perché sia caratteristico di popoli incapaci di pensare il termini razionali), ma perché è un tipo di pensiero che si affianca a quello razionale e che viene attivato in una società illetterata per rispondere a determinate necessità. In un certo senso si potrebbe dire che il mito è una sorta di “filosofia primitiva” fatta per corrispondere alle esigenze e agli orizzonti intellettuali di una società tradizionale. L’epica I poemi omerici La poesia epica A lungo si è pensato ai poemi omerici come poesia primogenita dalla quale sono derivate le successive forme letterarie. Per i greci la civiltà iniziava con il mito eroico, e quindi con l’epica omerica, la quale ebbe una tortuosa preistoria durante la quale si definirono le due forme espressive e stilistiche. Non sappiamo quando la poesia epica greca abbia avuto origine, ma sappiamo che in età micenea (XVI- XII a.C) esisteva già una poesia epica (benché se ne possa intravedere poco), la quale sarà presente in alcuni aspetti in quella omerica (per il fenomeno della cosiddetta “stratificazione epica”). Alcuni aspetti della civiltà materiale (armi e oggetti) e della società micenea sono presenti in Omero. L’archeologia, inoltre, conferma che sia da attribuire a questo periodo la conquista di Troia (distrutta nel 1200 ca), di cui tratta il racconto, ma i poemi omerici sono sicuramente stati prodotti in un’epoca successiva, il cosiddetto “Medioevo ellenico”, corrispondente al post-crollo della civiltà micenea. La poesia epica fu composta e trasmessa oralmente (causa la mancanza di alfabeto) si parla infatti di rapsodie, ossia di bravi di estensione più o meno ampia composti ed eseguiti da bardi professionisti. Bisogna tuttavia distinguere una: • Fase primitiva in cui la poesia epica era affidata totalmente all’oralità (sia per composizione che per tramandamento); • Fase successiva i poemi circolano oralmente, ma vengono registrati per iscritto. I poemi omerici sono collocabili tra queste due fasi. Una caratteristica fondamentale della poesia greca fu quella di essere destinata alla recitazione da parte di un esecutore e quindi all’ascolto: sistema comunicativo caratteristico era il “face to face” = società di piccoli gruppi in cui ogni forma di comunicazione passa attraverso la diretta interrelazione tra i membri del gruppo stesso. Solo una minima parta di questa produzione epica ci è pervenuta. Bisogna escludere che la poesia epica sia stata la più antica manifestazione letteraria delle genti di lingua greca; il mito stesso ricorda varie figure di leggendari cantori come Orfeo e Lino, che eseguivano carmi con l’accompagnamento della cetra. Aristotele nella sua “Poetica” colloca l’epica prima di altre forme poetiche, ma cos’è l’epica? È una forma di poesia recitata (non cantata) da un poeta professionista, padrone di un bagaglio espressivo tradizionale, che intratteneva un pubblico più o meno vasto sia nei palazzi aristocratici che nei villaggi. Il contenuto di questa poesia è il mito, narrato dal poeta in forma oggettiva, quindi non emerge la personalità di chi racconta ma ha un carattere anonimo e collettivo. Per quanto riguarda lo stile: • Forme stilisticamente fisse e formalizzate (per aiutare la memoria); • Metro utilizzato: ESAMETRO; • Formule tipiche e convenzionali (es: epiteti) • Può trattare non solo del passato mitico ma anche di altri temi. Con lo sviluppo della polis il rapsodo trova spazio anche nell’ambiente cittadino, venivano organizzate delle feste con delle gare durante le quali i poeti si sfidavano per l’ottenimento di un premio. Probabilmente furono proprio le comunità cittadine a decidere di mettere per iscritto le opere migliori, portando alla nascita delle prime “edizioni ufficiali” (dei poemi omerici e degli altri poemi epici), le • CANTO IV Gli dei votano per la continuazione della guerra: Zeus invia Atena sul campo afinché i troiani rompano la tregua e l’arciere Pandaro ferisce leggermente Menelao, così la guerra ricomincia. • CANTO V Diomede (rinvigorito da Atena) fa strage di troiani, dà prova di valore. • Con i troiani anche gli dei prendono parte alla battaglia: Afrodite aiuta il figlio Enea (salvato da Apollo) ma viene ferita da Diomede ed è costretta così tornare sull’olimpo sul carro di Ares, che aiuta i troiani a prendere il sopravvento; • Con i greci Era assume l’aspetto di Stentore ed incita gli achei a combattere ed Atena aiuta Diomede a ferire Ares, il quale fugge urlando sull’Olimpo. • CANTO VI Ettore torna a troia e raccomanda ad Ecuba (madre) di andare al tempio di Atena con le altre anziane per richiedere il favore della dea ed incontra Andromaca e Astianatte presso le porte Scee: vi è un tenero momento di intimità famigliare che non è altro che un inconsapevole addio del guerriero alla sua famiglia. • CANTO VII Ettore si sfida singolarmente contro Aiace ma il duello viene sospeso con il calare della notte, si giunge così ad una tregua: i due eserciti seppelliscono i rispettivi caduti e gli Achei innalzano un vallo a protezione delle loro navi; • CANTO VIII Con l’alba comincia la seconda battaglia: i troiani incalzano e gli Achei si rifugiano dietro il vallo edificato durante la notte; Era ed Atena vorrebbero soccorrerli ma Zeus li blocca. Il calare delle tenebre sospende le ostilità e i troiani si accampano sul posto per non perdere il vantaggio. • CANTO IX Dedicato all’ambasceria ad Achille: Agamennone convoca l’assemblea con la proposta di abbandono del campo e ritorno in patria ma Nestore suggerisce di tentare di far tornare Achille. Agamennone promette ricchi doni, la restituzione di Brieside e una sua figlia in sposa ad Achille se questi riprenderà le armi. Così Aiace, Odisseo e Fenice (pedagogo di Achille) si recano da Achille il quale è sulla soglia della tenda a suonare la cetra davanti al suo amico Patroclo. Egli ospita gentilmente gli ambasciatori ma non accetta la proposta. • CANTO X “Dolonia”. Questo canto è una divagazione narrativa. Agamennone (su consiglio di Nestore) manda in esplorazione notturna nel campo nemico Odisseo e Diomede; Ettore ha la stessa idea e manda Dolone, che viene catturato, costretto a parlare e uccido. Gli achei vengono così a conoscenza dell’arrivo di Reso (re di Tracia) in aiuto ai troiani. Reso viene così massacrato nel sonno da Odisseo e Diomede che portano via anche i suoi splendidi cavalli. • CANTO XI Inizio della terza battaglia: sconfitta degli achei malgrado le prove di valore dimostrare da tutti gli eroi. Achille chiede a Patroclo di andare a controllare chi siano i morti trasportati e quest’ultimo incontra Nestore, che sfodera le sue doti persuasive cercando di far tornare Achille in battaglia o perlomeno a cedere la sua armatura. • CANTI XII E XIII I troiani espugnano il muro dietro cui gli achei si proteggevano • CANTO XIV Poseidone aiuta gli achei approfittando dell’intervento di Era, che ammalia Zeus con il cinto magico prestatole da Afrodite (inganno a Zeus); • CANTO XV Zeus si risveglia e vede Ettore a terra colpito da Aiace così va su tutte le furie e Poseidone è costretto a tornare a casa ed Apollo a risanare Ettore, che viene rinvigorito e dà fuoco alle navi achee. • CANTO XVI Patroclo supplica Achille di cedergli le proprie armi e scendere in combattimento. Achille acconsente ma si fa promettere di non mettere a repentaglio la sua vita; tuttavia Patroclo esaltato dalla paura dei troiani (lo credono Achille) si getta nella mischia e si spinge sino le mura di Troia protette da Apollo che gli toglie la forza Euforbo ferisce Patroclo e Ettore lo uccide - Patroclo predice al suo uccisore la prossima fine per mano di Achille. • CANTO XVII Menelao e Aiace riportano il corpo di Patroclo all’accampamento spogliato dalle armi che ha preso Ettore. • CANTO XVIII Antiloco (figlio di Nestore) porta ad Achille la notizia della morte dell’amico; la disperazione di Achille giunge a Teti che accorre dal profondo del mare; Achille dichiara di voler tornare in guerra per vendicare Patroclo e Teti si reca da Efesto per fargli forgiare nuove armi ancora più splendide delle precedenti. Il canto si conclude con la minuziosa descrizione del suo scudo. • CANTO XIX Achille si presenta all’assemblea e dichiara che tornerà a combattere; Agamennone gli rimanda Briseide con altri doni a Xanto, il cavallo di Achille, reso parlante da Era, predice ad Achille la morte vicina per mano di un uomo e di un Dio. • CANTO XX Si inizia la quinta e ultima battaglia: Zeus raduna il concilio divino e dichiara che resterà neutrale (gli altri dei decidono di partecipare). Con gli achei: Era, Atena, Poseidone, Ermes ed Efesto; Con i troiani: Ares, Apollo, Artemide, Latonia e Afrodite. • CANTO XXI Achille semina morte e distruzione alla ricerca di Ettore (muoiono così tanti soldati che le acque del fiume Scamandro vengono ostruite. Achille sta per essere travolto dalle acque ma viene salvato da Efesto e i troiani spaventati si rifugiano all’interno delle mura. • CANTO XXII Ettore decide di attendere Achille all’esterno delle porte Scee ma Ecuba e Priamo, i genitori, piangendo lo esortano a rientrare. Alla vista di Achille, Ettore viene preso dalla paura e inizia a correre, infatti fa per tre volte il giro intorno alla città, ma Atena prende le sembianze di uno dei suoi fratelli (Deifobo) e lo spinge a combattere facendoli riacquistare il senso dell’onore. Durante il duello il finto Deifobo scompare ed Ettore si rende conto che gli dei vogliono la sua morta ma continua comunque a combattere finchè Achille gli squarcia la gola. Ettore predice ad Achille che morirà per mano di Apollo e Paride. Successivamente Achille spoglia il cadavere, lo attacca per i talloni al carro e lo trascina nella polvere sotto gli occhi dai suoi cari straziati dal dolore. • CANTO XXIII Ampia e minuziosa descrizione dei funerali di Patroclo; nel frattempo la salma di Ettore giace insepolta mentre Achille continua a sfregiarla. • CANTO XIV Comincia con il concilio degli Dei mossi a pietà dal triste spettacolo, Apollo ne è particolarmente indignato. Zeus manda a chiamare Teti affinché comunichi al figlio lo sdegno divino; Priamo si reca nottetempo da Achille per implorare la restituzione della salma offrendo in cambio ricchi doni e Achille si commuove, così non solo restituisce il corpo, ma lo pulisce. Così Priamo riporta il corpo dell’ero a Troia, dove viene compianto dai cari e dal suo popolo. Troia, al tempo stesso, senza l’eroe non ha alcuna possibilità di vittoria. Il poema si chiude con le parole di Elena, la cui bellezza ha provocato la guerra di Troia e sulle fiamme della pira funebre di Ettore. L’iliade è considerata il prodotto artisticamente più evoluto dell’antica poesia epica. Aristotele nella “Poetica” dichiara che la radice prima della grandezza di Omero sta nella sua capacità di organizzare la materia; egli infatti non racconta tutta la guerra di Troia, ma un episodio attorno al quale cresce e ruota tutta la vicenda. L’iliade è un’opera “aperta”, ossia connessa con un ampio ciclo narrativo, lo dimostra l’ultimo verso del poema che terminava con l’arrivo dell’amazzone Pentesilea a soccorso di Troia (se ne parlerà nelle “Etiopide” = poema epico perduto. Quasi ogni episodio contiene divagazioni. L’ira di Achille è il tema centrale, la stessa opera inizia con la parola “ira”. Il conflitto tra Achille, rappresentante dell’individualista aristocratico e orgoglioso, ed Ettore, emblema dell’arroganza data dal potere, possibile solo in una società che non è divisa in caste. • Ettore secondo Ugo Foscolo è il difensore della patria che sacrifica la vita per la propria città, portatore di stanze morali maggiormente evolute; questo perché combatte dalla parte degli aggrediti, combatte dinnanzi agli occhi dei suoi cari e ha timore della morte ed infatti fugge, per poi decidere di accettarla valorosamente. In realtà il suo sistema di valori è lo stesso di quello di Achille, poiché mosso dagli impulsi dell’onore e della pubblica stima. • Achille incarna la società omerica perché è inflessibile, sanguinario, incapace di mediare. Il suo personaggio subisce, però, un’evoluzione, determinata dalla morte di Patroclo, con la quale egli decide di riprendere le armi ed affrontare la morte; Achille cede anche il corpo di Ettore al padre Priamo La sfida tra Ettore e Achille costituisce il vertice del poema, ma manca la riaggregazione della comunità attorno al corpo dei due caduti, la cui vita potrà dirsi conclusa solo dopo il funerale, che corrisponde ad un indispensabile rito di passaggio, grazie al quale si uniscono alla comunità dei defunti nell’Ade. Gli ultimi