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Riassunto I linguaggi della radio e della televisione - Enrico Menduni , Sintesi del corso di Storia Della Radio E Della Televisione

Riassunto dettagliato di I LINGUAGGI DELLA TELEVISIONE E DELLA RADIO di Enrico Menduni

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

In vendita dal 11/03/2016

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Scarica Riassunto I linguaggi della radio e della televisione - Enrico Menduni e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Radio E Della Televisione solo su Docsity! I LINGUAGGI DELLA RADIO E DELLA TELEVISIONE INTRODUZIONE I linguaggi della radio e della televisione sono le forme culturali attraverso cui i due media elettronici comunicano e trasmettono a un pubblico, più o meno vasto, contenuti, testi e messaggi. L’espressione “Teorie e tecniche del linguaggio radio-televisivo è di tipo burocratico ( es. mettere insieme varie categorie simili), ma le differenze tra i due mezzi sono ormai notevoli e dobbiamo distinguere tra linguaggi radiofonici e linguaggi televisivi. La radio e la televisione, e non altri, sono “media elettronici”, si chiamano così perché entrambi utilizzano la proprietà delle valvole termoioniche, o tubi a vuoto, o valvole elettroniche. Il primo tube (valvola) per la comunicazione fu l’Audion, o triodo, inventato dall’americano Lee De Forest nel 1906, senza il quale non ci sarebbe stata la radio come la conosciamo oggi: esso permise infatti la diffusione della voce umana e della musica. I dispositivi elettronici successivi, compreso il transistor e il microchip, sono tutte derivazioni e potenziamenti dell’invenzione di De Forest. Per “forma culturale” intendiamo il modo in cui un determinato concetto, un determinato contenuto creativo viene organizzato, da un autore singolo o da un gruppo di realizzatori, per adattarsi al mezzo con cui sarà comunicato, al pubblico a cui sarà diretto, al contesto sociale in cui sarà collocato. Naturalmente l’autore lavora assorbendo cultura e forme espressive del suo tempo. Le differenze non sono soltanto nella creatività dell’oratore, nel suo modo di interpretare un testo o di esporre delle idee; esse dipendono anche da una serie di condizioni tecniche ( all’aperto o al chiuso, con il microfono o senza ecc. ) e sociali ( la numerosità e le aspettative del pubblico, il fatto che sia pagante o meno, l’attenzione che intende dedicare ecc.). Se queste differenze sono così importanti nel caso di quella che chiamiamo comunicazione frontale (face to face), lo sono ancor di più quando la comunicazione deve passare attraverso un mezzo, un medium, come radio e TV, che ha caratteristiche proprie, molto più complesse dell’acustica di un microfono o di un amplificatore. I media all’inizio, devono affermarsi e vogliono dimostrare la loro bravura. Il cinema appena nato dai fratelli Lumière mostra l’arrivo di un treno nella stazioncina di La Ciotat; la grande locomotiva in movimento occupa tutto lo schermo e sembra travolgere il pubblico spaventato. La radio colloca i suoi microfoni nelle sale da concerto e mostra quanto è capace di riprodurre l’esecuzione della musica. La televisione sperimenta la sua capacità espressiva mostrando ai cittadini tedeschi, nel 1936, le Olimpiadi di Berlino. L’arrivo del treno, il concerto sinfonico, le Olimpiadi sono eventi indipendenti dai media, che si affannano a coglierne l’essenza con i loro mezzi espressivi e tecnici ancora imperfetti. Successivamente i media cercano di creare al loro interno e di sviluppare un linguaggio proprio. Nella fotografia e nel cinema il processo autonomo di confezione di questi eventi in una forma culturale propria è molto più evidente e rapido. Il primo film dei fratelli Lumière è già un prodotto originale del cinema, creato proprio per esso. Fondamentale è il ruolo del montaggio che rielabora le immagini e fornisce al film la possibilità di prendere le sue distanze dall’evento tout court, di interpretarlo e non riprodurlo passivamente, quasi in maniera notarile. Nella radio questa fase notarile dura più a lungo (radio definita “ancella degli avvenimenti”). Il cinema e la fotografia avevano alle spalle veri e propri giacimenti di esperienze espressive, quali il teatro e la pittura. La radio può avvalersi del disco fonografico ( una registrazione notarile della musica) e di voci e suoni in diretta. Diversamente dal cinema e dagli altri media, la radio poteva accompagnare gli eventi nel loro svolgimento (con la trasmissione in diretta), e non giungeva dopo di essi. Inoltre, diversamente dal cinema che richiedeva ,come il teatro, luoghi pubblici di spettacolo, era collocata nelle case degli ascoltatori. La radio capì presto che poteva non essere soltanto un grammofono, ma un medium conversazionale, che si inseriva (talvolta sostituendola) nell’attività relazionale prevalente della famiglia, cioè parlare e chiacchierare. All’inizio i media cercano di “cannibalizzare” forme espressive più anziane prendendo in prestito idee e spunti, tecnici e personaggi. Il cinema lo fa con il teatro, la televisione con la radio. La radio non è discendente in linea diretta di nessuno. I media “cannibalizzati” accusano il colpo ma non scompaiono; generalmente si spostano di lato, assumono altre funzioni sociali. Il teatro ad esempio, non è più lo spettacolo popolare di fine Ottocento ma una forma culturale “di nicchia alta”, che non è più capace come prima di riunire pubblici di massa, che lascia al cinema e ai media domestici come la radio e poi la TV. La concorrenza dei media rappresenta uno stimolo continuo e vivificante, in una specie di contro-cannibalizzazione. La televisione sottrae il centro della scena mediale alla radio, che però si ricicla in grande stile come medium personale e mobile, legato alla musica e ai giovani. Stiamo aspettando ancora un mezzo che spodesti la televisione; forse sarà Internet, più probabilmente una combinazione di Internet, della TV digitale, dei telefoni cellulari. I due media elettronici (la radio ha più di 80 anni, la televisione 70 circa) hanno costituito un’imponente biblioteca potenziale di testi radiofonici e televisivi. Solo potenziale perché l’era della riproducibilità tecnica è stata connotata dall’assoluta deperibilità e volatilità delle emissioni radio- televisive, perché svincolate da un supporto materiale (carta del giornale, pellicola o disco), per il costo elevato della loro registrazione, per incuria o per cattiva archiviazione: atteggiamenti che tradiscono un complesso di inferiorità rispetto ai testi della letteratura scritta, duro a morire. Solo da poco programmi e serie tv sono disponibili in DVD o su Internet; ma la radio e la TV rimangono un po’ come la letteratura prima della scrittura: è possibile studiarle, ma con molte lacune, ricorrendo a fonti indirette. Come avviene per la letteratura, la radio e la televisione hanno conosciuto stili, generi, mode culturali che si sono modificati nel corso del tempo, a seconda dei luoghi e dei gruppi che impostavano la programmazione e realizzavano le trasmissioni (radio e TV sono sempre opere collettive). Generalmente la letteratura come la radio e la televisione si studiano cronologicamente ma ci sono due rischi: 1) parlare troppo del passato e poco del presente 2) le novità in radio e TV non sempre sono l’evoluzione di epoche stilistiche precedenti; i cambiamenti segnalano piuttosto l’irrompere di nuove forze sociali, l’apertura dei mercati internazionali, le pressioni degli investitori, le stagioni della politica. Per questo è meglio partire dalla radio e la televisione di oggi. Esse hanno utilizzato tecnologie elettroniche ma analogiche. Per tutto il 900 si è trattato di tecnologie distinte e separate, fra loro e rispetto alle altre forme di comunicazione. La circolazione dei contenuti e dei testi da un medium all’altro è sempre stata ampia, ma richiedeva necessariamente la conversione da un linguaggio all’altro. Questo assetto è stato messo in discussione a partire dagli anni 80 del 900 e poi travolto nei primi anni del nostro millennio, appena è stato superato lo shock dell’11 settembre del 2001. Il computer si è trasformato in un medium personale che può elaborare, riprodurre e modificare non solo testi scritti ma immagini, audio e video, e serve non solo per lavorare ma anche per il tempo libero e l’intrattenimento; l’utilizzazione delle linee telefoniche ha consentito ai computer di collegarsi fra loro creando progressivamente reti diffuse in tutto il mondo. Nel 1992 l’invenzione del World Wide Web da parte di Tim Berners Lee nei laboratori europei del Cern di Ginevra porta alla costituzione di protocolli comuni che consentono l’interoperabilità delle reti, cioè le connettono tutte per formare insieme Internet. Essa ha rappresentato un poderoso fattore di accelerazione nella circolazione internazionale dei contenuti audio e video, e di potenziamento delle capacità dei singoli di diventare editori di contenuti. L’abbandono delle tecnologie analogiche per quelle digitali è iniziato negli anni 80, nel settore della produzione audio e video, soprattutto nel campo degli effetti speciali e di contenuti brevi e molto pregiati, destinati a colpire lo spettatore. La loro diffusione televisiva o radiofonica era effettuata tuttavia ( e ciò ancora prevalentemente avviene) in forma analogica anche per non costringere gli spettatori a buttar via il loro vecchio televisore. Tecnologie digitali di diffusione televisiva si affermano dalla fine degli anni 90, in varie forme (satellitare, digitale terrestre, mobile) permettendo, grazie alla compressione, di trasmettere più programmi sulla frequenza, o sul segnale satellitare, che prima ne trasmettevano solo uno, e dunque di moltiplicare i canali di trasmissione in modo esponenziale; un piccolo decodificatore (set top box) li rende ricevibili da un televisore analogico. Esattamente negli stessi anni la TV impara a circolare attraverso Internet (web TV, IPTV); permette di accedere ad una grande quantità e varietà di contenuti e il concetto stesso di “canale televisivo” perde una parte del suo significato. I contenuti di maggiore pregio sono tuttavia sempre più spesso offerti a pagamento, concludendo una lunga epoca “di servizio” in cui la TV ne ha garantito la fruizione gratuita a tutti. Con l’avvento della digitalizzazione e Internet i processi di convergenza e integrazione dei media tra loro e con le telecomunicazioni si sono molto accentuati, in un contesto di crescente e controversa apparizioni dell’autorità, nozze e funerali regali, processi ed esecuzioni capitali, sfilate militari; b. le arti figurative e l’architettura. L’imponenza scenografica dei palazzi e dei giardini, dei templi e delle chiese, le grandi statue nei luoghi pubblici, le fontane e le torri, i grandi cicli pittorici che descrivono scene della vita pubblica e storie dei santi; c. lo spettacolo teatrale, le attrazioni itineranti, i giochi sportivi, sempre di carattere festivo e con una forte impronta pubblica; d. la festa, il carnevale. Momenti ricorrenti di trasgressione e di rovesciamento delle regole nel loro opposto, in cui il confine tra realtà e finzione viene continuamente valicato; e. la fiera e il mercato. Luoghi del periodico incontro fra domanda e offerta di merci. Alla fiera si compra e si vende ma essa è anche sede della conoscenza e dell’intrattenimento. In tutti questi casi si tratta sempre di atti unici, di eventi irripetibili, di accadimenti dal vivo. Mentre la comunicazione di massa destinata al grande pubblico aveva questo carattere effimero, la comunicazione stampata rappresentava un grande passo verso la riproducibilità tecnica e la serialità delle opere d’arte e dei frutti dell’ingegno. La riproducibilità tecnica preesiste alla stampa ( es. copia dei manoscritti negli scriptoria dei monasteri) fin dall’antichità. Il concetto di serialità definisce la produzione in serie di oggetti uguali, di costo infinitamente inferiore a quello che avrebbe un pezzo unico, destinati a una larga circolazione: conio di monete metalliche, stampe di oggetti d’uso (utensili) e componenti architettonici (mattoni, tegole). La stampa è il passo decisivo verso la riproducibilità tecnica di oggetti seriali, non particolarmente costosi, trasportabili e di facile commercio. L’invenzione della stampa accentua così il predominio della scrittura sulle altre forme espressive, in particolare suono, voce e immagine, che presentano difficoltà nella riproducibilità. Solo nel 900 una forte spinta sociale verso la rappresentazione determinerà il successo della fotografia e della registrazione su disco: si afferma così una riproducibilità tecnica molto più facile del suono e delle immagini. Capitolo secondo I MEDIA NELLA SOCIETA’ DI MASSA 1. Nascita dei media Una prevalenza della scrittura e della stampa nella cultura e nella comunicazione, che però esclude grandi maggioranze di persone che non sanno leggere e scrivere (prevalentemente abitanti nelle campagne dediti all’agricoltura), per le quali la comunicazione di massa è una risorsa molto scarsa, limitata ad alcune occasioni festive o al passaggio dal loro villaggio di una compagnia di teatranti o saltimbanchi. L’800 è il secolo in cui questo quadro viene radicalmente messo in discussione. Già nel 700 la circolazione delle idee si era fondata soprattutto sulla diffusione di libri e giornali, quasi ovunque soggetti a censure e autorizzazioni delle autorità costituite, che apparivano sempre meno tollerabili. Sia nel Primo emendamento della Costituzione americana del 1787, sia nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, viene affermato il principio della libertà di stampa, che si affianca alla libertà di parola e di espressione. La libertà e la diffusione della stampa ricevono dalla Rivoluzione francese un grandissimo impulso; sulle premesse economiche e culturali di una maggiore circolazione delle idee la Rivoluzione industriale introduce le tecnologie con cui nasceranno altri media centrati sul suono e sull’immagine, che metteranno in discussione il primato della scrittura come forma principe della diffusione della cultura e consegneranno al 900 tutti gli elementi per il primato delle forme della comunicazione riprodotta su quelle della comunicazione dal vivo, “faccia a faccia”: un cambio di paradigma dalle molte conseguenze sul piano della “forma culturale”. L’800 è il secolo dell’elettricità. Il secolo si apre con la presentazione a Napoleone da parte di Alessandro Volta della pila elettrica. La prima applicazione dell’elettricità alla comunicazione è il telegrafo elettrico, introdotto da Samuel Morse negli Stati Uniti nel 1944. Morse è anche l’inventore dell’alfabeto omonimo, un codice che permette di trasmettere a distanza lettere dell’alfabeto sotto forma di linee e punti. Da una stazione telegrafica, dove un operatore specializzato traduce il messaggio in punti e linee, la comunicazione viaggia sotto forma di impulsi elettrici attraverso fili (poi anche cavi sottomarini e transatlantici) fino ad arrivare a destinazione, dove un altro operatore decodifica il messaggio e lo inoltra, con un fattorino, al destinatario: “punto a punto”. Dai tempi del falò sulle montagne, è la prima comunicazione a distanza senza il trasporto fisico di un messaggio. Il telefono, realizzato da Graham Bell nel 1876, è sempre una comunicazione “punto a punto”, col vantaggio rispetto al telegrafo di non richiedere un operatore specializzato che codifichi e decodifichi il messaggio, perché trasmette, sempre nella forma di impulsi elettrici, direttamente la voce umana. Uno strumento facile da usare, anche per una comunicazione a carattere riservato, senza la mediazione pubblica di un operatore. A differenza del telegrafo, quindi, il telefono divenne un mezzo di comunicazione privato (installato nella casa). Molti media, come la televisione, conosceranno prima una fase pubblica e solo successivamente una fase domestica. A rimanere per sempre pubblico è soprattutto lo spettacolo dal vivo, il teatro, o ciò che richiede un luogo dedicato e attrezzature speciali (il cinema). Il telegrafo e il telefono sono in fondo una versione elettrica del servizio postale, un’industrializzazione della corrispondenza epistolare. Sono “media vuoti” perché non contengono un messaggio proprio ma si limitano a trasmettere i messaggi dei comunicatori, anche se li adattano a una particolare forma culturale. Il giornale, il cinema, la radio, la televisione saranno invece “media pieni” perché i comunicatori sono loro, in quanto trasmettono ai riceventi un proprio contenuto. Ai fini della comunicazione di massa sono rilevanti i “media pieni”, anche se i “vuoti” sono stati molto utili per lo sviluppo della comunicazione. Ad esempio, il telegrafo è servito per inviare rapidamente al giornale le notizie; molti quotidiani nel mondo hanno una testata che lo ricorda (“The Daily Telegraph”, “Il Telegrafo”). Nell’800 c’è un grande sviluppo di culture e tecnologie che interessano la comunicazione. Avremo macchine da stampa sempre più veloci (rotative) e macchine per la composizione meccanizzata delle matrici da stampa (linotype), che permettono di stampare in una notte il quotidiano del giorno dopo in centinaia di migliaia di copie. Si affermeranno tecnologie del suono come la pianola, pianoforte meccanico da salotto i cui tasti suonano da soli seguendo uno spartito riportato su un nastro perforato o su un rullo come quello dei carillon. Nel 1879 Thomas Edison, l’inventore americano della lampadina elettrica, realizza il fonografo, uno strumento per la registrazione del suono su un cilindro. Sempre in America, Emile Berliner inventò il grammofono, che utilizzava dischi invece di cilindri e aveva un motore. Il disco poteva essere facilmente stampato e riprodotto in un numero di esemplari teoricamente illimitato, a costi contenuti. Per la prima volta si industrializza la riproduzione del suono e lo si sottrae all’obbligo dell’esecuzione dal vivo. Anche l’immagine viene riprodotta tecnicamente. Dopo i primi tentativi di Joseph Niepce (1822) Louis Daguerre, francese, presenta nel 1839 il suo Dagherrotipo, l’antenato della fotografia, impressionando attraverso un obiettivo una lastra trattata chimicamente e sviluppata in camera oscura. Daguerre è un pittore, scenografo e fantasioso imprenditore dello spettacolo, gestore di un “Diorama” nel quale si paga per vedere uno spettacolo riprodotto di suoni e luci. La fotografia è un perfezionamento chimico-ottico-meccanico del ritratto borghese e, al pari di esso, richiede un operatore specializzato, il fotografo. Fu l’americano George Eastman a produrre nel 1888, una macchina fotografica assai più semplice, che poteva essere utilizzata da chiunque. Questa macchina si chiamava Kodak e doveva la sua semplicità di funzionamento alla pellicola di celluloide, che aveva sostituito la lastra. Nel 1836, in Francia, esce un giornale “La Presse”, in cui per la prima volta una pagina (la quarta) ospita a pagamento la pubblicità. Lo scandalo fu tale che un giornalista, Armand Carrel, sfidò a duello Emile de Giardin, editore del nuovo giornale, rimettendoci la vita. La metropolitana di Londra dal 1861 presenta cartelloni pubblicitari sulle pareti esterne dei vagoni. Nella seconda metà dell’800, a partire dalla Francia, il manifesto anche di grandi dimensioni esposto al pubblico (affiche) diventa la forma primaria della comunicazione commerciale. Le nuove tecnologie si affermano quindi quando c’è una domanda sociale ampia, che determina gli “usi sociali” della nuova invenzione. Sta nascendo una società di massa, l’aggregato umano determinato dalla Rivoluzione industriale, dal passaggio dall’agricoltura all’industria e ai servizi, alla crescita delle grandi città come polo di attrazione. 