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i supplizi capitali di Eva Cantarella, Appunti di Storia

Riassunto dettagliato del libro "i supplizi capitali" di Eva Cantarella, per il corso di fondamenti del diritto

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 12/07/2023

TheWhatever
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Scarica i supplizi capitali di Eva Cantarella e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! I supplizi capitali -origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma LO STATO CHE UCCIDE; COME E PERCHÉ, IERI E OGGI Oggi gli stati che prevedono la pena capitale hanno alle spalle un plurisecolare dibattito teorico sulle ragioni di questa pratica, e giustificano la loro scelta di farvi ricorso attribuendo alla morte di Stato: - una funzione riabilitativa e deterrente - una funzione retributiva - le due funzioni assieme Originariamente, tanto in Grecia quanto a Roma, le pene di morte non svolgevano una sola funzione ma tre assieme, ciascuna delle quali rivelata dalle modalità delle esecuzioni previste per i diversi tipi di reato. Le tre funzioni erano: 1. la funzione di affermare l’autorità del nuovo ordinamento sovraordinato alle famiglie, che si stava affermando come città stato. 2. la funzione di soddisfare almeno in parte il desiderio di vendetta delle vittime (o dei familiari, se il crimine era un omicidio). 3. la funzione di eliminare una persona che, a causa del suo comportamento, era considerata un “mostro” portatore di impurità, causa di contagio, e del quale far sparire ogni traccia. L’esecuzione capitale, e più in generale la pena, è ancora sentita come un modo di dare soddisfazione alle vittime e alle loro famiglie; in alcuni stati, infatti, si consente ai parenti delle vittime di assistere all’esecuzione: il caso noto è quello di Timothy McVeigh, il terrorista che aveva messo una bomba in un edificio nel 1995, provocando la morte di 168 persone. Lunedì 11 giugno 2001 Timothy venne condotto nella camera delle esecuzioni di Terre Haute e sia ai parenti delle vittime sia ai sopravvissuti, era stato permesso di assistere all’esecuzione. Secondo una dichiarazione del presidente Bush, l’esecuzione aveva dato alle vittime giustizia ma non vendetta, anche se le reazioni dei familiari delle vittime dimostravano ben altro. Molti di loro, dichiararono, infatti, di aver provato sollievo vedendolo morire e ciò lascia intendere che essi si aspettassero proprio la vendetta. A seguito dell’esecuzione, alcuni sostenitori della pena capitale cominciarono a nutrire dubbi sulla sua efficacia e sul modo in cui le sentenze venivano pronunziate. Negli ultimi decenni la pena di morte è stata riconcettualizzata in modo da lasciar sempre più spazio ai sentimenti vendicativi che, spesso, animano i parenti delle vittime. Di fronte ai crimini più efferati, l’esecuzione viene percepita come la risposta all’esigenza di sapere che il mostro non c’è più, che la terra è stata liberata dal male, purificata da una presenza intollerabile che rendeva il mondo pericoloso. René Girard parla del capro espiatorio e sostiene che, nelle società tribali, in alcune situazioni di conflitto, tutto il male e ciò che c’è di negativo si concentra su una sola persona, che diventa vittima arbitraria della comunità. Ritroviamo questo concetto nel pharmakos greco, il personaggio che gli ateniesi conservavano al fine di ucciderlo, qualora si verificassero eventi che segnalavano la diffusione di un contagio che andava eliminato. La morte del condannato alla pena capitale dà oggi alla collettività la stessa sensazione di purificazione che dava agli ateniesi l’uccisione del pharmakos. Il dibattito sull’abolizione della pena di morte nasce nel Settecento, sull’onda di opere come “dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Possiamo però dire che la riflessione sulle ragioni che giustificano l’irrogazione delle pene e sulla funzione di queste ebbe inizio molti secoli prima, a opera dei pensatori greci. Alla pena Platone dedica notevole attenzione. Nel Protagora si trova l’esposizione più celebre e chiara delle possibili ragioni per le quali uno stato può infliggere ai propri cittadini una pena in tutte le sue possibili forme e gradazioni. Platone si chiede: “può la virtù essere insegnata?” e per Protagora la risposta è positiva, e la prova sta nella pena. Chi cerca di punire secondo ragione, infatti, non punisce a motivo del delitto trascorso, ma in considerazione del futuro, affinché non commetta nuovamente ingiustizia colui che viene punito, né altri che vedano il primo punito. La giustizia è quindi prospettiva, non retrospettiva. Nel Protagora la pena ha funzione di deterrenza sia specifica, in quanto evita che un criminale ripeta lo stesso delitto, sia generale, in quanto evita che altri commettano quel reato. Protagora appare quindi come precursore delle moderne teorie riabilitative nel dialogo platonico. “sia che si tratti di un fanciullo, sia che si tratti di un uomo o una donna, bisogna correggere e castigare chi non partecipa alla virtù sino a quando, subendo la pena, non diventa migliore; tuttavia, colui che si mostri renitente alle correzioni e ai castighi, si deve cacciare o uccidere perché inguaribile” La pena estrema per Protagora (l’allontanamento o la morte) non va inflitta in considerazione di quel che è stato fatto nel passato, non è retribuzione. Va inflitta per proteggere la polis ed è la misura estrema che garantisce l’effettività della funzione deterrente specifica. Altre riflessioni platoniche interessanti sono quelle fatte nel Gorgia, dove Platone si chiede se, per guidare l’azione politica, è sufficiente saper persuadere gli ascoltatori, diffondere con abile propaganda le proprie idee e ottenere il favore del popolo assecondandone le passioni o se, invece, bisogna cercare la verità. Per Platone fare giustizia è più dannoso che riceverla, ed è più felice chi viene punito per le ingiustizie commesse di chi riesce a evitare la pena. L’ingiustizia e la malvagità, spiega Socrate per bocca di Platone, sono malattie morali; per questo, esattamente come chi è malato nel corpo va dal medico, chi soffre di mali morali deve andare dai giudici per scontare la pena. Al termine del dialogo troviamo il racconto del mito sul giudizio delle anime per il quale, secondo una regola in vigore già ai tempi di Crono, al momento della morte le anime di coloro che avevano vissuto bene andavano nelle Isole dei Beati, dove vivevano felici e immuni dai mali; chi aveva vissuto male invece andava a espiare nel Tartaro. Quando a Crono successero Zeus, Poseidone e Plutone, Plutone e i custodi delle Isole dei Beati andarono da Zeus, denunciando che nel Tartaro e nelle Isole Felici giungevano anime che avrebbero dovuto avere altra destinazione. Zeus spiegò perché questo accadeva: le persone venivano giudicate ancora vestite, in quanto vive, e poiché molti, pur avendo anime malvagie, erano vestiti di corpi belli, i giudici, a loro volta vivi e vestiti, venivano influenzati dal rivestimento dei corpi. Dunque, concluse Zeus, si rendevano necessari due provvedimenti: 1. gli uomini non dovevano più prevedere quando sarebbero morti (sino ad allora lo prevedevano) 2. gli uomini dovevano venire giudicati nudi, vale a dire dopo la morte, da giudici anch’essi morti e nudi. A giudicare le anime sarebbero stati i suoi tre figli, Minosse, Radamante ed Eaco, che avrebbero emesso le loro sentenze stando su un prato da cui partivano due vie, una diretta al Tartaro, l’altra all’Isola dei Beati. “Coloro che subiscono la pena, se hanno commesso colpe sanabili, diventano migliori, così come diventano migliori coloro che, vedendoli scontare la pena, vengono presi dalla paura. Ma coloro che hanno commesso le colpe più gravi e per questo sono diventati insanabili non possono migliorare. Essi non sono di alcun giovamento a sé stessi e per questo sono veri e propri esempi sospesi là nell’Ade, spettacolo e ammonimento agli ingiusti che continuano a giungere.” Alla pena viene affidata quindi una funzione riabilitativa e deterrente. Nel dialogo “le leggi”, Platone lascia la metafisica per affrontare l’aspetto istituzionale della pena. Nella città ideale (Magnesia), il buon ordine della città è affidato alle leggi, cui spetta il compito di formare la cittadinanza. Il buon legislatore non deve quindi limitarsi a minacciare delle punizioni. Il buon legislatore non deve limitarsi a reprimere, il suo compito è in primo luogo, persuadere i cittadini a rispettare le leggi. Ma come? La soluzione prospettata da Platone è quella che il legislatore faccia precedere la sanzione da un proemio, capace di persuadere i cittadini della saggezza e dell’opportunità delle regole e della necessità di rispettarle. Solo se i cittadini identificheranno la loro volontà con quella delle leggi, e solo se lo faranno anche nel privato, sarà possibile raggiungere il fine comune di garantire la giustizia ed evitare conflitti interni alla città. Le leggi prospettano un programma cupo e opprimente di una teocrazia intesa ad addomesticare la vita attraverso un apparato legislativo onnipervasivo e immutabile. La città nelle leggi si regge su alcuni princìpi fondamentali e alcune certezze che tutti devono condividere: gli dèi esistono, essi si prendono cura dei mortali e sono incorruttibili. Senonché, purtroppo, alcuni uomini non si lasciano convincere dalle leggi e non condividono questi princìpi, commettendo il crimine più grave che si possa commettere, Quello che il governatore chiedeva alla commissione era di dire se esistevano riforme che potevano rendere giusta, equa e precisa l’applicazione della pena di morte. Seguendo le indicazioni di Ryan, la commissione esaminò i casi dei tredici imputati che negli ultimi anni, nell’Illinois, dopo essere stati condannati a morte, avevano ottenuto l’annullamento della condanna; e al termine dei lavori, che si protrassero per due anni, conclusero che il livello delle indagini non consentiva di fidarsi dei risultati raggiunti. Se si decideva di continuare ad applicare la pena di morte era necessaria una serie di riforme. Sul piano giudiziario, la consapevolezza della necessità di un forte ripensamento è emersa, ai massimi livelli istituzionali, da una serie di importantissime sentenze della Corte Suprema. - Nel 2002 la corte stabilì l’incostituzionalità dell’esecuzione delle persone mentalmente ritardate, sulla base dell’ottavo emendamento della costituzione, che vieta il ricorso a punizioni crudeli e inusuali. - Il 1° marzo del 2005 la corte ha concluso il caso di un omicidio commesso dall’allora diciassettenne Christopher Simmons, stabilendo l’incostituzionalità della condanna a morte e dell’esecuzione capitale di coloro che hanno commesso o commetteranno omicidi rima dei 18 anni. Questa sentenza ha posto fine a una pratica che era ancora in vigore in 19 dei 50 stati dell’unione. Negli ultimi anni, alle tendenze abolizioniste, o comunque volte a limitare le esecuzioni, si è affiancato un movimento di diversa natura, che tende a evitare che l’amministrazione della giustizia comporti spargimento sia pur legittimo di sangue. Si parla della recente teorizzazione di una restorative justice, l’ipotesi di una nuova giustizia criminale diversa sia da quella “riabilitativa” sia da quella “retributiva”, di ciascuna delle quali segnala limiti e inadeguatezze. Emersa negli anni ’90 questo tipo di giustizia è stato teorizzato da politici, accademici, lavoratori sociali, gruppi religiosi e, in determinate situazioni, realizzata grazie all’opera di nuove figure professionali dette “mediatori di giustizia. Chi studia il fenomeno ha da individuare almeno tre proposizioni fondamentali: - I sostenitori della restorative justice ritengono sbagliato considerare il crimine solo come un’infrazione alla legge: il crimine offende e danneggia le vittime, la comunità e lo stesso criminale. - Essi credono che, più che punire il criminale, la giustizia debba riparare alle offese e alle ingiustizie che il crimine ha provocato. - Contestano il monopolio dello Stato nella risposta al crimine, a svantaggio (se non a esclusione) della società. La restorative justice poggia su quattro pilastri: incontro, riparazione, reintegrazione e partecipazione. Il caso più noto di restorative justice è l’azione della Trc (Truth and Reconciliation Commission) incaricata di riportare l’ordine e la riconciliazione in Sudafrica. Nata per evitare i processi politici, la Trc si proponeva di applicare una giustizia restorative, offrendo riparazione alle vittime e concedendo un’amnistia ai colpevoli. Questa “altra giustizia” ha un importante potenziale, legato al superamento dell’idea che gli interessi della vittima e del criminale siano diametralmente opposti. Ma accanto alle potenzialità, essa ha anche aspetti che possono ingenerare ambiguità. Due aspetti fondamentali della restorative justice sono: - l’ingresso nel mondo del diritto e della giustizia criminale delle vittime come attori - la considerazione di temi come le emozioni. Tra le emozioni sta anche il desiderio di vendetta delle vittime, la cui posizione processuale, nel corso degli anni, è sensibilmente cambiata. In risposta a un diffuso malcontento delle vittime è nato infatti un movimento che, a partire dagli anni Settanta, ha preso a denunziare la disparità di trattamento tra gli accusati, i cui diritti erano riconosciuti e protetti nel processo, e le vittime, cui non spettava alcun diritto e tantomeno alcun ruolo nel procedimento giudiziario. Definito Victim’s Rights Movement, il gruppo di coloro che sostenevano i diritti delle vittime non era in realtà un movimento con obiettivi uniformi e coerenti. Esso comprende gruppi di persone che si prefiggono obiettivi diversi, e tra gli strumenti per raggiungere questi obiettivi trova spazio la richiesta di concedere alle vittime di testimoniare durante il processo. A giustificazione di questa richiesta abbiamo due considerazioni: - essa era considerata e presentata come un’istanza di giustizia: poiché la difesa ha il diritto di produrre testimoni che possono contribuire a sostenere le sue tesi. Era quindi ingiusto che a coloro che sono stati legati da vincoli di parentela o affetto alla vittima non sia concesso di testimoniare. - se nel processo fosse stata concessa maggior voce ai parenti delle vittime, questi sarebbero riusciti più facilmente a chiudere il periodo della loro vita che era stato devastato dal crimine, riconquistando il controllo di sé e la capacità di reintegrarsi nella comunità dalla quale spesso si erano o erano stati estraniati. Il dibattito su queste richieste e sul ruolo processuale dei parenti delle vittime è stato ampio e acceso. Accanto a chi ha approvato l’accoglimento di queste richieste, vi sono stati quelli che, invece, le hanno giudicate in modo negativo. Col passare del tempo le richieste del victim’s rights movement sono diventate un problema politico che chiedeva risposta. Se è certamente cosa buona e nobile dare sollievo alle vittime e ai loro parenti, questa non è cosa di cui debba preoccuparsi la giustizia criminale. Ma negli Stati Uniti questa posizione è attualmente minoritaria: e a far comprendere le ragioni che la rendono tale aiutano le considerazioni recentemente svolte da Franklin E. Zimring. Secondo Zimring, la pena di morte sarebbe ancora in vigore negli Usa perché sarebbe una manifestazione dell’american exceptionalism, vale a dire della “peculiarità” americana, ovvero quell’insieme di princìpi, credenze, pratiche e valori che danno alla cultura americana una sua particolare fisionomia, che la distingue dalle altre. La pena capitale, in particolare, si ricollegherebbe ai valori che ispiravano la cultura dei vigilantes, che specie negli Stati del Sud prospettava l’idea del farsi giustizia personalmente, e che, nella sua forma estrema, si esprimeva nella pratica del linciaggio. A partire dal 1972 la corte suprema dichiarò l’incostituzionalità della pena capitale nelle forme crudeli e inusuali allora in voga; venne quindi introdotta l’iniezione letale. Ma perché la morte di Stato non incontrasse eccessive opposizioni non bastava che le esecuzioni apparissero più accettabili: bisognava convincere l’opinione pubblica dell’opportunità di reintrodurle. Negli stati uniti, oggi, esiste un legame personale tra la pena, le vittime del crimine e le loro famiglie che non esiste in alcuno stato europeo. L’America accetta le sentenze capitali in quanto le percepisce come la soddisfazione di interessi privati. De il diritto dei parenti di assistere alle esecuzioni è concessione evidente ai sentimenti di vendetta, l’ammissione dei Victim Impact Statements nella sentencing phase di un processo capitale è qualcosa di più. Ai parenti delle vittime, con questa concessione, viene attribuito un ruolo che è dichiarato dalla Corte Suprema come determinante nella formazione della sentenza. Pur non avendo diritto di voto, dunque, i parenti delle vittime contribuiscono, o quantomeno possono contribuire a determinare i voti dei giurati. Attualmente la vendetta è oggetto di riflessione da parte non solo dei giuristi, ma anche dei filosofi e dei sociologi del diritto. William Ian Miller osservava che la vendetta è un motivo dell’azione individuale che non può essere pubblicamente ammesso: Chiesa, Stato e ragione la condannano concordemente; ufficialmente la vendetta è un peccato per il teologo, è illegale per il principe ed è irrazionale per l’economista. Ma oggi la vendetta è una motivazione dell’azione che non solo non ci si vergogna di dichiarare, ma della quale si arriva a proporre una giustificazione teorica. IN GRECIA La prima fonte alla quale è possibile rivolgersi alla ricerca di informazioni sulla pena di morte in Grecia sono i poemi omerici. Nella società omerica, la sfera privata e quella pubblica erano due mondi diversi, organizzati secondo regole proprie e distinte. I supplizi, nel mondo dei poemi, non venivano inflitti nelle piazze, ma nelle case, per un motivo preciso: il diverso livello di organizzazione del pubblico e del privato. Gli organi pubblici avevano caratteri istituzionali ancora imprecisi, non del tutto privi di una specializzazione, ma non ancora fissati da regole definite. Nel mondo omerico non esisteva ancora un organo pubblico istituzionalmente competente a punire chi avesse violato le regole di comportamento nate nella secolare consuetudine di vita comune; esisteva chi infliggeva la pena di morte in casa: il capofamiglia, titolare di una potestà personale assoluta e illimitata sugli appartenenti al gruppo, tutti indistintamente sottoposti a un potere disciplinare che comprendeva il diritto di mettere a morte chi non rispettava la sua autorità. IL CASTIGO Il castigo nelle case dei vivi L’oikos più celebre dei poemi omerici è quello di Odisseo. Al ritorno dalla ventennale, proverbiale, assenza, Odisseo non manca di esercitare il proprio diritto di punire i membri dell’oikos, sottoponendo a castighi severissimi coloro che avevano tradito la sua fiducia e dimenticato i loro doveri. 