due canti propongono un parallelismo narrativo tra il funerale di Patroclo (e la sua sepoltura) e il funerale e la sepoltura di Ettore. Il primo avviene nell’ambito della comunità maschile con un rituale che prevede il versamento di sangue sulla pira e vi sono giochi atletici come tributo in onore del defunto; per il secondo Priamo chiede il corpo del figlio al suo assassino Achille e i due nemici cadono l’uno nelle braccia dell’altro piangendo i loro cari morti o destinati a morire. Con questo passo si evince un’evoluzione dell’ira iniziale di Achille e questo non è altro che un preludio di quegli abissi psicologici descritti dalla tragedia greca. La riflessione sull’ineluttibilità del dolore (XXIV, 525-526) è affidata al mito: davanti alla soglia di Zeus ci sono due vasi che contengono l’uno le gioie e l’altro il dolore; Zeus li mescola e conce agli uomini solo dolore, mentre agli dei solo gioie. L’Iliade contiene temi fondamentali della cultura greca: 1. La concezione agonale e competitiva dell’esistenza; 2. Il conflitto tra individuo e collettività; 3. Una forte emotività l’eroe agisce d’impulso e con tutto se stesso; 4. Dolore e morte; 5. La necessità di fronteggiare con onore il destino. Gli eroi dell’Iliade agiscono come modelli viventi e per questo motivo l’iliade è ritenuto dai greci un poema nazionale. Odissea (Il poema di Odisseo) • 12.007 esametri divisi dagli alessandrini in 24 libri (quante le lettere minuscole dell’alfabeto greco) • CANTO I concilio degli dei Atena, approfittando dell’assenza di Poseidone che si trovava dagli etiopi chiede a Zeus di liberare l’eroe, da sette anni prigioniero ad Ogigia presso Callipso e ottiene il consenso. Nel frattempo ad Itaca i proci si sono insediati nella reggia e pretendono la mano di Penelope; Atena (per metterlo in salvo dai proci che vogliono ucciderlo) si presenta sotto mentite spoglie da Telemaco infondendogli il desiderio di trovare il padre. • CANTO II Telemaco comunica la sua decisione all’assemblea degli itacesi; si procura una nave e parte clandestinamente in cerca di notizie; • CANTO III Inizio della “Telemachia”, ossia del viaggio di Temistocle che non si era mai allontanato dalla patria. La prima tappa è Pilo, presso Nestore che non gli dice nulla del padre ma lo ospita onorevolmente; • CANTO IV Telemaco riparte accompagnato dal figlio di Nestore; la seconda tappa è Sparta, presso Menelao e c’è anche Elena, il quale lo accoglie con un banchetto, durante il quale vi è la narrazione di alcune imprese di Odisseo di cu altrimenti non saremmo a conoscenza e l’astuzia del cavallo di legno. Poi Menelao parla delle proprie peripezie, avvenute nel viaggio di ritorno, del suo incontro in Egitto con Proteo (demone marino), il quale dice a Menelao che Odisseo è prigioniero di Callipso; infine il racconto del destino di Agamennone, ucciso a tradimento da Egisto. • CANTO V C’è una nuova assemblea degli dei (quasi uguale alla precedente) e l’azione si sposta nuovamente su Odisseo; Zeus accetta di inviare Ermes presso Ogigia per convincere Calipso a lasciarlo andare, la quale non senza esitazione lo aiuta a costruire una zattera per andarsene. Poseidone (di ritorno dagli etiopi) suscita contro di lui una tempesta, così la zattera si distrugge e OdisSeo viene salvato da Leucotea (dea marina), la quale gli dona un velo magico da stendere sotto il petto per raggiungere a nuoto la riva; giunto sulla terra ferma cade in un sonno profondo. • CANTO VI Nausicaa (figlia di Alcinoo, re dei Feaci) va sulla riva a lavare i panni con le ancelle ed incontra Odisseo; ispirata da Atena gli offre vestiti e gli mostra la strada all’interno del bosco sacro di Atena dal quale potrà raggiungere la reggia; • CANTO VII l’eroe accolto con ospitalità da Alcinoo ed Arete (sovrani dei Feaci) racconta le avventure affrontate dopo aver lasciato Ogigia, ma non rivela il suo nome; • CANTO VIII Vi è un banchetto: l’aedo canta le vicende della guerra di Troia ed Odisseo si commuove e scoppia in lacrime • CANTO IX Alcinoo convince Odisseo a svelare la sua identità ma Odisseo inizia a raccontare tutte le sue aventure dalla fine della guerra sino a quel momento (da canto IX al XII). Dopo aver lasciato Troia, la flotta di Odisseo sbarca sulla costa della Tracia e vi è un sanguinoso scontro con i Ciconi; una tempesta fa poi approdare presso i lotofagi, che si nutrono di un cibo capace di dare l’oblio e dimenticare la patria; Odisseo, però, riesce a distogliere i compagni e a riportarli sulle navi; vi è successivamente l’approdo presso l’isola dei Ciclopi: Odisseo e i suoi compagni restano prigionieri nella grotta di Polifemo (cannibale) e per fuggire Odisseo da ubriacare il re Polifemo e lo acceca con un arroventato tronco; così lui e i suoi compagni superstiti riescono a fuggire ma Polifemo invoca l’ira del padre (Poseidone) nei confronti dell’eroe. • CANTO X Approdo all’isola di Eolo, re dei venti che consegna ad Odisseo un’otre contenente tutti i venti sfavorevoli al viaggio la navigazione può così procedere serenamente, ma quasi raggiunta la patria Odisseo si appisola ed i compagni curiosi aprono l’otre e finiscono così in alto mare. Nella terra dei giganti letrigoni le navi vengono attaccate (solo quella di Odisseo sopravvive al massacro) e i superstiti sbarcano sull’isola di Eea (regno della maga Circe), che trasforma i compagni di Odisseo in porci; tuttavia Ermes aiuta Odisseo, donandogli un’erba magica, grazie alla quale l’eroe riesce a salvarsi e con l’aiuto della sua oratoria convince la maga a restituire ai compagni la forma umana. • CANTO XI Circe ordina ad Odisseo di scendere nell’Ade (regno dei morti) per ricavare profezie sul suo viaggio; qui egli incontra la madre, l’indovino Tiresia, Agamennone, Achille ed altri eroi; • CANTO XII La nave costeggia l’isola delle sirene, che ammaliano i mariani con il canto e poi li uccidono; Odisseo tura le orecchie dei suoi compagni con la cera e si fa legare all’albero della nave in modo da poter ascoltare il canto delle sirene ed esaudire così il suo desiderio di conoscenza. Successivamente Scilla (mostro cannibale) e Cariddi (gorgo) bloccano il passaggio dello stretto e Scilla divora anche alcuni compagni di Odisseo. La nave riesce comunque a passare e ad approdare in Sicilia, dove pascolano le vacche del sole, alcune delle quali vengono uccise dai compagni di Odisseo per cibarsene. A ciò consegue una punizione, ed infatti la nave di Odisseo si distrugge in una tempesta; solo Odisseo si salva e raggiunge (aggrappato ai rottami) l’isola di Callipso (egli è stato alla deriva per nove giorni). • CANTO XIII Fine della narrazione di Odisseo, all’ascolto della quale Alcinoo si commuove e gli promette una nave affinchè possa raggiungere la sua patria. Raggiunta Itaca, Atena lo trasforma in mendicante. • CANTO XIV Eumeo (porcaro vecchio e fedele) è il primo uomo ad aver incontrato Odisseo nelle vesti di mendicante; questo gli racconta di aver partecipato alla guerra ed aver conosciuto Odisseo; al tempo stesso Eumeo spiega al mendicante la situazione ad Itaca. • CANTO XV Atena sollecita Telemaco a tornare; quest’ultimo elude l’agguato dei proci con l’aiuto divino. modello fondamentale per la società descritta nei poemi omerici. Nel corso del V secolo, soprattutto attraverso la tragedia attica vi è un mutamento della figura dell’eroe: magnanimo e sofferente (vedi Teseo). • Per quanto riguarda gli dei, nei poemi omerici vi è la prima rappresentazione del pantheon greco, ossia la comunità degli dei che ha sede sull’Olimpo, dove riproducono una società aristocratica patriarcale (come quella umana). Le dodici divinità maggiori (dodekatheon) costituiscono anche in seguito la comunità dominante con qualche modifica/inserimento. Esempio: Dionisio al posto di Estia. Gli dei agiscono a fianco degli uomini e come gli uomini per quanto riguarda vizi e virtù. L’anonimo del Sublime afferma: “sembra aver trasformato gli uomini della guerra troiana in dei e gli dei in uomini”, ma “noi uomini quando siamo infelici troviamo rifugio nella morte, mentre Omero degli dei ha reso eterna non l’esistenza ma la sventura”. Nel VI secolo a.C Senofane accusa Omero di aver attribuito agli dei “tutte le cose che per gli uomini sono vergognose ed infami”. Non è possibile stabilire quando abbia avuto origine il pantheon greco: alcune divinità sono nominate nelle tavolette micenee in Lineare B (per esempio Poseidone ed Atena) ed altre sono entrate nella famiglia divina successivamente (Apollo o Afrodite), altre ancora hanno cambiato il loro ruolo nel tempo. La religione greca è una religione incorporata: il culto non avviene esclusivamente in tempi e spazi rigorosamente separati da quelli quotidiani (es: sabato ebraico, domenica cristiana), ma è incorporato nei vari momenti della quotidianeità (banchetti ecc.) riti minori e maggiori accompagnano completamente la vita di un greco. Esiodo nella Teogonia emette un primo sforzo per trasformare gli dei in entità morali. La psicologia omerica (preistoria del personaggio) In una società della vergogna tutto è regolato dalla voce sociale, i personaggi non hanno un loro carattere personale e persino il sogno assume la forma di dialogo tra un’immagine esterna alla mente e la persona addormentata. La parola psiche ha nei poemi omerici un’accezione diversa da quella moderna solo nella metà del V secolo a.C. cominciò a farsi strada l’idea che le funzioni superiori della mente fossero governate da un principio invisibile chiamato pshiche. Nei versi omerici essa è un soffio vitale che si manifesta quando abbandona il corpo moribondo; dopo la morte si aggira nell’Ade come un’ombra: ombra sotterranea, fantasma e sogno sono infatti designati dalla stessa parola che designa il “doppio invisibile” del corpo che continua a sopravvivere. Nella lingua omerica non esiste un termine per definire il corpo in quanto tale: si parla di ginocchia, mani, testa, diaframma. La parola che in seguito nella lingua greca indicherà il corpo in Omero è il cadavere privo di vita. L’uomo omerico è un uomo primitivo, che accetta la presenza di forze contrastanti senza tentare di reprimerle. Hermann Fraenkel paragona l’uomo omerico ad un campo aperto di energie che si estendono senza limiti definiti del tempo e nello spazio nel quale operano forze esterne (ira, follia, amore, aggressività). Le manifestazioni mentali descritte nell’epica di Omero sono affidati agli organi parziali dell’anima: • una forza che uscita emozioni (thymòs) è l’organo attraverso il quale l’individuo percepisce emozioni e passioni, è una forza incontrollabile che spinge l’uomo ad agire; quest’impulso deve essere tenuto a freno ed è contemporaneamente concetto astratto (passione, impulso), entità fisica (tradotto come cuore) e sede di un conflitto psicologico; altre volte thymòs è un secondo io posto all’interno dell’individuo (“un eroe si rivolse al suo nobile thymòs” piuttosto che “a se stesso”). Il thymòs è quanto di più vicino possieda la lingua epica per indicare la parte dell’uomo a compiere azioni irrazionali. • un’altra che fa nascere le rappresentazioni mentali in modo chiaro e distinto (nòos); entrambe agiscono in un modo autonomo l’uno dall’altro. Il nòos significa propriamente “diaframma” e fa nascere le rappresentazioni mentali, quindi porta l’individuo a pensare: quando si usa il nòos significa che “un Dio ha portato via il nòos”. Il linguaggio formulare La formula è un’espressione fissa che ritorna nelle stesse condizioni metriche per esprimere un identico concetto. Lo schema più caratteristico e frequente della formula è il nesso: nome con epiteto (es: lo splendido Odisseo / l’astuto Odisseo); vi sono anche formule di interpellazione per gli eroi più importanti, ossia un verso che contiene, al vocativo, il nome dell’eroe seguito da vari epiteti che lo completano (es: divino figlio di Laerte). Una caratteristica fondamentale di questo stile è l’economica formulare per cui vengono evitate formule equivalenti in modo da evitare doppioni; l’espressione formulare non trasmette ciò che è particolare ed individuale ma ciò che è tipico e tradizionale. Il linguaggio formulare: 1. Facilita la composizione fornendo al poeta alcuni schemi metrico-stilistici fissi; 2. Sostiene la memoria del poeta/aedo grazie alle formule può immagazzinare una grande quantità di materiale poetico e tematico; 3. Il pubblico può più facilmente memorizzare ciò che ascolta e riconoscere più facilmente vari eventi e personaggi; 4. Conferisce al verso una cadenza musicale data dal ricorrere delle espressioni; 5. Favorisce la trasmissione