2. Spazio pubblico e spazio privato Nella città moderna, nelle metropoli, vi è un ampio “spazio pubblico” ormai in buona parte sottratto all’arbitrio dei potenti. Questo spazio pubblico è la palestra dove si esercitano l’opinione pubblica, i movimenti, le forze sociali. Questo luogo sociale e fisico racchiude due concetti distinti: a. una sfera pubblica di libera espressione, di comunicazione e discussione di idee e progetti, anche attraverso libri, giornali e altri mezzi, da parte dei singoli cittadini e delle loro forme associative, che costituisce una forma di mediazione fra la società civile e lo Stato. b. una scena pubblica, in cui accedono alla visibilità pubblica persone, istituzioni, aziende, oggetti, ma dove anche gli eventi e i problemi sono rappresentati, e quindi diventano visibili e sono avvertiti come rilevanti. La comunicazione di massa circola attraverso i giornali, ma sempre più si rivolge attraverso i suoni e le immagini al vasto pubblico che non ha pratica della lettura e spesso né il tempo né il denaro necessario. L’esperienza comunicativa ed estetica di queste grandi masse è fatta soprattutto di cartelloni pubblicitari, della scoperta della città con le sue architetture, i suoi abitanti, i suoi mille luoghi e infine di molteplici forme di spettacolo dal vivo. Tutte queste forme si trasferiranno poi nei media elettronici. Il melodramma è un genere popolare e diffuso, con i primi fenomeni di adorazione divistica di cantanti e compositori; ma nascono intanto nuove forme di spettacolo leggero con il cabaret, il varietà, il cafè chantant, il music hall, il vaudeville, un insieme di brevi numeri in rapida successione tra loro (termine varietà). Accanto allo spazio pubblico c’è poi uno “spazio privato”, abitazione dove si svolge la vita individuale e familiare che ha una sua privatezza (privacy) preclusa agli altri. La casa urbana è adesso collegata da reti di servizio, ma anche dalle linee tranviarie che permettono di edificare periferie lontane, da cui siano raggiungibili sia i luoghi di lavoro sia il centro cittadino. Si pongono così alcune premesse sociali affinché il domicilio diventi luogo gradevole per trascorrere il tempo libero, senza recarsi nello spazio pubblico che ha avuto finora il monopolio dell’intrattenimento e dello spettacolo. Tra i media saranno soprattutto la radio e la televisione a coltivare questo spazio domestico, prolungando la conversazione che vi si svolge. 3. Il cinema La città è l’ambiente in cui nasce il cinema. Le prime proiezioni cinematografiche pubbliche dei fratelli Lumière (1895) si svolgono infatti al Grand Café di Parigi, un classico luogo dell’intrattenimento e della conversazione. Il cinema riproduce e industrializza l’immagine in movimento. Utilizzando la pellicola esso produce molte immagini al secondo (16 cinema muto, 24 cinema sonoro, 25 TV), che fissandosi sulla retina dell’occhio danno l’impressione del movimento. Di ogni pellicola si possono fare molte copie; l’industrializzazione e la riproducibilità tecnica giungono anche nello spettacolo. All’inizio prevalgono i “documentari”, ma già nella prima serata a pagamento c’è la scenetta umoristica dell’innaffiatore annaffiato: è già a tutti gli effetti finzione spettacolare, un racconto interpretato da attori, progettato e realizzato per intrattenere il pubblico pagante. Il film imboccherà decisamente la strada della finzione; il documentario e l’informazione saranno generi importanti ma non in grado di attirare il grande pubblico nelle sale; il giornale quotidiano è assai più tempestivo. La necessità dello sviluppo e del montaggio e quindi una lunga preparazione, toglie al cinema la possibilità della diretta, che ci sarà solo con la televisione. Nei primi anni del 900 sono ancora diffuse le proiezioni itineranti nelle fiere, sotto un tendone. Dal 1910 il cinema si dota di sale di proiezione fisse, talvolta luoghi teatrali trasformati e rimane così un medium totalmente pubblico fino all’avvento delle videocassette. Nel 1920 tutte le città importanti avevano un cinematografo, spesso un edificio imponente. I vantaggi del cinema sul teatro sono notevoli in termini di costo e di diffusione. Infatti il teatro ha un costo molto elevato, c’è un forte rischio (es. se si ammala un attore) e la rappresentazione deve essere ricreata ogni sera. Il cinema fa cose che non erano possibili per il teatro, come scene girate in esterno, trucchi ed effetti, utilizzazione di grandi masse artistiche. Il cinema è qualcosa di complicato da fare, ma facilmente riproducibile. Inoltre il cinema è sempre qualcosa di collettivo: non è più come l’opera d’arte ottocentesca, un prodotto d’autore, bensì una divisione del lavoro rigorosa. Il cinema obbedisce a standard di formato, di lunghezza, di tempi e modalità di lavorazione che ne fanno un prodotto industriale, sia pure non seriale, e reclama a buon diritto il suo statuto di arte. Nel 900 non vi cinema. Inizialmente della radio è stato fatto un uso collettivo; qualche osservatore aveva visto una dimensione democratica del mezzo, in realtà si trattava di un collettivismo per necessità poiché gli apparecchi radiofonici costavano ancora molto e quindi si era costretti a riunirsi nei pochi luoghi pubblici in cui essi erano presenti. Di questa dimensione collettiva per necessità fu fatto negli anni 30 un uso politico: il fascismo e il nazismo hanno usato la radio all’interno di un paradigma informativo del regime, in tempo reale, come un altoparlante per i propri comizi, ma il mezzo radiofonico era piegato ad un uso che non era il suo. L’uso più congeniale alla radio è infatti quello intimistico e privato; la radio è percepita come sinonimo di libertà perché rispetto ai giornali e ai dischi, consente una fruizione spontanea, sostanzialmente gratuita e non ripetitiva, che non presuppone alfabetizzazione e impegno come il giornale. Anche laddove il giornale gode di larga diffusione, la radio arriva a strati sociali più bassi e più numerosi, che raggiunge direttamente a casa loro. 3. Il broadcasting in USA e in Europa: due modelli Negli Stati Uniti, dove la radio è nata, un primo tentativo di farne un monopolio della Marina militare fallì sul nascere. Da allora essa costituì un’attività commerciale, svolta da un colosso come la RCA (Radio Corporation of America), costituita nel 1919 e da tanti piccoli e medi privati. La radio era vista come un affare: si distribuivano gratuitamente i programmi perché i cittadini clienti comprassero gli apparecchi radio. Più tardi, quando il mercato degli apparecchi fu saturo, il ruolo del finanziatore sarebbe stato preso dalla pubblicità. Per la prima volta, questa rappresentava l’unica fonte di entrata di un mezzo di comunicazione. Nel 1927 fu emanata una legge, il “Radio Act”. Lo Stato lasciava ai privati l’attività di trasmissione, tenendo per sé la regolazione e la concessione delle licenze. Poco dopo fu creata per questo un’autorità federale, la FRC (Federal Radio Commission; dal 1934 FCC, Federal Communications Commission). La radio americana si organizzò in tre grandi network: NBC, CBS, ABC, che poi diventarono anche televisivi. Ciascun network è collegato con un gran numero di stazioni locali affiliate, che ripetono il loro segnale. I network forniscono solo una parte della programmazione giornaliera, comprensiva di pubblicità; nelle altre fasce orarie le emittenti locali mandano in onda programmi propri con pubblicità locale. Possono anche consorziarsi con altre stazioni per la produzione di programmi o la ricerca di pubblicità; questi consorzi prendono il nome di syndication. In Europa il problema si presentava in modo completamente diverso e la radio si sviluppò secondo un modello opposto. In quasi tutti i paesi europei la radio si consolida come un “servizio pubblico”, monopolio diretto o indiretto dello Stato, che si sovvenziona attraverso una tassa o un canone di abbonamento ed esclude o lascia ai margini la pubblicità. Tuttavia in nessuno dei paesi europei l’industria radioelettrica avrebbe avuto le dimensioni necessarie a finanziare, come in America, la nascita dei programmi radiofonici. L’esempio più tipico fu quello inglese. Nel 1926 venne costituita un’impresa pubblica la BBC (British Broadcasting Corporation), che aveva il monopolio delle trasmissioni radiofoniche ed era dotata di una precisa missione di servizio: istruire, informare, intrattenere (“impostazione pedagogica” del servizio pubblico), secondo le parole del suo primo direttore John Reith, che diventarono un modello per tutta Europa. La BBC non ammetteva la pubblicità e si finanziava con fondi pubblici. Il carattere pubblico della radio e poi della TV europea favorisce la costituzione di grandi apparati culturali legati alla politica, che governa gli enti radio-televisivi. I paesi autoritari non si lasciarono sfuggire le opportunità propagandistiche proprie del nuovo mezzo, sia in patria sia all’estero. In Italia il governo fascista esercitava un controllo di fatto sull’EIAR (Ente italiano per le audizioni radiofoniche), che operava in regime di monopolio; in Russia l’organizzazione radiofonica era parte dell’apparato propagandistico dello Stato sovietico. L’uso più pervasivo della radio fu operato tuttavia dal nazismo tedesco. Nella seconda guerra mondiale la radio consentì di portare programmi di propaganda dentro le case dei cittadini dei paesi nemici, favorita dal fatto che non si può sapere da dove provengano le trasmissioni radiofoniche captate dall’apparecchio. Dopo la guerra anche l’Italia e la Germania si ispirarono al modello della BBC. In Italia l’EIAR lasciò il posto alla RAI (Radio audizioni italiane, 1944- poi Radiotelevisione italiana). Capitolo quarto LA TELEVISIONE 1. Nasce la TV Tra la radio e il cinema muto si è era stabilita una tacita spartizione dei campi. Il cinema era il leader dello spettacolo nello spazio pubblico, la radio era la regina dell’intrattenimento domestico. L’una aveva immagini, l’altra suoni. Dal 1927 però il cinema divenne sonoro, dimostrando la grande attrattiva di un’emissione contemporanea di suoni e immagini. I dirigenti delle aziende radiofoniche compresero che il loro spazio sociale non era più intoccabile ed era minacciato. La televisione apparve loro come una risposta efficace e insieme un’evoluzione desiderata della radio e ne finanziarono la ricerca. La TV ebbe come contenitore naturale le stesse imprese, lo stesso quadro di riferimento giuridico della radio. La TV eredita gli usi sociali della radio potenziando rispetto ad essa la concorrenzialità con il cinema. Mentre la radio richiede all’ascoltatore un processo mentale di ricostruzione a partire dal suono, dall’immagine mancante, la televisione non affatica, permette di seguire i programmi senza sforzo e senza particolare concentrazione. Nel corso degli anni 30 vari paesi ( Inghilterra, USA, Francia, Germania, Unione Sovietica e Italia) effettuarono esperimenti di televisione che in Germania, Inghilterra e Stati Uniti portarono all’inizio ufficiale delle trasmissioni tra il 1936 e il 1939. La guerra però bloccò tutto. Negli Stati Uniti il decollo della TV fu molto rapido e si colloca tra il 1948 e il 1952 con un immediato successo. In Europa la televisione giunge negli anni 50, insieme alla motorizzazione privata, con analoghe conseguenze sociali. In Italia il servizio televisivo inizia il 3 gennaio 1954 ed è svolto dalla RAI, in regime di monopolio e sotto controllo governativo, insieme a quello radiofonico. La grande espansione della Tv in Italia avviene tra il 1956 e i primi anni 70; dal 1961 ci sarà un secondo canale, dal 1979 un terzo e la TV a colori. 2. TV all’americana Il modello televisivo americano riprende le caratteristiche del sistema radiofonico. Esso è fondato sulla competizione tra più catene televisive indipendenti (network), finanziate dagli investitori pubblicitari e gratuite per lo spettatore. I network non hanno dunque le preoccupazioni pedagogiche e di qualità di John Reith e dei servizi pubblici europei. L’obiettivo di un network è quello di realizzare il massimo di ascolto e di farlo diventare costante e fedele. Dal 1950 la società di ricerche di mercato Nielsen diffuse negli USA indici di ascolto dei programmi TV che concorrevano a formare le tariffe pubblicitarie e affermavano pubblicamente l’attendibilità della televisione. Per conseguire questi obiettivi i programmi della TV americana sono basati sull’intrattenimento. Esso è derivato dalla radio ed è fondato su giochi e quiz, sullo spettacolo di varietà, su prodotti narrativi di finzione a elevata serialità. Ampio spazio è lasciato anche ai notiziari, che sono svolti con l’indipendenza di giudizio e l’alto livello propri della stampa americana e all’approfondimento delle notizie ad opera di un anchorman (giornalista dalla forte personalità che conduce uno spazio fisso). All’informazione si aggiunge l’offerta di eventi spettacolari, sportivi o anche politici, in diretta. 3. TV all’europea Anche le televisioni europee si ispirarono per i loro programmi all’esperienza radiofonica, e ne proseguirono le caratteristiche di monopolio e servizio pubblico. Era un’offerta televisiva limitata e senza concorrenza, in bianco e nero su un solo canale, disponibile in un ristretto numero di ore. Solo negli anni 70 arriverà in Italia il secondo canale RAI e negli anni 70 il colore. Questa televisione aveva un palinsesto (elenco dei programmi) settimanale e non giornaliero, per cui ogni serata era dedicata ad un diverso genere; si pensava dunque a una televisione di appuntamenti attesi con ansia, che veniva accesa solo quando si era interessati ad un determinato programma, non alla fruizione continua del televisore acceso come in USA. L’indice di ascolto non interessava i dirigenti delle TV europee, per loro era importante valutare il gradimento dei programmi. La televisione europea trasmetteva in diretta grandi eventi, cerimonie, cronache di partite sportive; adattava per il piccolo schermo opere teatrali, musicali, letterarie, produceva in studio rubriche. Almeno in Italia l’informazione rimane rigida e ufficiosa; la rappresentazione della politica rimane molto cauta, limitata alle “tribune politiche”. L’intrattenimento era rappresentato da misurati spettacoli di varietà, con cadenza settimanale, realizzati in grandi studi con la presenza del pubblico, e da quiz e giochi, spesso prodotti acquistando il format prevalentemente negli USA. Presto furono proposti prodotti di fiction americani; il film fu un genere scarso per l’intenzione di non fare concorrenza al cinema nelle sale.; la pubblicità: esigua in Italia, in Inghilterra addirittura assente, considerata risorsa accessoria e messa in parentesi come nel programma serale quotidiano Carosello (1957-1977). 4. Radio libera La televisione tolse rapidamente alla radio il ruolo di medium mainstream (più importante e consolidato), conquistando un grande successo. La radio tuttavia seppe trovare un nuovo ruolo e ridefinire i suoi linguaggi e le sue modalità di rapporto con il pubblico. In particolare negli Stati Uniti degli anni 50 si inserì stabilmente nei consumi di una precisa fascia di pubblico, i giovani, che proprio negli stessi anni cominciavano ad affermare una propria individualità con tratti di forte ribellione nei confronti degli adulti. Questa ribellione assunse i tratti della nuova musica rock e la radio divenne la sua naturale alleata. Lo stesso nome rock’n’roll fu probabilmente coniato da Alan Freed, conduttore dell’emittente Wins di New York e principale esponente di un nuovo tipo di radio fondata sulla ripetizione ciclica di dischi di musica leggera, presentati da un disc jockey, che poteva diventare una figura carismatica e fidelizzare gruppi di giovani. Dal 1953 si diffonde in America la radio in modulazione di frequenza (FM): più semplice da trasmettere e da ricevere, permette di avere un audio stereofonico. Dal 1955 l’industria giapponese diffonde in Occidente la radio FM a transistor, svincolata da una presa elettrica e quindi dall’obbligo di rimanere in casa. Tascabili ed economiche accompagnano la vita dei giovani fuori dai riti e dai luoghi della famiglia e si insediano nel cruscotto delle automobili. Nel 1979 un’altra tappa fondamentale di questo percorso sarà il walkman della Sony. La radio diventa così il primo personal medium e contemporaneamente il primo mezzo mobile. Alla radio presto si sviluppano presto forme di interattività differita attraverso il telefono: dalla dedica alla confessione, al dibattito vero e proprio, ad elementi di vita personale. In Europa le emittenti radiofoniche del servizio pubblico faticavano a cogliere le novità della programmazione musicale americana perché consideravano la musica leggera un genere minore. Per questo la musica americana giunse in Europa attraverso Radio Luxemburg, che non si rivolgeva esclusivamente al pubblico del piccolo Stato, ma indirizzava le proprie trasmissioni verso tutti i paesi confinanti, in particolare in Gran Bretagna dove faceva concorrenza alla BBC; nacquero anche radio pirata come Radio Caroline e Radio Veronica. La BBC ingaggiò i DJ più seguiti di queste radio e trasformò il suo primo canale in una radio musicale e parlata per i giovani. BBC One divenne il mezzo principale di diffusione del rock americano e di evoluzione del gusto musicale in Gran Bretagna e in Europa, e costituì un formidabile supporto alla crescita della musica pop inglese. La RAI invece cedette qualche ora di programmazione alla musica giovanile, ma non un flusso continuo. Nell’ Italia settentrionale Radio Montecarlo rappresentò la versione melodica della radio pirata. La sua pubblicità in Italia era raccolta dalla Sipra, concessionaria della RAI, e l’emittente stessa era indirettamente di proprietà dello stato francese. Dunque una radio straniera, tacitamente riconosciuta dalla RAI, aprì la strada in Italia alla radiofonia privata. 5. La rottura del monopolio pubblico e l’arrivo dell’emittenza privata Negli anni 70 i monopoli televisivi pubblici furono messi in discussione in tutta Europa. Stava nascendo un mercato mondiale di prodotti culturali e le esperienze mediali di altri paesi cominciavano ad essere conosciute largamente. Con la microelettronica (transistor, chip e microchip) i costi di tutte le fasi dell’attività televisiva si riducevano sensibilmente, telecamere e videoregistratori di ridotte dimensioni e prezzo modesto erano ormai largamente disponibili; l’economia era molto cresciuta ed era possibile pensare di realizzare grandi profitti aprendo alla pubblicità spazi in televisione che emittenti private non avrebbero certo lesinato. Tutti i paesi dell’Europa affrontarono la spinta ad aprire e privatizzare almeno in parte la radiotelevisione, anche ai livelli locale e sovranazionale. In Italia, dopo molti anni di discussione, una legge del 1975 ribadì il monopolio della Rai. Il controllo sull’azienda passava dal Governo al Parlamento. La legge schermi piatti di grandi dimensioni, a cristalli liquidi o al plasma. Il digitale terrestre può essere interattivo, se collegato alla linea telefonica. L’applicazione che ha avuto successo è stata la diffusione a pagamento di partite di calcio e poi di altri eventi e canali, mediante una tessera prepagata (scratch card) simile a quella dei telefonini, da parte di Mediaset Premium e La 7 Cartapiù. Grazie alle partite di calcio e a incentivi governativi per l’acquisto dei decoder il numero delle famiglie in DTT è cresciuto fino a 4 milioni e mezzo, superando gli abbonati Sky. Nel 2005 gli sforzi per il passaggio integrale alle trasmissioni digitali si sono concentrati su due regioni, Sardegna e Valle d’Aosta, in cui è imminente lo switchover, la chiusura delle trasmissioni analogiche per passare a quelle digitali. 