1. In casa di Odisseo: l’impiccagione delle ancelle infedeli Mentre il padrone vagava per i mari le ancelle, dimenticando i loro doveri, avevano assecondato i pretendenti alla mano di Penelope e si erano inoltre unite sessualmente a costoro. Due volte traditrici, le ancelle erano state infedeli alla casa e anche al padrone e il castigo che meritavano era la morte. L’esecuzione scelta da Odisseo fu quella dell’impiccagione, ma perché proprio l’impiccagione? In Grecia l’impiccagione era una morte tipicamente femminile, non solo nel momento in cui era inflitta come punizione, ma anche quando era decisa dalle donne stesse come scelta di morte. Nella tragedia omonima muore infatti impiccata Antigone che, suicidandosi col laccio, si sottrae alla condanna di Creonte, che la voleva sepolta viva. Ciò che rientra nei nostri interessi sono le numerose impiccagioni di vergini, il cui ricordo torna nei miti e nei riti di molte zone della Grecia, dall’Arcadia alla Focide, dalla Tessaglia all’Attica. È la ricostruzione di questi miti e riti che aiuta a chiarire le regole che presiedevano alla morte delle donne. 2. Divagazioni sulla morte tra rito, mito e pratica punitiva 2.1 in altalena o impiccate: le Kariatidi, Charlia, Aletis-erigone A Karyai, in Arcadia, al culto di Artemide partecipavano ritualmente dei cori di vergini spartane. Il rito ricordava un avvenimento drammatico: mentre giocavano, le vergini si impiccarono a un noce, temendo un pericolo. La festa arcadica celebra quindi un’impiccagione femminile e lo stesso fa la festa delfica di Charlia, descritta da Plutarco. Charlia era una povera orfana; recatasi a chiedere cibo al re fu da questi scacciata e, poco dopo, si impiccò appendendosi alla cintura. La città a quel punto venne investita da un’epidemia di gravità tale che fu necessario interrogare l’oracolo. Quest’ultimo disse che bisognava espiare la morte di Charlia e da quel momento in poi, ogni 8 anni, si celebrò una festa che prevedeva di condurre in processione una bambola dalle sembianze di Charlia, che veniva poi sepolta con una corda al collo nel luogo dove era stata sepolta la vera Charlia. Ad Atene, annualmente, si celebrava il rito delle pentole, nel corso del quale veniva preparato un cibo speciale in dei pentoloni. Durante la cerimonia le ragazze andavano in altalena e questo rito può essere spiegato attraverso un famoso mito: Quando Oreste, per vendicare il padre, uccise Egisto e Clitemnestra, la figlia di costoro, Erigone inseguì Oreste fino ad Atene, dove pose fine ai suoi giorni impiccandosi. A questo punto accadde un fatto strano: le vergini ateniesi presero a impiccarsi come in preda al contagio, mettendo in pericolo l’avvenire della città, ormai quasi completamente priva di fanciulle da marito. L’oracolo di Apollo, interpellato, risolse il problema suggerendo di costruire delle altalene, sulle quali le fanciulle avrebbero potuto dondolare sospese nell’aria, come chi si impiccava. I riti di passaggio da una classe di età a quella successiva sono stati costantemente accompagnati da un periodo di separazione, caratterizzato da un simbolismo di morte. L’individuo muore per la classe di età dalla quale esce e rinasce in una collocazione sociale nuova e diversa, alla quale il gruppo lo ha destinato. I miti di impiccagione riflettono la struttura di questi riti e trovano in essi una spiegazione: - Karyai: le vergini impiccate all’albero risorgevano sotto forma di noci. Le vergini risorgevano in una forma nuova che simboleggiava il cambiamento di status della fanciulla e il suo nuovo ruolo sociale. - Charlia: la festa che celebra la sua storia era connessa alla festa detta Herois, una rappresentazione della rinascita di Semele. Collegando le due feste delfiche, la struttura del rito di passaggio appare nella sua completezza con una discesa sottoterra, rappresentata da Charlia sepolta, e una risalita, rappresentata dal ritorno sulla terra di Semele. - Atene: dondolarsi sull’altalena, in Grecia, non era solo un gioco infantile, ma anche un rito. L’altalena simboleggiava infatti l’impiccagione e una testimonianza esplicita dell’identificazione tra i due atti sta nella descrizione, fatta da Pausania, del dipinto di Polignoto, che rappresentava Fedra in altalena: il dipinto, scrive Negli scolii all’odissea, il supplizio inflitto a Tantalo risulta diverso da quello immaginato da Omero. Secondo lo scoliaste, Tantalo sarebbe stato appeso a una montagna con le mani legate; un supplizio che da un canto ricorda quello subito da Melanzio e che presenta non poche analogie con quello al quale fu sottoposto prometeo. 1.2 Il supplizio di prometeo Prometeo aveva rubato il fuoco agli dèi, una colpa così grave da determinare due diverse punizioni: - Una collettiva, diretta a colpire tutto il genere umano - Una personale, rivolta esclusivamente a prometeo, colpevole di aver infranto le regole del rapporto uomo- dio. La pena inflitta al genere umano fu la venuta di pandora, appositamente costruita da Efesto a immagine di una casta vergine; ella, definita come “il male così bello” o “la trappola alla quale non si sfugge”, era il castigo perfetto per la razza degli uomini che era stata felice fino ad allora. Nella teogonia di Esiodo, Prometeo è legato a una colonna e tormentato da un avvoltoio che, ogni giorno, gli mangia il fegato. Esattamente come Tantalo, dunque, viene incatenato. Nel “Prometeo incatenato” di Eschilo, Prometeo viene legato ad una roccia in modo da non poter piegare le ginocchia, con i piedi e le caviglie immobilizzati da catene ribattute con un martello. Possiamo notare una corrispondenza tra questa procedura e la descrizione di un supplizio capitale fatta da Aristofane nelle tesmofriazuse. In questa commedia Mnesiloco, parente di Euripide, camuffato in vestiti femminili, tenta di difendere il poeta dalle donne che lo vogliono condannare a morte. Scoperto, Mnesiloco, viene condannato a essere legato al palo (sanis). Appena gli viene comunicata la condanna l’uomo chiede di essere legato al palo nudo, senza la tunica gialla; questa richiesta rivela chiaramente che la veste gialla era una sorta di pena accessoria, inflitta ai condannati colpevoli di reati particolarmente gravi. Chi veniva condannato alla sanis non veniva semplicemente incatenato, veniva avvinto in ceppi regolabili, con polsi e caviglie chiusi da anelli che potevano essere stretti grazie a una vite. Mnesiloco, dal palo al quale è stato legato, si produce poi in una dissacrante parodia, fingendo di essere Andromeda. Andromeda era stata condannata a una morte sacrificale per salvare il suo paese da un mostro. Per questo era stata legata a delle rocce e abbandonata al suo destino di morte, esattamente come Prometeo. Il tormento di Prometeo e Mnesiloco evoca e riproduce le modalità di uno stesso supplizio: chiaramente un supplizio cittadino che sia il pubblico di Eschilo, sia quello di Aristofane, potevano facilmente riconoscere. Il castigo nelle città 1. I crocifissi del Falero Uno dei supplizi capitali in uso ad Atene era chiamato apotympanismos. Secondo l’interpretazione tradizionale l’apotympanismos sarebbe consistito nell’uccidere il condannato a bastonate, colpendolo con un randello. A partire dai primi decenni del secolo scorso a quest’interpretazione è stata contrapposta quella secondo la quale questo supplizio sarebbe consistito in una sorta di crocifissione. Quale delle due ricostruzioni è esatta? Tra il 1911 e il 1915 fu scoperta una fossa, all’interno della quale stavano gli scheletri di 17 cadaveri gettati senza onori funebri. I condannati a morte del Falero erano stati gettati nella fossa con un cerchio di ferro intorno al collo e dei ramponi alle estremità. Ai ramponi che erano stretti a mani e piedi aderivano ancora dei pezzi di legno, evidentemente il residuo di un palo sul quale costoro erano stati issati. Da ciò si deduce che l’apotympanismos consisteva nell’attaccare i condannati a un palo, per poi abbandonarli a una lunga agonia. L’apotympanismos era un supplizio simile, ma non identico, alla crocifissione romana. Lo strumento di legno al quale veniva legato il condannato non aveva forma di croce, era semplicemente un palo. Le sue mani e i suoi piedi, in più, non venivano inchiodati, come le estremità di chi moriva crocifisso. Quali erano i delinquenti ai quali veniva riservata questa terribile morte? Nell’orazione contro Agorato di Lisia, l’oratore si dilunga nel descrivere la personalità morale e civile dell’accusato. L’uomo era fratello di tre delinquenti: il più anziano era stato scoperto mentre faceva segnali luminosi ed era stato sottoposto al apotympanismos e il terzo era stato condannato a morte come ladro di abiti, e come tale fu sottoposto ad apotympanismos. Il passo indica quindi due categorie di delinquenti ai quali era riservata la crocifissione: i traditori e i malfattori (kakourgoi). Ad Atene erano definiti kakourgoi i ladri, i trafficanti di schiavi e numerosi altri delinquenti, tra cui coloro che avevano commesso adulterio. Gli adulteri, per gli ateniesi, erano accomunati ai traditori e ai ladri dal fatto di aver commesso uno dei reati nascosti. Se sorpresi sul fatto, qualora non venissero uccisi dal padre, dal marito, dal figlio o dal fratello dell’adultera, i moichoi (adulteri) venivano trattati come malfattori, così come capitava agli assassini, e venivano sottoposti ad apotympanismos. L’ apotympanismos era un’esecuzione particolarmente infamante. A renderla tale contribuiva il fatto che i pali del supplizio venivano issati alle porte della città, così che quanti vi agonizzavano fossero esposti alla vista e alla curiosità di tutti quelli che per mille ragioni avevano occasione o necessità di passarvi. Inoltre, i condannati all’apotympanismos dovevano subire una pena accessoria, studiata al fine di aumentare la loro vergogna: talvolta essa era “la veste gialla” di cui parla Aristofane; altre volte era la “passeggiata ignominiosa” che i condannati dovevano compiere per le strade più affollate della città, perché tutti potessero constatare la fine miserrima cui la loro colpa li aveva destinati; altre volte ancora, avvinti in ceppi, venivano abbandonati per un certo tempo sulla piazza e impietosamente esposti alla curiosità, alle beffe e agli inevitabili maltrattamenti della folla. Il ceppo (sanis) era lo strumento di supplizi graduabili nella gravità e negli esiti: nei casi meno gravi era il legno della gogna; nei casi estremi era il palo della crocifissione. La terminologia ci riporta inevitabilmente a Melanzio, il capraio infedele di Odisseo. Il supplizio del palo inflitto a Melanzio può configurarsi come una prima, rudimentale, forma di crocifissione. Il supplizio cittadino più diffuso, l’apotympanismos, trova dunque un precedente in uno dei castighi mortali che, nel mondo omerico, venivano inflitti “nelle case”: sia in quella di Odisseo, sia in quelle dell’Ade. La morte delle donne Dall’interno delle case omeriche il supplizio del palo era passato agli spazi esterni della città. Nelle case omeriche non si infliggeva solo il supplizio del palo (le ancelle infedeli di odisseo erano state impiccate e un’altra punizione inflitta alle donne era la vivisepoltura), perché, a differenza del palo, le esecuzioni rivolte alle donne non erano state introdotte nel numero dei supplizi cittadini? Per quale ragione la polis fece sue solo le esecuzioni riservate agli uomini? Qual era il rapporto tra il diritto criminale e le donne? La polis non si disinteressava del comportamento femminile. La sua ordinata riproduzione, come corpo sociale e giuridico, dipendeva dal loro comportamento e, più precisamente, da quello sessuale. Per questo motivo Atene si preoccupò di individuare il reato di moicheia. Questo termine indicava tutti i rapporti eterosessuali al di fuori del matrimonio e del concubinato con donna nubile o coniugata. La moicheia era considerata un comportamento così intollerabile da indurre Draconte (primo legislatore ateniese) a stabilire che il moichos, sorpreso sul fatto, potesse essere ucciso impunemente dal marito, dal convivente, dal padre, dal fratello o dal figlio della donna alla quale si era unito. Draconte non parlò però della donna. Perché questo silenzio? Una spiegazione potrebbe essere che dell’uccisione della donna la legge non aveva bisogno di parlare, in quanto punirla con la morte rientrava nei poteri del familiare che aveva potestà su di lei. L’esame delle fonti induce però a cautela. Dalle fonti non risultano casi di esercizio di un simile potere; non è quindi documentato il diritto paterno di mettere a morte i figli, né un potere simile tra quelli maritali. La legge del nomos moicheias imponeva al marito di ripudiare la donna sorpresa in flagrante di adulterio e prevedeva che ella subisse pene, ad eccezione della morte, nel momento in cui partecipava a un culto pubblico. Anche se la donna adultera non poteva essere messa a morte dai suoi familiari maschi, esisteva la possibilità che alcune donne venissero condannate a morte, se accusate di un reato che prevedeva questa pena e che veniva perseguito con un’azione pubblica, che poteva essere esperita da qualunque cittadino desiderasse esperirla. 1. I processi pubblici: Aspasia, Frine e le altre Raramente le fonti parlano di donne accusate e processate pubblicamente, a meno che non si tratti di donne celebri. Tra gli esempi più lampanti abbiamo: - Quello del processo contro Aspasia, concubina di Pericle, accusata di empietà nella speranza di colpire l’uomo di stato. Aspasia era stata accusata di aver trasformato la sua casa in un bordello nel quale si prostituivano donne libere, dei cui favori avrebbe goduto lo stesso Pericle. Pericle assunse personalmente la difesa della concubina e perorò la causa con passione, arrivando a versare lacrime di dolore al processo. Colpiti da un simile spettacolo, i giudici assolsero Aspasia. - Il processo contro Frine, una cortigiana. Frine era stata accusata di empietà per aver fatto un bagno nuda presso il tempio di Poseidone. Iperide il logografo, innamorato di lei decide di difenderla a processo: vedendo che la posizione processuale di Frine era tutt’altro che semplice, Iperide tolse la veste alla sua cliente, consentendo ai giurati di ammirare lo straordinario spettacolo, inducendoli così ad assolverla da ogni accusa. Non tutte le donne accusate di reati pubblici potevano però contare su difensori come Pericle o Iperide e, per questo, poteva capitare che venissero condannate. Esempi lampanti sono: - La sacerdotessa Ninos, accusata da Menecle di aver introdotto culti stranieri e di aver fatto ricorso a pratiche magiche. - La sacerdotessa Teoride di Lemno. - Una donna accusata di essere un’avvelenatrice, accusata dall’aeropago. La donna era incinta e Eliano ci dice che la sentenza venne eseguita dopo il parto, senza però specificare come. Sulle modalità dei supplizi femminili le fonti serbano un rigoroso silenzio, e quando accade che lo rompano lo fanno con riferimento a ipotesi che non ci sono di alcuna utilità. Un esempio è la schiava preferita di Filoneo, che dopo essere stata indotta ad avvelenare il proprio padrone, venne punita per mezzo della ruota. La ruota non era però un supplizio cittadino ma una tortura servile quindi non ci è dato sapere come morissero le donne libere, regolarmente condannate da un tribunale della città. Non possiamo assumere che le donne libere subissero la stessa esecuzione riservata agli uomini per il medesimo reato e per dirlo basta pensare ad Antigone: la sua esecuzione per lapidazione venne commutata in vivisepoltura e ciò si accosta con la considerazione di quanto accadeva a Roma in casi analoghi, dove le donne condannate a morte a seguito di un pubblico processo venivano consegnate ai familiari perché questi le mettessero a morte privatamente. Se non esistevano familiari venivano lasciate in carcere, in attesa di una fine meno plateale, meno crudele e più dignitosa. Pubblicamente, dunque, morivano solamente gli uomini. LA VENDETTA La vendetta privata nella società omerica Accanto alla violenza fisica esercitata da chi puniva in forza di un potere familiare assoluto e illimitato, nel mondo greco arcaico esisteva un altro tipo di violenza, profondamente diverso: quella esercitata da chi compiva una vendetta privata. Nel mondo descritto dai poemi, la vendetta privata era un dovere sociale. Vendicare i torti subiti era un atto non solo lodevole, ma anche inevitabile, quantomeno per chi voleva godere del rispetto e del prestigio che la voce popolare riconosceva a chi si adeguava ai modelli di comportamento considerati confacenti a seconda del sesso, dell’età e dello status sociale. I modelli di comportamento (es. vergine casta, figlio obbediente, guerriero valoroso) emergono immediatamente dalla lettura dell’iliade e dell’odissea. La cultura omerica era per definizione una cultura di eroi, fatta di uomini per i quali morire in battaglia era il sommo onore e ideale di vita. Leggendo l’iliade e l’odissea non possiamo evitare di constatare che gli eroi più famosi e invincibili, spesso e volentieri, scoppiano in lacrime; non lo fanno solo per vicende private e in privato ma anche in pubblico, in assemblea, dinanzi alla popolazione riunita. Gli eroi greci sono violenti, collerici e incontrollati nella manifestazione delle emozioni e spesso appaiono privi di quelli che oggi consideriamo degli ideali. Solo a questo punto e a queste condizioni il processo poteva aver luogo. Il primo atto del processo consisteva in una solenne proclamazione con la quale l’arconte-re intimava all’accusato di tenersi lontano dai luoghi indicati dalla legge (tribunali, agora, i giochi e le sacre Amfizionie). Successivamente, dopo che i parenti della vittima avevano iscritto la causa al ruolo del basileus aveva inizio la fase istruttoria del processo, che si svolgeva nel corso di tre udienze, durante le quali le parti esponevano le loro ragioni venendo contemporaneamente a conoscere nelle grandi linee le ragioni dell’avversario. L’arconte, una volta individuato il tipo di omicidio, assegnava la causa all’organo giudicante cui spettava emanare la sentenza. Iniziava a questo punto la fase dibattimentale, il cui primo atto era di nuovo un atto dell’accusatore, detto diomosia kat’exoleias: un giuramento particolare. Chi accusava un omicida, infatti, giurava stando in piedi dinanzi ai resti di un orso, un agnello e un toro sacrificati secondo le prescrizioni, e invocava, se aveva giurato il falso, che la maledizione ricadesse su di lui, i suoi figli e la sua casa. L’accusato faceva analogo giuramento, portando così a termine un rito che veniva compiuto stando in piedi su due pietre: dette pietra dell’implacabilità e pietra del delitto. A questo punto si tenevano le orazioni, pronunciate a turno dall’accusa e dalla difesa (due per parte). Dopo la prima orazione della diesa, nel caso in cui si trattasse di omicidio volontario, l’accusato poteva prendere spontaneamente la via dell’esilio, evitando la pena di morte. 