del patrimonio culturale. Il linguaggio formulare è il prodotto di una lunga tradizione sviluppatasi attraverso generazioni di rapsodi che si trasmettevano il formulario l’un l’altro apportandovi modifiche e variazioni il linguaggio formulare non è cristallizzato e si andò sgretolando man mano che la civiltà diventava letterata e inoltre la ripetitività della formula era considerata monotona (vedi Apollonio Rodio III sec.). Le forme narrative Per la sua natura orale, la poesia epica richiede l’impiego specifico di determinati schemi narrativi diversi da quelli di una “letteratura scritta”; vi è la necessità di colpire immediatamente la fantasia dell’uditorio, mediante l’utilizzo di un linguaggio fortemente evocativo. Tutto ciò che inceppa nel libero fluire del discorso deve essere evitato. Queste particolarità vengono seguite dalla poesia e prosa arcaica a causa della loro oralità. • Paratassi periodo generalmente corto con la prevalenza dell’accostamento di frasi coordinate. Ha una funziona a livello logico/narrativo: il racconto procede giustapponendo episodi, senza una sequenzialità causa/effetto dando vita ad un flusso narrativo ampio ed ininterrotto. Ciò che nella lingua letteraria sarà espresso in modo articolato, nella lingua orale ha un andamento sciolto e libero. • Linguaggio tradizionale e similitudine il poeta ricerca ciò che è comune e comprensibile alla fantasia dell’uditorio. La similitudine è molto utilizzata, e non la metafora che è comprensibilmente più complessa; vi è inoltre l’utilizzo del mito, dell’apologo e della massima (appartengono al patrimonio comune). La similitudine è una figura stilistica fondamentale della poesia omerica: essa istituisce un rapporto di somiglianza tra fenomeni, elementi o oggetti diversi, mediante espressioni di paragone (come). Essa può essere breve (Achille combatté come un leone) o lunga (frequentissima nei poemi omerici, particolarmente nell’Iliade). Le sue funzioni: • arricchire l’evento descritto, • interrompe la dimensione spazio-temporale del racconto (soprattutto nella narrazione delle scene di guerra), • quindi crea suspance, • riduce la distanza mito-realtà • amplifica il tema narrativo (ripetendolo all’interno della scena creata dalla similitudine). Si inserisce facilmente nella struttura paratattica, non introduce mai nella narrazione elementi sorprendenti rispetta l’uso di uno stile semplice e formulare, tipico della dizione orale la similitudine è quindi parte integrante della tradizione orale. Spesso la similitudine non è isolata ma è posta in relazione con le altre e vi può essere la presenza di coppie/serie di similitudini all’interno di unità narrative più o meno ampie. La similitudine nell’Odissea: 1. Meno similitudini rispetto all’Iliade; 2. In genere attingono dal mondo del quotidiano le similitudini relative alle condizioni del tempo e del mare (frequenti nell’Iliade) sono poche nell’Odissea perché questi elementi sono già motivi fondamentali allo svolgimento della narrazione. 3. Non c’è la tendenza a raggruppare le similitudini in sequenze (nell’Iliade si) 4. La maggior parte delle similitudini sono connesse con lo sviluppo tematico del racconto. • Composizione circolare (ringkomposition) prima di passare ad un nuovo argomento si riepiloga il precedente riallacciandosi all’esordio del brano e usando (spesso) le stesse parole. Perciò la narrazione è sviluppata per strutture che si intersecano, l’esordio e la fine di un episodio si richiamano fra loro si forma così un anello narrativo (struttura circolare) con cui l’autore comunica all’uditorio di aver definitivamente concluso quella parte del racconto. La narrazione non è dunque rettilinea, bensì per sinusoidi: il racconto è scandito da anelli narrativi, più o meno estesi che possono contenerne altri al loro interno, e da digressioni, narrazioni di miti collaterali ecc. • Le scene tipiche si utilizza un modo fisso per descrivere episodi, i vari momenti di una scena seguono un andamento prefissato. Scene tipiche sono, ad esempio, la presentazione dell’eroe e del suo vestiario (seguendo sempre lo stesso ordine) prima di un duello, scene di banchetti, l’arrivo di uno straniero quindi il poeta si muove entro modelli narrativi fissi che varia solo dal punto di vista formale. La lingua di Omero Essa consiste ina una mescolanza di dialetti ed è stratificata , vi si possono distinguere infatti fasi successive della storia linguistica greca perché coesistono forme arcaiche e forme più recenti. Si distinguono poi vocaboli già presenti nelle tavolette micenee di Pilo (sembrano derivare da una fase micenea della poesia epica): es: il digamma (F) è una lettera che alla redazione dei poemi omerici era già ampiamente scomparsa ma compariva ancora nella fase antica della tradizione epica e la cui presenza fu scoperta da Richard Bentley, attraverso lo studio della presenza dello iato. Inoltre la lingua epica reca testimonianza di uno stadio arcaico in cui non esisteva ancora l’articolo; in altri casi, però, l’articolo viene usato nella sua funzione linguistica definitiva. Dal punto di vista dialettale vi è una presenza massiccia dello ionico, ma vi sono anche elementi eolici si è pensato ad un’origine eolica e ad una traduzione ionica successiva quando Smirne, città eolica, attorno al 700 a.C fu ricolonnizzata dagli ioni; tuttavia le forme eoliche sono presenti anche in stadi linguisticamente più recenti, così una spiegazione diacronica non può essere sostenibile. Una caratteristica tipica della poesia greca è che il dialetto impiegato dipende dal genere letterario e non dalla patria dell’autore. Il verso epico È l’esametro (chiamato anche verso eroico), il verso di sei misure, che assieme al pentametro fu anche il metro dell’elegia. Esso a partire da Ennio divenne il verso della poesia epica latina sostituendo il saturnio, antico verso locale. Aristotele nella “Poetica” afferma che l’esametro è il verso da utilizzare per esprimere concetti e generi elevati. Incerta è la derivazione dell’esametro, come verso pre-greco ereditato dai greci dall’epica locale; altri lo fanno derivare da metri cantati nell’antica tradizione poetica variamente combinati tra loro. Lo sviluppo dell’esametro: • L’esametro legato alla poesia orale, ampiamente libero dotato di una flessibilità compositiva dovuta alla recitazione; • Esametro ellenistico, elaborato dai poeti dotti dell’epoca, che impone una cadenza rigorosa (è destinato alla lettura); • Esametro tardo, ancora più rigido. L’esametro è un metro di natura quantitativa, cioè fondato sull’alternanza di sillabe lunghe e brevi, formato da una serie di dattili (costituito da una sequenza di una sillaba lunga più due brevi) e poiché una lunga è pronunciata in un tempo doppio rispetto alla breve, allora può sostituire le due brevi e si avrà così uno spondeo (lunga+lunga). A differenza della metrica italiana che si fonda sul principio dell’isosillabismo (uguale numero di sillabe per ogni vero), quella greca si basa sull’isocronia (uguale durata delle sillabe che possono però variare di numero). Il dattilo comporta: • Cesura, ossia una pausa, ossia sedi in cui è obbligatoria la fine di una parola; le principali si trovano all’interno del terzo piede ed altre possono trovarsi anche nel secondo o quarto; • Dieresi, ossia una separazione che può verificarsi alla fine del quarto piede e si chiama così perché cadendo alla fine del piede non spezza il ritmo dattilico; • Ponte, è il punto del dattilo in cui è vietata la fine di parola (il più noto è quello che vieta la fine di una parola tra le due sillabe brevi del quarto piede). Poeti epici minori I poemi del ciclo Si designa con tali parole l’insieme dei poemi epici che completano la materia narrativa del mito troiano. Sin da Erodoto (V secolo a.C) si hanno incertezze sull’attribuzione di questi poemi. Nel corso del III secolo a.C i filologi alessandrini negano definitivamente l’attribuzione ad Omero; Aristarco definiva gli autori del ciclo più giovani rispetto ad Omero ed essi vennero poi identificati con famosi rapsodi attivi in epoca arcaica ( tra l’VIII e il VI ) (ma in modo del tutto incerto). Il ciclo epico si presentava come una sequenza di poemi che sistemavano la materia mitica e la riorganizzavano in un insieme di opere che avevano la pretesa di formare una serie ininterrotta. Il ciclo troiano: dopo la Teogonia e la Titanomachia, che cantano l’origine del mondo e degli dei, seguiva una serie di poemi incentrati sulla guerra di Troia in un ordine sequenziale (totalmente perduti se non per qualche frammento) e ne conosciamo l’argomento grazie a riassunti presenti nella Crestomazia di Proclo. La sequenza è: Canti di Cipro, 11 libri, attribuiti a Stasino di Cipro, che narravano le vicende antecedenti a quelle dell’Iliade: dal giudizio di Paride all’inizio della spedizione con sacrificio di Ifigenia; Iliade, Omero, 24 libri; Etiopide, di 11 libri e attribuita ad Arctino di Mileto, che narrano la lotta di Achille contro Pentesilea (regina delle Amazzoni) e Memnone (re degli Etiopi) Achille muore per mano di Paride e vi è una contesa tra Aiace ed Odisseo per quanto riguarda le armi di Achille. Piccola Iliade, 4 libri attribuiti a Lesche di Mitilene, in cui si narrava la follia ed il suicidio di Aiace per non aver ottenuto le armi e la costruzione del cavallo di legno; Distruzione di Ilio, in due libri di Arctino di Mileto, in cui si narra la notte dell’incendio e la distruzione di Troia; Ritorni, in 5 libri di Agia di Trezene, in cui si narrano le vicende degli esuli di Troia escluso Odisseo; Odissea, in 24 libri di Omero; Telegonia, in 2 libri attribuiti a Eugammone di Cirene, in cui si narra la storia di Telegono, figlio di Odisseo e Circe (che Telemaco sposa); Telegono va ad Itaca in cerca del padre e uccide Odisseo (non lo riconosce) e sposa Penelope. opere: I consigli di Chirone, L’astronomia, Melampodia). La poesia di Esiodo si muove ancora nell’ambito dell’oralità ma rappresenta un aspetto della tradizione epicorapsodica parallelo ad Omero: se i poemi di quest’ultimo sono espressione della civiltà aristocratica, quelli di Esiodo sono espressione di un ambiente rurale più evoluto nei versi di Esiodo emergono tematiche e problemi tipici di una cultura/popolazione prettamente agricola alla quale sostanzialmente si rivolge, come la Beozia, luogo noto nell’antichità per la sua arretratezza (motto: “porca Beozia”, per il poco ingegno del popolo). è a questo pubblico che Esiodo si rivolge. Esiodo è stato definito un poeta sapiente, a cui è affidato il compito di trasmettere con i suoi versi il patrimonio tradizionale di conoscenze; egli ha consapevolezza del suo ruolo di poeta-veggente perché affidatogli dalle Muse: ha infatti il compito di cantare cose vere ed è considerato il precursore della filosofia da Aristotele (metafisica); quest’ultimo sostiene che la Teogonia abbia come obiettivo la ricerca del principio dell’universo, come avrebbero fatto poi i filosofi ionici. Tuttavia Esiodo non fu né filosofo, né teologo: la Teogonia cerca di dare un ordine alle idee dell’universo, ma rimanendo sempre all’interno della mentalità mitica. Esiodo concede poco al gusto di raccontare, il mito viene condensato e sintetizzato; egli adotta la lingua epica e vi è presenza del dialetto locale e di schemi formulari ignoti ad Omero. Nelle opere e Giorni compaiono anche epiteti enigmatici (forse dovuti all’uso popolare) e si evince un procedere disorganico e poco lineare, mediante collegamenti non omogenei, ma per nessi associativi. Nonostante tutto ci rivela le forme profonde ed originali dell’immaginario arcaico. Il pensiero esiodeo si sviluppa attraverso un linguaggio in bilico tra pensiero astratto e tendenza all’esposizione concreta e pragmatica: in questo senso, Esiodo si pone già oltre l’orizzonte formale dell’epica. La teogonia Essa è il primo tentativo della cultura greca di dare un ordine all’apparato mitico. Trama (pag.48) L’opera di Esiodo non era l’unica Teogonia che circolava, molte altre infatti erano diffuse nel Vicino Oriente (es: la storia Fenicia) e da cui Esiodo è stato influenzato. Tuttavia la Teogonia esiodea è l’unica che ci sia pervenuta interamente ed in lingua greca. È assente dall’immaginario mitico dei greci l’idea di una divinità creatrice: domina un’impostazione materialistica, quindi tutto deriva dalla materia primigenia (persino gli dei non sono altro che l’evoluzione del caos primordiale). Lo sviluppo del cosmo avviene per mezzo di agenti contemporaneamente cosmologici e personificati (zeus, apollo): gli dei della Teogonia non