4. Radio e TV di fronte a Internet Con Internet la tradizionale distinzione tra media “pieni” e media “vuoti” perde di senso. La rete è insieme comunicazione punto a punto, comunicazione di piccoli gruppi, e una forma particolare di comunicazione di massa: permette di spedire e ricevere posta elettronica a un singolo destinatario come a una lunga mailing list, di navigare in rete con un browser, fare acquisti e prenotazioni, chat, giochi ecc. Appositi software di streaming permettono di riprodurre file audio e video praticamente in tempo reale, prima che siano scaricati completamente. E’ dunque possibile creare anche in rete web radio e web TV: emittenti che vengono ricevute in streaming sul computer degli utenti, e che possono essere sia la ripetizione di emittenti via etere (simulcast), sia radio e TV espressamente create per Internet. Naturalmente questo tipo di fruizione da computer riguarda soltanto una nicchia di spettatori, ma consente di superare i limiti di tempo e luogo dell’attività radiotelevisiva: un’emittente locale italiana può così essere ricevuta in Australia o in Nigeria, e l’ascolto può essere differito. Un’ importanza crescente ha la diffusione attraverso la rete di servizi di TV digitale destinati a essere visti sullo schermo televisivo, chiamati IPTV, la televisione su protocollo Internet. Questa tipologia di piattaforma digitale è partita con maggior ritardo perché richiede collegamenti Internet molto veloci e di grande capacità compatibili solo con i cosiddetti cavi a banda larga (broadbrand), che utilizzano filamenti di silicio e tecniche laser o cavi tradizionali potenziati con tipologie di compressione come l’ADSL. Gli operatori di telecomunicazioni tendono ad offrire ai loro clienti a larga banda un insieme (bundle) di servizi: telefonia vocale, accesso a Internet veloce, televisione digitale con accesso IP. E’ il caso di Telecom Italia, Fastweb, Tiscali. Il principale vantaggio della IPTV rispetto alle altre piattaforme digitali, è il fatto di non impegnare frequenze terrestri o canali satellitari, e dunque di permettere al cliente di scaricare un programma da un’amplissima offerta. Essa permette dunque il VOD (Video On Demand), di scegliere tra 500 o 1.000 film, non fra 30 come la TV satellitare. 5. I video di YouTube Esistono inoltre su Internet popolari siti di filesharing video, nei quali ciascun utente può inserire, mostrare e condividere i propri video, purché stiano dentro i 10 minuti. Il più famoso per la semplicità d’uso e la quantità di funzioni, è YouTube (2005), oggi proprietà di Google. Il motto è Broadcast yourself, manda in onda te stesso. Ogni giorno vengono inseriti 65 mila nuovi video. Questa nuova forma di distribuzione dei contenuti audiovisivi ha un impatto anche sulla televisione generalista: se un evento controverso è oggetto di un video su YouTube, diventa difficile non trasmetterlo perché sicuramente qualche altra emittente lo farà. Per un giovane filmaker, un gruppo musicale, un comico, un conferenziere brillante, una produzione su YouTube diventa un biglietto da visita indispensabile per farsi conoscere, creare e alimentare una propria community. I network televisivi e le case discografiche vi pubblicano anticipazioni e clip, usandolo per la promozione dei loro prodotti. 6. Video e TV sui cellulari La terza generazione di telefoni cellulari (UMTS) consente una efficiente connessione a Internet, la possibilità di scattare fotografie, registrare clip audio e video e inviarle, supporta la videochiamata e la ricezione televisiva in mobilità sul display (DVBH, Digital Video Broadcasting Handheld, una variante mobile del digitale terrestre). Si cominciano a vedere sul display del telefonino videoclip, cartoni animati, telegiornali in formati brevi (snack tv) compatibili con i piccoli schermi. La grande diffusione dei cellulari suggerisce nuove forme di “crossmedialità” (diffusione multipla e trasversale su più media), in cui i contenuti televisivi vengono trasposti sui telefonini in simulcast (come appaiono in televisione) o in formati più brevi. 7. Fine di un monopolio La TV generalista è ancora largamente maggioritaria e prevalente nell’attenzione degli italiani, ma non si può negare che dal 1995 il suo monopolio della visione domestica è stato intaccato da ben quattro piattaforme di televisione digitale: la TV satellitare, il digitale terrestre, la TV su protocollo Internet e quella sui telefonini. Tutte contengono modalità per far pagare direttamente agli spettatori lo spettacolo offerto e sono in grado anche di proporre la TV generalista. A esse si aggiungono una pluralità di esperienze visive di massa del tutto nuove: i video di YouTube, le mappe e le foto satellitari tratte dai siti Internet come Google Earth. I DVD che acquistiamo o noleggiamo per vederli a casa, non sono soltanto copie di film, ma permettono di usufruire di contenuti addizionali, che ne fanno testi diversi rispetto alla proiezione in sala, navigabili al loro interno sul televisore di casa. Le console per videogiochi collegate al televisore (PlayStation e successive) hanno permesso di esplorare, a livello di massa, le pratiche dell’interattività e rappresentano la più diffusa esperienza di realtà virtuale, uno spazio totalmente simulato nel quale lo spettatore viene incluso. Il game, il gioco, è sempre più componente essenziale dell’intrattenimento. Vi sono videogiochi ispirati a film e viceversa. La diffusione delle webcam, telecamere semplificate collegate al computer e visibili su Internet, permette di ampliare all’infinito la possibilità di mostrare e di osservare, di farsi vedere e di sorvegliare. Telecamere di sorveglianza ci riprendono ogni giorno mentre camminiamo per la città, entriamo in un edificio pubblico, facciamo la coda negli uffici postali. Spesso i filmati di queste telecamere finiscono nei notiziari televisivi, perché hanno registrato dei fatti di cronaca. Telecamere amatoriali sono ormai disponibili per poche centinaia di euro, o incorporate nei telefonini. Lo tsunami del 2004 è stato forse il primo evento ripreso esclusivamente da telecamere non professionali, quelle dei turisti. PARTE SECONDA-I LINGUAGGI DELLA RADIO Capitolo primo IL MEDIUM SONORO 1. Comunicare il suono La radio è il primo strumento di comunicazione che non ha bisogno di alcun tipo di supporto né di connessione materiale. La sua natura è quella di una comunicazione sonora totalmente immateriale, che raggiunge in tempo reale il suo ascoltatore. A differenza di un’immagine (fotografia, schermo televisivo), una fonte sonora può essere miniaturizzata a piacimento, senza che la percezione peggiori. Mentre il nostro occhio è direzionale, vediamo solo ciò che è nel nostro campo visivo, e per guardare qualcos’altro dobbiamo volgere lo sguardo, l’orecchio capta i suoni da qualsiasi direzione provengano. Il suono ha la proprietà di estendere la sua azione al di là di quello che si desidera. Se qualcosa non ci piace possiamo distogliere lo sguardo o chiudere gli occhi; ma è più difficile distogliersi dai suoni perché la natura non ci ha dato la possibilità di chiudere gli orecchi. Questa caratteristica è stata definita acusma, e il suono che si sente senza vedere la fonte da cui proviene è stato definito “acusmatico”. L’acusma è molto frequente oggi con la riproduzione del suono e gli altoparlanti nei luoghi pubblici, le casse acustiche nelle discoteche, il disco, il telefono, e ha conseguenze importantissime sulla tecnologia e l’uso sociale della radio. Non soltanto essa può essere miniaturizzata fino a sparire, ma si può ascoltare senza impegnare lo sguardo. Non c’è bisogno di stare fermi ma ci si può spostare liberamente all’interno della portata sonora dell’apparecchio, o portarlo con noi, perché basta una pila minuscola per emanciparlo dalla servitù del filo elettrico e della presa. Da questo principio sono nati il walkman, la sua evoluzione con CD (discman) e poi i lettori portatili MP3. La radio può essere definita il primo dei nuovi media per le caratteristiche di miniaturizzazione, mobilità, flessibilità, stretta vicinanza al singolo utilizzatore che ne fa un medium personale e non collettivo e familiare (come è stato per il telefono). 2. Oltre la “perfezione audiovisiva” Un luogo comune di cui siamo tutti portatori afferma che, nella comunicazione riprodotta, la forma perfetta è quella audiovisiva (audio+video)perché è la più simile all’interazione diretta fra le persone. Di fronte a questa “perfezione audiovisiva”, i mezzi che non dispongono di questo binomio appaiono come incompleti, menomati. Se ci fermiamo a questo la radio ci appare un mezzo inferiore o la fase primitiva di mezzi più complessi (TV) destinati a sostituirla. La vitalità della radio è proprio nella sua aderenza alle speciali caratteristiche del suono e della voce. Essendoci oggi una grande offerta di contenuti audiovisivi e una elevata disponibilità di apparecchi televisivi, l’ascolto della radio non è conseguenza di una necessità ma di una precisa scelta. Il fatto è che il suono non partecipa a quell’effetto di costruzione della realtà che fa parte integrante dello statuto dell’immagine e che è convalidato e verificato dalla presenza del suono. Il suono e la voce sembrano dotati di uno statuto di maggiore astrazione ma anche di superiore leggerezza. Il suono non ha il vincolo di dover rappresentare la realtà, ma di accompagnarla; la parola descrive o commenta la realtà, non è tenuta a sostituirla. La sensazione sonora è correlata alla sfera emotiva, evocativa, simbolica; ci richiede di immaginare ciò che solo suggerisce, ci fa pensare; ciascuno di noi ricostruisce un’immagine diversa, proiettando i suoi sentimenti e i suoi ricordi. Inoltre nella società attuale la radio è una delle poche forme in cui la parola non arriva in forma scritta o accoppiata all’immagine. Mentre i media legati alle immagini si dedicano prevalentemente alla narrazione e quindi a narrativizzare e spettacolarizzare la società, la radio appare evocativa ed espressiva, conversazionale, emozionale e confidenziale. Per questo suo carattere confidenziale, il rapporto degli ascoltatori con la loro emittente radiofonica è assai diverso da quello che intrattengono con la televisione, e contraddistinto da una fidelizzazione più intensa. Mentre lo stile prevalente di fruizione nell’era dell’abbondanza televisiva è lo zapping, per l’ascoltatore della radio il telecomando non esiste e ciò corrisponde alla propensione a restare sintonizzati sulla nostra emittente abituale per lunghe campiture di tempo. La comunicazione radiofonica per questo mantiene una forte impronta di comunicazione personale (one to one) e non massificata, e può dare spazio anche a formati assai specializzati, che perseguono nicchie di pubblico particolari, che nella televisione in chiaro sarebbero subito eliminati e dovrebbero caso mai trovare posto nella televisione digitale, a cui guardano infatti con attenzione le emittenti radiofoniche. 3. L’ascolto radiofonico come pratica sociale Sentire la radio è qualcosa di molto diverso da altre esperienze di fruizione mediale, come la lettura di un libro o di un giornale. Queste esperienze ci danno l’impressione di un’indipendenza dal tempo, che possiamo gestire secondo i nostri ritmi; la radio invece è sempre adesso nel momento in cui la si ascolta; non si può rileggere. Si tratta di un dato di cui chi parla alla radio deve sempre tener conto, pronunciando con chiarezza e ripetendo ciclicamente le informazioni essenziali sul programma e sull’emittente; la radio appare sempre come un segnale dell’attualità, una testimonianza della società. Per questo l’ascolto, anche nella forma più privata, è sempre un’esperienza sociale. Questa esperienza risponde a molteplici esigenze sociali: connettive, partecipative, identitarie. Le funzioni connettive sono largamente presenti nell’utilizzo della radio. Quando svolgiamo un’attività, nel lavoro come nel tempo libero, spesso proviamo il desiderio di essere accompagnati da suoni e voci che ci danno l’idea di non essere isolati e lasciati a noi stessi, ma di essere connessi in modo flessibile alle altre persone. Per alcuni, specie i più giovani, la miglior forma di connessione è rappresentata da una colonna sonora musicale con brevi inserti parlati. In un ambiente sociale segnato sempre più dalle differenze, viene spesso richiesto alla radio di esercitare una funzione identitaria. Le persone conformano i loro stili di vita sulla base di nicchie e tribù, che richiedono continui “aggiornamenti” e non c’è nulla di meglio della radio perché possano riconoscersi nell’identità che hanno scelto e apportare impercettibili, continue modifiche alle proprie scelte culturali e di consumo. La radio dà la sensazione di partecipare a qualcosa anche quando stiamo per conto nostro, difesi dalla nostra privacy e quindi di far parte di una comunità di diretta, con tutto il suo fascino e i suoi rischi. In radio, rispetto alla televisione, la proporzione di trasmissioni in diretta sul totale è straordinariamente alta per la semplicità produttiva e il suo costo contenuto. In radio non ci sono scenografie, costumi, riflettori per luci, truccatori, coreografie; il pubblico può essere sostituito da un nastro registrato con applausi e risate. Mancano gran parte degli elementi che in televisione richiedono una complessa preparazione e organizzazione e che consigliano di registrare tutto. La componente di programmazione che da sempre è registrata è la musica. La radio infatti è stata preceduta dalle tecniche fonografiche di registrazione del suono su cilindri prima e su dischi poi, e si è accompagnata alla crescita della registrazione su nastro. Di entrambe ha fatto un largo uso: i testi più importanti erano incisi o registrati; ma soprattutto la musica su disco costituisce da sempre una poderosa componente della programmazione, e nel caso della radiofonia privata, la sua stessa ragion d’essere. All’inizio della radiofonia privata con una semplice collezione di 45 giri e LP, sorvolando sui diritti, si poteva mettere su un’emittente. Oggi la situazione è più complessa: anche le emittenti private pagano i diritti d’autore; talvolta intarsiare nella programmazione una musica dal vivo è più coinvolgente che mandare i soliti dischi. Tuttavia in generale è possibile enunciare questa regola: in radiofonia tutta la musica tende a essere registrata e tutto il parlato tende ad essere in diretta. Conviene molto di più sentire l’opinione di un ministro al telefono che inviare un giornalista con un registratore portatile il quale, dopo mezz’ora di anticamera, riuscirà a registrare qualche minuto di parlato. Alla radio sta avvenendo qualcosa di simile alle redazioni dei giornali, in cui il lavoro di desk al computer e con il telefono all’orecchio, sostituisce il giornalismo di inchiesta e reportage. 3. Nello studio radiofonico Il cuore della produzione radiofonica è dunque lo studio. Lo studio radiofonico tradizionale è una stanza di ridotte dimensioni, accuratamente insonorizzata con materiali fonoassorbenti e con una porta molto spessa e silenziosa, in cui è collocato un tavolino ricoperto da un panno di feltro, su cui penzolano alcuni microfoni, in vista di un grande orologio. Nella radiofonia pubblica e nelle radio più importanti un doppio vetro divide lo studio dalla regia, in cui un regista e un tecnico audio gestiscono le uscite dei microfoni collocati nello studio e le varie fonti di suoni e rumori che provengono da computer, lettori CD, giradischi e registratori a nastro, attraverso uno strumento chiamato “mixer”. Un tempo i rumori erano procurati da un apposito artigiano, il rumorista, che si presentava con una curiosa cassetta degli attrezzi; da molto tempo tutto si fa con nastri registrati, mentre la digitalizzazione permette di effettuare al computer la gestione di tutte le fonti sonore. I compiti del regista sono rilevanti, ma non così incisivi come avviene nel cinema o nel teatro. La trasmissione in diretta conferisce l’ultima parola a chi sta in studio e il regista svolge soprattutto funzioni di coordinamento, rispetto dei tempi, sorveglianza del lavoro al mixer. Nella stanza della regia, o in un locale adiacente, trovano posto anche altri collaboratori al programma, ad esempio coloro che filtrano le telefonate del pubblico. Nella loro dotazione ci sono i telefoni “ibridi”, che permettono di “tenere in attesa” l’ospite, facendogli ascoltare la trasmissione qualche minuto prima del momento in cui sarà chiamato a intervenire. Il tecnico del suono provvede intanto all’installazione e alla manutenzione dei microfoni che sono necessari. Chi parla (disk jockey, conduttore, ospiti) si accomoda nello studio, sistema davanti a sé con attenzione i fogli di carta con la scaletta del programma, il bicchiere con l’acqua minerale, la tazzina di caffè, indossa le cuffie e fa una prova voce. Nelle cuffie gli giunge il parlato della trasmissione ed eventualmente il consiglio del regista quando non siamo in onda. Una luce rossa accesa segnala che una trasmissione è in corso per evitare ingressi indesiderati. In uno studio come questo la grande difficoltà era costituita dai rapporti fra regia e speaker, che avvenivano a gesti, o con cartelli appoggiati al vetro, o con un monitor collegato ad una telecamera posta sopra a una lavagna su cui si scriveva. Poi è arrivato il computer: oggi ve n’è uno in regia e almeno uno in studio, su cui compaiono tutte le indicazioni utili. Se questa era la tipologia degli studi RAI, la radiofonia privata ai suoi esordi prese a prestito un’altra tipologia di attrezzatura: il bancone della discoteca. Dietro il bancone il disk jockey parlava al microfono, metteva i dischi di suo gradimento, li mixava manualmente sul piatto dei giradischi, rispondeva al telefono. Poi hanno cominciato ad esserci due persone, il DJ e una figura tecnica che faceva da sola quello che in RAI era il lavoro del regista, del mixer audio e del tecnico del suono. Oggi tutte le radio importanti hanno studi che sono la versione tecnologicamente aggiornata del tradizionale studio con il vetro in mezzo. La centralità dello studio non significa che non si svolgano anche registrazioni all’esterno. Molti eventi sono mandati in onda in diretta, quasi sempre con la presenza di un operatore della radio in collegamento, che nei punti morti si stacca dalla diretta per raccontare qualche dettaglio o retroscena. Altri eventi sono seguiti con collegamenti e radiocronache; in questo caso all’operatore della radio, spesso un giornalista, viene assegnata una postazione da cui commentare al microfono l’evento. Infine altri suoni e parlati sono raccolti da operatori della radio che con strumenti portatili viaggiano, realizzano interviste e reportage, partecipano a conferenze stampa. Lo strumento tradizionale per questo lavoro era il “Nagra”, un registratore a bobine da portare a tracolla, molto affidabile; poi si è diffuso un modello Sony a cassette, più leggero. Oggi capita spesso di vedere i cronisti radiofonici assediare i politici con minuscoli registratori digitali o con microfoni a “cono gelato” con il marchio dell’emittente bene in vista. E’ evidente un cambio di atteggiamento nei confronti del rumore: nella vecchia radio le voci scandivano le parole senza accenti dialettali in perfetto silenzio, oggi si ritiene che i rumori connotino l’ambiente e diano un effetto di realtà. La radiocronaca è l’oggetto più pregiato di tutte queste attività comunicative: descrizione che contiene il commento del cronista e l’emozione dell’evento. Interviste, dichiarazioni e rumori devono essere accuratamente montati e mixati, cioè parzialmente sovrapposti gli uni agli altri. Nella vecchia radio c’era una figura specifica addetta al montaggio, il montatore; oggi ciascuno deve saper montare i propri pezzi (montaggio digitale). 