3. Il sistema dell’esecuzione delegata La legge di Draconte non aveva fatto alcun cenno all’esecuzione della sentenza, il che significava che nulla in questo settore era mutato. Anche nella città del VII secolo la messa a morte degli assassini era affidata ai parenti delle vittime e la situazione rimase inalterata per alcuni secoli. A un certo punto accadde che l’esecuzione della sentenza venisse affidata a organi pubblici, anche se la condanna dell’omicida era stata la conseguenza di un’azione privata intentata dai familiari. Nell’orazione di Demostene contro Aristocrate leggiamo che se una persona viene condannata per omicidio, su di lei hanno potere le leggi e coloro che le amministrano. Chi ha intentato l’azione avrà quindi solo il diritto di assistere alla sua esecuzione. Quali erano quindi i modi nei quali l’omicida veniva messo a morte nei secoli della delega agli amministratori della legge? La vendetta pubblica 1. Paride e il chitone di pietre Esiste, nei poemi omerici, un episodio che ha indotto a pensare che il primo tipo di pena capitale della Grecia post- micenea fosse la lapidazione: nel terzo canto dell’Iliade Ettore, accusando di viltà Paride, fuggito dinanzi a Menelao, disse che, se i troiani non fossero stati paurosi com’erano, Paride sarebbe stato coperto da “un chitone di pietre”. Ma è lecito considerare la lapidazione uno dei modi istituzionali dell’esecuzione capitale? I dubbi sulla validità di questa ipotesi sono più che legittimi: la lapidazione, nelle fonti, non ha e non assume mai i caratteri di una pena istituzionale. Per tutto il corso della storia ateniese, essa continua ad apparire con i caratteri che aveva nei poemi. Uccidendo con la pietra, il popolo esprimeva la sua rabbia, manifestava il giusto desiderio di vendicarsi nei confronti di chi aveva provocato dei danni alla collettività; in altre parole, rendeva esplicito e attuava il principio della morale sociale secondo il quale chi provocava un male ai concittadini meritava una punizione. Ma l’atto con il quale questa punizione veniva inflitta non era l’espressione del volere ufficiale del gruppo, era l’atto spontaneo. 2. La lapidazione come vendetta nei tragici e nella realtà sociale I riferimenti alla lapidazione, a cominciare dai tragici, sono tutt’altro che rari (es. nell’Agamennone di Eschilo; nell’Aiace di Sofocle; nelle Troiane, nell’Ifigenia di Euripide). In ognuno di questi casi la lapidazione appare con le caratteristiche e nella funzione di una vendetta collettiva di tipo istintivo, giusta ma non istituzionale. Le fonti successive non fanno che confermare questa considerazione (es. la vita di Solone di Plutarco). I traditori venivano quindi uccisi senza processo, a furor di popolo, talvolta assieme a mogli e figlie innocenti, in un’epoca nella quale la responsabilità penale era rigorosamente personale. Talvolta però la lapidazione appare sotto una luce diversa che fa pensare a una sorta di uso istituzionale della pietra. In un passaggio dell’orazione di Eschine contro Timarco, il primo accusava il secondo di essersi prostituito. Nel corso delle lotte politiche che avevano diviso gli ateniesi dopo la pace di Filocrate, Timarco alleato politico di Demostene, aveva accusato Eschine di non aver rispettato le istruzioni ricevute e di aver concluso la pace tradendo gli interessi della città. Timarco, secondo Eschine, non aveva il diritto di parlare nei tribunali. Egli si era prostituito e una legge della città faceva divieto a chi si era prostituito di esercitare pubbliche funzioni e di partecipare alla vita pubblica. Lo sforzo complessivo di Eschine per mostrare l’indegnità morale di Timarco è sostenuto da ogni tipo di argomentazione, compreso un appello alla sensibilità civica dei giudici: “Immaginate che due persone abbiano concluso un contratto di prostituzione. E immaginate che colui che ha pagato si veda poi rifiutare le prestazioni pattuite. O immaginate il contrario: che il cliente non abbia pagato il prostituto. Cosa accadrebbe in un caso simile? Forse che, dopo aver parlato dinanzi a voi, colui che ha violato le leggi della città affittando un prostituto non verrebbe lapidato?” La legge sulla prostituzione non prevedeva in realtà la pena di morte per chi avesse concluso quel tipo di contratto. Poteva essere inflitta solo se, dopo la condanna, Eschine avesse violato uno dei divieti. Il riferimento di Eschine alla lapidazione, quasi che questa fosse la pena per la prostituzione, è quindi inattendibile. Altri testi sembrano alludere alla pietra come strumento istituzionale di morte, come ad esempio l’Oreste di Euripide. In questo testo si dice siano trascorsi sei giorni da quando Elettra e il fratello Oreste hanno vendicato il padre, uccidendo la madre. Gli argivi erano quindi riuniti in assemblea per decidere se i colpevoli dovessero morire lapidati o decapitati con la spada e Oreste riesce a ottenere che lui e la sorella potessero suicidarsi con la spada. Questo riferimento potrebbe sostenere l’ipotesi che la lapidazione fosse una pena cittadina, intendendo per pena cittadina quella prevista normalmente per una determinata categoria di reati. Il passo di Euripide sembra alludere alla lapidazione come alla pena prevista per coloro che hanno commesso il reato di matricidio ma questa interpretazione non è convincente. Nella rappresentazione tragica non era tanto la corrispondenza dei fatti alla realtà giuridica quel che interessava, quanto la drammaticità dell’azione e la sua capacità di descrivere fatti emotivamente e socialmente sconvolgenti. La descrizione di un’assemblea popolare, suggerendo l’idea (giuridicamente falsa) di un coinvolgimento dell’intera collettività nel giudizio sul matricidio, era particolarmente idonea a produrre questo tipo di effetti. Il riferimento di Euripide assume un significato diverso da quello che sembra avere anche in base alla lettura delle Leggi di Platone. 3. La lapidazione come rito espiatorio Nelle Leggi, là dove elenca le pene che nella sua città ideale dovrebbero sanzionare i delitti più gravi, Platone scrive che coloro che uccideranno con premeditazione il padre, la madre, i figli o i fratelli dovranno essere messi a morte, e che i magistrati dovranno gettare delle pietre sul loro capo. La pena di cui parla Platone non è però una lapidazione del condannato a morte, è quella rituale del suo cadavere. Non si tratta quindi di una sentenza capitale. Il lancio della pietra puramente rituale aveva esplicitamente una funzione di carattere espiatorio. Per comprenderne le ragioni è necessario ripensare all’uso della pietra come strumento di morte. Bisogna pensare al lontanissimo momento in cui la pietra era l’unico strumento per uccidere. Le origini del sacrificio cruento vanno ricercate nella pratica della caccia. La possibilità di alimentarsi era legata alla capacità di usare la pietra per uccidere. Ma non appena ha ucciso, l’uomo che affidava la sua sopravvivenza all’uccisione, viene sopraffatto dal senso di colpa. Ed ecco quindi che l’uccisione diventa sacrificio, rito espiatorio: il rito di morte diventa cerimonia sacra. Molte espressioni dei popoli cacciatori rivelano un senso di colpa evidente nei confronti della vittima e molti rituali contengono dei tentativi di scusa e di riparazione spinti a tal punto da apparire come una “commedia dell’innocenza”. Sia nell’iliade sia nell’odissea le tracce di questa concezione sono evidenti: nel corso del sacrificio, sul capo della bestia da immolare venivano gettati dei chicchi d’orzo. Contemporaneamente, da ogni lato, i partecipanti al rito colpivano la vittima, le cui reazioni venivano interpretate come assenso al sacrificio. Capitava che gli oggetti scagliati fossero delle pietre; la pietra infatti purificava, espiava e discolpava e ciò fa pensare a un uso religioso della pietra, il cui ricordo riaffiora anche in età classica. In età classica, in molte città, era diffusa la pratica di uccidere i pharmakoi, uomini tenuti in vita e nutriti a spese pubbliche allo scopo esclusivo di essere sacrificati all’occorrenza, per espellere il male dalla città. I pharmakoi venivano lapidati. L’omicidio è un crimine che contamina, che provoca impurità e deve essere espiato attraverso la pietra, capace di purificare. Perché quindi in Omero la lapidazione è vendetta collettiva di tipo laico? Perché la dottrina della polluzione provocata dal sangue è nata nei secoli successivi a quelli riflessi dai poemi. In Omero il sangue non era impuro: chi aveva ucciso era costretto ad abbandonare la patria, ma solo per evitare la vendetta. Fu solo in un’epoca successiva che nacque la teoria della polluzione. L’omicidio divenne atto impuro che richiedeva una purificazione per influsso dell’oracolo di Apollo a Delfi. L’autorità dell’oracolo era il fondamento dei diritti cittadini, la parola indiscutibile che rendeva sacre le scelte legislative e legittimava le regole fondamentali del vivere civile. Tra queste, anche quella secondo la quale l’omicidio richiedeva una purificazione. Il sangue versato aveva detto l’oracolo, provocava una macchia, determinava un’infezione che doveva essere eliminata, perché in caso contrario si sarebbe estesa contaminando tutti coloro che sarebbero entrati in contatto con l’omicida. 4. Il principio della retribuzione e la giustizia non istituzionale della pietra Nella storia della Grecia delle città, nella società successiva a quella descritta da Omero, la lapidazione appare in una duplice veste: - In alcuni casi come rito catartico. - In altri come gesto laico, espressione del desiderio collettivo di punire chi ha recato dei danni all’intero gruppo. Il mondo omerico conosceva tipi di reazioni collettive la cui unica differenza, rispetto a quelle private, stava nel fatto di contrapporre città a città anziché famiglia a famiglia. Ad esempio, la vendetta che Paride avrebbe meritato di subire era diversa dalle altre vendette collettive. Essa non era rivolta all’esterno, ma all’interno del gruppo; non avrebbe dovuto colpire un estraneo ma uno dei suoi appartenenti. Paride avrebbe dovuto essere lapidato dai suoi concittadini, costretti a subire le conseguenze della sua leggerezza e vanità. Il desiderio di vendetta nei confronti di paride appariva guidato da un sentimento diverso da quello che ispira la vendetta interfamiliare o intercittadina. Il principio che determina la vendetta collettiva, a differenza di quella privata, è dunque un principio retributivo di tipo morale. Una volta affermatosi il principio, esplicito nei poemi, secondo il quale è male provocare dei danni alla collettività, nasce anche l’idea che colui che li ha causati deve essere punito. E lo strumento della sua punizione è la pietra, usata contro di lui da tutti coloro che hanno subìto le conseguenze negative del suo comportamento. Nel momento in cui si afferma, il diritto deve necessariamente controllare l’uso della forza fisica. La lapidazione è tipicamente un modo di usare la forza fisica che, in una società che voglia essere anche solo moderatamente pacifica, non può che suscitare preoccupazioni. La pietra, ad un certo punto della storia greca, venne esclusa dagli strumenti che davano la morte di stato. Tra le antiche pratiche di morte, la polis operò una selezione, evitando quelle che, per le loro caratteristiche, erano in contrasto con l’esigenza di assicurare la pace sociale. In uno scolio ad Aristofane leggiamo che, nel V secolo, gli ateniesi colmarono il barathron per espiare una colpa commessa contro la madre degli dèi: gli ateniesi avevano gettato nel Barathron il sacerdote di Cibele (la Madre degli dèi), colpevole di aver iniziato le donne ai culti bacchici. Ma poiché, a seguito di questo fatto, Atene era stata colpita da una carestia e l’oracolo aveva ordinato di espiare il sacrilegio, essi avevano riempito il barathron. Nel V secolo il barathron non fu più usato per precipitarvi i condannati a morte, ma questo non significa che la precipitazione come forma di esecuzione venne abbandonata. Tornando all’affermazione di Plutarco che prevede che nel barathron venissero gettati i mantelli degli impiccati e i lacci che ne avevano provocato la morte, possiamo dire che: se mantelli e lacci fossero stati quelli con cui i condannati a morte erano stati uccisi, essi sarebbero stati lanciati nel precipizio insieme ai cadaveri e non separatamente. I vestiti e i lacci in questione, evidentemente, non erano quelli dei condannati: erano quelli usati da coloro che si erano suicidati impiccandosi. E l’abitudine di gettare nel Barathron gli strumenti che erano serviti per attuare questo tipo di suicidio non era sorprendente. L’impiccagione, nel mondo classico, era una morte maledetta, che non consentiva all’anima del defunto di trovare la pace nell’aldilà. Per di più era tradizionalmente riservata alle donne. Chi si era impiccato non meritava né pietà né rispetto, e gli oggetti che erano venuti a contatto col suo cadavere andavano eliminati dalla vista e dal ricordo degli ateniesi. A sostegno dell’ipotesi che il barathron non venne mai utilizzato per uccidere abbiamo il fatto che, a partire dalla fine del V secolo, il termine barathron scompare. Solo Erodoto, Senofonte, Aristofane, Platone e Plutarco, che parlano di eventi precedenti il IV secolo, usano il termine barathron. Licurgo e Dinarco indicano invece il precipizio con il termine orygma, che può contrassegnare qualsiasi cavità. Non è quindi un nome preciso che indica un luogo specifico, destinato a una funzione istituzionale. In Licurgo leggiamo di un decreto che stabiliva che, se qualcuno di coloro che durante la guerra contro Sparta si erano rifugiati a Decelea fosse tornato in patria, qualunque cittadino ateniese avrebbe potuto portarlo ai Tesmoteti, perché costoro lo consegnassero “to epi to orygmati”: “a quello della fossa”. L’“uomo della fossa” altri non era che il boia, incaricato di eseguire la condanna a morte per precipitazione. Sostanzialmente, Licurgo avrebbe detto che i condannati venivano consegnati agli undici, i magistrati incaricati di eseguire le sentenze capitali. Per quanto riguarda i riferimenti al barathron contenuti nelle commedie di Aristofane, il barathron è presentato, senza possibilità di equivoci, come una forma di messa a morte. L’ipotesi, quindi, che la precipitazione come forma di esecuzione capitale sia stata abbandonata sul finire del V secolo non trova conferma nelle fonti ma sembra da esse contraddetta. A partire da V secolo, i condannati per reati politici venivano uccisi in carcere con la cicuta, ma essa non venne mai a sostituire completamente l’esecuzione per precipitazione. Essa fu introdotta solo come alternativa possibile alla morte per precipitazione. La morte dolce, la morte col veleno, altro non fu che un privilegio concesso a poche persone. La cicuta Sul finire del V secolo a.C. ad Atene, i condannati a morte (o quantomeno alcuni condannati a morte) venivano avvelenati in carcere. 1. La morte dolce Il koneion era una varietà della cicuta. Nell’antichità, del koneion parlano Teofrasto, Plinio e Dioscoride. Il suo veleno era potentissimo e i suoi fiori erano simili a bianchi ombrelli velenosissimi; nonostante la concentrazione massima di sostanze tossiche fosse nel seme. La cicuta veniva spesso usata anche per scopi terapeutici ed era quindi ben nota nell’antichità, specialmente in Attica dove divenne “veleno di stato”. La preparazione del farmaco mortale era semplicissima. Frantumando il seme in un mortaio si otteneva una pozione che conduceva alla morte lentamente e, si dice, in modo indolore. Più avanti nel tempo la preparazione cambiò: il seme veniva sbucciato, il nocciolo veniva liberato dal tegumento, polverizzato e infine filtrato con un po’ di acqua. Attendibile era la credenza che il vino, riscaldando la temperatura corporea, fosse un antidoto al koneion. Si diceva che gli alcolizzati assumessero piccole quantità di veleno per neutralizzare l’effetto del vino. Inoltre, Plutarco racconta che, coloro che si recavano a rubare nei templi, ingerissero una dose di cicuta sufficiente a dar loro la morte in caso di arresto; ma portavano con sé del vino per avere salva la vita nel caso in cui il colpo fosse andato a buon fine. La descrizione della morte di Socrate è la fonte più preziosa e più ricca di dettagli che ci sia pervenuta. Critone dice che, dopo che il veleno gli fu somministrato Socrate si mise a passeggiare nella stanza, lentamente, fino al momento in cui sentì le gambe intorpidirsi. Si dice che la cicuta agisse raffreddando il corpo dai piedi fino al cuore: nel racconto di Platone, in modo assolutamente indolore. Ma viene il dubbio che la descrizione platonica idealizzi la morte del maestro, tacendo alcuni particolari fisiologici che avrebbero turbato la solenne serenità dell’atmosfera e dell’atteggiamento di Socrate. Altre descrizioni, più realistiche, raccontano infatti la morte di chi aveva ingerito il veleno in modo assai diverso: in preda al capogiro, con la mente oscurata, la vista deformata, gli occhi che roteavano selvaggiamente. La morte con la cicuta era quindi probabilmente meno dolce di quel che si è soliti pensare. 