sono solo quelli antropomorfi della religione tradizionale come Zeus o apollo, ma anche le forze della natura (vento, mare, fiumi) e le energie psicologiche (amore, invidia, rivalità). A queste entità il poeta riconduce le dinamiche fondamentali della vita: il principio generativo, la morte, lo scontro tra forze contrapposte che vogliono venire alla luce. Se i dei omerici erano il riflesso della società eroica, quelli esiodei sono il riflesso di un mondo arcaico e lontano, dal quale l’umanità risulta assente. Da questo mondo, però, derivano le radici del presente (es: il banchetto offerto agli dei da Prometeo, nella Teogonia: fu quel pasto a sancire la divisione del mondo umano dal mondo divino, sancendo il loro allontanamento e la loro divisione a causa di un’ingiusta distribuzione delle parti). Nella teogonia dal disordine si giunge all’ordine: il mondo primordiale era costituito da esseri mostruosi, come i Ciclopi e si ebbero progressi ed evoluzioni seppur attraverso delitti ed infamie; tuttavia, pur attraverso ciò, il cosmo progredisce e si giunge a Zeus, un dio giusto che ricaccia i mostri nell’ombra e fa uscire alla luce le forze creatrici che erano state imprigionate. Tale rappresentazione richiede uno sforzo intellettuale per legare la lingua della tradizione epica ai nuovi contenuti Esiodo risulta così più aspro e meno godibile di Omero. Quello di Esiodo è un testo di grande forza visionaria, in cui i tratti del mito vengono rappresentati senza alcuna mediazione, nel loro primordiale carattere selvaggio: • Il cannibalismo di Crono; • L’evirazione di Urano; • Le famiglie divine che si moltiplicano; • La potenza creatrice della natura; • I mostri che si annidano nei recessi dell’universo; • Le forze della notte che formano un mondo di forme simboliche ed inquietanti. Le opere e giorni Tale opera presenta una struttura binaria, come è già evidente dal titolo: Opere descrizione del duro percorso che distacca i mortali dall’età dell’oro e li ha fatti precipitare in un’esistenza scandita dal lavoro e la fatica; Giorni succedersi di giorni e mesi secondo un calendario legato al ritmo stagionale della natura e ai segni soprannaturali della divinità. Trama: pag. 50. Le opere e i giorni nascono da una vicenda privata (il conflitto tra Esiodo e Perse), trasformata in Paradigma (=cornice). Partendo da questa Esiodo ha avuto modo di esporre il sistema di valori di una civiltà contadina: • Lavoro e fatica, • Giustizia, • Prevaricazione, • Organizzazione sociale, • Patrimonio di sapienza tradizionale, • Tecniche agricole, • Ciclo dell’anno Si tratta della prima opera della letteratura greca che non nasce con l’esplicito fine di cantare un mito, anche se il pensiero mitico sostanzia ogni verso dell’opera: Esiodo fa appello al mito nei momenti cruciali della sua narrazione, fa un continuo ricorso agli strumenti espressivi tradizionali (allegorie, favole), vi è la tendenza ad interpretare la vita della civiltà in termini archetipici (tendenza mitica) benchè la materia sia ancorata alla quotidianità di Esiodo e del suo pubblico, egli fa continui riferimenti alle origini, dove furono determinate le condizioni che determinarono l’agire umano: l’origine del lavoro e della fatica, l’origine della donna, delle malattie ecc. queste condizioni corrispondono all’antropologia della società arcaica. Anche il mito delle cinque età è il racconto di un’origine: il mito descrive un progressivo allontanamento degli dei dagli uomini; questi ultimi sono gli unici conoscitori della giustizia (non era utile nell’età dell’oro) e che è necessaria per la convivenza civile. La fatica e la giustizia determinano l’essere umano, che non è uno spirito beato e neanche un animale dominato (come spiega la favola dello sparviero e dell’usignolo = prima favola della letteratura occidentale). Le opere e i giorni ha una struttura più compatta rispetto alla Teogonia, perché procede attorno ad un nucleo unitario. Il mondo delle Opere e giorni è un mondo dei contadini legati ad una cultura magica ed ancestrale e sottoposti a dure fatiche; eppure l’uomo può riscattarsi grazie alla fatica e alla giustizia favorendo una sua evoluzione. Tale dignità viene assunta dal contadino non nel momento dell’areté come per l’eroe, ma nel preservare sulla via della giustizia questo è il mezzo che può riscattare l’umanità nel suo complesso. Nell’opera il tempo vi è una scansione ciclica del tempo: il tempo degli uomini si definisce secondo le loro occupazioni quotidiane, intessute di elementi magici che permettono di comprendere la scelta del “momento adatto” ed il rapporto con il divino (momento adatto per attraversare il fiume, concepire un figlio ecc). si evince un’interpretazione “oracolare” della natura di ciascun giorno i giorni non rappresentano una semplice appendice delle opere, ma ne costituiscono il naturale compimento: l’uomo saggio comprende ogni giorno ciò che è lecito e ciò che non lo è. l’uomo saggio comprende ogni giorno il significato e non varca i limiti del giusto. La lirica La poesia lirica Modi e forme Tra l’VII e il V secolo a.C fiorisce la poesia lirica, la cui produzione è andata quasi interamente perduta. È una poesia destinata al canto con l’accompagnamento di uno strumento a corda (lira o cetra) davanti ad un pubblico e successivamente esteso anche alle composizioni accompagnate da strumenti a fiato (es: flauto doppio). L’epica e la lirica nascono per una comunicazione orale e collettiva e non per una lettura privata. Fino al I secolo a.C era designata semplicemente sotto il termine “canto”; infatti la lirica era cantata diversamente dall’epica che era recitata. In realtà, i due generi hanno delle differenze: LIRICA • Parla di attualità; • Delle volte l’autore parla di sé ed in prima persona; • Si rivolge ad un pubblico selezionato il poeta lirico deve misurarsi con l’orizzonte di attesa degli uditori. (interazione tra poeta e pubblico) EPICA • Racconta il passato mitico; • È collettiva ed impersonale; • Si rivolge ad un grande uditorio indifferenziato (persone radunate in pubbliche feste) La lirica è una poesia pragmatica, che scandisce i principali momenti della vita sociale (riti, matrimoni, feste, simposi) e utilizza un linguaggio “poco lirico” (nel senso moderno del termine), composto da forme nitide ed essenziali, tese a definire una realtà oggettiva anche nella narrazione di esperienze ed emozioni (poeta lirico come cantautore moderno); il poeta si misura con un uditorio al quale deve comunicare direttamente, senza la mediazione della lettura. La lirica ha origini indefinite ma sicuramente molto lontane: l’arte minoica e la micenea raffigurano cantori con strumenti musicali che presuppongono forme poetiche affini alla lirica successiva; figure mitiche di cantori, quali Orfeo e Nino, rimaste nella memoria collettiva; anche in Omero vi è la presenza di forme liriche: il lamento funebre dei funerali di Ettore, l’inno in onore agli dei, il canto per feste nuziali e danze di giovani, le canzoni di lavoro (Circe e Calipso mentre tessano o il “canto di lino” che un fanciullo intona durante la vendemmia raffigurata sullo scudo di Achille). I filologi antichi distinguevano due forme di lirica: la lirica monodica, in cui il poeta canta da solo; la lirica corale, ossia un canto a più voci in genere lo stesso poeta coltiva entrambe le forme. Simposio ed eteria L’ambiente dove scaturisce il testo poetico è il simposio, ossia una riunione di soli uomini convenuti a banchetto, durante le quali bevevano vino, intrecciavano amori, giocavano, cantavano, discutevano ecc. esso è uno spazio maschile (eccezione fanno le flautiste e le cortigiane, ospitate per dilettare i presenti); si tratta di un’istituzione aristocratica: potevano intervenire solo gli appartenenti ad un ceto sociale superiore. I partecipanti al simposio legati da un giuramento formavano le “eterie”, costituite da un’uguaglianza nello stile di vita, coincidenza di idee politiche e da un’omogeneità culturale. Il simposio è un rituale di appartenenza ne si evince da tutto ciò come la lirica arcaica fosse destinata ad un pubblico ristretto di eteri. Gli argomenti che venivano intrapresi durante i banchetti erano vari: temi privati, esaltazione della gioia del convito con i suoi giochi e piaceri, la vita pubblica, progettazioni di azioni politiche comuni. Il simposio raggiunge il suo massimo splendore durante l’età arcaica quando proprio le lotte tra fazioni esigevano l’esistenza di gruppi profondamente legati. Durante i banchetti, però, oltre la politica dominava un altro tema: l’amore il simposio stesso era anche un luogo di corteggiamento, o quanto meno luogo dove il poeta esprimeva i propri sentimenti amorosi; vi era anche la presenza di scherni e recriminazioni contro innamorati ritrosi. La partecipazione al simposio da parte dei giovani facilitava il loro ingresso nel mondo degli adulti attraverso una relazione erotica. Il simposio divenne col tempo sempre più una riunione privata tra amici, ma non perse il suo ruolo di aggregazione sociale. Nell’atene democratica del V secolo a.C tutto si svolgeva pubblicamente ma il simposio continuò a resistere, infatti rimare l’occasione in cui membri delle famiglie aristocratiche si riunivano, ancora fortemente legate alle istituzioni del passato; ciò spiega la natura conservatrice e antidemocratica della poesia simposiale tarda (vedi Teognide). L’elegia, il giambo e la poesia del biasimo I generi fondamentali della lirica sono l’elegia e il giambo elegia era di carattere funerario, esortativo, amoroso, accompagnava elogi e celebrazioni funebri ed era eseguita al suono dell’aulòs; il giambo invece era dal contenuto realistico e di natura aggressiva e beffarda; non era cantato ma recitato con una speciale intonazione: recitativo, e forse accompagnata da uno strumento musicale; inoltre, per la tradizione, Archiloco ne fu l’inventore. I due momenti fondamentali in cui la cultura della vergogna prende posizione nei confronti di un individuo e le sue azioni, per apprezzarlo o denigrarlo, sono le due categorie polari del biasimo e della lode es: in Omero Ettore biasima Paride per la sua viltà ma a sua volta ha paura di essere biasimato dai troiani se fugge dalla battaglia; oppure nella rassegna dei guerrieri, Agamennone biasima pubblicamente alcuni guerrieri e ne loda altri. Il biasimo colpisce chi risulta estraneo ai valori comuni (es: il deforme Tersite che ora parlare in assemblea pur non essendo socialmente adeguato). Nei lirici la polarità lode/biasimo non è più pensiero della società ma soggettivo dell’autore o di un gruppo di autori avversari politici e personali sono pubblicamente derisi e diffamati. Si parla di “spirito del giambo” = poesia del biasimo che opera dinnanzi al pubblico degli eteri riuniti a simposio e può essere autoironica (quando il poeta deride se stesso) oppure può schernire qualcuno del gruppo: la derisione non è distruttiva ma tende a ricompattare il gruppo intorno a sé stesso, nel riconoscimento di una “burlesca” appartenenza. In altri casi la poesia del biasimo ha un carattere più forte: assolve ad una funzione di censura sociale es: prende come bersaglio un nemico, il quale viene criticato, diffamato ed isolato dalla cultura comune. (es: Pittaco bollato come spergiuro, o di Bupalo, deriso per la sua deformità, con l’obiettivo di mettere in ridicolo un avversario politico o una famiglia rivale ciò era strumento di gestione e controllo della pubblica opinione. La poesia del biasimo ha costanti stilistiche, infatti è sia autoironica, gioviale, e usa al tempo stesso un linguaggio violento e crudo (anche volgare). A volte si pone il discorso del biasimo in bocca ad una “persona loquens”, pertanto quando un frammento parla in prima persona, non è detto che questa coincida con il poeta. Altri generi della lirica: Epinicio, citarodia, treno 1. L’epinicio è il “canto di vittoria”” che si intona in occasione di un successo sportivo pubblico e quanto più possibile splendido e fastoso, con l’obiettivo di celebrare la gloria del vincitore davanti alla comunità. In origine era un breve ritornello improvvisato sul luogo stesso della gara, ma dal VI secolo a.C diviene un vero e proprio “genere letterario”, quando i giochi atletici in Grecia conobbero molto sviluppo. L’epinicio veniva commissionato dal vincitore ad un poeta professionista, che seguiva ogni dettaglio della gara e provvedeva a comporre le parole e la musica; vi era la presenza di un coro (istruito dal poeta o da un assistente specializzato). L’epinicio è una poesia d’occasione perché presuppone