4. Dallo studio alla rete Oggi sia radio sia televisione appaiono in una fase matura dell’ibridazione con il web e del superamento della distinzione tra media “pieni” e “vuoti”. Dal 1996 esistono software (il primo è stato RealAudio) che permettono di ascoltare un file audio in formato MP3 dal proprio computer senza la necessità di scaricare il file per intero prima di farlo eseguire. Questo processo, chiamato streaming, permette di ricevere i dati in un flusso continuo, praticamente in tempo reale. MP3 è uno standard di compressione di file audio messo a punto dal MPEG, un gruppo di tecnici di altissimo livello delle varie case produttrici di hardware. Da MPEG sono usciti gli standard della multimedialità di Internet, dei CD-rom, della TV satellitare e delle videocamere digitali. Oggi migliaia di radio trasmettono solo Internet e molte di più trasmettono via etere e ripetono il segnale via Internet. Si tratta prevalentemente di siti web di stazioni radiofoniche via etere già esistenti che operano in simulcasting. Esistono inoltre radio tematiche, musicali e parlate, nate in relazione all’offerta editoriale di gruppi radiofonici e multimediali- in Italia abbiamo RepubblicaRadio per l’Espresso, o Radio Gazza per RCS, o le web radio affiliate al marchio RMC. A queste tipologie di radio si affiancano radio che nascono per un giorno, in occasione di particolari eventi, consentono lo streaming della diretta dell’appuntamento e poi smettono di esistere. Ci sono poi infine, e sono la maggioranza, le radio web only, che trasmettono solo su Internet, senza antenna e senza segnale via etere, che possono così evitare i principali ostacoli alla creazione di emittenti radiofoniche tradizionali (autorizzazioni, costi, censura). Tuttavia i vantaggi di questo tipo di radiofonia sono apprezzabili soltanto se si dispone di una connessione veloce e di un computer potente mentre una piccola radio a transistor, per quanto obsoleta, continua a funzionare anche dove non ci sono elettricità né telefono. Le chance offerte da Internet alla diffusione radiofonica vanno dunque considerate alla luce delle disuguaglianze prodotte dal digital divide. 5. Il podcasting Accanto al fenomeno delle web radio, si è presto diffusa una forma di fruizione asincrona di contenuti audiovisivi digitali attraverso Internet. Podcasting è un neologismo basato sulla fusione di iPod e broadcasting. La parola indica il sistema che permette di scaricare in modo automatico su abbonamento i contenuti audio e video (detti podcast) di una qualsiasi trasmissione, utilizzando un programma gratuito chiamato aggregatore o feeder. Nato come appendice sonora al fenomeno dei blog, grazie alla contemporanea diffusione di software di produzione audio gratuiti e lettori MP3, il Podcasting è stato all’inizio un fenomeno solo amatoriale, ma è diventato presto un servizio con cui i principali operatori radiofonici e televisivi, ripropongono gratuitamente al proprio pubblico una selezione di programmi andati in onda. Per l’ascoltatore radiofonico questo vuol dire disporre di archivi digitali dei contenuti parlati delle proprie trasmissioni preferite, da ascoltare quando si vuole e dove si vuole. A differenza dello streaming tutto questo avviene in modalità off-line e in condizioni di mobilità. Capitolo terzo I GENERI RADIOFONICI 1. Dal palinsesto al formato Quando la radio ha dovuto abbandonare il salotto domestico, perché incalzata dalla televisione, si è rivolta decisamente al pubblico giovanile e alla fidelizzazione di nicchie di pubblico precise, mentre la televisione diventava rapidamente generalista, cannibalizzando i modelli della comunicazione familiare caratteristici della radio negli anni 30 e 40. Lo strumento tecnico di gestione dei contenuti radiofonici nella settimana era stato il palinsesto, che la televisione adottò subito, proprio mentre la radio si decideva ad abbandonarlo perché non teneva conto a sufficienza delle differenze all’interno del pubblico. Per questo negli Stati Uniti degli anni 50 il cambiamento di ruolo della radio si accompagnò a una decisa scelta n direzione della musica giovanile e conseguentemente all’adozione di un nuovo schema delle trasmissioni, detto “formato”. Il formato di una radio prende in considerazione una sola giornata e si ripete ogni giorno nello stesso modo, con una sola distinzione fra i giorni feriali e il weekend. Diversamente dal palinsesto il formato è studiato sulla nicchia che si vuole perseguire e contiene in sé quella determinata miscela tra generi e stili musicali per rivolgersi al suo pubblico potenziale, identificato secondo parametri di sesso, età, reddito, etnici, indispensabili per accedere alla pubblicità. Il concetto fondamentale della radio di formato è la rotation. Non è più il pubblico a doversi adeguare agli appuntamenti fissi che il palinsesto collocava con cura nella settimana; l’emittente gli viene incontro ripetendo la programmazione in cicli periodici. Un disco che è in testa alle classifiche, o l’annuncio di una prossima iniziativa dell’emittente, è l’emittente di una heavy rotation, di una ripetizione accelerata e più frequente. L’intervallo tra due successivi inizi della programmazione, generalmente della durata di un’ora è chiamato clock. Ogni clock contiene al suo interno i suoi isoritmi, tutti gli elementi cadenzati che contribuiscono ad identificare la programmazione e a distinguerla dalle altre. Lo stesso andamento circolare e ripetuto si estende alla pubblicità, che proprio alle ricorrenze del messaggio affida la sua efficacia. Il clock da un ordine e un senso al lavoro creativo di chi compone la playlist e individua un particolare formato comunicativo; distingue una radio professionale dalle improvvisazioni dilettantesche e rappresenta quell’elemento di continua identificazione da parte del pubblico, di fidelizzazione attorno a un tema e alle sue mille varianti, che sarà per la televisione la serialità. Il primo dei nuovi formati radiofonici è molto semplice ed è per questo che si è diffuso con una certa rapidità. Si chiama “Top 40” e consiste nella ripetizione di una hit parade di canzoni condotta e commentata dal disc jockey; successivamente si affermano formati meno dipendenti dalle classifiche. La struttura circolare del clock favorisce intarsi di frammenti parlati, specie per notiziari, aggiornamenti, previsioni del tempo, che tendono a collocarsi allo stesso minuto di ogni ora per accrescere la propria reperibilità. Nascono così formati Talk & Music, News & Talk o esclusivamente Talk. Oggi i principali formati della radio americana sono più di una decina. I più diffusi sono: a. Country, musicale e parlato b. News/Talk/Information, parlato c. AC (Adult Contemporary), musicale e parlato d. Pop CHR (Contemporary Hit Radio), musicale, l’evoluzione del Top 40 Nelle radio di parola il ruolo del DJ non c’è più e al suo posto emergono conduttori (host) dalla forte personalità. In Europa la radio di formato giunge dieci anni dopo gli Usa, con Radio Luxembourg, Radio Montecarlo e le radio pirata. In Italia arriverà ancora più tardi, all’inizio degli anni 80, non solo per ragioni di legge (l’emittenza privata è stata ammessa dal 1976), ma per la particolare situazione della musica leggera italiana, dove pesano molto le tradizioni. Negli anni 80, completamente scomparsi per la concorrenza televisiva come giochi e telequiz e del grande spettacolo di varietà. Infine, molto importante per l’evoluzione della radio di palinsesto è stato l’arrivo del telefono, perché ha modificato radicalmente le rubriche dedicate ai vari temi e gruppi del pubblico che punteggiavano il palinsesto. Con il telefono le rubriche sono diventate una sorta di contenitore tematico in cui uno o più conduttori dialogano con gli ascoltatori a casa, intervistano qualche esperto al telefono, propongono brani musicali, presentano libri e film. C’è da dire tuttavia che questa tendenza è stata via via ridotta: si parla di una progressiva perdita di voce degli ascoltatori, che prediligono il contatto con le emittenti attraverso e-mail e SMS poiché canali più rapidi e integrati con la vita quotidiana, l’attività lavorativa e la mobilità. 5. L’ibridazione come forma culturale della radio I generi, come ci erano stati consegnati dalla tradizione della radio pubblica, sono definitivamente tramontati per l’arrivo del telefono e quindi la diversa interazione con gli ascoltatori, per le modalità di ascolto più casuali e frammentarie, per gli effetti della concorrenza tra numerose emittenti radiofoniche, pubbliche e private, e per la plurima offerta mediale in cui la radio ha dovuto destreggiarsi fra televisioni in chiaro e satellitari, Internet e supporti e strumenti per il suono digitale, dai CD agli Ipod. Il risultato è un’ibridazione fra i generi (metageneri) che, nel momento in cui la radiofonia privata si accosta al parlato, riguarda sia il segmento pubblico che il segmento privato. L’uso del telefono in rubriche mandate in onda in diretta, ha sostituito buona parte dei contatti col mondo che la vecchia radio era riuscita a intrecciare. La radiocronaca resiste come testimonianza diretta della partecipazione dell’istituzione radiofonica agli eventi, ma gran parte degli altri contatti sono mediati dal telefono per un motivo che non ha solo a che fare con la semplicità del collegamento e con motivazioni pratiche, ma con la complementarità che di fatto la radio ha con altri mezzi che ci riempiono di immagini. Nel caso di un evento eccezionale è altamente probabile che la notizia sia appresa quasi in tempo reale dalla radio come breaking news, informazione che viene comunicata appena giunge e che interrompe il fluire delle trasmissioni. Successivamente la televisione darà le immagini del fatto e all’indomani i quotidiani avranno l’ingrato compito di commentare i fatti che sono già noti al pubblico, che si aspetta qualcosa in più. Ciò non significa che la radio smetta di occuparsi dei fatti, continuerà a farlo agendo sul registro emotivo. Siamo quindi in presenza di una virtualizzazione della comunicazione radiofonica, sempre più mediata dal telefono, dall’e-mail, dagli SMS, da Internet, sempre più dominata da formati brevi. Si punta molto sui “contenuti multipiattaforma”, con eventi dal vivo, trasmissioni broadcast, streaming sul web, podcasting, archivi testuali sempre in rete, collegamenti continui via e-mail, cellulare, SMS. (vedi pag.96) 6. Parlare alla radio Parlare alla radio richiede molta attenzione. Occorre dunque prepararsi bene, essere sicuri di ciò che si vuole dire e utilizzare una intonazione e un’emotività coerenti con il tipo di messaggio. Bisogna ricordare che chi ci ascolta non dispone delle immagini, ma se usiamo un parlato evocativo sarà pronto a far lavorare la propria fantasia. Per la comprensione dell’ascoltatore, spesso disattento, i brani devono essere più brevi che nella scrittura, poveri di aggettivi e proposizioni subordinate, evitando sempre flashback, parentesi, virgolette, digressioni e tutto ciò che non è sequenziale. I testi piatti, pieni di frasi logore o di parole stereotipe, stancano molto più che se li leggessimo su un giornale. Scegliere gli elementi fondamentali ma non dare nulla per scontato. Sono consigli che varranno anche per la televisione. PARTE TERZA-I LINGUAGGI DELLA TELEVISIONE Capitolo primo GRAMMATICA E SINTASSI DELLE IMMAGINI 1. In TV esiste solo quello che si vede Gli studi in cui vengono realizzati i programmi televisivi sono profondamente diversi da ciò che apparirà in TV: il salotto del talk show che appariva così ampio in TV in realtà è molto più angusto; i colori così vivi sullo schermo sono opachi; gli arredi e la scenografia sono logori. La sola percezione della realtà televisiva che ha lo spettatore è ciò che guarda sullo shcermo e scolta dagli altoparlanti del televisore. La realtà non “parla da sola”, secondo uno dei più vieti luoghi comuni; ma soltanto se il programma televisivo è capace di comunicare una situazione in modo credibile per gli spettatori, selezionando le immagini e i suoni che meglio creano questo effetto. Mentre a teatro uno spettatore può rivolgere lo sguardo in ogni punto del palcoscenico, lo spettatore televisivo dipende totalmente dalle immagini che vengono scelte per lui. Se è un’arte, la televisione è un’arte popolare, con un pubblico composito in cui prevale la gente semplice. Gli stimoli visivi e sonori devono raccontare una storia, e il regista deve selezionarli in base a questa loro capacità, modificando i dati esistenti quando non si prestano. L’illuminazione artificiale e il trucco servono a modificare in questa direzione i dati di partenza. Processi analoghi amplificano, modificano, sostituiscono il sonoro. Gli elementi più importanti dell’immagine sono tre: composizione, inquadratura e angolazione. La composizione dell’immagine televisiva deve tenere conto dei due principali handicap che ha, per cercare di nasconderli. Intanto lo schermo è molto piccolo e ha una definizione molto più bassa dell’immagine cinematografica delle fotografie. L’immagine quindi non deve essere statica, ma richiedere qualche movimento dell’occhio. Nell’immagine migliore gli oggetti non sono collocati al centro della composizione ma agli incroci di un reticolo ideale che divide lo schermo in tre parti, in altezza e in larghezza: una versione abbreviata del principio della sezione aurea, applicato alle arti visive già dagli antichi Greci. Inoltre lo schermo ha soltanto due dimensioni. La profondità deve essere costruita privilegiando sempre le linee oblique e quelle curve rispetto a quelle orizzontali e verticali e collocando un oggetto in primo piano. Quando il soggetto dell’immagine è una persona deve avere abbastanza aria sopra la testa e non essere attaccato al bordo superiore dello schermo; ci sembrano soffocanti le immagini in cui una persona ripresa di tre quarti non ha davanti a sé sufficiente aria per parlare. Se il soggetto cammina, deve avere uno spazio vuoto davanti a sé, per fare capire dove sta andando. I personaggi televisivi vanno riuniti in immagini collettive che siano di facile lettura, con le opportune gerarchie tra di loro. Le regole sono simili a quelle della fotografia. L’inquadratura (framing) è lo spazio visivo ripreso dall’obiettivo della telecamera. La TV ha seguito il cinema nella denominazione delle varie inquadrature, distinte in piani e campi. Nei piani appare solo una persona o un oggetto; nei campi una scena più ampia. Nelle sceneggiature compare l’indicazione del tipo di inquadratura per ogni singola scena. L’angolazione della camera è un altro fattore importante. Generalmente la camera è collocata in piano, cioè all’altezza degli occhi del soggetto principale; una ripresa dal basso accentua l’importanza della persona che viene ripresa, mentre una dall’alto ottiene l’effetto opposto. La telecamera può essere anche sistemata dal punto di vista del soggetto (soggettiva) ed è un’immagine molto coinvolgente. La telecamera ha anche un’angolazione orizzontale: può riprendere un personaggio frontalmente, di tre quarti, di profilo. 2. Guardare in macchina C’è un tipo particolare di ripresa: il “guardare in macchina”, che distingue il cinema dalla TV e una parte della TV dall’altra. Quando guardiamo la televisione, tutti i personaggi parlano a noi dall’altra parte del vetro, guardando verso di noi, sono inquadrati frontalmente e puntano gli occhi dentro l’obiettivo. Al cinema, gli attori non guardano in macchina, sono intenti a fare le loro cose. In verità chi parla guardando in camera rappresenta se stesso (conduttore, annunciatrice, comico), chi non guarda in camera rappresenta un altro, è un attore che interpreta un personaggio di finzione. Coloro che guardano in camera fanno qualcosa che si ritiene che avverrebbe anche se la televisione non ci fosse, mentre chi non guarda in camera sottolinea il fatto che il suo discorso e la sua stessa presenza si materializzano solo grazie alla televisione. Per questo anche in televisione la fiction non guarda in macchina: i protagonisti di Un posto al sole o di Lost conversano tra loro e si guardano a vicenda come se la ripresa non ci fosse, esattamente come nel cinema; ma non è così in gran parte dei programmi non di fiction. Il conduttore, collocato davanti ai suoi interlocutori domestici, li avverte implicitamente che c’è qualcosa di vero e reale nel reciproco rapporto che si sta istituendo fra loro. Molti spettatori grazie a questo artificio della messa in scena sentono come vera una presenza che invece è costruita tecnicamente a distanza. 3. La sintassi delle immagini Le immagini televisive sono moltissime, 25 al secondo, e ci sono regole anche per come mettere insieme le immagini fra di loro: la sintassi delle immagini. Le telecamere da studio sono montate su un pesante supporto (piedistallo) dalla testa snodata che permette spostamenti (panoramiche) in orizzontale e in verticale. In orizzontale la telecamera può ruotare sul suo supporto anche di 360° (panoramica orizzontale). La camera può compiere anche uno spostamento in verticale, in alto e in basso (panoramica verticale). Sulla telecamera è montato poi uno speciale obiettivo, lo zoom, che permette di inquadrare una scena in campo lungo e poi zoommare restringendo rapidamente la visuale fino ad inquadrare solo un piccolo particolare; oppure partire da un particolare e allargare la scena fino a renderla molto ampia. Lo zoom è un obiettivo la cui distanza focale può variare con continuità, mantenendo la messa a fuoco; è stato inventato nel 1948 in ambito fotografico ed è arrivato in televisione negli anni 70. Per effettuare movimenti più consistenti bisogna spostare la telecamera e modificare il punto da cui viene effettuata la ripresa. Il carrello è una piattaforma mobile a ruote su cui è montata la telecamera. La carrellata è la ripresa che descrive in forma compendiaria l’ambiente nel quale si svolge la scena, con un movimento in linea retta o ad arco. Il dolly invece è un carrello con un braccio telescopico che permette di sollevare il cameraman di oltre tre metri, di riprendere una scena dall’alto e soprattutto di effettuare riprese in elevazione che si allontanano o si avvicinano gradualmente al set: una ripresa chiamata ascensore. Talvolta insieme alle telecamere fisse si fa lavorare, anche in studio, una telecamera leggera, a spalla, che dà vivacità alle riprese. Gli spettatori di un talk show possono vederla spesso in azione dietro le file delle poltroncine per gli ospiti, o tra il pubblico. Adesso esibire le telecamere è quasi un obbligo, come se la televisione dovesse testimoniare la sua ricerca della realtà, cosa che prima gridava scandalo. Un’evoluzione della camera a spalla in studio è la steadycam. Si tratta di una telecamera posta su un braccio meccanico con pesi e molle che letteralmente lega la telecamera al corpo dell’operatore. Oggi in studio le telecamere sono sempre più numerose, spesso comandate a distanza dalla regia, o miniaturizzate per riprendere da angolazioni particolari, affidando la morbidezza, la fluidità e il fattore umano alle steadycam. 