1.1 Diritto o privilegio? La morte fredda venne introdotta sotto i trenta tiranni (404 a.C.), quando molti cittadini ateniesi morirono avvelenati in prigione. A quanto sembra non si trattò però di esecuzioni capitali previste dalla legge. Verosimilmente i trenta si servirono della cicuta come di uno strumento idoneo a eliminare in sordina, senza eccessivo clamore, i loro avversari politici. La cicuta, insomma, cominciò a essere usata non per evitare sofferenze a coloro che dovevano morire, ma per evitare, a chi se ne serviva per sbarazzarsi dei nemici, di esporsi al rischio di processi che sarebbero stati comunque controproducenti. Non è quindi all’epoca dei trenta tiranni che la cicuta divenne una forma di esecuzione capitale. Dopo essere stato utilizzato dai Trenta come strumento di eliminazione dei nemici politici, il koneion divenne uno dei modi con cui si eseguivano alcune condanne a morte, regolarmente pronunziate nel rispetto della legge. Di fatto, dunque, esso divenne uno dei supplizi di Stato. A differenza dell’apotympanismos e della precipitazione, la morte con il veleno non era destinata a tutti coloro che avevano commesso un determinato reato. La cicuta era un’alternativa concessa solamente ad alcuni condannati: più precisamente, ai condannati per crimini politici e per “empietà”. Il veleno veniva somministrato in carcere con la supervisione degli undici; ma questo non toglie che, anche se regolata dalle leggi della città, l’esecuzione col veleno fosse diversa da tutte le altre: il koneion doveva essere pagato dal condannato. Focione, condannato alla pena capitale per crimini politici nel 318 a.C., venne condotto in carcere. Uno degli altri condannati chiese di bere il veleno per primo, consumando l’intera quantità disponibile. Il carceriere allora si rifiutò di portare a Focione un’altra porzione, dicendo che lo avrebbe fatto solo se gliene fosse stato pagato il prezzo. Focione, amareggiato, aveva quindi commentato: “ad Atene, ormai, non si può neppure morire senza pagare questo privilegio” Pur essendo somministrato in carcere, il veleno non era dunque una forma di esecuzione capitale ordinaria, ma sostitutiva di un altro supplizio. Esso era riservato solo ad alcuni condannati a morte, quelli ai quali, prima della sua introduzione, veniva inflitta la morte per precipitazione. Inoltre, per i condannati a questa morte, la cicuta non era un diritto. A prescindere dal fatto che l’apotympanismos continuò a essere praticato, il veleno non sostituì in linea generale la precipitazione nel Barathron; esso risparmiò il Barathron solo a chi poteva pagare il suo prezzo. Secondo alcuni studiosi l’introduzione della cicuta come forma di esecuzione capitale è la prova finale dell’umanità degli ateniesi, che li indusse a scegliere un mezzo di esecuzione che causava al tempo stesso il minimo dolore e la minima infamia. La cicuta era però qualcosa di diverso da un atto di umanità, o almeno era anche qualcos’altro. Il veleno era un’alternativa di morte concessa per ragioni di opportunità e di calcolo politico. Non a caso i condannati che potevano beneficiare della morte dolce erano, accanto ai criminali politici, i condannati per “empietà” (asebeia). Questo reato, infatti, era diventato lo strumento della repressione politica più difficile e più delicata: quella degli intellettuali. 1.2 Il processo di Socrate Socrate era stato accusato di aver “investigato quel che c’è sottoterra e in cielo, tentando di far apparire migliore la ragione peggiore, e questo insegnando ad altri”; di essere “reo di corrompere i giovani, di non riconoscere gli dèi che la città riconosce e anzi di praticare culti nuovi e diversi”. Si ritiene che l’accusa di empietà fatta a Socrate fosse del tutto pretestuosa. L’asebeia, infatti, sarebbe consistita nel compiere azioni o tenere comportamenti rituali contrastanti con i precetti religiosi. Il semplice fatto di professare idee religiose non ortodosse era asebeia. L’accusa contro Socrate non sarebbe quindi stata un’aberrazione giuridica, ma l’impiego di uno strumento istituzionale di normalizzazione sociale e religiosa. Socrate fu condannato a morte per empietà. Il che non significa che la pena per gli “empi” fosse sempre e necessariamente la morte. L’azione di empietà era un tipo di azione caratterizzato da una particolare procedura: l’accusato, dopo che era stata chiesta la sua condanna e qualora fosse stato dichiarato colpevole, doveva indicare la pena che riteneva di meritare. E la giuria, a questo punto, poteva scegliere tra le due diverse pene. Quale fu la controproposta di Socrate? Che egli aveva così bene meritato dalla città che questa avrebbe dovuto mantenerlo nel Pritaneo a spese pubbliche. Solo le insistenze degli amici lo indussero, infine, a dichiararsi pronto a pagare una multa. A seguito della proposta di Socrate avvenne la nuova votazione relativa alla scelta tra la pena di morte proposta dall’accusa o la multa. Il popolo, che aveva votato la colpevolezza del filosofo con una piccola maggioranza, lo condannò a morte. Il processo di Socrate fu un processo politico e i processi politici sono sempre impopolari, così come lo sono le esecuzioni delle sentenze. Ogni processo politico, in ogni tempo e in ogni luogo, può ritorcersi contro chi lo ha voluto: ecco perché il koneion era offerto a chi, sostanzialmente, era stato condannato per ragioni politiche. Più che un ritrarsi degli ateniesi di fronte alla crudeltà della pena di morte, l’introduzione della “morte dolce” sembra dunque la scelta di un modo più discreto di esercitare il potere, di una consapevolezza della necessità di usare la forza senza esibizioni e senza eccessi. Ma non fu la sola motivazione. Consentire ai condannati politici di evitare la pena capitale pubblica e infamante era anche il riconoscimento di un privilegio sociale. I condannati per ragioni politiche appartenevano comunque al numero di quelli che contavano e che meritavano rispetto. Consentire loro di morire senza dolore e senza infamia era un modo per riconoscere questa posizione e non privarli di una dignità che, in definitiva, era la stessa di chi li aveva condannati. A ROMA I supplizi greci, per quanto crudeli, avevano una loro razionalità. Ciascuno dei gesti che li componeva aveva una funzione evidente, una logica chiara e penetrabile. Il sistema greco rivelava immediatamente gli obiettivi di chi lo compiva. I supplizi romani, invece, non si limitavano a dare una morte più o meno dolorosa; essi si complicavano di riti misteriosi, comportando cerimonie articolate e incomprensibili (es. la pena del sacco che prevedeva che ai piedi del reo venissero calzati zoccoli di legno e il suo capo venisse coperto da una pelle di lupo. Al momento stabilito per Al momento della consacrazione, durante una cerimonia chiamata “cattura” (captio), il Pontifex Maximus, con una formula solenne acquistava su di loro un potere che, nel caso esse infrangessero il voto di castità, comportava la loro condanna a morte. Al termine di una solenne e lugubre cerimonia, dopo aver attraversato la città su una lettiga coperta all’esterno e stretta con cinghie, esse giungevano al luogo del loro supplizio, sulla porta Collina. Lì, coperte di veli, venivano fatte scendere dal Pontifex in una camera sotterranea dove erano stati messi un letto, del pane, dell’acqua, del latte, dell’olio e una fiaccola. E quindi venivano murate vive. I romani tramandavano il ricordo delle esecuzioni delle vestali che, anche se non molto frequenti, si snodarono regolarmente attraverso i secoli. La prima vestale sepolta viva fu Pinaria, che sarebbe stata messa a morte sotto il regno di Tarquinio Prisco. A Roma, così come in Grecia, una donna non commetteva reato solo se veniva meno alla fede coniugale, ma più in generale, indipendentemente dal fatto che fosse sposata, ogniqualvolta intratteneva un rapporto sessuale al di fuori del matrimonio. I rapporti sessuali extramatrimoniali (definiti stuprum, anziché adulterium) erano sempre illeciti, anche se intrattenuti da una donna nubile, e spettava al padre della donna punire. Vestali e donne comuni morivano nello stesso modo, sfinite dall’inedia, rinchiuse per sempre in un luogo che sarebbe divenuto la loro tomba. La morte delle Vestali si connotava in modo diverso da quella delle donne comuni: la loro impudicizia, infatti, era un atto sacrilego. La loro colpa, se provata, provocava una contaminazione che richiedeva un’“espiazione” (piaculum), capace di ristabilire la pax deorum. La morte delle Vestali incestae, quindi, era al tempo stesso una punizione e un’offerta propiziatoria agli dèi. Le vestali non venivano sepolte nella nuda terra, bensì in una stanza sotterranea illuminata da una fiaccola, fornita di un letto e di un minimo di provviste. Venivano quindi murate vive in una casa sotterranea, in un ambiente che ricreava lo spazio riservato in vita alle donne. L’analogia tra la loro morte e il castigo domestico è quindi evidente. Il dovere di castità delle vestali era la proiezione nel campo sacrale dell’analogo dovere di tutte le donne, esattamente come i loro compiti rituali erano la proiezione dei compiti domestici femminili (dovevano provvedere alla stercoratio, ossia alla pulizia dell’altare; e alla preparazione della mola salsa, una farina salata che doveva essere sparsa sugli animai sacrificali, sull’altare e sul coltello sacrificale). Perché alle donne era riservata un’esecuzione che le portava a morire d’inedia tra le viscere della terra o nei sotterranei della loro casa? A Roma, la scelta di far morire le donne di inedia sembra dovuta al carattere discreto e domestico di questo tipo di esecuzione. Se nel caso delle Vestali la riservatezza veniva meno, era da un canto a causa del loro status di pubbliche sacerdotesse e della loro visibilità sociale in vita, che rendevano necessaria una morte altrettanto pubblica e visibile; e dall’altro perché la loro esecuzione era un sacrificio agli dèi e i sacrifici richiedono solennità. Ma questo non toglie che, nella sua funerea spettacolarità, la morte delle Vestali incestae ricalcasse fedelmente la morte silenziosa e invisibile delle donne comuni, alle quali era riservata anche la morte per strangolamento. Furono strangolate, in base a una sentenza dei parenti, Publicia e Licinia: accusate di aver avvelenato i rispettivi mariti. 3. Tra casa e città: il suicidio onorevole e la morte privilegiata per strangolamento o per inedia Quando un romano decideva di mettere fine ai suoi giorni, uno degli strumenti che consentivano di attuare il suo proponimento era il laqueum, il laccio. Per i romani suicidarsi era spesso una necessità dettata dalla violenza della vita politica e dalla facilità con cui una sorte felice poteva trasformarsi in una situazione così avversa da non lasciare altra possibilità che la morte. Suicidarsi era quindi una scelta di libertà moralmente encomiabile. La scelta del mezzo utile per darsi la morte era, per un romano, tutt’altro che secondaria. Il giudizio sociale sul suicidio dipendeva dal modo in cui la morte era stata cercata e ottenuta: il primo posto nella graduatoria dei suicidi onorevoli spettava indiscutibilmente alla spada, l’arma virile per eccellenza. Il romano non doveva consentire ad altri di ucciderlo. Doveva piuttosto suicidarsi, possibilmente con la spada. E se accadeva che la spada fallisse, non per questo doveva arrendersi: da vero uomo, egli non doveva temere alcuna sofferenza (es. Nel 150 a.C., Plauzio Numida, che alla morte della moglie amatissima aveva tentato di suicidarsi con la spada, venne salvato dai suoi schiavi. Ma non appena fu in grado di farlo, senza esitazione strappò le bende con mano coraggiosa e si strappò le viscere). L’ipotesi della morte di Plauzio era del tutto implausibile: la scarsa passionalità dei rapporti coniugali romani era tale da far dubitare della realtà del racconto ma la storia di Plauzio costituisce una dimostrazione di come potesse essere truculento l’ideale romano del coraggio virile. Analoga a quella di Plauzio è la morte di Catone Uticense: fallito un primo tentativo di suicidio, Catone, strappate le bende con cui il medico aveva legato le ferite, si strappò le viscere. Alcune forme di suicidio sommesse e discretissime erano considerate perfettamente onorevoli. Se disonorevole era l’impiccagione, tutt’altro che tali erano il dissanguamento, l’inedia e il veleno. A volte era necessario togliersi la vita in pochi istanti e non sempre la spada o il veleno erano a portata di mano: in questi casi ecco apparire il laqueum che poteva risolvere situazioni drammatiche, consentendo a chi lo utilizzava di togliere ai suoi nemici la soddisfazione di ucciderlo. Che il laqueum desse una morte più che rispettabile è confermato dalle cronache: Licinio Macro, per esempio, strangolandosi, salvò i figli dalla miseria e dall’onta di una condanna. Il laccio, dunque, era strumento di morte ben noto ai romani. E al carattere dignitoso della morte che esso procurava era legato il suo uso come strumento ufficioso dell’esecuzione capitale. Anche se non venne mai ufficialmente ricompreso tra i supplizi di stato, lo strangolamento trovò uno spazio non istituzionale nel sistema dei supplizi. A volte, infatti, i carcerieri sottraevano i condannati alla morte pubblica e li giustiziavano discretamente in carcere, strangolandoli o cessando di alimentarli. Quali erano le persone per cui veniva usato questo riguardo? - I condannati di posizione sociale elevata o la cui esecuzione pubblica era sconsigliabile per ragioni politiche: attorno al 280 a.C., Caio Cornelio fu accusato di aver avuto una relazione omosessuale con un giovane romano. Poiché a Roma i rapporti omosessuali erano consentiti solo con gli schiavi, gli fu incarcerato e, secondo il racconto di Valerio Massimo, “fu costretto a morire in carcere”. Fu costretto a morire significa che fu lasciato morire, evidentemente per inedia. Il caso più celebre e significativo è però quello dei seguaci di Caio Gracco, strangolati in carcere nel 121 a.C. la riservatezza dell’esecuzione, più che un riguardo, fu una precauzione politica volta a evitare eventuali sommosse o manifestazioni di protesta. - Le donne condannate a seguito di un processo pubblico: a Roma poteva accadere che le donne non venissero processate in casa. Oltre ai reati tipicamente femminili esse potevano commettere reati che la civitas aveva deciso di giudicare e punire personalmente: per esempio esse potevano tradire la patria. A ricordare che anche le donne, se tradivano, erano destinate alla morte, i romani tramandavano la leggenda di Tarpea e quella di Orazia. Le loro storie, in modo esemplare, servivano a ricordare che la patria doveva stare al primo posto nella scala dei valori di tutti. Passando alla storia non si trova però traccia di donne che si siano rese colpevoli di tradimento. A partire dall’epoca di Augusto, l’adulterio e lo stuprum divennero un crimine e le donne di discutibile virtù vennero da quel momento processate pubblicamente. L’omicidio, come l’adulterio, era un reato che le donne romane commettevano con frequenza. Come venivano giustiziate le donne condannate in un processo pubblico, quando la pena era la morte? Teoricamente tra donne e uomini non c’era differenza alcuna, ma nella pratica le donne ben raramente venivano giustiziate in pubblico. La morte dolce per inedia era solo una delle possibili morti riservate alle donne pubblicamente condannate: accanto a essa stava lo strangolamento, che non aveva luogo in carcere, bensì nelle case: di regola, infatti, dopo la pubblica condanna, le donne venivano consegnate ai familiari, perché provvedessero personalmente a metterle a morte. Esse venivano giustiziate in pubblico solo se non vi era un giustiziere familiare idoneo. Le uniche esecuzioni femminili pubbliche di cui siamo a conoscenza sono quelle delle martiri cristiane. 4. Morire sotto le verghe In casa non venivano punite solo le donne; al ius puniendi paterno erano infatti sottoposti anche i maschi. Il rapporto padre figlio era molto particolare: al raggiungimento della maggiore età il filiusfamilias, pur restando sottoposto alla patria potestas, acquistava la capacità di diritto pubblico e poteva votare, partecipare alla gestione della cosa pubblica e intraprendere la carriera politica. Cittadino di pieno diritto, il figlio adulto si trovava in una posizione ambivalente nei confronti del padre. Esempio significativo è il caso in cui un filiusfamilias diventasse magistrato. In quanto tale aveva un potere pubblico sul padre, al quale, come figlio era tuttavia sottoposto come un minorenne o una donna. Cosa accadeva se un figlio, nell’esercizio di funzioni pubbliche, si macchiava di reati che meritavano una pubblica pena? Il padre poteva punire il figlio che aveva infranto le regole della disciplina domestica. Una delle forme più diffuse del castigo domestico era la fustigazione a morte. 4.1 Il supplizio di Spurio Cassio Spurio aveva proposto di dividere il territorio sottratto agli ernici tra la plebe e gli alleati latini, aggiungendovi una parte del terreno pubblico. Ma l’altro console, Proculo Virginio, si era opposto e oltre al sostegno dei patrizi aveva trovato l’appoggio della plebe. Quello che secondo Valerio Massimo accadde a Spurio nel 485, quando uscì dal carcere, fu la condanna in casa per il crimine di adfectatio regni da parte del padre. Molti dicono che lo stesso padre fu l’esecutore del supplizio. Per un crimine come quello di cui era incolpato Spurio, il potere paterno concorreva con quello dello Stato e la punizione del reo poteva essere sia privata sia pubblica. 