un committente (aristocratico in grado di sostenere le spese) ed un pubblico vasto, che assiste alla performance che si teneva nel palazzo del vincitore o in una piazza cittadina. Elementi dell’epicinio: 1.a.Mito funge da reference per ogni tipo di messaggio poetico: il poeta sceglie gli aspetti del mito che più si adattano a lodare il committente è tipica l’inserzione continua tra passato e presente, tra la figura dell’ero e quella del committente, che si sovrappongono ed identificano; Probabilmente non era un auleta professionista, ma un aristocratico cultore di musica, frequentatore di simposi e autore di canti destinati a quell’ambiente. Egli cantò gesta militari, come ad esempio la guerra dei greci di Smirne nelle guerre contro Gige, re dei Lidi, il quale morì nel 650 a.C. (gli è attribuito un poema dal titolo “Smirneide”, di cui abbiamo pochissimi frammenti). Mimnermo generava dunque vicende della generazione precedente, ed infatti la sua opera sembra manifestare una tendenza “preistografica”. Le sue elegie furono organizzate in epoca alessandrina in due libri: uno in particolare è intitolato Nannò. Nome del flautista a cui dedicava le elegie riunite in questo corpo. Properzio afferma: “nell’amor i versi di Mimnermo valgono più di quelli di Omero” Mimnermo ci è noto soprattutto come poeta d’amore e del rimpianto della nostalgia per la giovinezza sfuggente (secondo Callimaco era troppo prolisso). I due principali frammenti di Mimnermo sono antitetici, posti infatti tra due polarità: la lode della giovinezza e il biasimo della vecchiaia. Un altro frammento importante ha come tema la fugacità della vita, che sviluppa una famosa similitudine omerica del libro VI dell’Iliade: (fr. 2 West) “come le foglie generate nella stagione di primavera, che crescono in un istante ai raggi del sole, così noi godiamo per poco tempo il fiore della giovinezza. Dopo questo tempo è meglio morire che invecchiare, perché molti mali nascono in cuore”. Vengono trattati temi ricorrenti nella tradizione simposiale arcaica: la brevità della vita, l’esperienza del tempo umano come un fragile punto assediato dal gelo della morte, la lode degli effimeri doni di Afrodite. Questi temi non segnalano una cultura stanca e decadente, ma esprimono un atteggiamento esistenziale orientato a vivere l’esperienza della vita e del presente con piena e totale intensità. Semonide di Amorgo Egli nacque a Samo, ma è detto Amorgo per aver partecipato alla fondazione di una colonia in quest’isola; visse probabilmente nella prima metà del VII secolo a.C, quindi fu contemporaneo di Archiloco. Semonide compose elegie e giambi, ai quali è legata particolarmente la sua fama, e gli stessi filologi alessandrini lo collocano nel canone dei poeti giambici (Archiloco, Ipponatte, Semonide stesso). Importante è l’ “Archeologia dei sami”, opera a lui attribuita di cui però nulla sappiamo: si presume rientrasse nel filone della poesia storicheggiante, come la Smirneide di Mimnermo. Di Semonide ci sono pervenuti 30 frammenti e 200 versi totali (relativi solo alla sua produzione giambica). Il frammento più significativo contiene 118 versi, ed è il “biasimo delle donne”, una satira antifemminile (fr. 7 West), in cui ogni donna viene paragonata spregiativamente ad un animale o ad un elemento naturale, sulla base del carattere (donna-ape è l’unica eccezione). Il passo è un documento dell’atteggiamento misogino del pubblico esclusivamente maschile del simposio, al quale i versi erano destinati. In realtà proprio la destinazione simposiale del carme induceva a ridimensionare l’attacco antifemminile, infatti la burla diretta ad una persona/gruppo rientrava tra i temi topici della poesia giambica. Ipponatte di Efeso Egli visse probabilmente nella seconda metà del VI secolo a.C., di famiglia aristocratica, partecipò attivamente alla vita politica e per questo andò in esilio a Clazomene, in Ionia, dove visse in ristrettezza (lo racconta nella sua opera, ammesso che la descrizione sia un resoconto attendibile della sua biografia). La sua produzione è soprattutto giambica ed il suo principale punto di riferimento fu Archiloco, per la comune vena aggressiva. Della sua produzione permangono 200 frammenti per la maggior parte brevi. Egli è noto per aver inventato il coliambo, o giambo zoppo, un tipo particolare di verso. L’orizzonte di Ipponatte è circoscritto alla città, descritta come caotica, piena di odori, popolaresca e rissosa e la sua poesia è cruda, realistica, ancorata alla meschinità della vita quotidiana. Ermes, il compagno dei ladri e dio della truffa è il nome tutelare del poeta, ossia il compagno di avventure che interviene a dare una mano a chi si trova in cattive acque e a cui il poeta si rivolge accentuando i toni della propria degradazione: in alcuni frammenti (32-34 West), si rivolge alla divinità invocando il soccorso di una tunichetta, un paio di sandali e del denaro; come un “clochard” alle prese con l’avventura di vivere istante per istante in una continua lotta contro la fame e il gelo, alla cui fantasia compare, ogni tanto, il luccichio di monete d’oro. Ma il tono gaglioffesco è troppo accentuato per essere realmente autobiografico; si tratta di una bozza davanti al pubblico del simposio per esagerare comicamente la propria condizione di esiliato, bisognoso di solidarietà. Famosa è la rissa verbale contro Bupalo e suo fratello Atenide (fr. 12, 19, 121 West) i due artisti avrebbero raffigurato il poeta in un modo troppo deforme, ed i frammenti sono caratterizzati dal gusto della rissa e della diffamazione: sono versi di violenza pura, senza alcuna mediazione, con insulti alla madre, insinuazioni, minacce, pugni promessi. Al rivale è riservato il ruolo di “capro espiatorio” (frustato con rami di giunco ed esposto al pubblico ludibrio (fr. 6, 8 West). Ipponatte è un poeta dalle varie “facce”: moralista e fustigatore dei costumi, poeta maledetto, poeta realistico-popolare, è un poeta dotto (Degani), che ha in odio il ceto commerciale, quel mondo di parvenus che lui odia, utilizza un metro diverso e ricorre alla parodia, elemento innovativo (a lui risale il più antico esempio di parodia): un poemetto in esametri di stampo omerico rivolto ad un uditorio evoluto di gusti (fr. 128 West). Ipponatte fu infine il creatore del linguaggio popolaresco, i suoi versi sono di straordinaria commistione linguistica, pieni di parole rare, popolaresche e straniere, che rendono variopinto il linguaggio metropolitano di una città di frontiera. Solone Egli nacque ad Atene nel 640 a.C., apparteneva ad una famiglia di antica nobiltà (i meadontidi). Importante è l’anno 594, quando fu ad Atene eletto arconte con poteri straordinari di pacificatore, grazie ai quali riformò la costituzione ateniese. Egli prese dei provvedimenti fondamentali: vi fu lo scuotimento di pesi, ed infatti cancellò i debiti e la schiavitù per debiti (fu per questo considerato il fondatore della democrazia ateniese) e riordinò la cittadinanza su base censitaria, dividendo i cittadini su quattro classi di censo in base alla ricchezza fondiaria e la loro capacità di armamento. Solone fu soprattutto autore di elegie (circa 5.000 versi) e ma anche di giambi ci restano circa 200 versi elegiaci e pochi frammenti giambici (47) e trocaici (27). L’elegia di Solone è di carattere politico: egli delinea il suo progetto di uguaglianza e concordia tra i cittadini, difende il proprio operato di legislatore e accusa non solo gli avversari ma anche i suoi compagni se sono nel torto. Si delinea, così un nuovo atteggiamento, sottolineato dal fatto che Solone non difende il piccolo gruppo, come facevano Alceo o Teognide, ma mediò tra le varie parti in nome della giustizia. La poesia di Solone celebra le norme universali della giustizia e condanna la violenza e la sopraffazione: il suo è un messaggio rivolto alla società complessiva. Importante è “l’elegia alle Muse” (composizione soloniana più estesa che sia pervenuta), che si trova in un’antologia di passi famosi compilata da Stobeo (V secolo d.C.). L’elegia consiste in una preghiera alle muse, ma vengono sviluppati temi etici ed esistenziali in cui si evince la visione complessiva della vita del poeta, tra i temi vi sono: • La giustizia divina, • La punizione per i colpevoli (anche i discendenti di chi ha commesso la colpa lo sono), • Il subordinamento dell’arricchimento alla rettitudine, • L’ineluttabilità del destino, • Le professioni umane, • L’astensione alla violenza, • La fede nel trionfo della giustizia sulla malvagità. Si è supposto che Solone componesse per pubbliche esecuzioni dinnanzi al popolo riunito (es: “l’elegia per Salamina”, con la quale esortava gli ateniesi a conquistare l’isola), e nel simposio , come ad esempio i frammenti in cui Solone celebra i piaceri della vita di un gentiluomo ateniese (come cavalli, amori per i ragazzi, banchetti ecc.); sono passi che rilevano un atteggiamento orientato verso l’esistenza, una solidità di pensiero e di emozioni che corrispondono all’equilibrio del Solone “pubblico”. Lo stile è quello tradizionale dei componimenti arcaici: vi sono elementi di derivazione omerica, strutture stilistiche prevalentemente fondate sulla paratassi ed un andamento circolare della narrazione. Si utilizza un tono piano e monocorde, con la dominazione di un sorvegliato equilibrio espressivo ne emerge poca fantasia. La lingua di Solone è lo ionico-letterario (tipica della produzione giambico-elegiaca), ma viene valorizzato il dialetto locale di Atene, e ciò si riscontra tramite l’impiego di parole specifiche e da un frammento: (fr. 36 West), in cui parla di chi deve andare in esilio e non può “più parlare la lingua attica”; il frammento è il più antico riferimento a questo dialetto. I versi di Solone sono la prima manifestazione letteraria dell’attica e lui stesso è considerato uno dei fondatori della civiltà ateniese. Teognide Nacque a Megara (Nisea), situata tra Atene e Corinto; alcuni credono che sia nato a Megara Iblea, in Sicilia. Comunque visse nel corso del VI secolo a.C., e il momento di massimo splendore fu tra il 544 e il 541 a.C. Era un aristocratico, legato all’oligarchia terriera della sua città e dunque contrario all’emergere di nuovi ceti sociali, si definisce infatti un aristocratico fazioso; per questo gli furono confiscati beni e dovete andare in esilio a Sparta e poi in Sicilia. Sotto il suo nome è stata tramandata una silloge: corpus theognideum, contenente 1.400 versi divisi in due libri: il secondo libro è dedicato all’amore efebico (di soli 160 vv.). Teognide e Pindaro sono gli unici lirici greci di cui possediamo la raccolta completa. Vi è anche la presenza di componimenti di altri autori di età arcaica (Solone, Tirteo), quindi il corpus costituisce un’antologia della poesia conviviale arcaica. È difficile stabilire la data della raccolta, che probabilmente era già formata in età ellenistica (III-I a.C.). nel V secolo a.C. erano già in circolo antologie di poemi simposiali destinate a fornire una base per la memorizzazione di temi tipici o di massime morali (vino, amore, norme del convinto). Bisogna a questo punto ricordare che l’esecuzione poetica durante il simposio coinvolgeva i convitati nella loro totalità, e quindi richiede un atteggiamento attivo da parte dell’uditorio. Ciò si esprimeva mediante indovinelli formulati in versi, esibizioni di una coppia di convitati su un botta e risposta su un tema proposto dall’uditorio e l’improvvisazione di versi su un tema proposto facendo a turno con ciascuno convitato. Il pubblico dava un giudizio e talvolta proponeva un premio. È difficile individuare i componimenti che risalgono a Teognide e quelli aggiunti in epoca posteriore. Sicuramente la parte più concorde e autentica è quella iniziale, dove si trova il sigillo di autenticità, ossia il nome del poeta stesso, affiancato ad nome Cirno (ragazzo da lui amato) a cui Teognide dedicava versi di passione e gli impartiva insegnamenti o ammonimenti poesia paideutica. Le massime moraleggianti sono tipiche nella sua poesia (considerate espressione fondamentale della sua personalità di poeta e sapiente). La tematica delle sue elegie è tradizionale ed uniforme (anche se i temi sono espressi disordinatamente) e tra i temi fondamentali vi sono l’onore, la virtù (superiore alle ricchezze), il disprezzo per i tempi nuovi, le gioie del simposio, l’importanza dell’amicizia e l’amore per i ragazzi egli tocca gli aspetti fondamentali dell’etica aristocratica e tende a trasmettere alla generazione più giovane il codice di sapienza custodito dagli aristocratici (poesia paideutica). Anacreonte Egli nacque a Teo intorno al 570 a.C., dove morì probabilmente, ultraottantenne. A Teo rimase sino all’età adulta e da poeta di corte e affermato fu inviato a Samo da Policrate (ancora indipendente dalla Persia) e dopo la morte di Policrate (522) si trasferì ad Atene, presso Ipparco, figlio di Pisistrato. Quando Ipparco e Ippia morirono, Anacreonte si trasferì in Tessaglia presso gli alevadi. Egli era un professionista, sapeva muoversi negli ambienti aristocratici senza legarsi a nessuno. La sua fama rimase viva anche dopo la sua morte, come dimostrano le “imitazioni delle anacreontiche”. Utilizzò temi e personaggi quotidiani (quelli che poi saranno trattati nella commedia nuova): ragazze che si fanno desiderare ma sono di facili costumi, il parvenu Artemone, il giovinetto Smerdi a cui è stata recisa la chioma per gelosia, la ragazza di Tracia, simile ad una puledra selvaggia ma in attesa di un cavaliere che la domi, le ragazze galanti, i flautisti, uomini e donne del popolo o dell’alta società. Importante è il tema amoroso: l’eros assume le forme di un genietto dispettoso ed incostante (modello che diverrà topico nella letteratura ellenistica). Anacreonte tende a smorzare la violenza del desiderio, trasformandola in momenti contemplativi, per cui il corteggiamento assume l’aspetto di un gioco galante in un’atmosfera garbata e bonaria. Di qui l’impiego di metafore che hanno sfondo ironico e trasformano alcune idee profonde dell’eros arcaico in scenette di costume. In particolare Cleobulo è un ragazzo corteggiato da Anacreonte e al quale dedica un piccolo canzoniere d’amore, contenente episodi racchiusi in una cornice piacevole ed elegante per cui l’erotismo era stemperato in una bonaria contemplazione. Antimodello non è il nemico politico ma l’arricchito Artemone (fr. 82 Gentili), esempio di poesia del Biasimo, ma rivola a contenuti di costume: il personaggio è rimasto psicologicamente lo stesso: un gaglioffo che imita i tratti della raffinatezza sino a divenire una pietosa caricatura di sé. Lo stile di Anacreonte è leggero e garbato ed utilizza come lingua lo ionico letterario, duttile ed evoluto che esprime ogni sorta di tonalità e sfumatura è ormai qui stemperata la forza e l’essenzialità che fanno la grandezza degli altri lirici arcaici.. Anacreonte chiude definitivamente un’epoca. Carmi conviviali Si tratta di poesie anonime che sviluppano temi dell’etica conviviale (felicità, sapienza, amore, politica). In epoca classica queste poesie vennero raccolte in antologie rivolte al pubblico aristocratico del simposio; una di esse è trasmessa da Ateneo di Naucrati (III secolo d.C), anche se parzialmente e che tramanda 25 carmi conviviali del tardo arcaismo di ambiente ateniese. La lirica a Sparta L’ambiente dorico Gli spartani erano cittadini-soldato ma il carattere conservatore dello stato non impedì lo sviluppo della poesia; infatti Sparta era il centro culturale della Grecia continentale nel secolo del primo arcaismo, contrariamente ad Atene. In sparta vi era la presenza di una ricca vita politico-musicale documentata da numerose feste, come ad esempio le Gimnopedie (= danze di giovani nudi) oppure le Carnee, entrambe in onore di Apollo ed erano occasione di festival musicali. Altre occasioni di poesia erano ovviamente i simposi, le cerimonie di iniziazione e varie occorrenze militari (es: l’addestramento del guerrieri). Da ciò deriva una produzione elegiaca di carattere parenetico, incentrata su Tirteo, considerato il poeta nazionale di Sparta. Il ruolo del poeta a Sparta: egli era un tecnico della comunicazione che pone la propria arte al servizio della comunità. In una cultura ancora essenzialmente orale il poeta era chiamato ad assicurare la trasmissione dell’ideologia e delle strutture morali della comunità. La poesia di Sparta è caratterizzata dalla lirica corale (=canto collettivo); fu questo il contributo fondamentale del mondo dorico alla letteratura greca; infatti il dialetto della lirica corale rimarrà anche in seguito, il dorico. All’inizio del VII secolo a.C due poeti godevano di una posizione importante: Terpandro di Lesbo, considerato l’inventore della cetra a sette corde e di modi armonici rimasti fondamentali per tutta la musica successiva; e Taletta di Gortina, che organizzò le prime Gimnopedie (nel 668 a.C.) costoro erano considerati i fondatori di due scuole musicali ma di costoro nulla si è conservato. Dal 600 a.C circa la vita culturale spartana sembra essersi inaridita: lo stato spartano si chiude in se stesso nel tentativo di conservare l’equilibrio politico ed economico. Si ai richiami di Afrodite, il coraggio nel seguire la voce dell’amore. Emerge il tema della memoria: un amore non si dimentica ma continua ad esistere nel ricordo. • Tema importante è anche il tema dell’addio (fr. 94 Voigt), espresso in un canto di commiato rivolto ad un’ignota ragazza costretta ad andare via dal Tiaso per sposarsi il momento del distacco è inevitabile e necessario e al tempo stesso ricco di malinconia perché l’addio è il congedi di una persona da una fase della vita che è ormai conclusa. L’ode procede rievocando l’intimità del rapporto che legava due donne accomunate nell desiderio, parola che conclude la parte superstite del testo. Allo stesso tempo, questo tema rientra nel fr. 96 Voigt, dedicato ad una fanciulla che lascia il Tiaso per sposarsi in Lidia. • Il fr. 55 Voigt esprime un esempio di poesia del biasimo applicata ad un ambiente femminile: chi è escluso dalla poesia è escluso dal ricordo, ed infatti se scompare il nome perché non scritto in alcuna opera, dopo la morte quella persona è dimenticata. • I notturni nella notte avvenivano molti riti della comunità femminile. Il fr. 168b Voigt è attribuito secondo alcune fonti a Saffo, altre invece lo citano anonimo. Il frammento ha varie interpretazioni: riflessioni sulla fragilità dell’individuo dinnanzi all’immensità dello spettacolo notturno, il rimpianto per la giovinezza perduta ed un lamento della poetessa per l’amata che non arriva mentre lei la sta aspettando. • Gli epitalami erano compresi nel IX libro dell’edizione alessandrina e mostrano un altro aspetto della produzione di Saffo: i canti per cerimonie nuziali composti per committenza; essi venivano eseguiti da un coro di fanciulle in occasione delle nozze: durante la processione che portava gli sposi alla soglia della loro stanza e durante il loro risveglio il mattino successivo. I topoi sono la lode agli sposi, il clima giocoso, le immagini malinconiche. Il matrimonio consiste in un rito di passaggio, quindi vi è tristezza per la parte di vita che si chiude e gioia per la parte di vita che si inaugura. Recenti scoperte hanno allargato il raggio di produzione di Saffo, la quale parlava anche di elementi mitici (es: la descrizione delle nozze di Ettore ed Andromaca e l’arrivo a Troia dei due sposi. La concezione dell’amore in Saffo: esperienza psicologica totale che sconvolge una persona al punto da farla entrare in conflitto con se stessa. Fr. 47 Voigt parla della forza distruttiva dell’amore e il fr 130 Voigt è una confessione di gelosia verso Attis che sembra propendere verso la rivale Andromeda; straordinaria è la presenza dell’ossimoro dolceamaro esprime la descrizione dell’amore e dei sentimenti contrastanti di chi ama. Alceo Egli nacque a Mitilene da una famiglia aristocratica negli ultimi decenni del VII a.C., probabilmente nel 630 circa. Le vicende riguardanti la sua vita sono legate a quella di Pittaco (uno dei sette sapienti di Grecia), che eliminò il tiranno Melancro con l’aiuto dei fratelli di Alceo. Pittaco combatté con Alceo contro gli ateniesi per il possesso del promontorio Sigeo sull’Ellesponto; durante la battaglia Pittaco uccise i campione degli ateniesi, l’olimpionico Frinone e Alceo dovette fuggire ed abbandonare lo scudo (come dice in una sua opera che imita Archiloco). In seguito Pittaco e Alceo organizzarono un complotto contro Mirsilo, un tiranno ma l’impresa fallì e Alceo fu costretto all’esilio. Successivamente Pittaco si alleò con Mirsilo governando con lui sino alla sua morte (celebrata da Alceo con gioia); dopo la morte di Mirsilo Pittaco divenne arbitro e governante con pieni poteri per dieci anni e Alceo, ancora costretto all’esilio, descrive Pittaco come incarnazione del male, traditore e addirittura tiranno (colui che sottrae il potere all’aristocrazia e spesso grazie all’appoggio del popolo ottiene un potere personale). È probabile che Pittaco gli abbia permesso di tornare in patria durante i suoi ultimi anni di vita (morì intorno al 560 a.C.). Le Odi di Alceo erano particolarmente diffuse anche dopo la sua morte, e venivano lette sino all’età imperiale, dopo di che Alceo svanisce a causa della troppa attualità legata al suo tempo delle opere; le odi furono pubblicate dagli editori alessandrini, in particolar modo da Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia. Delle sue odi sopravvivono 400 frammenti. L’ambiente di Alceo è meno raffinato rispetto a quello di Saffo, infatti è il mondo maschile dell’eteria e i suoi versi delineano un odio verso i nemici, un rispetto del codice aristocratico dell’onore e dell’ospitalità, una risposta ai dolori dell’esistenza e all’inevitabilità del destino e la lotta politica, dovuta ad una politica sanguigna, che si risolveva in un’aspra lotta tra gruppi quindi con il ricorso al sangue e alle armi si evince una società fondata sull’esibizione della forza. Il simposio funge da cornice delle lodi di Alceo: il fr. 38 Voigt è un’esortazione a bere (“bevi ed inebriati con me, Melanippo”) e si evince il tema del Carpe diem con riferimento al mito: viviamo e poi moriamo ma nel frattempo c’è tutta una vita da riempire: Sisifo è l’eroe astuto che però non riuscì ad evitare la morte e funge da antimodello, ossia colui che non seppe riconoscere i limiti umani (che Alceo ricorda al pubblico). Importante elemento è il vino, che è un miracolo della natura e fonte di esperienze visionarie perché è un sollievo alla pena di vivere. Tale bevanda è preclusa alle donne e si beve collettivamente durante il simposio e seguendo un codice di comportamento preciso; attraverso l’intimità psicologica data dall’euforia del vino si alimentano i legami. Il vino funge da: • Strumento di consolazione alle sventure (fr. 335 Voigt); • Strumento per temperare il disagio del freddo (fr. 338 Voigt imitato da Orazio); • Strumento per esaltare lo stordimento dell’estate (fr. 347 Voigt); • Momento di pausa dalle fatiche quotidiane (fr. 50 Voigt). Elena è considerata adultera e portatrice di mali (diversa era l’immagine che ne da Saffo) riaffermazione dei valori aristocratici androcentrici. • Lo stupro di Cassandra (fr 218 Voigt) è una scena di terribile e concisa ferocia in cui il guerriero ed eroe di Locri, Aiace Oileo, in presa ad una follia omicida e la fanciulla Cassandra avvinghiata come supplice alla statua di Atena (muta e corrucciata che racchiude in sé tutto il potere magico della divinità) questo crimine diede luogo ad un rituale noto nel mondo greco: gli abitanti di Locri erano costretti a pagare la colpa del loro antenato inviando periodicamente due vergini al tempio di Atena nella Troade affinchè servissero a vita come schiave-sacerdotesse, con lo scopo di espiare la contaminazione che Aiace aveva gettato su tutta la comunità (=tributo locrese). Il frammento è mutilo all’inizio e collega l’empietà di Aiace a quella di qualche nemico politico di Alceo. • I frammenti politici sono stati definiti dagli antichi “canti della guerra civile” e scandiscono le varie vicende dello scontro tra le fazioni di Lesbo; l’odio contro i nemici è espresso con i tratti tipici della poesia del biasmo: es emblematico è il fr. 129 Voigt maledizione contro Pittaco (citato come figlio di Irra), con ambientazione il tempio in cui gli esiliati si incontrano per complottare contro il rivale. L’attacco è solenne, sviluppato attraverso l’invocazione che assume i temi del rituale; si enumerano gli dei a cui il luogo è consacrato (Zeus, Era, Dionisio) ed i loro attributi e si evocano le erinni (i demoni punitori). • Il fr. 140 Voigt comporta la descrizione di una sala d’armi, in modo particolare degli strumenti bellici con accuratezza dei termini ed amore per le armi (elementi tipici della poesia omerica e condivisi da quella aristocratica); secondo alcuni tale descrizione rappresenterebbe la stanza dove i convitati ascoltano il cantore che li esorta alla lotta politica (canto parenetico nell’imminenza dell’azione); secondo altri si passano