4. Costruire le sequenze Un insieme di immagini dotate di senso compiuto, che descrive un oggetto, che racconta una sua storia, si chiama sequenza. Generalmente la sequenza è composta da immagini provenienti da varie telecamere, ma non sempre: in particolare lo zoom, la steadycam o il carrello permettono di avere sequenze riprese da una sola camera. Questa forma della narrazione, composta da una sola inquadratura senza stacchi o cesure, è chiamata piano sequenza e dà un particolare senso di immediatezza e di partecipazione allo spettatore. Costruire una sequenza richiede una presentazione, uno sviluppo, una conclusione. Prendiamo come esempio uno scarno gioco televisivo pomeridiano, una produzione seriale da studio, piuttosto convenzionale e a basso costo, con un conduttore, la sua assistente, alcuni concorrenti, niente pubblico. Dopo la sigla, la prima inquadratura è generalmente un totale dello studio, poi un primo piano del conduttore che saluta il pubblico e quindi si rivolge alla sua assistente. Totale della valletta con lo sfondo della scenografia, poi suo primo o primissimo piano mentre dice qualcosa. Totale del conduttore che chiama i concorrenti, poi primo piano su ciascuno che entra. Il gioco viene mostrato alternando medi primi piani o primi piani del conduttore, della valletta e dei concorrenti, con qualche controcampo sempre utilizzando campi lunghi o totali dello studio come elemento di cesura. Gli stacchi pubblicitari avvengono invece dopo un primo piano del conduttore, che ammicca al pubblico perché rimanga sul canale. Al termine della competizione, il giocatore eliminato ha l’onore di un congedo in primo piano nel quale deve apparire sorridente e senza atteggiamenti contestativi, poi il conduttore lo a. i programmi a utilità ripetuta. Si tratta di film, documentari e fiction televisiva, generalmente seriale a episodi, che possono essere mandati in onda quando si vuole, perché non hanno particolari riferimenti all’attualità. b. I programmi a utilità istantanea. Sono trasmissioni che hanno senso solo in una determinata finestra temporale, molto stretta (es. il discorso di fine anno del presidente della Repubblica ha senso solo il 31 dicembre). I programmi ad utilità ripetuta richiedono generalmente grande impegno produttivo, come i film e in generale la fiction; quelli a utilità istantanea coincidono in buona parte con le più semplici produzioni da studio come giochi, quiz, talk show e con la diretta. Si chiamano in gergo “cotti e mangiati”. Nel palinsesto le due tipologie di programmi si alternano di continuo; in particolare, solo la fiction a cadenze fisse e in dosi consistenti produce ascolti significativi continui e non episodici. Per questo risulta fondamentale, per chi fa il palinsesto, la capacità di produrre in studio programmi “cotti e mangiati” da mandare in onda immediatamente e contemporaneamente la disponibilità di un “frigorifero” per conservare cibi pronti, prevalentemente titoli importanti di fiction. Fare in proprio o acquistare programmi? Nella TV tradizionale tutto avveniva all’interno dei monopoli televisivi, gli acquisti erano limitati, effettuati all’estero e i prodotti importati venivano rigorosamente inquadrati in una cornice nazionale. Oggi invece in una situazione di grande concorrenza tra emittenti, la convenienza del produrre in casa deve essere dimostrata di volta in volta e la risposta è molto diversa per le piccole emittenti rispetto alle grandi. Le produzioni “cotte e mangiate” e più in generale i programmi da studio vengono quasi sempre prodotti in proprio, anche dalle TV locali. In questo tipo di prodotti appaiono i personaggi a cui è affidata la riconoscibilità dell’emittente: lo speaker del telegiornale, la conduttrice del talk show. Si tratta inoltre delle produzioni più economiche per l’elevata serialità delle puntate e la presenza di molti elementi costanti. Generalmente vengono mandate in diretta (live, air show), che è anche il sistema più semplice, oppure con una breve differita tecnica (live on tape), che permette di eliminare qualche imperfezione, di esercitare uno stretto controllo sui contenuti, di ottimizzare i tempo di uso dello studio. Per i prodotti a utilità ripetuta, invece esiste ormai un mercato internazionale. Sul mercato sono disponibili centinaia di episodi seriali, di sicuro appeal, a prezzi molto inferiori a quelli necessari a una grande televisione nazionale italiana per produrre qualcosa di analogo. Il mercato domestico della televisione americana ha una tale ampiezza che permette di ripagare totalmente i costi di produzione del prodotto già con le vendite ai network televisivi di casa propria; i costi di produzione peraltro sono molto bassi per la precoce integrazione con lo studio system di Hollywood, la produzione standardizzata del cinema commerciale. Senza questa grande disponibilità di prodotti di fiction seriale non si sarebbe affermata in Italia la televisione commerciale. Non tutta la fiction, tuttavia, viene acquistata all’estero: in parte viene realizzata o comprata in Italia. Ciò è stato fatto, particolarmente dalla RAI, per motivi di prestigio e di difesa della cultura nazionale, ma da qualche anno si è sviluppata una significativa industria della fiction italiana, a cui una legge di tutela del 1998 ha sicuramente dato impulso. 3. La produzione e i format televisivi La televisione è un medium eclettico e ibrido, che ha assorbito pratiche e teorie dalla radio, dal teatro, dalla fotografia e dal cinema. La produzione televisiva è un lavoro di gruppo che richiede lo sforzo combinato di un numero elevato di professionisti con competenze e culture diverse. Nella TV tradizionale gran parte di queste tipologie di professionisti erano lavoratori dipendenti, funzionari o dirigenti a tempo pieno degli enti televisivi. Oggi è in atto un complessivo processo di privatizzazione concorrenziale: le emittenti cercano di avere come propri dipendenti nuclei ristretti di dirigenti decisionali e ingaggiare altre professionalità sul mercato, con contratti relativi a quella specifica produzione o comunque a tempo determinato generando una larga fascia di lavoro intellettuale precario. Sia la progettazione sia la realizzazione dei programmi seguono questa tendenza alla privatizzazione e alla competizione. La televisione è un’industria di prototipi: non fabbrica prodotti tutti uguali ma ha sempre bisogno di nuove trasmissioni. Nell’era della concorrenza, il bisogno di nuovi programmi cresce. Oggi esistono numerose società, piccole e grandi, che progettano in proprio format televisivi o acquisiscono da altre società i diritti di utilizzo e di adattamento di un’idea. Un format è infatti una struttura originale esplicativa dell’idea (concept) e del meccanismo produttivo e narrativo di un programma televisivo. Nella bibbia del format sono articolati dettagliatamente tutti i passaggi per la realizzazione del programma, i suoi dati artistici e tecnici, la possibile collocazione in palinsesto, le regole, gli snodi narrativi, le indicazioni grafiche e scenografiche e altri materiali provenienti da altri paesi in cui il programma è andato in onda, che possono contribuire alla produzione e all’adattamento del programma. Per essere presente in un mercato internazionale ed essere oggetto di compravendita nelle principali fiere, un format deve avere ottenuto buoni risultati nel paese d’origine e in almeno un’altra nazione: un format venduto o adattato con successo almeno una volta offre alla società che lo produce e al network che lo manda in onda sufficienti garanzie di successo. Esistono format blindati e aperti. Per i primi vigono regole rigide di adattamento, che impediscono a chi acquisisce i diritti di utilizzo di un format di modificare elementi strutturali dell’idea (es. la prova del cuoco). I secondi invece sono format che ogni volta che vengono adattati per qualche paese, si arricchiscono di elementi nuovi, sfruttando tutti i vantaggi creativi e le competenze produttive che possono venire dalle produzioni autoctone. Spesso e volentieri, le televisioni affidano alle società esterne sia la progettazione dei programmi o di intere fasce orarie, sia la loro realizzazione. In questi casi l’emittente nomina un producer che segue tutti gli aspetti del progetto e della realizzazione, curando gli interessi dell’emittente e garantendo che il prodotto sia coerente con la sua linea editoriale. Questa tendenza è coerente con l’outsourcing che contraddistingue tutte le attività produttive: cioè la spinta a decentrare e portare all’esterno, verso fornitori in competizione tra loro, gran parte dei processi di produzione, mantenendo nell’impresa soprattutto i centri decisionali e il marketing. 4. Le fasi della produzione La realizzazione di un prodotto televisivo passa attraverso tre fasi: preproduzione, produzione e postproduzione. La preproduzione comprende tutte le fasi di ideazione, decisione e progettazione preliminari alle riprese, che costituiscono la produzione vera e propria. La postproduzione comprende invece il montaggio, la grafica, gli effetti speciali, e tutte le altre operazioni di edizione (editing) del prodotto. Sostanzialmente, nella preproduzione si approntano le risorse umane e tecniche necessarie alla realizzazione del programma; nella produzione si utilizzano le risorse predisposte e si realizzano le immagini in movimento con le telecamere (riprese); nella postproduzione le immagini così ottenute vengono elaborate, trattate, confezionate in un prodotto finito e poi archiviate nella library. Nella preproduzione vengono prese le decisioni fondamentali sul contenuto del programma. Un programma deve essere scritto; esso ha quindi uno o più autori che presentano un soggetto, un trattamento, una sceneggiatura. In questa fase vengono anche commissionate le musiche per il programma, le sigle di apertura e di chiusura, i costumi e gli abiti di scena, le scenografie. Le scenografie definiscono l’ambientazione del programma (set), che può essere realistica, o funzionale, o spettacolare. In questa fase comincia il marketing del programma. Gli autori dovranno prevedere spazi per la pubblicità che non appaiano come interruzioni innaturali; i venditori della concessionaria di pubblicità cominciano a cercare uno sponsor o una telepromozione, se previsti, tenendo conto che ciò ha qualche conseguenza sulle scenografie, i costumi, le sigle ma anche qualche rapporto, almeno indiretto, con la scrittura e i contenuti del programma. Poi c’è il placement: ricerca di aziende fornitrici di arredi, divani, abbigliamento ed altro che forniscono gratuitamente i loro prodotti in cambio dell’inserimento nei titoli di coda, o sono pronte a pagare per l’esibizione del loro marchio e una citazione da parte del conduttore. Molto importante è anche il casting, ossia la ricerca dei protagonisti della trasmissione. L’ingaggio dei conduttori e dei professionisti che si esibiranno avviene attraverso una trattativa riservata; ma se il programma richiede “personaggi presi dalla vita” la scelta può assumere caratteristiche spettacolari e di massa (come le veline per Striscia la notizia) e avere una larga copertura da parte della stampa, oltre a diventare occasione di trasmissioni TV. Nella preproduzione è già attivo infatti l’ufficio comunicazione, che deve suscitare nei media e nell’opinione pubblica una aspettativa nei confronti del programma, realizzando un suo sito web e lavorando sui siti di social networking e su YouTube prima dell’inizio della trasmissione. Oltre a valorizzare il casting, l’ufficio comunicazione fa circolare anticipazioni sui protagonisti del programma e ogni dettaglio che li riguardi, in particolare il gossip, cioè il pettegolezzo su flirt, gelosie, invidie, feste e vacanze e le photo opportunities, entrambi ottimi per la cronaca rosa di giornali e settimanali che parlano sempre volentieri di televisione. Nel cinema il regista rappresenta la figura chiave del film, colui che ha l’ultima parola su tutto. Il regista televisivo invece è solo uno dei professionisti sotto contratto, largamente intercambiabili, chiamati a realizzare un programma che non porterà il loro nome. Con il regista lavorano il direttore della fotografia, incaricato di assicurare la migliore qualità delle riprese, o addirittura un art director che si occuperà della qualità estetica complessiva del prodotto, compresi i titoli, la videografica, gli effetti speciali. La fase di preproduzione si conclude con la scelta dello studio e con il suo allestimento. Poi si eseguono le prove, particolarmente importanti se la trasmissione andrà in diretta. 5. Le riprese La fase della produzione coincide con le riprese del programma e contempla tre diverse possibilità: la diretta, la registrata e la breve differita, che permette di correggere qualche piccolo errore e di cautelarsi da piccoli o grandi scandali. La forma più semplice di produzione televisiva è la ripresa in studio. Essa permette di concentrare in unico luogo la produzione e la registrazione del programma e tutte le operazioni accessorie, al riparo da interferenze esterne, in condizioni di luce, temperatura e suono ottimali, e con attrezzature e macchinari pesanti, permanentemente collocati nello studio. La produzione di studio è la soluzione preferita e la più economica, per i contenitori, quiz, giochi, programmi di intrattenimento, varietà, talk show e anche per l’informazione (telegiornali e infotainment). Per la sua semplicità, la produzione da studio è stata largamente usata anche per la fiction televisiva, mentre il cinema ha grande simpatia per le ambientazioni e gli esterni. Le sitcom o le telenovelas, dai bassi costi e dall’elevata velocità di produzione, sono interamente riprese in studio. 6. Lo studio Lo studio è il cuore della produzione televisiva. E’ uno spazio tecnico insonorizzato e climatizzato, collocato generalmente al pianterreno e con ampie entrate per movimentare pesanti macchinari e scenografie. Le porte hanno controporte, per evitare che luci, polveri e rumori filtrino dall’esterno; per questo una spia rossa segnala all’esterno quando una trasmissione è in atto. Le dimensioni sono variabili. Lo studio ha due zone principali: l’area di ripresa (floor) e la regia (control room). All’altezza del soffitto è sistemato un parco luci, manovrabile elettronicamente, o un ponte sospeso praticabile, insieme ad altre attrezzature teatrali, come su un palcoscenico. Il pubblico non c’è, oppure è parte dello spettacolo e allora sta in scena. Sotto il soffitto c’è anche un potente impianto di condizionamento dell’aria. Il pavimento è ignifugo e liscio, stabile e opaco, generalmente di colore grigio; anche le pareti sono dipinte in colori opachi. In quest’area vengono montate le scenografie della trasmissione, cioè i fondali e gli arredi che compariranno nelle inquadrature, una volta di legno e gesso, poi di polistirolo, infine digitali e quindi virtuali. La ripresa è assicurata dalle telecamere, di solito almeno tre, mentre il sonoro è registrato da un numero variabile di microfoni. “Fuori campo” c’è un monitor che mostra cosa sta andando in onda e il “gobbo”, un supporto per i cartelli che suggeriscono le battute ai personaggi. Da tempo è diffuso il gobbo elettronico (teleprompter), un display su cui scorrono i testi della trasmissione. Nell’area fuori campo lavora l’assistente di studio, collegato via radio con la regia che coordina le riprese. La regia comunica con il conduttore con il teller, un radiomicrofono miniaturizzato fissato nell’orecchio. La regia è una specie di ponte di comando. Di qui vengono inviati i segnali video e audio, mentre una serie di monitor mostra ciò che è ripreso dalle singole telecamere; su altri monitor appaiono altre fonti di immagini che potranno essere inserite nella trasmissione: collegamenti esterni, sigle, inserti video. Il regista e i suoi collaboratori trovano posto davanti a una grande consolle e ai monitor. programma è il punto di partenza di molte riunioni redazionali. Fin dall’inizio i dati dell’ascolto sono stati resi pubblici, diventando un “suffragio universale quotidiano” e hanno costituito la prima fonte per la grande notiziabilità della televisione sugli altri media, in particolare sulla carta stampata, presentati come un termometro di tendenze, gusti, emozioni del pubblico. Ogni mattina i dirigenti televisivi trovano sulla loro scrivania i tabulati dell’Auditel ma anche i quotidiani che riportano e commentano gli stessi dati, sommariamente accessibili ad ogni cittadino. La notizia del successo di una trasmissione può rafforzare il risultato nelle prossime puntate, mentre un dato di ascolto deludente, amplificato dai giornali, può allontanare ulteriormente il pubblico. 3. Strategie neotelevisive Per far vincere i propri canali i programmatori hanno applicato, soprattutto agli inizi della neotelevisione, alcune vecchie regole piuttosto collaudate, adattate dall’America. 1. Giocare sul sicuro. Piuttosto che inventare una nuova trasmissione, meglio comprare qualcosa che ha già avuto successo in altri paesi: una serie di telefilm, oppure un format, uno schema vuoto di trasmissione da adattare alla nostra realtà. Può anche non andare bene, ma il rischio è minore. 2. Fare spettacolo. Il programma deve intrattenere, deve tenere il pubblico, vincendo il desiderio di cambiare canale o di spegnere l’apparecchio. L’intrattenimento, non la cultura e l’informazione, diventa il tono dominante della televisione; anche la cultura e l’informazione devono assumere la tonalità dell’intrattenimento. 3. Riflettere i valori medi della società. Un’emittente deve esprimere nel complesso della sua programmazione questi valori, anche se può talvolta allontanarsi da loro. Deve minimizzare le possibili obiezioni, anche quando presenta situazioni scabrose o violente. 