4.2 La disciplina paterna: castigo privato e castigo pubblico L’esecuzione di Spurio appare come una forma normale e quasi scontata dell’esecuzione domestica, decisa dal padre nella totale autonomia che il più antico diritto gli riconosceva: i giudizi domestici, infatti, erano sottratti al controllo pubblico. I padri, in altre parole, valutavano la gravità della colpa e stabilivano la pena in base ai loro personali criteri. A limitare i loro poteri non intervenivano né lo Stato né i parenti e gli amici con i quali a volte si consultavano. Il padre poteva decidere di uccidere il figlio senza consiglieri, senza testimoni e senza istruttorie; nessuno poteva impedirglielo. Ciò che al massimo poteva accadere al padre che uccideva il figlio senza concedergli un minimo di possibilità di difesa era una blanda condanna sociale. La liceità del suo comportamento era fuori discussione. Egli non aveva fatto altro che esercitare il suo potere. Non a caso nelle fonti leggiamo che il padre per i figli è “un censore”,“un magistrato domestico”. Per questo il filiusfamilias colpevole di un reato politico continuò a poter essere chiamato a rispondere delle sue azioni anche di fronte all’autorità familiare. Il castigo nella città Nel momento in cui nacque, la città si assunse il compito di mettere a morte i pubblici traditori, definiti colpevoli di perduellio. Secondo alcune ipotesi solo l’attentato al potere regale poteva essere definito perduellio; i crimini perpetrati alleandosi con il nemico erano invece considerati proditio o defectio. I confini del perduellio rimasero incerti per tutto il corso della storia romana. Nel III secolo d.C., ulpiano definisce il reo di perduellio come un delinquente animato da spirito ostile allo stato o all’imperatore e la decisione di persegiure un comportamento classificabile come tale era, in buona sostanza, una scelta politica. Si può pensare che Cesare, quando decise di punire i soldati ribelli, si sia ispirato a questo rito? Il rito veniva celebrato nel campo di Marte e in onore di Marte. Prevedeva che al cavallo sacrificato a questo dio venissero tagliate la testa e la coda. La testa veniva affissa a una parete, che talvolta era quella della Regia, ma non era sempre e necessariamente questa. Per la testa appena tagliata, infatti, si apriva una contesa tra gli abitanti del quartiere di suburra e quelli della via sacra, e solo in caso di vittoria dei primi la parete alla quale la testa veniva affissa era quella della Regia. Per la coda invece non c’era alcuna contesa; appena staccata, essa veniva portata ancora grondante alla Regia, così che il suo sangue ne bagnasse l’altare. Perché mai il sangue della coda doveva bagnare l’altare? Bisogna partire da due constatazioni: 1. Marte, oltre che il duo della guerra, era il dio della fecondità. 2. La parola cauda, in latino, non significa solo “coda” ma anche “pene”. Se la cauda tagliata al cavallo di ottobre era il suo pene, dunque, il rito secondo il quale l’altare veniva imbevuto del sangue che ne scendeva aveva una funzione evidente: era un rito di fecondità in onore di Marte agrario. L’october equus poteva quindi essere un rito di fecondità. Ma se così stavano le cose perché Cesare avrebbe dovuto ispirarsi all’october equus per punire un atto di ribellione? L’idea di affiggere alla Regia le teste dei colpevoli può spiegarsi solo pensando che la cerimonia dell’october equus fosse un sacrificio bellico. Il tempo necessario per giungere correndo dal campo di Marte sino alla Regia era di due minuti e trenta secondi. Quanto può sanguinare la coda di un cavallo e per quanto tempo può invece sanguinare il suo pene? “La coda, nel punto di sezione, ha lasciato gocciolare o trasudare sangue naturalmente per tre minuti quando la parte amputata era rivolta verso il basso, per tre minuti e quindici secondi quando era rivolta verso l’alto. Il sangue che rimane nel pene e nei suoi muscoli, invece, anche dopo il dissanguamento gocciola continuamente. È stato facile farne fuoriuscire dell’altro, per pressione, perfino dieci minuti dopo il taglio.” La parte del cavallo portata di corsa alla Regia, dunque, poteva essere la coda; nulla impediva, quindi, di credere che l’october equus fosse un sacrificio al dio della guerra. Il sacrificio veniva celebrato sul campo di Marte, ove si svolgevano gli esercizi militari. La data del sacrificio, il 15 ottobre, era quella che segnava la fine delle campagne militari, iniziate tra febbraio e marzo, in un periodo durante il quale, sempre sul campo di Marte, avevano luogo delle gare di carri. Inoltre, il cavallo sacrificato era il cavallo di destra del carro di colui che aveva vinto gare analoghe a quelle che avevano accompagnato all’inizio della stagione bellica. Secondo una prima ipotesi, il rito rappresentava l’uccisione del cavallo di Troia; secondo un’altra il cavallo era offerto a Marte perché animale bellicoso e quindi particolarmente gradito al dio. Una terza ipotesi immaginava che il rito simboleggiasse la punizione di coloro che usavano la loro agilità per prendere la fuga. Secondo gli storici moderni, il sangue versato sul focolare della Regia eliminava le impurità provocate dalla guerra, e l’affissione della testa significava l’attribuzione della vittoria allo stato. Tornando all’esecuzione voluta da Cesare nel 46, possiamo dire che essa non fu un’improvvisazione del momento, ma il recupero di un rito. E la constatazione che si trattasse di un rito di guerra rende ragione alla scelta di Cesare. L’esecuzione fu al tempo stesso una punizione esemplare e un sacrificio a Marte. 1.5 Conclusioni sulla decapitazione A sostegno della natura sacrificale della decapitazione con l’ascia non restano indizi. La securi percussio era un atto punitivo laico che venne utilizzato dapprima a Roma e successivamente fuori città, nonostante, anche qui, cedette il passo ad altri strumenti. Nel corso degli anni ricorrere alla scure era considerato disdicevole. Ad esempio, quando un soldato di Caracalla la utilizzò, l’imperatore lo rimproverò; o ancora durante l’ultima persecuzione d’Africa, quando alcuni cristiani furono decapitati in questo modo, la cosa venne registrata da Eusebio come evento straordinario. Sarebbe sbagliato dedurre che, quando la securi percussio venne abolita, coloro che avevano commesso crimini contro lo stato continuassero a essere decollati, con l’unica differenza della sostituzione dell’arma. In età repubblicana, quando venne proibito ai magistrati di esercitare la coercitio in città e fu introdotta la nuova regola secondo la quale le condanne a morte potevano essere pronunziate esclusivamente dai comizi centuriati, la morte inflitta ai traditori prevedeva un supplizio diverso: quello descritto per la prima volta dal celebre racconto liviano della morte di Orazia e del processo di Orazio. L’ESPIAZIONE Il supplizio all’albero infelice 1. La morte di Orazia, il processo di Orazio Durante il regno di Tullo Ostilio, la potenza etrusca minacciava sia la città di Roma sia quella di Alba Longa. Pur divisi da una latente inimicizia, romani e albani decisero di allearsi contro il comune nemico, affidando a un duello la scelta della città cui sarebbe spettata la posizione egemone. Gli albani scelsero come campioni i tre fratelli Curiazi, i romani i tre fratelli Orazi. Ma nonostante il valore di questi ultimi il duello rischiava di vedere Roma sconfitta: due dei tre Orazi erano stati uccisi dai campioni nemici. L’Orazio superstite allora, consapevole di non poter vincere con le sue sole forze ben tre avversari, ricorse a uno stratagemma. Fingendo di darsi alla fuga riuscì a distanziare tra loro i Curiazi, e, affrontando ciascuno di loro individualmente, portò Roma alla vittoria. La città finalmente esultava, ma la felicità collettiva venne turbata da un grave fatto di sangue. Mentre Orazio rientrava in città tra le acclamazioni del popolo, portando orgogliosamente sulle spalle le spoglie dei rivali, sua sorella Orazia vide tra di esse il mantello da lei tessuto per il fidanzato Curiazio. Non riuscendo a controllare il dolore, dimentica di essere una cittadina romana, con i capelli sciolti in segno di lutto, la fanciulla prese a invocare tra le lacrime il suo amore perduto. Orazio venne allora preso da ira incontrollabile e trafisse Orazia con la spada. Il gesto di Orazio apparve così orribile ai romani che, nonostante i meriti recentemente acquisiti, il giovane venne condotto in giudizio davanti al re. Ma questi, che non voleva assumersi la responsabilità di condannare a morte un eroe nazionale, riunì l’assemblea popolare, nominando, secondo la lex horrendi carminis, i duumviri che avrebbero giudicato Orazio per perduellio. I duumviri non ritenendo di poter assolvere, secondo la legge, neppure un innocente, condannarono Orazio. Nel momento in cui uno dei littori aveva già legato le mani al condannato, il padre di Orazio chiese la verifica popolare (provocatio). La parola passò così al popolo, davanti al quale il padre intervenne in difesa del figlio. Orazio padre disse che il figlio non aveva fatto altro che anticipare quello che egli stesso avrebbe fatto nell’esercizio dei suoi poteri paterni. Orazia era quindi stata legittimamente uccisa. Perché Orazio viene accusato di Perduellio? Le fonti diverse da Livio non parlano di perduellio, dicono che Orazio fu accusato di parricidium. Parte della dottrina ritiene che, in effetti, il comportamento dell’eroe giustificasse questa accusa. Una celebre legge, infatti, diceva che “chiunque uccide volontariamente una persona di stato libero paricidas esto”; e “paricidas esto” vorrebbe dire “sia considerato parricida”. L’interpretazione di questa legge è controversa e con ogni probabilità il significato è diverso da quello riportato. La qualificazione del comportamento dell’eroe come perduellio non è incomprensibile. Piangendo il fidanzato morto, Orazia era infatti venuta meno al suo dovere di lealtà alla patria e aveva quindi tradito. A punire un figlio colpevole di un crimine pubblico potevano essere solo il padre nell’esercizio del suo potere domestico, oppure il rex in forza del suo imperium. Orazio aveva quindi usurpato un potere che non era suo e la sostituzione al pater costituiva un’infrazione alla sua disciplina domestica. Abbiamo a questo punto due interpretazioni: - Secondo alcuni un crimine compiuto da chiunque mettesse a morte una persona che il magistrato non aveva ancora condannato, rientrava nella perduellio. - La seconda interpretazione vede l’accusa di perduellio come una concessione fatta dal re per offrire a Orazio una possibilità di salvezza: qualora fosse stato accusato di parricidium, infatti, l’eroe non avrebbe avuto la possibilità di provocare ad populum, concessa solamente a coloro che erano accusati di tradimento. 2. La lex horrendi carminis Il testo della lex horrendi carminis è autentico ma il riferimento alla provocatio è certamente un’inserzione successiva. Esisteva dunque una legge che stabiliva come i traditori dovevano essere uccisi: essa dettava “al condannato venga velato il capo. Sia sospeso all’albero infelice e sia fustigato sia nel pomerio sia fuori dal pomerio”. L’interpretazione della legge ha posto una serie di problemi, il primo dei quali è rappresentato dall’identificazione dell’albero detto “infelice”. 3. Albero felice, albero infelice Arbor infelix per i romani era, in primo luogo, l’albero che non portava frutti o che portava frutti selvatici e non commestibili. L’arbor felix era l’albero di buon auspicio, mentre quello infelix era di cattivo augurio. Gli arbores infelices erano sotto la protezione degli dèi infernali ed erano il linterno, il sanguine, la felce, il fico nero, gli alberi che portano bacche o frutti neri, l’agrifoglio, il pero selvatico, il pungitopo, il lampone selvatico e i rovi. Quale fosse il criterio in base al quale alcuni alberi erano considerati protetti dagli dèi infernali non è facile dire ma Plinio sostiene che “sono sacre agli dei le arbores che non vengono seminate e non portano frutti”. La classificazione laica e quella magico-religiosa vengono a riconiugarsi ma il loro collegamento non è sufficiente a render conto di tutti gli alberi considerati infelices: oltre a quelli che lo erano per natura, esistevano alberi che lo diventavano per circostanze esterne e sopravvenute, come ad esempio le vigne che diventavano impure se una persona si impiccava nei suoi dintorni, o i boschi che erano stati colpiti da fulmini e non potevano quindi essere usati per i sacrifici. È possibile pensare che l’albero del supplizio non dovesse essere infelix per natura, ma fosse così definito perché diventava tale dopo il supplizio. L’infelicità del legno potrebbe sembrare legata alla sua sorte di sostenere un condannato a morte ma, in realtà, l’ipotesi non è seriamente sostenibile. La legge prescriveva che il supplizio avvenisse a un’arbor infelix; evidentemente, dunque, a un albero che era già tale. Inoltre, essa prescriveva che il condannato vi fosse sospeso con il capo velato come le vittime sacrificali. Poiché l’arbor infelix era un albero sacro agli dèi inferi, il condannato per tradimento veniva consacrato a questi dei, ma qual era la sua funzione? Qual era la morte che era inflitta a chi veniva suppliziato ai suoi rami? 4. Albero infelice e impiccagione Secondo un’ipotesi che ha trovato molti seguaci, la suspensio all’arbor infelix sarebbe stata un’impiccagione. Suspendere significa stare in una posizione sopraelevata ma anche quando l’oggetto sospeso in una posizione sopraelevata era un corpo legato a una fune, non si trattava necessariamente di un impiccato. In un passo di Seneca leggiamo di alcuni condannati a morte sospesi con il capo rivolto in basso, verso il suolo. Egli allude a dei condannati alla croce assicurati al legno in quella posizione. Nonio, in una glossa a cicerone, commenta la lex horrendi carminis dicendo: “suspensum dicitur alte ligatum”. Colui che viene sospeso all’arbor infelix per Nonio è assicurato all’albero in modo da non toccare il suolo ma non pende dai suoi rami, non dondola da essi. All’albero egli è solo “ligatum”, vale a dire avvinto. 4.1 I fantasmi degli impiccati: ideologia funeraria e credenze magico-religiose A Roma l’impiccagione era una morte maledetta: le anime degli impiccati, non trovando riposo nell’aldilà, continuavano ad aggirarsi tra i vivi ed erano motivo di terrore invincibile. Quali erano le ragioni di questa maledizione? Abbiamo diverse ipotesi: - L’impiccagione, come lo strangolamento, sarebbe stata considerata una forma di decapitazione. L’ombra del morto quindi, non avendo la testa al posto dovuto, sarebbe stata esclusa dalla società dei morti. Ma se così fosse stato avrebbero dovuto suscitare terrore anche le anime di coloro che erano stati decapitati con la Nel racconto di Tudidiano, console nel 206 a.C. i cartaginesi somministrarono a Regolo un veleno diluito e a effetto lentissimo: nelle loro intenzioni, infatti, Regolo doveva vivere abbastanza a lungo per persuadere i romani allo scambio. E quando Regolo tornò a Cartagine gli riservarono una morte atroce ma diversa dalla croce: impedendogli di dormire, lo fecero morire di insonnia. Nel racconto di Tuberone, giurista e annalista dell’età di Cesare, Regolo fu sottoposto a un diverso supplizio: dopo essere stato chiuso in un luogo oscuro, venne esposto in pieno giorno alla luce accecante del sole, con le palpebre cucite sia verso l’alto sia verso il basso. La tradizione che vuole Regolo crocifisso è dunque poco attendibile: il suo obiettivo era evidentemente quello di ribadire la crudelitas dei nemici che avevano osato riservare a un cittadino romano la morte servile, ma anche quello di creare un eroe che a questa crudelitas contrapponesse la capacità quasi sovraumana di resistere al più infame dei supplizi, cancellando con la sua romanità invincibile l’immagine turpe di una morte che toglieva non solo la vita, ma anche la dignità di uomo. Con l’ipotesi di regolo crocifisso cade l’ipotesi della derivazione cartaginese della croce. Se di importazione estera, l’ipotesi orientale è più plausibile, ma si tratta comunque di un’ipotesi che nulla toglie all’originalità della crocifissione romana. I romani, infatti, realizzavano il supplizio della croce con una tecnica assolutamente peculiare e inedita: alla croce, essi assicuravano il reo perforando le sue mani e i suoi piedi con dei chiodi. 5.3 Originalità della crocifissione romana: tecnica di costruzione e di esecuzione La croce romana era composta di due legni separati tra loro, che venivano uniti e assumevano la forma di una croce solo nel momento finale dell’esecuzione. Questi due legni erano detti stipes e patibulum. Lo stipes era la parte verticale della croce: un tronco, un palo di legno, abitualmente. Di regola erano poco più alti di un uomo, così che i piedi del condannato si venissero a trovare a pochi centimetri dal suolo. In questo caso gli stipites davano luogo alle croci definite “humiles”, che esponevano i condannati ai morsi dei lupi e alle beccate degli avvoltoi. Per queste sue caratteristiche, la crux humilis, oltre a rispondere all’abituale e diffuso bisogno di repressione, pare si prestasse a soddisfare, a volte, istinti particolari e del tutto personali di crudeltà. Ad esempio, Nerone, narra Svetonio, aveva l’abitudine di avvolgersi nella pelle di una fiera, di farsi spingere fuori da una gabbia e di avventarsi all’inguine dei malcapitati crocifissi a stipites. Il patibulum era una trave separata e autonoma, che veniva unita allo stipes solo nel momento in cui il condannato veniva messo a morte e che giungeva sul luogo del supplizio insieme al condannato, o meglio caricata sulle sue spalle e avvinta ai suoi polsi con delle corde. A volte nel patibulum veniva predisposto un incavo destinato a essere poggiato in un risalto al termine dello stipes, così che la croce che ne risultava, detta crux commissa, aveva forma di T. Altre volte, invece, l’incavo veniva predisposto nello stipes, così che la parte terminale di questo, superando il punto di congiunzione con il patibulum, formava una croce a quattro braccia, detta crux immissa o capitata. 