in rassegna alcune armi sorpassate (una specie di rassegna dell’antiquariato) come dono dedicatorio di un tempio. • Fr. 208 Voigt è citato da Eraclito, un grammatico di età imperiale, nelle sue “Allegorie Omeriche” e in cui egli paragona la tempesta del mare alle sciagure causate dai tiranni. La tempesta è dunque un’allegoria, nella quale Alceo ha proiettato simbolicamente eventi della realtà politica contemporanea, cioè la sommossa suscitata a Mitilene e l’avvento della tirannide di Mirsilo. L’allegoria è comparsa per la prima volta in Archiloco (Allegoria della “nave dello stato”) ed è decifrabile solo dai membri del suo gruppo perché non rientrava nell’uso letterario della Grecia antica; verrà ripresa da Teognide (dopo Alceo) ed avrà moltissima fortuna letteraria. / Vedi Orazio e Dante. / • Secondo una tradizione antica Alceo ha corteggiato Saffo che però l’ha respinto (sono dipinti insieme nell’atto di parlarsi su dipinti vascolari del V secolo). Questa leggenda nasce da un’ode di Alceo (fr. 384 Voigt) rivolta a Saffo (ne ignoriamo il contesto) di cui resta solo un verso (probabilmente quello iniziale) citato da Efestione come esempio di dodecasillabo arcaico. Sappiamo che le loro due famiglie erano legate da vincoli di solidarietà e probabilmente non era un corteggiamento ma un omaggio alla fama della poetessa. Alceo utilizza aggettivi come “capelli viola”, “pura”, “dal dolce sorriso”, tipici della sfera rituale e riferiti generalmente a figure divine (il riferimento va probabilmente intesto come un accenno al ruolo di Saffo come sacerdotessa di Afrodite). Vi è una descrizione di momenti e paesaggi violenti e movimentati, espressione della sua poesia vigorosa e sprezzante e di immediata efficacia espressiva; cifra stilistica di Alceo presuppone una sobrietà formale, un uso essenziale del linguaggio (con poche aggettivazioni ed abbellimenti). Arione di Lesbo Egli fu un poeta professionista itinerante, considerato il citarodo più eccellente dell’epoca; visse attorno la fine del VII a.C. ed operò presso la corte di Periandro di Corinto, in Sicilia e in Magna Grecia. Fu il primo a comporre ditirambi (secondo Erodoto) ma la notizia è inesatta perché già Archiloco aveva composto ditirambi; tuttavia Arione ha contribuito a trasformare il ditirambo rituale dedicato a Dionisio in un canto corale di carattere mitico-narrativo; è anche considerato il precursore della forma tragica (secondo un’informazione aristotelica che vede la tragedia prendere forma dal ditirambo). Importante è il suo Inno a Poseidone (conservato sotto il suo nome anche se probabilmente spurio) nel quale il poeta ringrazia Poseidone per essersi salvato da una drammatica avventura marina. La vicenda è raccontata da Erodoto: Arione volendo tornare a Corinto dall’Italia noleggiò una nave ma, giunti in alto mare, il traghettatori provarono a gettarlo in acqua impadronendosi delle sue ricchezze; Arione potè cantare un’ultima volta commuovendo i marinai, poi si tuffò in mare con la cetra e gli splendidi abiti da esecuzione ed un delfino (animale sacro ad Apollo) lo traghettò sul suo dorso sino al capo Tenaro, nel Peloponneso; di qui Arione tornò a Corinto e denunciò l’accaduto al tiranno Periandro, che punì i marinai. La leggenda godette di molta fame ed infatti sul monte di Corinto compare l’immagine di Arione che cavalca un delfino. Poeti della Sicilia e della Magna Grecia Le colonie d’occidente Esse furono fondate sulla costa dell’Italia meridionale e della Sicilia (dal VIII al VII) e divennero il centro di un’intensa vita culturale (in particolare in epoca tardo arcaica: Siracusa, Agrigento, Taranto, Crotone, Reggio). Era un mondo meno cosmopolita di quello della Ionia perché infatti esso aveva a che fare con le primitive popolazioni locali; furono i coloni greci a trasmettere agli Etruschi le forme della civiltà e dell’arte greca la più antica testimonianza a noi nota dell’alfabeto greco è la coppa di Pitecusa (Ischia, fine secolo VIII a.C); nelle colonie d’occidente furono diffusi anche i poemi omerici ma vi era anche un’intensa produzione lirica corale, nota soprattutto grazie a Stesicoro ed Ibico; fiorirono anche le scuole di filosofia (eleati e pitagorici) e nel V secolo nacque la retorica. Stesicoro di Imera Abbiamo notizie incerte riguardo lui; secondo il lessico Suda “Stesicoro” è un soprannome che significa “maestro di cori”, in omaggio alla sua professione di coreografo; probabilmente il suo vero nome era Tisia e nacque probabilmente a Imera (costa settentrionale della Sicilia) e visse tra il 630 e 550 a.C. egli è considerato assieme a Sofocle, Platone, Anacreone uno dei famosi longevi dell’antichità, perché morì in età tarda. Egli operò in Sicilia come poeta professionista ed in molti luoghi come ad esempio Sparta; morì probabilmente a Catania dove è conservata la sua tomba. I filologi alessandrini hanno raccolto le sue opere in 26 volumi (ma ci restano pochi e brevi frammenti). Vi sono stati tuttavia recenti ritrovamenti papiracei, come il papiro di Lille, pubblicato nel 1997, contenente frammenti di una composizione dedicata al mito di Edipo e un altro papiro trasmette alcuni squarci di un poema dedicato ad un’impresa di Eracle (la Gerioneide). Altri componimenti sono: • Iliupersis, la cui trama è ricostruibile dal bassorilievo del I d.C. conservato a Roma nel museo capitolino (la “Tabula Iliaca); • La “Palinodia” un celebre carme su Elena; • “Orseta”; • Una serie di “nostoi” (ritorni); • “Calica” (nome di una fanciulla e di un antico canto femminile) e “Dafni”, entrambi relativi ad amori infelici. Tutto ciò ci dimostra come La poesia di Stesicoro fosse di carattere mitologico e narrativo. Non sappiamo se fosse un lirico corale (in senso tecnico) o un Citarodo (solita che canta con accompagnamento della cetra e talvolta di danzatori): a Stesicoro gli antichi attribuiscono l’invenzione della strofe triadica (strofe-antistrofe-epodo), lo schema metrico tipico della lirica corale; tuttavia i suoi carmi erano troppo lunghi per essere cantati da un coro (es: sul papiro della Gerioneide sono indicati 1.300 versi). Egli fu molto stimato dagli antichi: venne apprezzata la gravità dello stile (come dice Dionigi di Alicarnasso nel “De compositione verborum 24”), la sublimità degli argomenti e l’ampiezza narrativa fu considerato il diretto erede della tradizione epica ed infatti lo stesso Anonimo del Sublime lo definisce “più omero di tutti”; al contrario Quintiliano crede che sia prolisso e torrenziale. La lingua utilizzata è il dorico letterario, con ampio spazio dato alle formule omeriche; vi è abbondanza di discorsi diretti in bocca ai personaggi dei racconti (tecnica narrativa omerica). La trattazione del mito è peculiare: non si riduce ad un singolo episodio ma è narrato distesamente in un modo del tutto sconosciuto al resto della lirica greca e vi introduceva anche delle varianti. La Geroneide narra la decima fatica di Eracle, costretto a recarsi fino ai confini occidentali del mondo per rubare le mandrie di Gerione (pastore gigantesco dotato di tre corpi). Elios brucia Eracle una volta raggiunto l’oceano occidentale ma l’eroe tende l’arco contro il Dio, il quale, ammirato per la sua audacia gli presta la coppa magica d’oro, usata da Eracle per varcare le acque e raggiungere Gerione. Alcuni squarci del poema sono stati recuperati con il papiro di Ossirinco 2617, dai quali deduciamo che Stesicoro utilizzasse un impianto narrativo simile a quello di Omerico, che i personaggi erano trattati secondo gli schemi dell’epica (es: Gerione non è un mostro ma un rivale degno di Eracle, un eroe che accetta il suo destino pur sapendo di esssere vicino alla morte). Il racconto conteneva anche momenti patetici (es: la madre che lamenta la vicina morte del figlio; il momento in cui Gerione cade trafitto dalla freccia di Eracle). Il papiro di Lille contiene un lungo brano in strofe triadiche che apparteneva ad una Tebaide; il testo è una lunga composizione estesa probabilmente destinata ad un’esecuzione citarodica. Secondo la tradizione antica Stesicoro ha scritto un’opera relativa ad Elena, intitolata l’Elena, nella quale la donna veniva raffigurata come adultera; in seguito a ciò i divini fratelli di Elena: Castore e Polluce, avevano privato il poeta della vita come punizione. Allora Stesicoro compose un secondo canto (la Palinodia), un canto rovesciato che fece si che gli venisse restituita la vista perché si narrava che Elena non aveva mai giunta da Paride, ma era stata miracolosamente trasportata in Egitto dove aveva vissuto castamente finché Menelao non andò a prenderla di ritorno da Troia, dove era stato mandato un fantasma di Elena così che la guerra era scoppiata a causa di un’illusione. Le fonti antiche parlano di due diverse palondiche di Stesicoro anche se la questione non è chiara; tuttavia sembra certo che egli abbia trattato più volte lo stesso tema adattandolo alle esigenze dei suoi uditori. Forse la Pindaro (pag.99) Egli era figlio di Diofanto (della famiglia degli Egidi), nacque a Cinocefale presso Tebe, in Beozia; gli antichi indicano la sua fioritura all’epoca della II guerra persiana (480 a.C.) e Pindaro stesso dichiara di essere nato durante le feste pitiche, probabilmente nella pitica del 518 a.C. ad Atene egli perfezionò il suo apprendistato artistico e Laso di Ermone, un ditirambografo, fu suo maestro. Egli era però estraneo alle idee dell’Atene democratica e iniziò la sua attività di poeta professionista, entrando in contatto con i principali circoli aristocratici del mondo greco, specialmente di ambito dorico, a cui Pindaro era più affine. Per questo rimase in disparte durante il periodo delle guerre persiane, come del resto fece la sua patria Tebe. Dopo le guerre si trasferì dal 476 al 474 in Sicilia, presso le corti tiranniche di Siracusa e Agrigento, dove trovò un ambiente affine alla sua concezione di vita. Il suo periodo di attività fu lunghissimo: la prima composizione (Pittica X) risale al 498, quando Pindaro aveva solo vent’anni; l’ultima (Pittica VIII) al 446 a.C., ma la sua acme è tra il 480 e il 460. Pindaro morì ad Argo nel 438 a.C. ultraottantenne, secondo una leggenda nelle braccia di Teosseno, giovane da lui amato e poi traslato a Tebe dove c’era la sua tomba. Pindaro godette di un prestigio talmente elevato che quando Alessandro Magno fece radere al suolo Tebe, intorno al 336, ordinò che solo la sua casa fosse risparmiata. Aristofane di Bisanzio suddivise le sue opere in 17 libri in età ellenistica: • inni (1 libro); • Peani (1 libro); • Ditirambi (2 libri); • Prosodi (2); • Parteni (3); • Iporchemi (2); • Encomi (1); • Treni (1) • Epinici (4) unici non pervenuti per intero e suddivisi in base alle occasioni che diedero origine al canto, in rapporto ai quattro grandi giochi panellenici: • Olimpiche (14 odi), • Pitiche (11 odi) • Nemee (11 odi) • Istmiche (8 odi e parte di una nona) Con totale 44 odi. Il problema più discusso della lirica pindarica è stato quello dell’unità delle sue odi; le opere pindariche hanno senso solo se viste nell’ottica dell’occasione per cui furono composte. Spesso l’ode comincia con un fastoso proemio “priamel” che Pindaro Stesso paragona al frontone di un tempo (Olimpica VI), riprendendo la concezione di Simonide della poesia come “pittura parlante”: iniziando l’opera bisogna creare un frontone che brilli sin da lontano. Anche Pindaro adotta tre elementi strutturali dell’epinicio: riferimenti all’attualità, riferimenti al committente e alle circostanze della sua vittoria (occasione), al mito (collegato all’occasione o al commitente); una serie di massime sapienziali, spesso con funzione di raccordo o di chiusura di una sezione in cui si condensano gli elementi caratteristici della morale arcaica (massima o gnome). Il mito pindarico non è narrato per esteso ma si narra un momento/gesto che in sé dia valore all’intero episodio. Il mondo intellettuale aristocratico riflette il complesso di idee che erano proprie dell’aristocrazia dominante; il suo orizzonte è quello dei nobili discendenti di famiglie illustri, quindi non c’è spazio alle “qualità borghesi”. È un mondo di vincitori; i suoi committenti privilegiano la ricerca dell’aretè, ossia della virtù, che si esprime in ricchezza e fortuna; la ricchezza è particolare, fastosa e munifica, non mercantile e speculativa che si esprime nei comportamenti tipici dell’aristocrazia, ossia generosità, ospitalità, fasto. L’olbos è tributata solo a chi ne è degno; uno dei temi pindarici più profondi è la necessità di conoscere in ogni momento la grandezza e