4. Riconoscibilità. Un’emittente deve essere sempre identificabile, riconoscibile, composta di fatti e di persone conosciuti dal pubblico, familiari. I programmi più difficili vanno agganciati a programmi più forti (traino). Meglio se un personaggio noto annuncia il programma che ci sarà tra poco: un testimone affidabile garantisce con la sua popolarità e il suo successo che l’investimento di tempo che lo spettatore farà, sarà ricompensato. Mentre il divismo cinematografico è fatto di eroi e di bellissime, irraggiungibili sul grande schermo, in televisione incontriamo personaggi che potrebbero essere l’amministratore del nostro condominio o il direttore della scuola elementare, una vicina di casa o l’istruttrice della palestra. 5. Tutelare il prime time. Il prime time è la fascia oraria dalle 21 alle 23, la più pregiata, non solo in termini di pubblico e pubblicità, ma di immagine complessiva dell’emittente e di fidelizzazione. Qui non ci si può permettere di sbagliare. Conviene concentrare su questa fascia il massimo dell’attenzione, di risorse e di sforzo realizzativo, collocando in altre fasce minori programmi controversi, difficili, diretti a nicchie di spettatori. In queste fasce meno pregiate possono trovare posto anche “programmi civetta”; costruiti non tanto per i loro risultati di ascolto, ma perché siano graditi ad alcune categorie di leader d’opinione di cui l’emittente ha bisogno (politici, giornalisti ecc.). 6. La controprogrammazione. E’ il principio più importante. Bisogna sfruttare i punti deboli dei concorrenti e contrastare i loro programmi forti con altri che possano sottrarre il pubblico. Anche gli orari sono importanti: bisogna cominciare qualche minuto prima di un altro programma concorrente. 4. Quattro ondate neotelevisive Questa forma di televisione ha ormai oltre trent’anni e ha registrato una profonda evoluzione. 1. Nella prima fase (1976-1980) la neotelevisione è fortemente consociativa, anche in coincidenza con la situazione culturale e politica del tempo segnata dai governi di unità nazionale. Si cercano trasmissioni concepite per interessare quasi tutti e il primo metagenere che questa ricerca assume è il “contenitore”: una scatola, un involucro duttile che può durare molto a lungo, che si presta a farsi riempire con frammenti dei più vari generi, mediati e organizzati da un conduttore. L’antesignano dei contenitori è considerato “Domenica In” della RAI (1976). Il talk show è invece una forma di intrattenimento parlato, un salotto televisivo popolato di ospiti di estrazione e tonalità variabile, animato da un conduttore e fondato sulla conversazione intorno a vari argomenti, sia pubblici sia privati, generalmente mescolati insieme. Il capostipite è “Bontà loro” di e con Maurizio Costanzo sempre nel 1976 sulla RAI. In questa prima fase comincia la penetrazione della fiction seriale USA e latino-americana, per i suoi bassi costi e per la grande abbondanza dell’offerta, che permette una programmazione quotidiana. Soprattutto nelle piccole TV l’aspetto commerciale della neotelevisione si rivela con chiarezza , producendo un’ampia gamma di aste televisive, televendite, telepromozioni e facendo emergere personaggi del tutto nuovi come imbonitori, maghi, donne fatali ecc. 2. Una successiva fase si colloca negli anni 80 (1980-87). La neotelevisione ha ormai stabilito un rapporto diretto con il pubblico, costruito su due elementi: da un lato c’è il successo popolare dei conduttori di talk show e contenitori; dall’altro l’offerta larghissima di fiction gratuita, quasi esclusivamente importata, contraddistinta da forme e intenzioni comunicative molto diverse da quelle televisive. Nel 1989 si contano in media 100 passaggi televisivi di film al giorno; tra il 1980 e il 1992 il cinema perde in Italia il 65% dei biglietti e il 58% delle sale. L’intrattenimento ha ormai una piena legittimità televisiva e la TV si sofferma come la principale raccontatrice di storie (storyseller) del tempo. I generi televisivi ormai si lasciano contaminare dall’intrattenimento. Nascono così lo sportainment, l’intrattenimento sportivo, e l’edutainment, la forma aggiornata delle rubriche culturali; ma il genere più rilevante è l’infotainment, l’informazione spettacolarizzata, con una forte connotazione politica. 3. La terza fase inizia alla fine degli anni 80 quando vanno in corto circuito le ultime distinzioni tra fiction e non fiction. La televisione ora è ansiosa di mettere in scena la verità, o la realtà, anche con scivolate nel melodramma, applicando le stesse modalità narrative che ha applicato alla fiction. La TV si dedica intensamente a mandare in onda aule giudiziarie, ospedali, quartieri urbani degradati, casi umani, liti e risse, tradimenti, incidenti stradali e disastri vari. All’inizio questa tendenza viene fatta propria da RAI tre e dichiara intenti forti di servizio pubblico, con programmi come “Chi l’ha visto”, “Un giorno in pretura”, “Telefono giallo”. Il successo della TV verità si trasferisce su tutte le reti, acquistando caratteristiche di mero intrattenimento (reality show). Negli anni 90 quando tutto è ormai già visto e consumato, si cercano sensazioni sempre più forti rappresentando eventi sempre più strani, drammatici, sgradevoli; oppure si mette in scena la vita intima di persone qualunque, assimilabili agli spettatori stessi. 4. La quarta fase si apre con l’avvento italiano del “Grande fratello” (2000). Il reality ormai non è solo un metagenere, ma uno stile che caratterizza larghe parti della programmazione generalista (reality television). A causa dell’elevato costo dei diritti, gli spettacoli più pregiati migrano sulla TV a pagamento che ha un più efficace sistema per recuperare gli elevati costi e incorporare strategie multichannel: molteplicità di piattaforme. Ma la TV digitale è anche in grado di presentare efficacemente innovative saghe televisive che assediano le produzioni da studio, spesso con i toni eccessivi del reality, della TV generalista. Capitolo quarto CONTENITORE E TALK SHOW 1. Il contenitore: un programma cornice Il primo prodotto neotelevisivo è il “programma contenitore”: un involucro lungo (es. tutta la domenica pomeriggio) in cui un conduttore propone uno dopo l’altro frammenti anche molto diversi fra loro. Nel 1981 Mauro Wolf sostenne che la novità principale della neotelevisione era proprio nella proposta di “cornici” capaci di comprendere in sé altre forme di spettacolo, di vario genere. Un “contratto comunicativo privo di tematizzazione” con il trasparente intento di unificare tutta la platea televisiva, di parlare a tutti, superando la frammentazione indotta dalla maggiore complessità della società e dall’accresciuta offerta di programmi TV. Capostipite della dinastia dei contenitori è considerato “Domenica In” nella sua prima edizione del 1976. La selezione e la composizione del contenitore devono rispondere a regole precise e il programma deve avere una sua cifra stilistica particolare, che lo renda riconoscibile fra tanti altri. In queste operazioni di contenuto e di stile la televisione rivisita alcuni generi dello spettacolo dal vivo, come il varietà e il circo, che costituiscono forme di spettacolo tipiche della società di massa fine 800, prima della riproducibilità tecnica assicurata dai media. Circo e varietà erano spettacoli compositi, che riunivano tante attrazioni o numeri, privi di collegamento reciproco e largamente intercambiabili. La selezione dei numeri era compito dell’impresario che sceglieva sulla base dei suoi personalissimi criteri (es. Phineas Barnum inventore del “Circo Barnum”; famiglie Togni e Orfei ecc.). L’ordine in cui collocare i numeri scelti doveva rispondere a poche regole compositive elementari: a. alternare sempre le tipologie di attrazioni, seguendo la scansione parla /canta/balla. b. Creare nel pubblico una serie di aspettative nei confronti di alcuni numeri ritenuti più attraenti e fatti oggetto di una opportuna pubblicità, collocati nei punti strategici dello spettacolo c. Le attrazioni sono sempre indipendenti l’una dall’altra e non interagiscono mai tra loro. E’ consentito, qualche volta, un gran finale con tutti gli artisti in scena a salutare. d. Mantenere una struttura molto duttile, in grado di assorbire bene gli imprevisti e gli incerti del mestiere. Poi si andava finalmente in scena e qui comparivano nuovi personaggi. Fuori dal tendone del circo l’imbonitore, con la sua oratoria roboante, esortava la gente ad entrare magnificando le virtù straordinarie della rappresentazione che stava per cominciare all’interno, ed eseguendo in proprio scherzi e numeri. Sul palcoscenico del teatro di varietà, o nell’arena del circo, il primo a comparire davanti al pubblico è il presentatore, colui che rappresenta la compagnia dello spettacolo e deve legare fra loro i vari numeri e annunciare le attrazioni, senza essere attrazione a sua volta, ma ricorrendo come l’imbonitore alle figure retoriche molto antiche della peroratio e della exhortatio, perorando la qualità degli artisti ed esortando il pubblico ad applaudirli. Il presentatore del varietà assicura anche la sintonia fine con il pubblico, seda le sue intemperanze, incoraggia l’applauso, ammortizza con la sua abilità professionale difetti e incidenti di scena assicurando la continuazione e manipolando l’attesa degli spettatori nei confronti dei numeri più desiderati. 2. Il contenitore: il ruolo dei conduttori Impresario, imbonitore e presentatore sono i diretti progenitori del conduttore (host), il personaggio chiave del contenitore, indispensabile per far funzionare il programma. Nella veterotelevisione non c’era il conduttore, ma il presentatore, un ruolo meno protagonistico, che si limitava a porgere il prodotto già pensato da altri. Anche il più celebre personaggio di questa e di successive stagioni televisive, Mike Bongiorno, si è sempre considerato con straordinaria modestia, un presentatore. Qualunque sia la professione di partenza del conduttore egli tende ad essere il testimonial, il rappresentante, il garante della rete. Per la difficoltà del compito, ci sono esempi di conduzione in coppia (Mondaini e Vianello), in trio o con ospiti permanenti che sono attrazioni viventi (es. il mago Giucas Casella). Oppure il conduttore ha una spalla (generalmente valletta, assistente o collaboratrice). Esistono anche conduttrici donne (es. Raffaella Carrà) senza “valletto” maschile. La conduzione garantisce presso il pubblico la qualità e la particolare cifra stilistica della sequenza di numeri e attrazioni, che hanno una varietà molto più ampia dello spettacolo dal vivo: il contenitore contiene inserti filmati, collegamenti con altri luoghi e con programmi radiofonici e televisivi, cartoni animati, documentari, sequenze informative. Ci sono anche piccoli programmi nel programma: es. una breve fiction seriale altrimenti un gioco. Di “Casa Vianello” o “Forum” ci sono state versioni autonome o inserite in programmi contenitore. La personalità del conduttore deve conferire al suo contenitore un’atmosfera e un’impronta particolare. Egli non è particolarmente bravo a cantare né a ballare: i suoi strumenti di lavoro sono la parola e il sorriso. Il modo, l’unico, che lui ha di amalgamare tutti i diversi contenuti è la conversazione. Se la conduzione è collettiva, conversa con i suoi compagni d’avventura o con la sua spalla. In secondo luogo il conduttore si l’equilibrio originari, che poi si ricompone e rimanda all’appuntamento successivo. Non importa tanto cosa accade, ma come i vari personaggi commentano l’accaduto. L’inquadratura tipica della soap opera è il controcampo. La sitcom (situation commedy) ha invece carattere più brillante, spesso umoristico. Anch’essa è realizzata in interni ed è composta da quadri familiari con personaggi fissi di cui emergono periodicamente tratti caratteristici; programmata in orari più pregiati ha invece personaggi più caratterizzati psicologicamente, e descrive un arco di esperienze più largo. La sitcom è animata da un dialogo vivace con molte battute, spesso con sottofondo di risate e applausi. La struttura narrativa è più forte, più vicina a quella del teatro leggero e del cinema di consumo americano. I telefilm o serie televisive (series) erano originariamente cicli di episodi, girati anche in esterni, costruiti attorno alle avventure di uno o più personaggi, in cui, a personaggi fissi e a situazioni costanti o ricorrenti, si aggiunge, per ogni episodio, qualche guest star (attore ospite). Grazie alla presenza dell’ospite la sceneggiatura prevedeva qualche evento nuovo, che modificava il quadro fisso per poi ricomporsi immancabilmente alla fine dell’episodio, dandogli un senso compiuto e portando a termine una storia. Di norma dura 25 o 55 minuti; il ciclo può comprendere centinaia di episodi. Nella sitcom e nel telefilm i protagonisti sono senza memoria; l’episodio è concluso in sé, non c’è un ordine predefinito delle puntate e la sequenza può essere alterata senza che nessuno se ne accorga. I personaggi non crescono psicologicamente né impattano mai con eventi della sfera pubblica. All’inizio degli anni 80 si affaccia in Italia una forma più recente di fiction americana, il serial: vicende narrative ben più complesse e sfarzose della soap, in cui ogni puntata è un segmento narrativo incompiuto, concatenata alle precedenti e alle successive, come il feuilleton (romanzo d’appendice ottocentesco) da cui deriva. La narrazione può procedere per anni e anni introducendo nuovi personaggi ed eliminandone altri. Anche in questo caso le puntate durano poco meno di 30. La neotelevisione ha importato in Italia per la prima volta telenovelas brasiliane e di altri paesi sudamericani, attirata dal loro costo esiguo. Si tratta di una variante latina della soap opera dove l’elemento sentimentale è più cupo ed elementare con saltuarie incursioni nell’occultismo e nella stregoneria. Diversamente dalla soap, la telenovela ha un meccanismo narrativo chiuso, destinato a concludersi dopo un numero determinato di puntate che però può essere molto elevato, fino a varie centinaia. Anche la telenovela si evolve: l’elemento civile, prima rigorosamente assente, fa qua e la capolino. In Europa non si è mai smesso di produrre fiction televisiva e ci si è confrontati, con alterna fortuna, con la serialità. In particolare le televisioni pubbliche tedesche hanno prodotto telefilm di successo come “L’ispettore Derrick” o “La clinica della Foresta Nera” , giunti anche in Italia. La specialità italiana è stata a lungo la cosiddetta miniserie, una produzione di pregio dalla piccola serialità, di durata cinematografica (90’). Discendente dal romanzo sceneggiato e fortemente connotata in senso nazionale, spesso diretta da affermati registi cinematografici, è adatta a una collocazione in prima serata , ma è debole sul mercato internazionale (“La Piovra”, a tema mafioso è la più nota). 2. Il ritorno della fiction italiana Negli anni 90 il genere tipico della produzione nazionale, la miniserie, si evolve nella “serie all’italiana”, sempre contraddistinta dalla lunghezza di tipo cinematografico degli episodi, ma dalla serialità più insita. Intanto nel 1996 la RAI realizza la prima soap opera italiana, “Un posto al sole”, che va in onda quotidianamente su Rai Tre, prima in orario preserale poi in prima serata, oggi alla sua tredicesima stagione. Mediaset a sua volta produce la soap “Vivere”, lanciata nel 1998 e programmata a striscia nella tarda mattinata di Canale 5 con un successo di pubblico ancora maggiore. Le due produzioni sono accumunate dal forte investimento emotivo sul dialogo e dal riuscito tentativo di allestire una macchina produttiva efficiente a basso costo. Le due produzioni hanno anche contribuito a formare tipi di professionalità creative scarsamente frequentate in Italia, per le quali sono stati determinanti i collegamenti con gli australiani della Grundy e dell’Endemol. Dal 1996 è iniziato dunque uno sviluppo della fiction nazionale che in pochi anni ha raddoppiato i livelli di produzione, producendo titoli anche a media e lunga serialità che hanno sensibilmente influito sulle abitudini mediali degli italiani: “Incantesimo”, “Un medico in famiglia”, “Il commissario Montalbano”, “Distretto di polizia”, “Don Matteo”, “Centovetrine”, “Carabinieri”, “Elisa di Rivombrosa” ecc. La fiction seriale racconta un’Italia più dinamica e centrata su ambienti professionali in cui i protagonisti affrontano uno alla volta le tematiche sociali e in forma ricorrente le difficoltà relazionali e i problemi esistenziali. 3. Fiction di fine secolo Alla fine degli anni 90 il pubblico televisivo italiano modifica le sue aspettative nei confronti della fiction, soggetta a una inaspettata concorrenza da parte dei reality, una forma di messa in scena che le assomiglia: nel reality (“Isola dei famosi” “Grande Fratello”) si parla infatti di personaggi, di sceneggiatura, di una narrazione di tipo teatrale. Un secondo elemento di novità è la rottura della trama e della narrazione sequenziale, che si registra nel cinema contemporaneo e da cui la televisione è influenzata. Senza arrivare agli estremi di Mulholland Drive di David Lynch (2001), anche nel cinema di consumo la precarietà della vita quotidiana nella società contemporanea, nella rottura di ideologie unificanti e pensieri forti, prende sempre più spesso la strada di una frammentazione di un’incertezza dei legami causa-effetto, di un continuo proporsi di più versioni della stessa scena o di sequenze (es. “The Illusionist” Neil Burger). La fiction televisiva naturalmente può seguire questa strada solo con grande cautela, ma ne è profondamente influenzata nella rappresentazione. A farne le spese è prima di tutto l’happy ending, che semplicemente non c’è o è sommerso da una serie di vicende che vengono narrate contemporaneamente o in successione e che possono cessare, eclissarsi per un periodo, ritornare in forme differenti. 4. La produzione italiana L’industria italiana della serialità televisiva si è sforzata di crescere, producendo ormai oltre 700 ore all’anno, tra reti pubbliche e private. Il prodotto italiano non viaggia sufficientemente all’estero ma è ormai ben radicato nel pubblico nazionale, come dimostra il turismo legato alla scoperta delle location di fiction televisive. Due tendenze attraversano la produzione italiana. Da un lato troviamo fiction ambientate ai giorni nostri, che mostrano una serie di nuove realtà sociali. Questa tipologia di narrazione si propone come chiave di lettura per l’interpretazione dell’esperienza quotidiana: ne sono esempi le fiction “Briciole” (sull’anoressia), “Mio Figlio” (sull’omosessualità e la discriminazione della diversità) ecc. Una seconda tipologia raccoglie le fiction di tipo storico- biografico: Paolo Borsellino, Maria Montessori, Don Bosco, Coppi, Pantani e molti altri con alcuni contraddittori a distanza e sfide RAI-Mediaset. Esse sono dirette a un pubblico maturo e hanno l’evidente intento di rafforzare la coesione nazionale proponendo una storia finalmente condivisa. 