5.4 L’uso dei chiodi: l’iscrizione di Pozzuoli e la Sacra Sindone Possiamo essere sicuri che la crocifissione romana prevedesse l’uso dei chiodi? Nella mostellaria di Plauto, lo schiavo Tranione promette un talento a chi riuscirà a scendere dalla croce, ma a condizione che le sue mani e i suoi piedi siano inchiodati due volte. Da Lucano sappiamo che i chiodi delle croci venivano usati per compiere sortilegi e i vangeli attestano che Cristo fu inchiodato alla croce. Fu proprio a partire dalla descrizione della morte di cristo che sorsero i primi dubbi e dibattiti sull’essenziale e contestata necessità dell’uso dei chiodi. In un passo di Tertulliano leggiamo che Cristo fu il solo ad essere crocifisso “tam insigniter”; Tertulliano non pensava però ai chiodi, ma all’uso di una croce particolarmente alta e visibile. Alle testimonianze si aggiunge quella di un’iscrizione pubblicata nel 1967, contenente alcune regole sui possibili modi di mettere in croce gli schiavi delinquenti. Si legge che, se il padrone decideva di provvedere privatamente all’esecuzione, doveva rivolgersi a un redemptor, il cui compito era quello di fornire il materiale necessario per eseguirla (travi, cinvoli e corde per i fustigatori), e doveva retribuire gli operai che avevano collaborato alla costruzione della croce, i fustigatori e il carnefice con una somma fissata dalla lex stessa. Le corde di cui parla l’iscrizione non servivano quindi ad assicurare il condannato alla croce, ma a frustarlo. Che alla croce egli venisse assicurato con dei chiodi risulta dalle righe 11-14, che prevedevano l’ipotesi che il padrone chiedesse che l’esecuzione avesse luogo con la supervisione dei magistrati municipali. In questo caso gli strumenti dell’esecuzione che dovevano essere predisposti gratuitamente erano croci, chiodi, pece e torce. L’iconografia abbonda di immagini di cristo con i chiodi piantati nel mezzo del metacarpo. La sacra sindone sembra invece indicare che i chiodi non venivano infissi nella mano ma nella linea di flessione del polso. Dimostrare che i chiodi venissero piantati nel carpo significava avvalorare l’autenticità della reliquia e per questo Barbet svolse una serie di esperimenti su cadaveri. Da alcuni dei suoi esperimenti possiamo dimostrare che le braccia venivano inchiodate al patibulum con due chiodi infissi nella linea di flessione dei polsi, perché le mani trafitte dai chiodi non reggevano il peso del corpo e si laceravano trascinando con sé il cadavere nella caduta. Se i chiodi erano piantati nel carpo, la crocifissione con i chiodi era possibile: nessun ostacolo tecnico si frappone alla possibilità di credere che i condannati alla croce venissero inchiodati. Risulta quindi evidente perché Cicerone, per rendere credibile l’accusa rivolta a Labieno di aver tentato di far crocifiggere un romano in forza della lex horrendi carminis (secondo la quale il condannato doveva essere legato con una corda a un albero), fu costretto a omettere la parola “reste” (vale a dire “con la corda”): perché a Roma si crocifiggeva con i chiodi. La caratterizzazione del supplizio all’arbor infelix come una crocifissione si rivela chiaramente un abilissimo espediente retorico. L’interpretazione ciceroniana della lex horrendi carminis è volutamente falsa. Della presenza della croce tra gli strumenti della morte di Stato in età regia e repubblicana non resta alcuna traccia. La croce entrò a far parte del panorama dei supplizi di Stato solo a partire dall’età imperiale, quando il supplizio, una volta servile, venne riservato anche agli uomini liberi, e più ai delinquenti di condizione sociale inferiore (humiliores). 6. L’albero infelice e la fustigazione a morte (supplicium more maiorum) Tornando alla descrizione liviana del supplizio che Orazio avrebbe dovuto subire se fosse stato condannato per perduellio, ricordiamo il fatto che egli avrebbe dovuto essere “legato sub furca, torturato dalle verghe”. Con questa espressione Livio non allude alla passeggiata sub furca che l’eroe avrebbe dovuto compiere per recarsi al luogo del supplizio, per una ragione che appare evidente rileggendo la lex horrendi carminis. “venga legato con una corda all’arbor infelix, venga fustigato sia dentro il pomerio sia fuori dal pomerio” Il riferimento alla fustigazione, nel testo della legge, è successivo a quello della suspensio all’albero. Evidentemente la fustigazione prevista per il traditore non poteva essere quella subita per le vie della città. Essa avveniva dopo che, condotto sul luogo del supplizio, costui era stato legato all’albero. Sappiamo quindi che il reo di tradimento, legato all’arbor infelix, veniva fustigato fino alla morte. La suspensio era l’atto che consentiva di immobilizzare il reo nella posizione in cui era destinato a restare sino a che non avesse perso la vita, stremato dai colpi delle verghe. Quando Livio immagina Orazio legato alla forca, tormentato dalle verghe, quindi, si riferisce al supplizio capitale dell’albero, chiamato anche supplicium more maiorum o antiqui moris. Nel racconto di Svetonio, Claudio volle assistere a un supplicium antiqui moris e per questo attese sino alla sera i condannati legati al palo. Essere puniti per more maiorum prevedeva che la vittima venisse denudata, venisse inserito il suo collo nella forca e nel battere a morte il suo corpo con le verghe. Tutte le condanne al supplicium more maiorum di cui siamo a conoscenza sono legate a reati di tradimento. La conclusione è quindi che il supplicium more maiorum altro non fosse che il supplizio previsto dalla lex horrendi carminis e il fatto che coloro che venivano condannati in forza di questa legge venissero fustigati a morte è confermato. 6.1 Il supplizio di Marco Manilo Capitolino Nel 384 a.C. Marco Manilo Capitolino venne condannato per aver tentato di ristabilire la monarchia. La fama di Manilo era legata all’eroica difesa di Roma durante l’occupazione dei galli e la sedizione da lui guidata. Com’era potuto accadere che colui che aveva salvato il campidoglio fosse diventato un pericolo per la sua città? Manilo, già violento per carattere e insuperbito dalla sua impresa, aveva cominciato a pensare di non essere onorato come meritava. Per questa ragione egli si sarebbe avvicinato alla plebe difendendone le ragioni per conquistarne il favore. Un giorno, vedendo trascinar via per debiti un centurione noto per le sue imprese militari, Manlio era intervenuto in suo favore. Aveva poi pagato i debiti del centurione ed era stato acclamato dalla folla. La sua popolarità era ormai tale che, quando fu arrestato, venne liberato a furor di popolo. Quando giunse al punto di istigare apertamente la plebe alla rivolta armata commise l’errore che lo portò alla rovina. I suoi progetti sediziosi preoccupavano i tribuni della plebe, perché Manilo avrebbe potuto causare la rovina della città se il popolo gli avesse dato ascolto. Per liberarsi di lui, insieme ai tribuni militari con potere consolare, i tribuni della plebe lo accusarono di aver tentato di restaurare la monarchia e lo condannarono ad essere fustigato a morte. In questa versione della storia la fustigazione appare quindi chiaramente come pena pubblica per il tradimento. 7. Conclusioni sulla lex horrendi carminis Quale fu il momento nel quale, a Roma, si stabilì che i traditori venissero uccisi sotto le verghe dopo essere stati legati all’albero infelice? La riposta più immediata è che questo momento sia da collegare al divieto di usare la scure in città. Ma l’uso della scure venne vietato all’inizio dell’età repubblicana, mentre la lex horrendi carminis è di età monarchica. L’ipotesi più convincente è che il supplizio all’albero sia stato introdotto durante il dominio etrusco. La classificazione degli alberi in felices e infelices, infatti, era di origine etrusca. Nella superstiziosa cultura a cui i re etruschi appartenevano, il crimine era un atto che contaminava e che richiedeva un’espiazione: uccidere il traditore legandolo a un albero consacrato agli dèi inferi, e qui fustigarlo a morte, significava offrirlo a questi dei. Che il supplizio all’albero avesse carattere sacrificale è confermato dalla prescrizione “al reo sia coperto il capo”, perché la copertura del capo era segno della consacrazione della vittima agli dèi. Nella lex horrendi carminis la prescrizione “caput obnutio” confermava che il reo veniva consegnato agli dèi cui era sacro l’albero infelice. Infine, a ulteriore conferma dell’origine etrusca di questo supplizio vediamo la regola secondo la quale il reo poteva essere frustato sia nel pomerio sia fuori da esso. Una simile regola non può infatti essere precedente all’età etrusca. Il supplizio all’albero venne introdotto quindi sul finire dell’età monarchica, ma sotto i colpi delle verghe non morivano solo i rei di perduellio condannati in forza della lex horrendi carminis. La fustigazione a morte era riservata anche ad altri criminali come, ad esempio, coloro che si erano uniti sessualmente a una vestale. Altre fustigazioni a morte 1. L’amante della vestale Nell’atrio della libertà era conservata una legge che stabiliva che gli amanti delle vestali, che erano venute meno al loro voto di castità, dovessero morire nudi, con la forca al collo come degli schiavi, fustigati a morte nel comizio. Quale fosse la natura dell’atto con cui l’amante della Vestale veniva messo a morte è stato lungamente dibattuto. Secondo alcuni si sarebbe trattato di un castigo domestico: la fustigazione del reo, infatti, non era affidata al Quando qualcuno aveva rubato o danneggiato con mezzi magici le messi altrui, il reo veniva ucciso in onore di Cerere perché Cerere era la dea della fertilità. A Cerere, dunque, al momento del raccolto, dopo il sacrificio della porca praecidanea spettava l’offerta delle primizie. Ecco perché l’attentato alle messi offendeva Cerere, perché la privava di queste offerte. Sulla funzione magica della fustigazione, in questo caso, si innestava una funzione religiosa tramite la quale si ristabiliva la pax deorum. L’antico valore magico della fustigazione venne recepito dalla civitas, che nel trasformarlo in esecuzione cittadina lo utilizzò ai suoi fini. Grazie al suo valore espiatorio, la fustigazione a morte ben si prestava a celebrare quelle esecuzioni capitali che, in ragione del comportamento punito, venivano dedicate agli dèi: il ricordo della sua natura magica contribuì a farla selezionare tra i supplizi destinati a punire i delitti religiosi. Ma questo non significa che tutti i delitti religiosi venissero puniti in questa forma. Il rogo In età imperiale alcune sentenza capitali venivano eseguite bruciando vivi i condannati. Nelle pauli sententiae, ad esempio, si legge che i maghi venivano condannati alle bestie o al rogo. Nel 390, una costituzione di Teodosio I stabilì che venissero briciati vivi gli omosessuali passivi che si prostituivano nei bordelli della capitale. L’elenco dei comportamenti puniti con il vivicomburium potrebbe continuare ma il riferimento al caso dei maghi e degli omosessuali è sufficiente a mostrare che il fuoco puniva reati diversi, accomunati esclusivamente dalla loro gravità. Quale fu il momento in cui il rogo entrò nel numero delle pene capitali, e quale fu il reato che indusse a farvi ricorso? In un passo di Tacito del 64 d.C. si legge che le vittime della persecuzione neroniana contro i cristiani furono date in pasto alle belve, affisse alle croci o consumate dalle fiamme. La vivicombustione non entrò a far parte del sistema romano dei supplizi all’età di Nerone o Caligola; il rogo era infatti un’esecuzione capitale antichissima. Le dodici tavole stabilivano che colui che avesse dolosamente dato fuoco a un edificio e al covone di frumento a questo appoggiato avrebbe dovuto essere legato, fustigato e bruciato vivo. Dopo furto e danneggiamento, l’incendio era l’unico delitto per il quale le dodici tavole prevedevano la morte sul rogo. Le fiamme che consumavano l’incendiario appaiono come un’ulteriore esecuzione di tipo purificatorio- espiatorio. 1. I tribuni bruciati: supplizio del fuoco o ordalia? Valerio Massimo ricorda il drammatico episodio dei nove tribuni combusti. Muzio, tribuno della plebe, pensando di avere gli stessi diritti del senato e del popolo romano, fece bruciare vivi i suoi colleghi perché avevano impedito di sostituire i magistrati e, istigati da Spurio Cassio, avevano messo in pericolo la libertà di tutti. Un solo tribuno osò infliggere ai nove colleghi una pena che nove tribuni avrebbero temuto di far subire a uno solo. Alla vicenda allude anche Festo, che si limita a parlare di nove tribuni bruciati, senza specificare la ragione della loro morte. Si può semplicemente dire che nella prima metà del V secolo a.C. un tribuno mise a morte nove colleghi o, forse, ne provocò la morte. I tribuni, il cui numero variò nel tempo, non furono mai nove. Il numero nove si spiega solo pensando che un decimo tribuno sfuggì alla sorte dei colleghi. Sotto questo profilo, il racconto di Valerio Massimo ha il vantaggio di far tornare i conti: il decimo tribuno era Muzio. Ma questo non significa che esso sia attendibile. Un tribuno, infatti, non aveva il potere di condannare a morte i suoi colleghi. Tutto quel che si può supporre, se si vuole pensare a un ruolo attivo di Publio Muzio Scevola in questa vicenda, è che egli, senza bruciarli vivi personalmente e senza ordinare di farlo, ne abbia tuttavia provocato la morte: forse denunziandoli, o forse accettando in loro nome e per conto loro (o proponendo) un’ordalia del fuoco, alla quale lui solo sarebbe riuscito a scampare. 2. Le ordalie a Roma Che i romani un tempo usassero affidare la soluzione delle questioni controverse al giudizio della divinità emerge da numerose testimonianze. Il ricordo di un giudizio di dio può essere facilmente letto dietro al racconto del combattimento tra gli Orazi e i Curiazi. L’ipotesi che il confronto tra i campioni romani e quelli albani fosse un duello giudiziario non è la sola spiegazione della vicenda. Secondo alcuni, infatti, l’episodio serberebbe le tracce di un’iniziazione magico-militare. Si potrebbe fare un parallelo tra le gesta dell’Orazio vincitore degli albani all’Orazio soprannominato Coclite, che salvò la patria sostenendo da sol l’assalto etrusco sull’unico ponte che avrebbe permesso al nemico di entrare in città. Orazio Coclite, gettandosi nel Tevere, poté rientrare in Roma purificato dalle sue acque, così come l’Orazio vincitore degli albani poté rientrare in città solo dopo essersi purificato passando sotto il tigellum sororium. Altre tracce ordaliche si ritrovano nel più antico processo privato, la legis actio sacramento. In questo processo la soluzione della lite dipendeva da una scommessa-giuramento tra i contendenti, che in età storica portava alla condanna del soccombente al pagamento di una somma di denaro. A questa scommessa le parti arrivavano al termine di un rito caratterizzato da un rigoroso formalismo verbale che lascia trasparire il ricordo di una lotta fisica tra i due contendenti, il cui esito era originariamente affidato all’intervento divino. Il momento in cui il ricordo di antiche ordalie appare con più frequenza è quello dell’accertamento dei comportamenti criminali come l’accertamento del reato di incesto contestato alle vestali. Quando le vestali venivano accusate di aver violato il voto di castità, si credeva che se l’accusa era ingiusta esse potessero essere salvate dall’intervento divino, come successe ad esempio alla vestale Emilia (stracciò un lembo della veste e lo gettò sull’altare. Si accese allora una fiammella che avvolse la garza, provando l’innocenza di Emilia). Un altro esempio è quello di Claudia: la voce popolare accusava Claudia di cattiva condotta. Consapevole della sua cattiva reputazione, la ragazza voleva dimostrare che le accuse che le venivano rivolte erano infondate. I romani avevano fatto venire da Pessinunte, in Frigia, la statua di Cibele, la Magna Mater Idaea. Ma la nave che trasportava la dea si era incagliata all’imbocco del Tevere e tutti gli sforzi fatti per disincagliarla erano stati vani. Per Claudia, era l’occasione propizia: dopo aver pregato Cibele di aiutarla se la sua vita era stata improntata alla virtù, ella liberò senza sforzo alcuno la nave, semplicemente tirandola con la sua cintura. L’analogia tra la vicenda di Claudia e quella di Emilia è chiara: la falsità delle accuse viene provata dall’intervento della divinità, invocata dalla presunta colpevole prima di sottoporsi a una prova. Ancora tra il III e il II secolo a.C. i romani ritenevano che la divinità potesse intervenire nell’accertamento della verità, consentendo a chi era stato ingiustamente accusato di superare una prova altrimenti impossibile. Il giudizio di dio, in conclusione, non era estraneo alla mentalità romana. 3. L’ordalia del fuoco e i tribuni “bruciati” Negli episodi dei tribuni bruciati appare un personaggio di nome Scevola: Caio Muzio nel primo e Publio Muzio nel secondo. Non è strano pensare che il nome Scevola rinvii in qualche modo a una prova del fuoco. Talvolta si dice che, se la prova affrontata da Muzio Scevola fosse stata un’ordalia, essa sarebbe stata un’ordalia etrusca. Nel racconto di Dionigi di Alicarnasso, Prosenna minaccia Muzio di torturarlo con il fuoco. Tito Livio lascia invece intendere che l’idea di sottoporsi alla prova fu dello stesso Muzio. Quando fu sottoposto o si sottopose alla prova, Caio Muzio riuscì a sopravvivere ma perse la mano destra, quella parte del corpo che avrebbe dovuto resistere alle fiamme. Sulla colpevolezza di Muzio non esisteva nessun dubbio: sorpreso in flagrante, l’eroe non aveva tentato in alcun modo di discolparsi e tantomeno aveva chiesto clemenza. Il sacrificio della mano con la quale aveva giurato di uccidere Porsenna aveva, semmai, il valore di una minaccia: come Caio Muzio, nessuno dei congiurati sarebbe mai venuto meno alla parola data. Se Caio Muzio tese la mano sul fuoco per ordine di Porsenna, dunque, il rogo, nelle intenzioni del re etrusco, appare piuttosto come una pena che come un’ordalia. Solo se l’eroe tese spontaneamente la mano il suo gesto può apparire lo strumento di una prova; che nella specie non è certamente una prova di innocenza, bensì di valore. Pensando alle feste palilia, durante le quali i giovani romani dovevano saltare oltre i mucchi di paglia in fiamme, i giovani compivano una prova di destrezza che fa pensare a quella degli hirpi sorani, i sacerdoti che camminavano a piedi nudi sui carboni ardenti senza bruciarsi. Tornando a Muzio Scevola, egli aveva superato una prova del fuoco perdendo la mano destra. La sua bruciatura era il segno del suo valore, rivelato dal fuoco. Il fuoco permetteva di compiere gesta incredibili, e nel fuoco accadevano eventi assolutamente straordinari. Mettendo la mano sul fuoco, Muzio non compì un’ordalia nel senso vero e proprio del termine. Tuttavia, la sua storia e tutte le considerazioni fatte a partire da essa mostrano chiaramente che questo tipo di ordalie non era estraneo alla cultura romana. In una cultura che utilizzava il fuoco per compiere prove di destrezza o di valore l’idea di utilizzarlo come prova giudiziaria era tutt’altro che peregrina. E l’esistenza di un collegamento tra il fuoco e l’accertamento giudiziale della verità emerge con evidenza ove si pensi al senso figurato del termine ambustus. A Roma, ambustus, era chi, indiziato di un delitto che comportava la pena di morte, era uscito dalle indagini senza essere condannato o assolto. Nel ricordare i processi più celebri e istruttivi, Valerio Massimo riserva una speciale rubrica agli ambusti. Chi non veniva condannato ma neppure assolto non poteva che soffrirne, per questo ambustus assunse anche il significato di “bruciato”, nel senso di compromesso, squalificato. Si può quindi pensare che i nove tribuni combusti non furono bruciati vivi da Publio Muzio, ma furono invece sottoposti a un’ordalia del fuoco. L’atteggiamento dei romani nei confronti del fuoco è tale da far seriamente considerare la possibilità che essi ricorressero alle fiamme per ottenere dei giudizi ordalici. 