la fragilità della condizione umana. La celebrazione del vincitore contrasta la fragilità dell’esistenza umana e la precarietà della fortuna; il successo e la vittoria non sono altro che un semplice e breve momento di splendore in un’esistenza difficile, l’unica che sia degna di un uomo. La gloria è riservata agli eccellenti, come Achille che scelse una vita breve e gloriosa scartandone una lunga e oscura. È una visione in ritardo rispetto alla nuova cultura democratica che andava elaborandosi in quel tempo ad Atene. Questo tema è ribadito nelle odi degli ultimi anni, soprattutto nella Nemea VIII e Nemea VI. Il linguaggio è elevato e spesso oscuro, per la tendenza a scegliere comunque il modo più complesso per esprimere un’idea o un’immagine. Questa scelta stilistica comporta una tendenza a narrare per scorcio, ma non per frammenti i suoi epinici sembrano cattedrali di parole che possiedono un ritmo nascosto e s’intrecciano tra loro, generando tessuti di immagini, di simboli e idee di straordinaria tensione espressiva. Bacchilide (pag.106) Egli nacque a Ceo (come Simonide) attorno al 520 a.C; la sua morte si inserisce nel 450 a.C. circa e di Simonide egli fu nipote e allievo. Bacchilide era un poeta itinerante, soggiornò a Siracusa presso Ierone, dove concorse con Pindaro. Gli alessandrini dividono le sue opere in 9 libri (4 epinici, 2 ditirambi pervenuti per intero): 6 dal carattere culturale (ditirambi, peani, inni, prosodi, parteni e iporchemi) e 3 canti che parlano di uomini (epinici, canti erotici, encomi). Già nell’antichità l’Anonimo del Sublime paragonò Bacchilide a Pindaro, ma Bacchilide risultò essere un poeta “più facile”: no visionario e no audace nell’espressività, con uno stile semplice, fluido, descrittivo; i miti sono narrati per esteso e con una ricerca di effetti patetici e brillanti mediante l’uso di aggettivazione, il ricorso ai dialoghi tra i personaggi, le scene con tensione narrativa; nonostante tutto egli non è monotono, ma pieno di idee, guizzi e decorazioni lussureggianti). Età classica Il teatro La tragedia La novità dell’invenzione teatrale Non esistono paralleli del teatro greco in nessuna civiltà precedente ai greci; il teatro greco funge da modello fondamentale con cui tutta la tradizione occidentale ha dovuto misurarsi. La tragedia si colloca all’interno della tradizione poetica precedente, sia epica che lirica per l’utilizzo del trimetro giambico, del materiale epico (mito); tuttavia rispetto all’epica vi è una novità: i personaggi si staccano dalla trama del racconto e agiscono con autonomia sulla scena, compaiono dinnanzi al pubblico senza la rappresentazione di un voce narrante e quindi come distinte individualità psicologiche. Se l’epica è una narrazione, il teatro è l’azione è uno spettacolo assai complesso: il coro canta, danza, l’attore recita. Quindi la tragedia utilizza, dal punto di vista comunicativo, strumenti assolutamente nuovi. Anche l’apparato scenico, divenuto sempre più complesso nel corso del V secolo, contribuisce a rendere il dramma un evento fastoso ed emozionante. Se con il racconto si può aggiungere/togliere elementi per rallentare o velocizzare il racconto e renderlo così vario e stravolgente, la tragedia ha la necessità di ritagliare i momenti da rappresentare nello spazio scenico quindi è “limitata” rispetto al racconto; tuttavia quest’oggettiva limitazione è compensata dalla possibilità di scavare nella psicologia dei vari personaggi e quindi di dare profondità alle figure del mito: gli eroi tragici mostrano al pubblico volto ed emozioni riducendo lo spazio tra il mondo lontano del mito e quello attuale degli spettatori. La forza dirompente di questa nuova forma d’arte comportò un lento eclissamento di altre forme poetiche: Aristotele, nella “Poetica” dichiara come il teatro sia il punto culminante di tutta l’arte poetica dei greci. Significato culturale della tragedia La tragedia è l’occasione per uno psicodramma collettivo, in quanto coinvolge tutta la città. La tragedia ha come fine quello di essere spettacolare, ma ha anche un aspetto rituale perché si svolge durante feste religiose in onore di Dionisio; è un evento pubblico fondamentale nella vita cittadina, al punto che per organizzare gli spettacoli venivano impiegate ricchezze ed energie persino nei momenti più cupi, quando ad esempio si era in guerra, e i più importanti uomini politici, come Temistocle e Pericle si occupavano dell’allestimento teatrale, consapevoli dell’importanza del teatro nella vita pubblica. È l’evento pubblico tra i più importanti dell’Atene classica che porta ad una riflessione collettiva sulla cultura della Polis: il teatro è un fenomeno di massa il mito diviene metafora dell’universo cittadino contemporaneo e Walter Nestle dichiara che la tragedia nasce quando si comincia a guardare il mito con gli occhi del cittadino. La tragedia costituisce un modello universale perché pone problemi del quotidiano e fornisce un’interpretazione complessiva del destino umano. Sono tre gli elementi costitutivi del dramma: 1. Il dolore la tragedia mette in scena la sofferenza di un eroe costretto a superare determinate prove che la vita gli pone, metafora della complessità del destino umano. Solo il mondo greco, laico e proiettato verso le varie manifestazioni della vita, poteva inventare la tragedia: secondo George Steiner la tragedia è estranea alla concezione ebraico-cristiana di redenzione, perché la cultura greca non proietta un sistema di premi e castighi, non da una spiegazione per le sofferenza umane (considerate parte inevitabile dell’esistenza umana la sciagura può derivare da un errore come può essere messa lì dal destino senza motivazione, come avviene spesso in Euripide), non mette mai sulla scena la lotta tra il bene e il male e non ha nemmeno la necessità che trionfi il bene. 2. La scelta l’eroe viene posto dinnanzi a due possibilità entrambe dolorose, si esprime così la libertà e la limitatezza dell’uomo, che è libero di compiere le sue scelte ma al tempo stesso non può decidere la sua sorte emerge così un dissidio interiore del personaggio tragico: è “eroe” proprio perché è consapevole della sua sorte di sciagure ed agisce e affronta la sua sorte. 3. Il destino i personaggi sono sovradeterminati: la loro libertà è limitata da forze esterne quali dei, nemici umani, comunità, fato, e al tempo stesso da forze interne, ossia forze oscure che si agitano nella psiche umana e che portano l’eroe alla rovina (vd. Euripide). Si giunge così ad un pessimismo, che è clima di fondo della tragedia e che non è mai disperazione. Aristotele è fondamentale per l’analisi del fenomeno tragico: egli nella “Poetica” dichiara che la tragedia attraverso la pietà e il terrore porta alla purificazione da tali emozioni. La purificazione ha un valore magico (cancellazione di una contaminazione), psicologico (liberazione di un “surplus” di emotività) e medico (eliminazione degli umori che inquinano il corpo. La purificazione comporta una profonda empatia tra pubblico e l’azione drammatica: la produzione drammatica produce una forma istintiva di conoscenza ed il pubblico esce dal teatro diverso da come vi è entrato Il fine della tragedia non è dunque solo artistico, ma anche psicologico ed educativo. L’origine della tragedia Aristotele nella Poetica fu il primo a formulare una teoria complessiva sul genere tragico, utilizzò un’ampia documentazione che a noi non è pervenuta; secondo Aristotele la tragedia nasce da coloro che intonano il ditirambo (canto culturale in onore di Dionisio) e Archiloco è il riferimento più antico al genere. La tragedia da brevi trame e da uno stile burlesco assunse un carattere serio ed il metro da tetrametro trocaico divenne giambo; inoltre dal coro si passò ad un personaggio. Non è però tutto chiaro: il ditirambo dal celebrare Dionisio cominciò a celebrare altri eroi; Erodoto parla di feste cittadine in cui si celebrava il mito di Adrasto, ma successivamente Clistene di Sicione, tiranno, vietò questo culto eroico restituendo i cori a Dionisio. Quale sarebbe l’esatta natura dei cori citati da Erodoto? Un’ipotesi potrebbe essere una forma serio-comica di rappresentazione a carattere rituale impersonata da un coro di esseri animaleschi (i satiri demoni fallici della fertilità che facevano parte del seguito di Dionisio. Anche il rapporto tra tragedia e ditirambo è a noi oscuro: quasi niente della produzione ditirambica è pervenuto, ad eccezione di due ditirambi di Bacchilide non di tema dionisiaco ma quello di Teseo, il grande eroe ateniese; uno di questi è dialogato e comporta uno scambio di battute tra due semicori o tra un coro e il capoocoro. Possiamo pensare, dunque, che in età arcaica esistesse anche un ditirambo non circoscritto al culto dionisiaco; le fonti antiche attribuiscono un ruolo significativo ad Arione di Lesbo, che per Erodoto fu l’inventore del ditirambo, anche se egli ne fu un semplice innovatore, introducendovi (secondo Suda) cori satireschi. Oscura è l’etimologia di “tragedia”: si distinguono le radici di canto e capro, sarebbe quindi “il canto del capro. Già gli antichi ignoravano il valore preciso dell’espressione e immaginavano che si riferisse ai satiri camuffati da demoni oppure al capro assegnato al vincitore dei primitivi agoni mimetici. Un’altra etimologia collega “la tragedia” al raro vocabolo che significa “cambiare voce”, “assumere una voce belante come i capretti”; si tratterebbe di un possibile riferimento agli attori che nella rappresentazione adottano differenti toni di voce oppure al fatto che durante i riti di passaggio si svolgevano performance teatrali. La tragedia, dunque, nasce da un influire di elementi diversi; importante è l’uso della maschera da parte dell’attore come alienazione da sé. L’organizzazione degli spettacoli teatrali Gli spettacoli teatrali in Atene si svolgevano in occasione delle Grandi dionisie, celebrate nei giorni 9-13 del mese di Elafebolione, corrispondente a Marzo; altre feste minori, le Lenee (o feste dei torchi per il vino) furono istituite successivamente, attorno al 440 a.C. e venivano celebrate alla fine dei gennaio, nei giorni 12-14 del mese di Gamelione, corrispondente a fine gennaio e con spettacoli teatrali generalmente comici: i maggiori poeti tragici preferivano riservare le loro opere per le Dionisie. Le feste dionisie erano organizzate dallo Stato e poste sotto il controllo dell’arconte eponimo, che appena assunta la carica sceglieva tre cittadini tra i più ricchi ai quali affidare la Coregia, ossia le spese per l’allestimento degli spettacoli; la coregia era una liturgia, uno degli obblighi a cui i cittadini dell’Atene democratica erano sottoposti. Se un cittadino rifiutava di prendersi l’incarico della coregia doveva indicarne uno più abbiente a cui trasferirlo e questo era costretto a decidere se accettare o rifiutare; in caso di rifiuto avrebbe dovuto scambiare il proprio patrimonio con quello di chi lo aveva indicato (scambio di beni). L’arconte eponimo sceglieva i poeti sulla base di un copione provvisorio che gli veniva sottoposto; in caso di “ottenimento del coro” l’autore doveva curare la regia dell’opera. Le rappresentazioni erano di carattere agonale (come per le esecuzioni rapsodiche); al termine del festival si dava un premio al miglior coro, miglior attore e miglior poeta. Alla gara partecipavano ogni anno tre poeti, ciascuno dei quali rappresentava una tetralogia: tre tragedie ed un dramma satiresco; ogni tetralogia era recitata nello stesso giorno a partire dal mattino (l’agone durava 3 giorni, uno per ogni autore) e il quarto giorno vi era la messa in scena di tre commedie ciascuna di un diverso autore. Subito prima degli spettacoli aveva luogo il “proagone”, ossia l’anteprima delle tragedie: poeti, coreghi, cori, attori, sfilavano nell’Odeon (un edificio presso il teatro, normalmente adibito a concerti musicali), inghirlandati ed abbigliati dei costumi di scena senza maschera, e presentavano al pubblico i drammi che erano in procinto di mettere in scena. Tutta la popolazione poteva guardare gli spettacoli, nel V secolo a.C anche donne, bambini e schiavi erano ammessi e la Polis versava un contributo affinché anche i non abbienti potessero pagare il biglietto. La giuria era composta da 10 persone, una per tribù, estratte a sorteggio tra tutti i cittadini, lo stesso sistema usato per la magistratura. Al termine delle rappresentazioni ponevano in un’urna una tavoletta in cui erano scritti i nomi degli autori in ordine di merito; l’arconte estraeva cinque tavolette sulla base delle quali veniva