5. La produzione internazionale I prodotti seriali di maggior successo per i target dei giovani adulti provengono principalmente dagli USA. C’è un punto in comune tra le serie cult degli ultimi anni: l’ibridazione di genere della struttura narrativa. Basti pensare a “Dr. House” che unisce il genere medical drama con elementi mutuati dalle detective stories, a “Grey’s Anatomy”, combinazione di ambiente ospedaliero e soap opera, oppure “ER Medici in prima linea”, miscela di medical drama e reality e così via. La commistione di generi instaura un gioco che richiede allo spettatore una elevata competenza. Basta pensare alla struttura narrativa della serie “Lost”, fatta di tante storie che si intrecciano, si scompongono, ci lasciano in un alone di incertezza per poi riapparire all’improvviso. La diffusione di questi nuovi prodotti si intreccia con l’arrivo della televisione digitale e Internet. Il digitale facilita la diffusione su varie piattaforme; la rete è indispensabile per lo sviluppo di community e di fandom; ma anche per vendere on line gli episodi appena andati in onda. Le reti generaliste sono sfidate dalle TV digitali: in Italia Grey’s Anatomy è stata trasmessa prima su Sky sul canale Fox Life e poi da Italia 1. Ormai le reti generaliste italiane tendono a dedicare alla fiction anche quattro serate su sette, nel prime time. Capitolo sesto INFORMAZIONE E “INFOTAINMENT” 1. L’informazione L’informazione è stata fin dall’inizio uno dei tratti costitutivi della TV, com’era stato per la radio, e l’unico vero punto di contatto tra il servizio pubblico europeo e la televisione commerciale americana. L’informazione distanzia profondamente la televisione dal cinema, che ne ha sempre fatto un uso modesto, subalterno alla sua primaria vocazione di raccontare la fiction. Il cinema si è limitato ad accompagnare il film in cartellone con un “cinegiornale”, un notiziario con cadenza periodica che, come i settimanali stampati, non pretendeva di dare le notizie ma di approfondirne alcune, senza alcun obbligo di completezza: oggi i cinegiornali sono praticamente scomparsi. Dal dopoguerra invece, la televisione mandò in onda i suoi notiziari quotidiani, come la radio. La TV non si sottraeva dunque a un “contratto di completezza” e lanciava ai quotidiani stampati un guanto di sfida. Un contratto comunicativo di completezza implica che per un giornale quotidiano, come per un TG o un giornale radio, è un grave infortunio professionale “bucare” una notizia importante. Al contrario per un settimanale (es. “Gente” “Panorama”) la decisione sugli argomenti da approfondire è una scelta editoriale più libera. All’inizio il telegiornale era di tipo radiofonico: uno speaker seduto alla scrivania leggeva le notizie, mentre alle sue spalle venivano proiettate immagini fisse e in movimento. Dopo il 1957 l’invenzione dell’Ampex, la videoregistrazione, facilitò la produzione delle immagini. Dopo il lancio del primo satellite per telecomunicazioni (Telstar) nel 1962, anche la circolazione a grande distanza dei filmati diventò sempre più semplice. In America i telegiornali (TV news) si dimostrano un genere di grande ascolto ed evolvono subito verso la personalizzazione. Essi sono affidati ad un giornalista, l’anchorman, che presenta e narra il TG, ne garantisce l’attendibilità presso il pubblico con la sua personale autorevolezza e dialoga con i corrispondenti e gli inviati i cui servizi appaiono sullo schermo. Il termine fu coniato sulla personalità di Walter Cronkite, protagonista della CBS News, che annuncerà al mondo l’assassinio di Kennedy nel 1963. In Italia le edizioni regolari del telegiornale cominciano lo stesso giorno dell’inizio delle trasmissioni, il 3 gennaio 1954, ore 20,45. Il TG è dunque una marca comunicativa fondativa della TV italiana e fino al 1991, della sola televisione pubblica; si definisce imparziale e obiettivo, dà largo spazio alla componente istituzionale della politica, adotta un tono comunicativo ufficioso: le notizie sono lette da un annunciatore e si presumono scritte da una invisibile redazione rappresentativa della RAI. Dal 1968 i TG saranno letti da giornalisti. La neotelevisione modifica radicalmente la struttura delle news televisive italiane, anche se il TG resta tuttora una zona fortemente testuale nel flusso televisivo e contraddistinta da un autonomo contratto comunicativo: è l’ultima area del palinsesto sotto un contratto di veridicità, in cui cioè il pubblico ritiene che gli eventi annunciati siano veri. Le modifiche alla struttura del TG sono tutte in direzione del modello americano: personalizzazione del giornalista che conduce il telegiornale, che diventa a tutti gli effetti un divo, anche se non avrà l’autorevolezza dell’anchorman, superamento di un ideale di obiettività e di ufficialità con l’introduzione di elementi di tendenza e parzialità, arricchimento della musica, della grafica, della scenografia. Contemporaneamente alle edizioni principali del TG, si aggiunge un numero sempre più elevato di edizioni che spesso hanno la struttura di breve frammento propria della neotelevisione (notizie flash) e spesso sono inglobate nei contenitori o si intarsiano in altri programmi come breaking news. Fino al 1991 questi processi sono tutti interni alla televisione pubblica perché un limite legislativo precludeva l’informazione alla televisione privata nazionale; successivamente essi attraversano l’intero sistema televisivo italiano. 2. L’infotainment La televisione non si limita a dare le notizie; ne seleziona alcune per svilupparle e trattarle in modo più approfondito nei cosiddetti “programmi di approfondimento”. Essi compaiono già nella veterotelevisione e generalmente si fanno risalire a RT- Rotocalco televisivo del 1962, un programma quidicinale realizzato da Enzo Biagi, che ha dato il nome ad un intero genere. I programmi di approfondimento come i settimanali stampati sono composti di vari servizi, mini- inchieste dedicate ai vari eventi di attualità, di cronaca e di costume, generalmente meno ufficiose dei telegiornali. Negli Stati Uniti anche in questo formato prevaleva la figura dell’anchorman, titolare di uno spazio giornaliero in cui realizzare inchieste e servizi e condurre battaglie anche politicamente marcate o in cui approfondire le notizie del giorno. Nella neotelevisione l’approfondimento informativo si intreccia con il talk show producendo un nuovo metagenere, Negli anni 80, con l’evoluzione del talk show e l’introduzione dell’infotainment, i conduttori accentuano la loro funzione di interfaccia tra la gente comune, le istituzioni e il mondo dei potenti e il ruolo di interpreti delle esigenze di cambiamento. Il loro spazio di manovra aumenta e con esso il loro potere. All’inizio degli anni 90 lo scandalo di Tangentopoli, e la conseguente delegittimazione di un’intera classe dirigente, accentua progressivamente il ruolo della televisione. Essa riesce ad apparire uno dei fattori del cambiamento e a delineare una transazione alla Nuova Repubblica prevalentemente televisiva. La televisione prende il ruolo dei partiti e con la trasmissione “Un giorno in pretura” manda in onda i processi in cui sono coinvolti i politici, oppure con l’infotainment “Samarcanda” di Michele Santoro scende direttamente in piazza. Lo spettacolo politico, sempre più coincide con lo spettacolo televisivo; il conduttore è per alcuni anni un attore politico a tutti gli effetti e la televisione è il traghettatore dal vecchio al nuovo. “Un giorno in pretura” è un court show (la rappresentazione di un tribunale) che era stato visto spesso nei telefilm americani. In Italia, con il consenso delle parti, è possibile riprendere in processi; “Un giorno in pretura” è in onda dal 1988 su Rai Tre raccontando oscuri procedimenti giudiziari per borseggi e truffe di periferia, ma con Tangentopoli passa chiaramente dai piccoli processi a quelli dei personaggi chiave dello scandalo. Nascerà qui, ad esempio, il mito del pubblico ministero di Antonio Di Pietro. Dopo questo precedente di successo, anche i telegiornali ed altre trasmissioni iniziano ad avere interesse per le aule di tribunale; il pubblico acquista dimestichezza con i processi e si abitua a vederli da casa come le partite di calcio, sebbene l’effetto-verità sia abbastanza discutibile. Si assiste così all’eclissi dei leader politici e alla demolizione di una parte della classe dirigente. Dalla fine degli anni 80 sono così progressivamente emerse figure di conduttori di uno spettacolo politico che ha assunto le movenze di un serrato talk show, in cui ai politici non viene più riservato il tradizionale e felpato ossequio o il cerimoniale. Successivamente il potere politico si ricompatta in forme nuove e il potere dei conduttori, pur rimanendo importante, non cresce più. La televisione esporta nella comunicazione politica le tecniche di gestione dell’immagine e del marketing che sono le proprie: spettacolarizzazione e personalizzazione diventano le caratteristiche permanenti della vita politica, non soltanto della TV. 6. Gli eventi mediali Si chiamano così (media events) i grandi eventi cerimoniali, spettacolari, sportivi o anche sociali e politici che la televisione periodicamente trasmette in diretta. La certificazione del carattere eccezionale, irrinunciabile degli eventi è data dall’ampiezza del loro pubblico su scala mondiale ed è spesso legata al loro valore storico o patriottico, comunque legata a valori forti e condivisi, adatti ad una partecipazione corale. La drammaturgia di questi eventi appartiene a varie tipologie. Quando si tratta di eccezionali eventi tragici narrati in diretta ( 11 settembre o morte di Giovanni Paolo II), essi vengono messi in scena secondo i canoni dell’informazione televisiva; quando si tratta di grandi eventi politici e sociali, assistiamo a un braccio di ferro attorno alla regia dell’evento tra i suoi organizzatori e i media, spesso con un terzo convitato che è costituito dalle istituzioni e dalle forze di polizia. La descrizione mediale di guerre e battaglie è anch’essa oggetto di una contesa tra i media e i militari, dopo che un’opinione diffusa attribuì alla televisione, e alle sue crude corrispondenze di guerra, la disaffezione degli americani per la guerra del Vietnam. Quasi tutti gli eventi che non appartengono a queste tipologie sono cerimonie. Essi sono stati distinti in competizioni (gare sportive, duelli politici), conquiste ( eventi in cui lo sforzo di pochi cambia la vita degli altri), incoronazioni di tipo magico-rituale che suscitano sentimenti di adesione popolare alle istituzioni. L’evento mediale si presenta come qualcosa di unico, distinto dal consueto flusso televisivo anche per il suo formato: l’assenza o minore incidenza della pubblicità, la lunga durata della trasmissione in diretta, il commento impegnato e rispettoso del telecronista, la molteplicità dei punti visuali inaccessibili ai veri spettatori sul posto, la ricerca di inquadrature di alto significato simbolico, i totali di scene di folla, le inquadrature dall’alto con dolly ed elicotteri e infine un uso liturgico delle musiche: fanfare patriottiche, musica classica, canti religiosi, uso di musiche composte per l’occasione ecc. Per queste loro speciali caratteristiche i media events favoriscono la partecipazione rituale ed emotiva degli spettatori. Capitolo settimo TV REALTA’ E OLTRE 1. La TV verità Alla fine degli anni 80 registriamo l’irruzione dell’esperienza profana e della testimonianza privata sulla scena pubblica. L’una e l’altra confluiscono in un metagenere televisivo, fondato sulla messa in scena dell’esperienza e chiamato di volta in volta “TV realtà” o “TV verità”. Esso è la principale marca comunicativa della battagliera Terza Rete della RAI, che punta al 10% dell’ascolto. Vuole essere una “televisione di servizio”, mettendo in scena drammi e problemi della gente comune, persone scomparse, delitti irrisolti- come nei programmi “Chi l’ha visto” o “Telefono Giallo”- con la dichiarata intenzione di contribuire a risolvere questi casi con l’aiuto degli spettatori, chiamati a intervenire telefonicamente. Citando esplicitamente il Neorealismo, il genere cinematografico italiano (45-53) che aveva come riferimento le classi popolari e amava portare sullo schermo attori “presi dalla strada”, la TV verità fa propri tutti i meccanismi narrativi dell’intrattenimento e della fiction per applicarli alla vita quotidiana. “Un giorno in pretura” nasce come un’antologia di casi di gente comune o di disperati, di soggetti marginali; così come “Samarcanda” di Michele Santoro porta l’infotainment nelle piazze. L’intenzione era quella di “raccontare la realtà con la realtà”. L’impatto della TV verità sul modo di fare televisione è stato profondo e ha generato un complesso di programmi investigativo-drammatici, di testimonianze, processi e confessioni su tutte le reti televisive, spesso perdendo di vista l’equilibrio e sconfinando in una TV dell’eccesso, fondata sulla strumentalizzazione di situazioni dolorose e conflittuali, litigi e risse, sull’esibizione di casi limite e di immagini choc, a cui è stato dato il nome di TV-spazzatura (trash TV). 2. Il reality show La principale evoluzione della TV verità è il reality show, il metagenere più rappresentativo della TV generalista degli anni 90. La TV verità aveva una forte componente “di servizio”; manifestava in tutti i modi l’intenzione di stare “dalla parte dei cittadini”. In qualche modo si trattava di una televisione pedagogica, che però non rinunciava all’attrattiva un po’ ambigua legata al disvelamento di situazioni torbide, enigmatiche, delittuose, al fascino della confessione in diretta, alla gioia popolare di vedere qualche potente ridicolizzato o messo alle strette per una sera. Il reality show non ha simili intenti. Il confine tra informazione di servizio e intrattenimento che fidelizza è ulteriormente spostato verso il secondo termine. Spesso sono giornalisti che varcano, con la loro riconoscibilità, questo confine: Alberto Castagna, Michele Cacuzza, Lorenza Foschini. Il reality show prende atto che nel flusso televisivo il pubblico deve rispecchiarsi emotivamente anche con storie e vicende che potrebbero capitare a uno di loro, e quindi coinvolgere persone reali o verosimili, intrecciare le loro vicende alla programmazione a flusso, intarsiarla di brani di quotidianità, riservando al privato, alla sfera intima e sentimentale, alle passioni, uno spazio maggiore rispetto alla TV verità che aveva comunque la sfera pubblica come referente. I suoi soggetti e utenti sono in genere persone semplici, di cultura e condizione sociale più modeste di quelle che ambiscono a parlare in un talk show; e ogni tanto c’è qualche celebrità, soprattutto quelle che hanno come target proprio quella gente semplice. Sempre più spesso però la TV arrangia in proprio situazioni e coincidenze, senza curarsi per niente di quanto siano “reali” (es. “Scherzi a parte”). Insomma invade e provoca, e in difetto di realtà ne crea una a sua immagine e somiglianza, realizzando una vecchia affermazione di Umberto Eco: “una complessa strategia di finzioni si pone al servizio di un effetto di verità..”. La veterotelevisione già conosceva la candid camera, la telecamera nascosta che riprende le reazioni delle persone comuni di fronte ad un evento imprevisto: Nanni Loy che al bancone del bar intinge il proprio cornetto nel cappuccino del vicino. Già in “Paperissima” e in molte altre trasmissioni si era fatto un largo uso di video amatoriali (cadute, buffi incidenti, animali e bambini che fanno cose divertenti) o supposti tali; qui però la realtà non è mai registrata passivamente ma provocata, costruita e preordinata in un formato, in una struttura narrativa standardizzata e di difficile memorizzazione e assimilazione da parte del pubblico. Un numero crescente di programmi intreccia la narrazione dell’intimità e delle emozioni alla materialità del denaro, attraverso qualche meccanismo di gioco nel quale è possibile vincere, in competizione con altri concorrenti, somme consistenti. L’agonismo scatena conflitti e aggiunge al formato del programma un’accelerazione in più, aiuta a superare i punti morti, facilita l’identificazione del pubblico con i singoli testimoni-concorrenti. Nel gran corpo del reality show si delineano ormai varie componenti, spesso sovrapposte: -la TV demiurgica che si fa organizzatrice, giudice, consigliera, procacciatrice delle esperienze della gente comune, arrivando per fino a finanziare un intervento chirurgico (“Bisturi”) -la TV caritatevole che promuove “Partite del cuore”, “Trenta ore per la vita”, o manda i suoi testimonial nelle campagne di utilità sociale, esibendo se necessario il malato di distrofia muscolare, l’alcolista anonimo, il terrorista pentito -l’emotainment, neologismo per un programma che affronta in forma di intrattenimento questioni intime e passionali, sentimentali e melodrammatiche, con molte concessioni al narcisismo (“Uomini e donne”, “Al posto tuo”); ma anche il gioco che fruga nella privatezza delle coppie distribuendo premi alla più affiatata, che incita ai pettegolezzi su un assente. La competizione può essere utilizzata per un formato che non ingrana. -la star making television, la tv che si fa scuola per formare con un duro tirocinio un gruppo di giovani aspiranti artisti o sportivi, che alternano cooperazione e competizione, successi e disfatte (“Amici di Maria De Filippi” “Campioni. Il sogno”). -una nuova generazione del game show, molto più vicina al gioco d’azzardo e attenta a registrare l’attimo fuggente in cui il quasi-vincitore perde tutto e si ritrova sconfitto (“Chi vuol essere miglionario”, “Quiz show”, “L’eredità”, “Affari tuoi”). - la burla, in cui telecamere nascoste e sceneggiatura ordiscono una beffa, ai danni di qualcuno (spesso un vip un po’ appannato: “Scherzi a parte”) -“Extreme”, definiamo così, dal titolo anglosassone di una delle trasmissioni più note, i contenitori in cui il conduttore lega tra loro filmati e brani (hightlights) di varia provenienza tratti da eventi reali, come sport estremi, catastrofi, incidenti paurosi, rapine, inseguimenti ecc. La messa in scena dell’altrui sofferenza provoca da sempre l’emozione o la curiosità popolare, come se esorcizzasse il pericolo che anche a noi possa capitare di incontrare la morte: “Real TV”, “Ultimo minuto”. 