4. Il supplizio del fuoco La morte con il fuoco prevista dalle Dodici Tavole per l’incendiario fa pensare, più che a una vendetta privata, alla derivazione del rogo da un’antica ordalia. Come sappiamo, gli attentati alle messi, che privavano Cerere dell’offerta delle primizie, richiedevano la morte sacrificale del reo in onore della dea. Poiché l’incendio del covone di frumento provocava la stessa offesa, apparirebbe molto strano che la pena per questo reato non fosse a sua volta una morte sacrificale. Il collegamento del fuoco con la dea delle messi risulta evidente alla luce di un rito che veniva celebrato ogni anno durante le feste in onore di Cerere (Ceralia). In quest’occasione aveva luogo nel circo Massimo una folle corsa di volpi, alla cui coda era stata legata della paglia infiammata. Per i contadini le volpi erano pericolose esattamente come il sole cocente, che bruciava il raccolto e lo distruggeva. Per loro, le volpi erano bestie malefiche come la Canicola, il terribile Cane astrale. La corsa delle volpi che portavano l’incendio attraverso le messi era evidentemente una magia. Tornando all’esecuzione: l’incendiario moriva bruciato vivo, come le volpi rosse che simboleggiavano la Canicola. Chi aveva fatto del male a Cerere veniva a lei sacrificato nel corso di un rito che rappresentava l’azione che aveva offeso la dea. A questo punto si potrebbe obiettare che, nel caso degli attentati alle messi che comportavano la morte sotto la frusta, il fatto che il reo venisse messo a morte in onore della dea era reso esplicito dalla clausola sanzionatoria: il reo, diceva la legge, deve essere ucciso “sospeso” in onore di Cerere. Nel caso dell’incendiario, invece, il riferimento a Cerere non era esplicito. Ma pensare che il rogo fosse in suo onore non è azzardato: l’ipotesi può basarsi anche su un’analogia tra la clausola sanzionatoria che prevedeva la fustigazione a morte (per Cerere) e quella che prevedeva la vivicombustione. La morte inflitta in onore della dea, infatti, viene indicata con il verbo necare (per Cerere). E questo verbo appare nelle Dodici Tavole solo due volte: in questa regola e in quella che stabiliva quale morte toccasse all’incendiario, che doveva “igni necari”, “essere ucciso con il fuoco”, e “igni Cereri necari”, vale a dire “essere bruciato vivo in onore di Cerere”. La precipitazione dalla rupe Tarpea 1. Tarpea: la ragazza, la rupe e i traditori 1.1 La ragazza 2.2. I sepolti vivi nel Foro Boario Nel novembre del 228 a.C. una coppia di greci e una di galli vennero sepolte vive nel Foro Boario. Nel 216 e nel 214- 13 vennero sepolte altre due coppie, sempre di greci e galli. In ricordo del fatto, ogni anno, a titolo di espiazione, i romani compivano sacrifici nel mese di novembre. A prima vista la circostanza che la vivisepoltura venisse espiata con un sacrificio può far pensare che si trattasse di atto empio e condannabile. Che si trattasse invece di un atto rituale, perfettamente lecito e gradito agli dèi, si evince dall’affermazione che questo atto venne compiuto secondo la prescrizione dei libri sibillini, alla presenza dei decemviri. Si trattava quindi di un rito sacrificale e l’evidenza delle fonti è difficilmente discutibile: anche se in via eccezionale, i tre sacrifici furono compiuti e forse non furono i soli. Nel 97 a.C., infatti, un senatoconsulto vietò di immolare i prigionieri di guerra quindi perché, nel giro di meno di dieci anni, vennero sacrificate tre coppie di stranieri? Secondo alcuni, a questi sacrifici si sarebbe fatto ricorso in anni in cui Roma correva gravissimi pericoli bellici. Le vittime, non a caso appartenenti a popolazioni nemiche, avrebbero quindi avuto la funzione di “capri espiatori. A questa spiegazione venne successivamente affiancata quella secondo la quale le vivisepolture sarebbero da collegare a celebri e clamorosi casi di “incesto” commessi dalle Vestali negli stessi anni dei sacrifici delle coppie di greci e galli, che avevano reso palese l’ira divina. Che le sepolture avessero carattere espiatorio è detto esplicitamente da Livio, quando racconta i fatti del 216. Una serie di prodigi,scrive Tito Livio, avevano indotto i decemviri a far consultare i Libri Sibillini e a mandare Quinto Fabio Pittore a Delfi, per consultare l’oracolo e per sapere “con quali preghiere e con quali sacrifici gli dei potessero essere placati”. Nel frattempo, i romani, secondo le prescrizioni dei libri fatales (come venivano chiamati i Libri Sibillini), “fecero alcuni sacrifici straordinari, un uomo e una donna greci, un uomo e una donna galli furono sepolti vivi nel Foro Boario in un luogo prospiciente una rupe, sino a quel momento mai bagnato di sangue umano, con rito estraneo ai costumi religiosi dei romani. Nel momento in cui, spinti da eventi straordinari, i romani decisero di immolare vite umane, riemerse l’antica idea che la vittima consacrata dovesse raggiungere gli dèi sottoterra. Di fronte all’ira divina, resa palese da fenomeni inspiegabili e portentosi, la morte delle Vestali (a loro volta sepolte vive) non fu considerata sufficiente a placare gli dèi: perché la loro ira cessasse era necessario offrire anche vittime innocenti. Se in questo caso la consegna delle vittime agli dèi non avvenne attraverso un lancio, il significato del gesto sacrificale è lo stesso. Precipitare e seppellire avevano il medesimo valore simbolico. 2.3 Gli Argei, l’origine dei Saturnalia, i sessantenni gettati dal ponte Il 14 maggio, durante una festa in onore dei cosiddetti Argei, dall’alto del ponte Sublicio venivano gettati nel Tevere dei fantocci di giunco in forma di uomo. Per quale ragione? Secondo Epicado: “Ercole, dopo aver ucciso Gerione, conduceva vittorioso i suoi armenti per l’Italia: dal ponte che ora chiamiamo Sublicio, costruito in quella circostanza, egli gettò nel fiume tante statuette in forma di uomini quanti erano stati i compagni morti durante il suo peregrinare. Egli riteneva, infatti, che queste statuette, trasportate dall’acqua corrente, sarebbero state restituite alla terra d’origine invece dei corpi dei defunti.” Occorre tornare al passo in cui Macrobio, tra le ipotesi sull’origine della festa saturnalia, riferisce: scacciati dalle loro terre e in cerca di una nuova sede, seguendo il responso dell’oracolo di Dodona sarebbero giunti nel Lazio, su un’isola che sorgeva nel mezzo del lago di Cutilia, ove abitava gente di stirpe siciliana. Cacciata questa popolazione e stanziatisi nella regione, i pelasgi avrebbero innalzato un tempio a Dite e un altare a Saturno, chiamando Saturnalia la festa in onore del dio, e per molto tempo avrebbero ritenuto di dover sacrificare teste umane a Dite e immolare uomini a Saturno. Tornando in Italia con il gregge di Gerione, Ercole avrebbe persuaso i discendenti dei pelasgi “a mutare i sacrifici funesti in sacrifici fausti, offrendo a Dite non teste umane, bensì statuette che riproducevano fattezze umane, e onorando gli altari di Saturno non con l’immolazione di un uomo, bensì con luci accese, poiché in greco la parola phota significa sia uomo sia luci. I romani, in conclusione, condividevano la convinzione dei greci secondo la quale sprofondare nell’acqua e schiantarsi al suolo erano gesti equivalenti. 3. La precipitazione come ordalia La precipitazione, esattamente come in Grecia, venne utilizzata come forma di ordalia sia a Roma sia in molti dei territori che i romani conquistarono. A provarlo sta una serie di fonti di varia età e di varia provenienza, tra cui un singolare e affascinante racconto di Macrobio. Secondo Macrobio, nella pianura del Simeto si trovavano due crateri profondissimi, che gli abitanti del luogo chiamavano Delloi. Questi crateri, pieni di acque biancastre ribollenti e sature di gas e di zolfo, erano considerati sacri agli dèi, il cui culto era precedente allo stanziamento greco nel territorio. Coloro che dovevano prestare giuramento solenne raggiungevano il cratere con una corona sul capo, indossando il semplice chitone, senza cintura e tenendo nelle mani un ramo fiorito. Giunti sul bordo delle acque giuravano secondo la formula scritta su una tavoletta e attendevano il responso divino. Se avevano giurato il vero, non gliene veniva alcun male. Se avevano giurato il falso, morivano. I Memorabilia dello pseudo-Aristotele riferiscono a loro volta il rito, ma con alcune modifiche: chi giurava gettava le tavolette nell’acqua. Se queste avessero galleggiato, il giuramento sarebbe stato vero. Se affondavano, era falso, e lo spergiuro doveva morire. I Memorabilia riportano il rito così come veniva compiuto in età più avanzata. Ma il ricordo dell’antica ordalia restava nelle leggende popolari, secondo le quali le acque del cratere, alzandosi e ricadendo sullo spergiuro, ne provocavano la morte. Da Festo sappiamo che un certo Terenzio di Tusco, uscì vivo dalla precipitazione dalla rupe Tarpea. La sopravvivenza, in quanto evento miracoloso, comportava la concessione al reo della grazia. La storia della precipitazione si snoda, in territorio italico, secondo linee già riscontrate in Grecia: da sacrificio a ordalia a esecuzione che punisce dei crimini religiosi. 4. La precipitazione come castigo Durante un incontro cui aveva convocato i capi delle città latine, Tarquinio il Superbo fu accusato da Turno Erdonio di voler dominare tali città. Per sbarazzarsi di lui, dopo avere fatto nascondere nella sua casa delle spade, Tarquinio lo accusò di essere lui a voler dominare il Lazio e di aver ordito una congiura per prendere il potere con le armi. Si stabilì alla fine che turno venisse ucciso. Senza un regolare giudizio e con un nuovo genere di supplizio, Turno fu gettato nell’acqua della fonte Ferentina, coperto con un graticcio carico di pietre. A quanto è dato sapere, Turno Erdonio fu l’unica vittima effettiva di questo supplizio, nonostante esso non fosse ignoto ai romani. Nel poenulus di Plauto, lo schiavo Miliphion traduce al padrone Agorastocles quanto diceva il cartaginese Annone: “attento, guardati bene dal fare quello che ti chiede” “e cosa chiede?” “che tu lo faccia stendere sotto una grata, che verrà poi coperta di grosse pietre, per metterlo a morte” Si deve pensare che il supplizio di Turno abbia origini puniche? O che esso abbia invece origini germaniche, come pensano quelli che ricordano il passo in cui Tacito afferma che i germani immergono nel fango di una palude, coperti da un graticcio, gli ignavi, gli imbelli e coloro che hanno infamemente peccato con il corpo? La ricerca dell’origine esterna può essere giustificata dal fatto che il supplizio del graticcio non compare tra quelli previsti dal diritto di Roma. Ma appena si riflette sulla simbologia dei gesti che lo compongono, esso appare tutt’altro che estraneo alla cultura dei romani. In qualche modo può richiamare più di una tra le pratiche di morte cui essi facevano ricorso. Secondo alcuni, infatti, le pietre usate per ricoprire il graticcio che sommerse Turno potrebbero ricordare la lapidazione. Secondo Livio, Turno fu deiectus nell’acqua, ma sappiamo che acqua e terra erano simbolicamente equivalenti. Secondo Dionigi di Alicarnasso, inoltre, Turno fu precipitato in una ossa che venne immediatamente colmata su di lui. Un’esecuzione sacrale, resa ancor più evidente, nel caso di Turno, sia dalla scelta del luogo in cui venne attuata, sia dalle particolarissime modalità che la caratterizzarono. La fonte Ferentina era un luogo di culto ove, secondo la testimonianza di Plutarco, vennero celebrate per secoli “cerimonie di purificazione. E il modo in cui Turno venne in essa sprofondato ricorda chiaramente un atto di culto. La grata che gli copre il capo, certamente utile al fine di sommergerlo, ma altrettanto certamente non indispensabile a questo scopo, costringe inevitabilmente a pensare al velo steso sul capo delle vittime sacrificali. Non a caso, dunque, Livio e Dionigi descrivono il supplizio di Turno come una precipitazione. L’esecuzione di Turno altro non fu che quella di chi aveva tradito la fides. Se, anziché dalla rupe Tarpea, egli fu gettato nella fonte Ferentina, fu perché non aveva tradito la città, ma la lega: era nel luogo sacro ove l’assemblea dei latini si riuniva. 5. La precipitazione e la plebe Per quali ragioni a Roma il tradimento era punito con la deiectio? La scelta della precipitazione era forse legata ai modi in cui il tradimento era perpetrato? Ripensando alla distinzione tra perduellio e proditio è possibile ipotizzare che la perduellio fosse punita con la fustigazione a morte e la proditio con la deiectio e tarpeio. L’idea della pena differenziata sembra resistere a ogni tentativo di verifica. E con essa resiste a ogni tentativo di verifica l’idea che sia possibile delineare con certezza i confini tra perduellio e proditio. Un elemento a favore dell’ipotesi che a essere precipitati fossero i proditores sembra venire dal passo in cui Seneca, descrivendo l’atteggiamento con cui, in veste di magistrato, emetterà le sentenze capitali, parla dei traditori che condannerà alla deiectio definendoli proditores. Sia Tito Livio sia valerio Massimo definiscono proditores i figli di Bruto, accusati di aver tentato di restaurare la monarchia. L’analisi delle fonti rivela una continua sovrapposizione tra le ipotesi di tradimento di volta in volta definite proditiones e perduelliones. L’unico tratto che sembra accomuniare i casi in cui il tradimento è punito con la precipitazione è il suo costante collegamento con il difficile problema dei rapporti tra patrizi e plebei, e con quello che ne discendeva dei poteri e dei diritti dei magistrati della plebe. Coriolano rischiò di essere precipitato per aver offeso i tribuni. Spurio Cassio fu precipitato per aver avanzato una proposta di legge che era dispiaciuta ai plebei non meno che ai patrizi. Il tribuno Sesto Lucilio venne gettato dalla rupe per aver tradito la plebe. La precipitazione era stata per lungo tempo strumento della lotta rivoluzionaria contro il patriziato. Già prima di essere riconosciuti come magistrati cittadini, i tribuni vi avevano fatto ricorso, a torto o a ragione, per eliminare fisicamente i loro nemici. Fino al momento imprecisato in cui la precipitazione venne formalmente vietata, il compito di eseguirla spettò ai magistrati plebei: anche quando, durante il principato, le condanne venivano emesse dal senato. A partire dal momento in cui alla plebe era stato riconosciuto il diritto di cittadinanza, chi offendeva i tribuni non ledeva più solamente gli interessi plebei. Costui provocava o rischiava di provocare una frattura tra i due ordini, metteva in discussione gli equilibri indispensabili per la pace dell’intera collettività. Era un traditore perché era venuto meno alla fides, il patto che legava i due ordini e di cui era garante Dius Fidius. Semplicissima da realizzare, la precipitazione era al tempo stesso un gesto di consolidata religiosità, che di fatto conferiva all’esecuzione un valore ben diverso da quello di un qualunque atto di violenza, e consentiva ai tribuni di non considerarsi e di non essere considerati dei comuni assassini. Quando la città riconobbe che gli atti che mettevano in pericolo la convivenza dei due ordini dovevano essere considerati tradimento, i tribuni continuarono istituzionalmente a presiedere alle deiectiones, come magistrati cittadini che eseguivano una sentenza di morte pronunziata dalla città. Cosa autorizza a sostenere che il cane, il gallo, la vipera e la scimmia erano animali prodigiosi? Un prodigium è per definizione un essere che presenta caratteristiche orrende, spaventose, inaccettabili: come pensare che fossero considerati tali animali banalissimi come il cane o il gallo?” Chiuso con questi nel sacco, il pericoloso bestiario svolgeva un duplice compito: finché il reo era in vita, lo aggrediva, lo tormentava, lo straziava con una ferocia e una disumanità pari a quella che egli aveva dimostrato quando aveva compiuto il più infame dei crimini. Dopo la morte, confondeva i suoi resti con quelli dell’uomo, in un ossario promiscuo che forse un giorno sarebbe stato sospinto su una riva più o meno lontana. E colui che avesse trovato le misere spoglie avrebbe immediatamente capito la ragione dell’esecuzione. Non tutti coloro che venivano uccisi nel culleus erano parricidi. La sommersione veniva usata anche al di fuori delle previsioni legislative, non di rado per eliminare nemici pubblici. In età postclassica si stabilì che nel culleus venissero cuciti i condannati per adulterio. Si è pensato che nel culleus dell’adultero venisse cucito un mugile, pesce notissimo per la sua mordacità e per questo tradizionalmente utilizzato dai mariti romani per infliggere una sorta di atroce contrappasso a chi aveva attentato alle virtù delle loro mogli. La cosiddetta “pena del mugile” (in realtà un semplice atto di vendetta privata) compare non di rado nelle fonti, che amano presentare la raccapricciante immagine di un adultero appeso per i piedi e “percorso dai mugili”. 