3. La televisione dell’intimità L’irrompere dell’intimità in televisione è la risultante di due processi convergenti: la privatizzazione della sfera pubblica e la pubblicizzazione della sfera privata. I primi a svelare la propria intimità sono gli ospiti dei talk show, specialmente personaggi pubblici e vip. I politici mostrano il loro lato umano rivelando il loro privato, hobby, aspirazioni non realizzate, cantando canzoni e magari accompagnandosi al pianoforte. Anche una trasmissione come “Scherzi a parte” mostra questo lato umano. Il discorso pubblico comprende quote crescenti di discorso privato, di esibizione dei propri familiari (da parte dei politici). Successivamente viene esposto il lato intimo di persone comuni che però hanno avuto una particolare sventura, che hanno subito un evento fuori dall’ordinario. In “Chi l’ha visto” la pubblicizzazione del caso della persona scomparsa viene giustificata come un modo per farla ritrovare. L’esposizione del caso è provvista di una giustificazione sociale. Dagli anni 90 in poi si mettono in scena l’intimità delle persone comuni, i loro problemi, le discussioni familiari, i conflitti e anche i pettegolezzi. Le enunciazioni degli ospiti possono assumere la forma della confessione (“C’è posta per te” “Stranamore”), della confidenza tra simili (“Harem”), della testimonianza condivisa (“Voglia”) o della reazione alle complicate macchine sceniche messe in atto per loro (“Carramba che sorpresa” “Il treno dei desideri”). Le novità sul piano dei contenuti che il metagenere comporta sono notevoli, e particolarmente adatte a “fare scandalo”, far parlare della trasmissione quotidiani e settimanali, proseguire il racconto su altri media che lo illustrano o si prestano a dibatterlo: 1. i segreti dell’alcova (stanza da letto), si liberano della loro protezione per essere portati in piena vista sulla scena pubblica e talvolta prendono la forma di veri e propri atti d’accusa in pubblico, contro il partner; 2. modi di vita e abitudini confidenziali, segreti, fatti indicibili sono portati al mondo esterno (caduta sociale, obesità, droghe, vizio del gioco ecc.) un cavo (a larga banda o ADSL), e sono ricevute sul televisore (IPTV). Tutte le piattaforme ritrasmettono le principali emittenti della televisione generalista. La visione si effettua anche sui tradizionali schermi televisivi, grazie al STB (Set Top Box), ma sempre più con i nuovi schermi piatti (plasma o cristalli liquidi) che incorporeranno al loro interno il STB. Sia il digitale terrestre, sia la televisione satellitare permettono la pay per view; la IPTV consente anche il Video on demand, cioè la possibilità di accedere in ogni momento ad ampie libraries di film e altri contenuti di pregio, prelevandole gratis o a pagamento e iniziandone subito la visione; la pay per view offre invece un numero molto più ridotto di contenuti e si deve aspettare l’orario programmato di inizio. Tutte le piattaforme permettono inoltre di installare dentro il STB un Personal Video Recorder (PVR), un registratore digitale munito di hard disk che consente non solo di registrare e di mantenere in memoria i programmi preferiti, di sospendere la visione di una trasmissione, anche in diretta, per poi riprenderla, di tornare indietro, di scorrere velocemente, di riprendere la visione di un programma dall’inizio e di richiamare sullo schermo i programmi che ci siamo persi perché occupati altrove o intenti nella visione di un altro canale. Nelle forme più evolute della IPTV, la IPTV-E (Enhanced “arricchita”), è possibile anche richiamare registrazioni dei programmi di tutte le televisioni, effettuate centralmente dalla IPTV e inviate on demand, allo spettatore che le desidera. Da tutte queste pratiche esce completamente sovvertita la temporalità televisiva e la visione lineare, cioè l’obbligo di vedere ciò che vogliono i broadcaster, nel momento e nell’ordine da loro scelto, senza poter tornare indietro, interrompere la visione o rintracciare quello che si è perso. Il cambiamento è ancora maggiore se consideriamo ciò che compare sul computer, su dispositivi multimediali portatili come IPod, sul display del telefonino o sui grandi schermi sistemati in aeroporti, stazioni della metropolitana, banche, centri commerciali (Outdoor TV), che propongono ai passanti news, informazioni di servizio, pubblicità, brevi contenuti comici. In realtà per i broadcaster diventa indispensabile farli circolare su tutte le piattaforme possibili. Mentre nella televisione analogica ogni broadcaster offre i suoi contenuti in concorrenza con gli altri, nella televisione digitale è fondamentale fornire la scelta più ampia di canali, nazionali o internazionali, stipulando accordi con i detentori dei diritti. In qualche caso la distribuzione è esclusiva per l’Italia, ma è molto più frequente che gli stessi canali si trovino, in tutto o in parte su altre piattaforme. Ciò segna una differenza abissale dalla TV generalista; mentre per definizione un programma di Rai Uno non poteva andare contemporaneamente su canale 5, sul digitale satellitare (Sky) troviamo buona parte dei canali che sono sul digitale terrestre. Offrire canali interi è cosa molto diversa dall’offrire contenuti da collocare in un palinsesto. Molti soggetti diversi offrono oggi canali per la distribuzione sulle piattaforme. Alcune sono società internazionali quali Disney o CNN, altri sono broadcaster generalisti in cerca di diversificazione (BBC, RAI, Mediaset), oppure aziende che producono canali senza disporre di reti di distribuzione. Ma ci sono anche canali offerti gratuitamente o quasi da organizzazioni religiose che vogliono diffondere la loro fede, da istituzioni educative a distanza, da stati che vogliono farsi conoscere all’estero e seguire dai propri connazionali. Ciascuna piattaforma della televisione digitale ha il problema di distinguersi dalle altre e di farsi scegliere, tenendo conto anche che parte dell’offerta è sempre la stessa. Per questo è indispensabile produrre in proprio almeno un canale vetrina che illustri i punti forti dell’offerta e, possibilmente, altri canali con il proprio marchio. E’ il caso di Sky, che può però contare sulle sinergie di un gruppo editoriale presente in tutto il mondo. Per la presentazione dell’offerta è indispensabile inoltre che canali e singoli contenuti non siano presentati alla rinfusa, ma organizzati in gruppi dotati di un senso e di una coerenza interna, collegati alle tendenze attuali e facilmente consultabili dagli utenti. Lo strumento principale è l’EPG, Elec.tronic Program Guide, un’interfaccia visiva in cui sono organizzati i vari contenuti, in forma ipertestuale, e a cui si accede attraverso uno speciale telecomando. 2. L’atteggiamento degli spettatori Si è spesso affermato che guardare la televisione era una fruizione passiva contrapposta ad altri consumi culturali e all’interattività presente nei videogiochi e in Internet, dove per interattività intendiamo la possibilità di scambio reciproco di informazioni tra un emittente e un ricevente. La televisione è sempre stata unidirezionale. L’unica forma di interattività intensamente praticata era cambiare canale con il telecomando (interattività di scelta). E’ discutibile tuttavia che la visione televisiva fosse così passiva. L’arrivo della TV digitale, e in particolare del Digitale terrestre, è stato fortemente collegato ad una previsione di interattività, con un canale di ritorno assicurato alla linea telefonica a cui è collegato il STB (interattività differita). Si è parlato di home banking (informazioni e operazioni sul proprio conto corrente bancario), home trading (compravendita di titoli azionari), videogiochi interattivi, home shopping (televendite), e distance learning (apprendimento a distanza). A distanza di qualche anno constatiamo che si è sviluppata largamente l’abitudine di comprare programmi in pay per view con il telecomando: premo un tasto del telecomando quando una scritta sullo schermo televisivo me lo chiede e il STB, via cavo telefonico, contatta l’emittente, che a sua volta, comunica al STB il logaritmo necessario alla decodifica di quel determinato contenuto. L’home shopping televisivo ha una sua fascia di utenza, molto inferiore all’e-commerce su Internet. I videogiochi interattivi si sono largamente sviluppati, ma su PlayStation, Xbox e simili, fisse o portatili oppure sul computer. I servizi Internet sono rimaste stabilmente sul computer. Permane un certo scetticismo, non sempre motivato, sulla scarsa attitudine di un pubblico televisivo poco interattivo a praticare la televisione digitale. Tuttavia le piattaforme digitali non hanno una soglia di accesso troppo alta, e ci assecondano nel tasso di interattività compatibile con i nostri gusti e la nostra stanchezza serale. Non dobbiamo dimenticare che si sta affacciando al mondo adulto una generazione nata negli anni 80 che non è stata socializzata, come la precedente, dai cartoni animati della TV commerciale ma sempre più da un consumo precoce di Internet. Questa generazione e le successive sono sempre più lontane dalla televisione generalista, sempre più aderente ad un pubblico anziano, mentre ha incorporato le pratiche e le culture del digitale. Un’ulteriore leggenda pessimistica sulle TV digitali scaturisce da una sbrigativa lettura dei dati di ascolto e che appaiono molto ridotti, spesso sotto l’1%. La redditività di una piattaforma digitale tuttavia non è data dal numero degli ascoltatori, ma dagli abbonamenti sottoscritti e dagli acquisti, con risultati molto soddisfacenti. 3. Contenuti e palinsesti digitali La televisione generalista è sostanzialmente una tecnologia push, che spinge verso uno spettatore distratto o riluttante i suoi contenuti in aspra competizione con altre offerte. La televisione tematica è piuttosto una tecnologia pull, che rende disponibili elenchi di contenuti, dove lo spettatore preleva solo ciò che è di suo gradimento. Nel passaggio da push a pull si perdono quasi tutte le caratteristiche della neotelevisione, salvo il ritmo. Poiché lo spettatore sceglie un contenuto determinato, non c’è flusso, non c’è necessità di inglobare ogni spettacolo dentro un contenitore, non c’è la necessità di raggiungere in ogni momento tutte le tipologie di spettatori presumibilmente in ascolto. Tutte queste modalità espressive sono anzi respinte dallo spettatore della TV digitale. Tuttavia la ricchezza formale dell’immagine neotelevisiva, la rapidità delle sequenze, la scelta ormai obbligata di un codice narrativo per presentare qualunque contenuto sono integralmente fatte proprie dalle TV digitali. La televisione digitale sceglie i contenuti che la televisione generalista non dà, o non dà con completezza e tempestività sufficiente, perché costerebbero troppo (film di prima visione, spettacolo sportivo) o perché non raggiungerebbero audience significative nelle ore principali della giornata televisiva (cultura, arte, sport minori). Tali contenuti sono organizzati in canali, generalmente dedicati a un solo tema e per questo definiti “tematici”. Una piattaforma offre gratuitamente centinaia di canali televisivi, esteri e nazionali, molteplici canali audio per tutti i gusti, un bouquet di canali a pagamento, film o eventi sportivi pagabili singolarmente (pay per view). Il marketing, che tende ad offrire ai clienti una grande varietà di soluzioni contrattuali, si è incaricato di ridurre fortemente la distanza fra pay TV e pay per view: ciò che è in abbonamento secondo un determinato tipo di contratto può anche essere acquistato in pay per view, per singoli eventi o pacchetti, dagli altri clienti. I canali sportivi e il cinema costituiscono la parte centrale dell’offerta. Accanto a questi canali, notevole importanza hanno i canali per bambini, i canali musicali, quelli dedicati all’informazione o ai documentari naturalistici, quelli di viaggio e storici e i canali di archivio che valorizzano film classici, vecchie produzioni televisive e altri materiali di repertorio. Vi sono poi i canali di hobby, motori, cucina e arredamento (lifestyle), di previsioni metereologiche, di home shopping e, nelle ore serali, porno. Forme di parental lock consentono ai genitori di impostare per i loro figli visioni selezionate. La pubblicità è sulle reti digitali meno abbondante e intrusiva; tuttavia il digitale e soprattutto la IPTV permettono di profilare con grande esattezza il pubblico. Nella TV generalista la pubblicità non era una parentesi, ma contribuisce significativamente al tono generale del flusso, cercando di esorcizzare il terribile momento in cui lo spettatore abbandona il canale o spegne l’apparecchio. Mentre il broadcasting in chiaro è un’attività tipicamente nazionale, molti di questi canali sono la versione italiana di canali internazionali diffusi in tutto il mondo, o sono direttamente in lingua originale. Costruire il palinsesto di un canale tematico è un lavoro molto diverso dall’analoga attività nella televisione in chiaro e assomiglia piuttosto alla programmazione di una sala cinematografica, in cui lo stesso film sta in cartellone per un periodo determinato e viene programmato a orari fissi più volte al giorno. La celebrazione della diretta e dell’attualità propria della televisione generalista svaluta le repliche, confinate nelle zone meno pregiate del palinsesto. Al contrario la televisione tematica digitale ripropone uno spettacolo per più giorni consecutivi e in orari diversi per intercettare le diverse abitudini del suo pubblico. Fare il palinsesto significa qui soprattutto dare un’immagine di rete coerente, dove un filo linguistico e culturale cuce fra loro i vari prodotti offerti facendone una collezione. Questo non richiede solo di presentare dei film o delle partite ma di introdurre degli elementi di narrazione da cui la televisione non può prescindere (notiziari, antologie, rubriche, talk show ecc.). Se dunque la televisione digitale rappresenta un ritorno al testo, essa non sa vivere senza il suo paratesto e una forte immagine di canale e piattaforma. 4. Lo sport-spettacolo dal free al pay La rappresentazione televisiva dello sport è, insieme alla videomusica, il metagenere che meglio esprime il passaggio dalla neotelevisione all’abbondanza televisiva. La ricchezza della neotelevisione era composta in modo significativo di sport spettacolo, sportainment e talk show, anche da parte di piccole TV locali. L’avvento della televisione a pagamento ha progressivamente tolto gran parte delle dirette calcistiche dalla TV in chiaro, pubblica e privata, perché essa era in grado di offrire di più sul mercato dei diritti (nazionali e internazionali) grazie a una migliore efficienza nella remunerazione del loro valore. Essa è riuscita in quello che sarebbe sembrato a tutti impossibile, modificare i calendari e gli orari dei campionati e delle coppe secondo le sue esigenze, spezzando il mito della simultaneità domenicale di tutte le partite e introducendo anticipi e posticipi. E’ stato per altro l’avvento dello sport spettacolo in pay per view che ha fatto decollare la TV satellitare prima e il digitale terrestre dopo. Sulle reti in chiaro si parla ancora molto di sport, ma se ne vede molto meno perché le immagini sono coperte dei diritti detenuti da altri, salvo il diritto di cronaca (facoltà di mandare in onda brevissime sequenze). Intanto attorno alla visione delle partite è tornata una dimensione collettiva del consumo televisivo in bar, trattorie e pub, che sembrava perduta per sempre. Il calcio si è dilatato da occasione festiva, settimanale, a fatto quotidiano moltiplicando il numero delle partite trasmesse, cooptando anche il pubblico femminile ormai pienamente integrato, e importando nello sport un ritmo seriale. Il numero dei telecronisti e commentatori, delle telecamere e dei microfoni in campo si è dilatato, in un’estetica barocca che cerca di trasformare ogni partita in un grande evento. Sul campo vengono indicati, come su una lavagna i metri che separano il tiro della punizione dalla porta; si propongono dati statistici immediati sul possesso di palla, i tiri in porta, i falli fatti e subiti; il ralenti, il moviola, il replay da diversi punti di vista sono continuamente al servizio della narrazione, interrompendo la temporalità dell’evento e realizzando qualcosa di simile al flashback cinematografico. Nella Formula 1 le telecamere da tempo sono montate sul casco dei piloti, permettendo di guardare la gara esattamente con i loro occhi, in una sorta di videogioco di simulazione. Lo spettatore ha adesso la possibilità di usufruire di un punto di vista tutto interno all’evento rappresentato, mentre convenzionalmente il punto di vista adottato dalla TV era quello dello spettatore in tribuna. Nel passaggio alla televisione digitale lo sport spettacolo ha un ruolo anticipatore per traghettare, segmentandolo, il pubblico generalista verso la pay per view e per introdurre nuove convenzioni rappresentative dell’immagine. 5. La televisione musicale e il videoclip negli anni 90 un fenomeno di culto anche in rete. Da allora Internet è un luogo privilegiato per la vendita delle serie televisive di fiction, per la loro promozione, e come punto di aggregazione centrale per i suoi spettatori. Oggi non c’è una serie di fiction che non abbia un plurimo riferimento in siti ufficiali, di fandom, dei gruppi degli appassionati, attraverso i quali si costituisce una community. La definizione di nuovi spazi virtuali come Second Life e di siti di social networking come MySpace amplia i canali promozionali del prodotto audiovisivo e dà spazio all’esperienza personale dello spettatore che ora ha la possibilità di contribuire in qualche modo al processo creativo. La serialità televisiva è un punto centrale nel panorama di convergenza tra i vari media digitali e ha particolari possibilità di poter circolare su piattaforme diverse. In Italia particolarmente Fox Life e Fox Crime, proposti su Sky, puntano a occupare le fasce alte della programmazione generalista con prodotti di fiction seriale mirati a target- soprattutto giovani e giovani adulti- non fidelizzati a pieno dalle reti in chiaro ma assai appetibili sul piano pubblicitario. E’ un pubblico che si rispecchia in trame contemporanee, o che comunque si confrontano con temi moderni assimilabili alla modernità. La fiction di ambiente diventa una sorta di “turismo esperienziale” per lo spettatore, che approfondisce la conoscenza di quel particolare mondo vitale, come visiterebbe un’altra città: si pensi all’ospedale di ER, alle strade di New York in “Sex and the city”, all’isola misteriosa di “Lost”. Il marketing suggerisce vicende non concluse, capaci di generare attenzione con abili cesure tra un episodio e l’altro, la sospensione del finale continuamente rimandato, il passaggio da una vicenda all’altra all’interno della saga dei destini incrociati, che la televisione prende di peso dal miglior cinema moderno hollywoodiano. La narrazione tende a diventare crossmediale e multipiattaforma: gli elementi integrati di una fiction vengono dispersi in molteplici canali di diffusione, allo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento coordinata. Per vivere questo mondo narrativo nella sua interezza i consumatori/spettatori devono assumere il ruolo di cacciatori e collezionisti, inseguendo i frammenti di storia attraverso i vari canali a disposizione, confrontando le loro osservazioni nei forum e gruppi di discussione. Ne sono esempi “The Matrix”, i cui frammenti di informazione vengono comunicati attraverso tre film di azione, una serie di cortometraggi animati, due raccolte di storie a fumetti e numerosi videogiochi e siti web. Un altro esempio è “Lost” la cui narrazione viene smembrata e diffusa anche al di fuori del mezzo televisivo. La fiction si incontra con i modi espressivi e le forme estetiche che discendono dall’inchiesta televisiva, dai video in rete, e da altre recenti forme di produzione audiovisiva non convenzionale: i cellulari, le webcam, le telecamere di sorveglianza. Ciò assume talvolta la forma di mockumentary, il documentario simulato e che vanta precedenti illustri (da Orson Welles a JFK di Oliver Stone). Il marketing individua nella cooperazione dei clienti una forma per la promozione dei prodotti e quindi incoraggia la creazione di trailer da parte dei futuri spettatori. Gli UGC, Users Generated Contents, realizzati direttamente dagli spettatori e diffusi attraverso la rete Internet e siti per lo scambio alla pari come il fortunato You Tube, sono la forma con cui gli spettatori contribuiscono allo sviluppo delle serie; sempre più essi appaiono agli sceneggiatori come una opportunità. I linguaggi televisivi che meglio interpreteranno la crossmedialità e quell’area liminare compresa tra TV, cinema, video su Internet e UGC, saranno probabilmente quelli della TV di domani.
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