2. Il supplizio di Malleolo Nelle periochae di Livio si legge che Publicio Malleolo, nel 101 a.C, avendo ucciso la madre per primo fu gettato nel mare, cucito nell’otre. “per primo” significa che fu la prima persona condannata alla poena cullei o perché fu il primo a esservi condannato per matricidio? La prima ipotesi è da scartare perché sappiamo che, sul finire della seconda guerra punica, Luio Ostio era stato condannato alla poena cullei per aver ucciso il padre. I riferimenti al culleus nelle commedie di Plauto mostrano chiaramente che il pubblico romano, già prima del 202, collegava la pena del sacco alla condanna per parricidio. È necessario seguire la storia del processo a Malleolo attraverso il racconto di Cicerone e dell’auctor ad herennium. Un tale, scrive cicerone nel de inventione, fu condannato per aver ucciso il genitore, e subito, perché non avesse possibilità di darsi alla fuga, gli furono calzati ai piedi degli zoccoli di legno, gli fu avvolto il viso in un sacchetto di pelle di lupo e fu condotto in carcere, in attesa che fosse preparato il culleus, chiuso nel quale sarebbe stato gettato in un corso d’acqua. Il racconto dell’Auctor ad Herennium dice invece: “Malleolo fu giudicato per aver ucciso la madre. Immediatamente dopo la condanna, il viso gli fu avvolto in una pelle di lupo, gli furono fatti calzare degli zoccoli di legno e fu condotto in carcere”. Zoccoli di legno ai piedi, cappuccio di pelle di lupo: tra la condanna a morte e la sua esecuzione la poena cullei prevedeva anche questi due singolari adempimenti. A cosa servivano il cappuccio e gli zoccoli? Secondo Cicerone, a impedire la fuga del condannato, ma questa interpretazione lascia enormi perplessità. Più sensata appare semmai l’interpretazione simbolica, che fa riferimento alla ferocia del lupo: con il viso coperto da una sorta di maschera lupina, il parricida assumeva l’aspetto di una belva, svelando l’animo crudele e disumano che aveva dimostrato di possedere. Neppure questa interpretazione è sufficiente a spiegare le ragioni del rito. Il cappuccio di pelle lupina ha origini e funzioni ben più antiche e complesse di quanto si sia soliti pensare. Per capire quali siano, bisogna partire da un episodio dell’Iliade. 2.1 Travestirsi da lupo: la spedizione di Dolone Nel decimo canto dell’iliade, Dolone si copre con una pelle di lupo. Questo tipo di travestimento aveva un significato religioso. Dolone descrive un travestimento che non è solamente un’astuzia: il mito greco rivela chiaramente che il lupo è un animale iniziatico. A dimostrarlo basterà il riferimento al mito di Licaone. Figlio di Pelasgo e re d’Arcadia, Licaone ricevette un giorno la visita di Zeus, che aveva chiesto la sua ospitalità per scoprire se e fino a che punto fosse meritata la fama di empietà di cui ovunque godeva. Ma Licaone, a sua volta, voleva essere certo che il misterioso ospite fosse veramente un dio: dopo aver sgozzato un bambino, quindi, mescolò le sue viscere a quelle delle vittime animali e imbandì con esse il pasto sacrificale. Di fronte al gesto che confermava i suoi sospetti, Zeus decise di far pagare a Licaone il fio delle sue colpe trasformandolo in lupo. Diventare lupo significava far parte di un gruppo iniziatico, quale per esempio a Roma quello dei Luperci, voleva dire vivere allo stato selvaggio, in modo analogo a quello in cui, a Sparta, vivevano i giovani spartiati nel periodo della krypteia. Travestirsi da lupo, insomma, era un rito di passaggio. Nel caso del condannato alla poena cullei, la pelle di lupo sul capo e sul volto stesse a significare il passaggio del parricida al di là dei confini della società umana. Il valore iniziatico del travestimento lupino è una spiegazione capace di rendere conto dell’inusitato cerimoniale: originariamente il parricida veniva punito con la trasformazione in lupo. Veniva, cioè, cancellato dal numero degli esseri umani, espulso dal consorzio civile. 2.2 Gli zoccoli del parricida Oltre a indossare la pelle di lupo sul capo, il parricida doveva calzare degli zoccoli di legno. Il legno aveva capacità ed effetti ben precisi: esso impediva che un oggetto o un individuo impuro diffondessero gli influssi malefici che portavano in sé. Era materiale isolante. Costringere il parricida a camminare sulle soleae ligneae significava dunque impedirgli di sporcare la terra con il suo contatto, di propalare il male che era in lui, di contagiare il suolo della città e con esso i suoi abitanti. Il fatto che si facessero calzare al parricida le soleae ligneae sembra fornire un primo elemento a favore dell’ipotesi che egli fosse considerato un essere “portentoso” da eliminare e con il quale, sino al momento della sua eliminazione, bisognava evitare qualsiasi contatto: l’ipotesi che la poena cullei fosse una procuratio prodigii (vale a dire una cerimonia volta a eliminare un mostro, più che a punire un reo) comincia a profilarsi come tutt’altro che priva di fondamento. 3. Le verghe colore del sangue Prima di essere chiuso nell’otre e gettato nelle acque, il parricida doveva essere frustato con verghe sanguineae. Perché le verghe che colpivano il parricida dovevano essere color del sangue? Le verghe sono definite sanguineae nel momento in cui se ne prescrive l'uso: evidentemente dovevano essere rosse nel momento in cui venivano adibite alla fustigazione, e non al termine di questa. Da tempo qualcuno sostiene la necessita di correggere il testo e, al posto si sanguineae, sarebbe opportuno leggere sagmineae, ossia fatte di sgamen, quegli arbusti che i feziali portavano con sé come segno e garanzia della loro inviolabilità. Accanto a sagmineae è stata proposta anche la lettura salgineae, ossia fatte di salice. Sanguineus è un termine diffuso, che appartiene sia al campo semantico della botanica sia a quello della magia. I romani, infatti, definivano sanguinei frutices il corniolo, un arbusto al quale venivano attribuite proprietà mediche e magiche: le verghe fatte con il legno dei sanguinei frutices servivano a scarificare le ferite curate troppo frettolosamente. La ragione per la quale le virgae sanguineae venivano usate per fustigare il parricida risulta dalla notizia, fornita da Macrobio, che la cornus sanguinea apparteneva al numero degli alberi infelici, con i quali “conviene ordinare che vengano bruciati i portenta e i cattivi prodigi”. Secondo una legge attribuita a Romolo e riportata da Dionigi di Alicarnasso, era consentito uccidere il neonato anaperon (malformato, mutilato) o quello che aveva le caratteristiche di un teras, vale a dire di un monstrum. A questo punto è necessario capire cosa si intendeva esattamente per monstrum. Secondo un’ipotesi che risale a G.B. Vico, in questo caso i mostri erano i figli nati fuori del matrimonio: “mostri civili”. se è indiscutibile che dei figli illegittimi ci si sbarazzasse spesso e volentieri uccidendoli o abbandonandoli, i monstra cui alludono le disposizioni erano altra cosa: erano esseri la cui deformità era tale da indurre a considerarli “prodigi funesti” (prodigia mala). Qualcosa di diverso, dunque, dai neonati deformi di cui parla Cicerone, quando riferisce la regola secondo la quale l’“insignis ad deformitatem puer” doveva essere ucciso. I monstra erano esseri che non avevano quasi sembianze umane e che, come dice Ulpiano, erano più simili a un animale che a un uomo. Per evitare la diffusione del contagio che era in loro, i monstra dovevano essere allontanati dal consorzio umano e civile in modo definitivo e irreversibile. Più precisamente andavano sommersi, esattamente come gli androgini, considerati mostri per eccellenza. La poena cullei comprendeva una cerimonia purificatoria. Il parricida, prima di essere cucito nell’otre, veniva fustigato con verghe ricavate da infelicia ligna: evidentemente si trattava di qualcosa di diverso dalla fustigazione che precedeva abitualmente l’esecuzione. In Grecia si usava trasferire la contaminazione su dei “capri espiatori”, che quindi venivano eliminati. E il modo per trasferire il male su di loro e farlo perire con loro era la fustigazione con rami magici: così accadeva ai pharmakoi ateniesi. 3.1 L’aria, la terra, l’acqua e il parricida Prima di iniziare il viaggio verso le acque che lo avrebbero ricevuto, il parricida veniva cucito nel cuellus. Il parricida non veniva privato solamente della sepoltura, dunque, ma anche e soprattutto (già da vivo) del contatto con gli elementi: l’aria, la terra, l’acqua. Nel linguaggio più burocratico delle costituzioni imperiali questa privazione è considerata la ragion d’essere del culleus. Nel momento in cui si cominciò a utilizzare il sacco, esso non serviva a privare il parricida dell’uso degli elementi: serviva, invece, a proteggere l’aria, l’acqua e la terra dal contatto con il parricida. Cicerone non aveva del tutto dimenticato la funzione originaria del culleus: coloro che istituirono la pena per i parricidi, egli scrive, “non vollero dare il corpo alle belve, perché non ci trovassimo poi di fronte ad animali resi ancor più feroci dal contatto con tale scelus; non vollero gettarli nudi nel fiume, affinché, giunti al mare, non lo contaminassero. Secondo Quintiliano il parricida doveva avere per legge il volto coperto affinché “i tetri occhi non contaminassero la bella vista del cielo. L’idea che il culleus servisse a impedire al cadavere del parricida di trovare riposo negli abissi del mare o sulla terra si affermò solo quando la consapevolezza della funzione originaria del culleus andò perduta, sostituita dall’idea che esso fosse una pena, qual era effettivamente e indiscutibilmente divenuto. Ma il ricordo della sua funzione primitiva conferma inequivocabilmente la natura di monstrum del parricida. La consacrazione agli dèi Una delle sanzioni più antiche previste dalla civitas era la dichiarazione di “sacertà” del reo, vale a dire la sua consacrazione agli dèi. E di regola si afferma che la dichiarazione di sacertà equivaleva a una condanna a morte. Qual era il modo in cui l’homo sacer perdeva la vita? Bisogna individuare i comportamenti criminosi di fronte ai quali la civitas riteneva di irrogare una pena il cui carattere religioso non emerge dalle modalità del supplizio, ma è reso esplicito dalla stessa formula di condanna. 1. Le ipotesi criminose colpite da sacertà Sul cippo marmoreo rinvenuto nel comitium è leggibile il testo di una lex regia. La legge prevedeva la sanzione a carico di coloro che avevano violato i luoghi sacri o i sacri confini. Il re Numa, scrive Dionigi di Alicarnasso, ordinò a tutti i cittadini di delimitare i confini dei propri campi ponendovi delle pietre e consacrandole a Zeus Horios (Giove Terminus), e stabilì che “se qualcuno avesse tolto o spostato i confini (horoi) fosse sacro al dio. Che la violazione dei confini fosse sanzionata dalla dichiarazione di sacertà è confermato da una legge riportata da Festo: “colui che, arando, abbia sconfinato nel terreno altrui sia sacro, insieme ai buoi”. La violazione di tutti i confini era colpita dalla sanzione della sacertà. (con il rischio, sia pur estremamente ridotto, che avesse salva la vita), e che tenessero a mostrare a tutta la civitas che il colpevole aveva pagato per loro mano il fio delle sue colpe. La precipitazione dalla rupe Tarpea, in questo caso, non era un’esecuzione specificamente prevista dalla legge, era solo il modo in cui di fatto i tribuni, con un gesto che era stato tradizionalmente una delle loro forme di lotta, uccidevano impunemente l’homo sacer, come del resto avrebbe potuto fare qualunque cittadino. La legge sul patronato conferma esplicitamente la validità della nostra interpretazione. Essa, infatti, stabiliva che i clienti e i patroni infedeli fossero consacrati a Giove e che chiunque potesse ucciderli. “Chiunque” vuol dire, evidentemente, che il reo, con la condanna, veniva messo al bando. E il diritto della città, di conseguenza, non puniva colui che eventualmente decideva di ucciderlo. LA VENDETTA Cultura e pratica della vendetta In una società preletterata la vendetta può avere un ruolo così determinante da rappresentare uno degli strumenti più potenti di regolamentazione dei rapporti sociali. E ovviamente, là dove la vendetta ha svolto un simile ruolo, essa continua a segnare la mentalità di questa società e le sue pratiche di relazione anche nell’epoca in cui, divenuto un gruppo politico, la società si sia preoccupata di sottoporre a controllo l’uso della forza fisica privata, talvolta vietandola radicalmente. L’assenza di fonti capaci di rivelare l’organizzazione e la mentalità precivica rende la situazione dello storico di Roma assai più problematica di quella dello storico greco: lo storico di Roma non ha a sua disposizione l’Iliade e l’Odissea. Ma questo non gli impedisce di constatare che l’istinto e la pratica della vendetta erano profondamente radicati nella cultura romana, e non solo in quella dei primi secoli. Anche quando la vendetta era stata ormai vietata, l’idea che la pena servisse a dare soddisfazione sociale e conforto psicologico a chi aveva subìto un torto permane inalterata, ed è non di rado teorizzata esplicitamente. La coscienza sociale considerava la vendetta una pratica nobile e valutava la sua attuazione come prova del coraggio e dell’onore di chi vi aveva fatto ricorso, anche quando la sola vendetta consentita era ormai quella legale, ottenuta attraverso la pubblica esecuzione di una sentenza capitale. Non a caso era stato eccezionalmente riconosciuto alle donne il diritto di accusare in giudizio chi avesse ucciso i loro genitori: esercitando questo diritto esse potevano evitare che un simile crimine restasse invendicato. E se facevano questo, esse acquistavano fama imperitura. Il dovere di non lasciare invendicata la morte dei parenti più stretti (nonché quella dei patroni) aveva inoltre indotto a derogare alla regola secondo la quale i minori e coloro che erano stati condannati in un processo pubblico non potevano intentare azioni criminali. E la sanzione che colpiva coloro che avevano ignobilmente trascurato di vendicare la morte dei propri cari non era solo sociale. Tra le cause di indegnità a succedere, stava quella di non aver perseguito in giudizio i loro eventuali assassini. Se accadeva che qualcuno si facesse vendetta di propria mano, senza ricorrere alla mediazione della civitas, non mancava chi riteneva questa vendetta assai più onorevole di quella legale. Farsi vendetta personalmente era stato vietato da tempo. Cosa accadeva a chi ignorava il divieto? Teoricamente, chi uccideva per vendetta doveva essere condannato come assassino. Ma non sempre era così. Torna alla mente la storia delle due donne ambustae: accusate in un pubblico processo, né condannate né assolte. La prima aveva ucciso a bastonate la madre, spinta dal dolore per la morte del figlio avvelenato dalla di lei madre, l’aveva uccisa per vendicarlo. La seconda, invece, aveva ucciso il secondo marito e il figlio avuto da questo per vendicare la morte del figlio di primo letto, ucciso da costoro. Gli exempla di Valerio Massimo sono scelti accuratamente, selezionati con criteri ben precisi e con intenti chiarissimi. Evidentemente egli voleva segnalare che persino gli omicidi più efferati, quando erano dettati da una motivazione così nobile, non meritavano condanna. Se la vendetta era stata vietata, esistevano dei casi in cui, sia pur eccezionalmente, essa poteva continuare a essere esercitata. La lex Iulia de adulteriis di Augusto, del 18 a.C., aveva stabilito che a determinate condizioni il padre e il marito potessero uccidere l’amante della figlia e della moglie senza incorrere in alcuna sanzione: di nuovo, questa licenza di uccidere altro non era che la legalizzazione, sia pur eccezionale, della vendetta. Quel che è certo è che molti mariti, se non arrivavano a uccidere il complice della moglie, si abbandonavano a vendette diverse, attuate infliggendo a chi li aveva offesi delle torture certamente vietate dalla legge, ma consentite dalla prassi. Grazie alla testimonianza di autori diversi, come Orazio, Marziale, Valerio Massimo, Quintiliano, Apuleio o Aulo Gellio, veniamo a sapere di ardenti e baldanzosi amanti sottoposti alla terribile e infamante pena del rafano e del mugile, di seduttori più o meno professionali la cui carriera era stata messa a serio rischio dal taglio del naso. Tornando alle vendette autorizzate dal diritto, significativa è la storia del diritto di uccidere l’amante della moglie. Secondo la lex Iulia, il marito poteva uccidere l’amante della moglie solo se lo sorprendeva in flagrante all’interno della sua casa, e solo se l’amante era schiavo o appartenente alle classi sociali più basse. Infine, qualora sussistessero tutte queste condizioni, la legge subordinava l’impunità maritale a un adempimento successivo all’uccisione: entro tre giorni dalla medesima, il marito doveva informare dell’accaduto il magistrato territorialmente competente. Ma con il trascorrere dei secoli i limiti dell’impunità maritale, anziché restringersi, andarono progressivamente estendendosi. Per volere di Marco Aurelio e Commodo, il marito che avesse ucciso l’amante della moglie al di fuori delle condizioni richieste dalla legge non veniva punito come omicida, ma subiva una pena più lieve. Il iustus dolor del marito, infatti, vale a dire il suo giusto desiderio di vendetta, giustificava in larga misura la sua azione. La cultura della vendetta, dunque, non caratterizzò solo la Roma dei primi secoli, ma continuò a svolgere un ruolo tutt’altro che secondario nella società romana per tutto il corso del suo sviluppo. E non solo nei rapporti privati. Accanto alla vendetta privata esisteva la vendetta pubblica, che la civitas riteneva di dover compiere nei confronti dei nemici, dei traditori, degli amici o degli alleati infedeli. La vendetta pubblica 1. Il supplizio di Mezio Fufezio Racconta Livio, nel primo libro delle Storie, che Mezio Fufezio, dittatore di Alba, concluse la pace col re Tullo Ostilio e si alleò con i romani. Ma era un alleato tutt’altro che leale. Nascostamente, infatti, egli istigava i popoli vicini alla ribellione. E così accadde che gli abitanti di Fidene, contando sulle sue promesse di appoggio, si allearono ai veienti e dichiararono guerra a Roma. Il re Tullo, allora, chiamò in aiuto Mezio, che ovviamente e inevitabilmente si schierò al suo fianco. Ma in battaglia non si comportò come un alleato. Egli aveva deciso di prendere tempo, di vedere come la battaglia si sarebbe svolta e, al momento opportuno, di schierarsi dalla parte dei vincitori. Stupiti e disorientati dal suo comportamento, i romani avvertirono il re di quanto stava accadendo. Dopo aver fatto voto di istituire un nuovo collegio sacerdotale e di fondare un tempio dedicato a Pallore e Terrore, Tullo dichiarò a gran voce che gli alleati stavano compiendo, dietro suo ordine, una manovra di aggiramento. I fidenati allora, che comprendevano la lingua dei romani, furono presi dal panico e si diedero alla fuga. Roma aveva vinto la guerra e Mezio, convinto che la sua manovra fosse passata inosservata, si presentò al re, complimentandosi con lui per la vittoria. Il re lo ringraziò e gli ordinò di unire il suo accampamento a quello dei romani. Sempre più convinto che il suo atteggiamento non avesse destato alcun sospetto, Mezio eseguì gli ordini, e il mattino seguente si recò con i suoi all’assemblea convocata da Tullo. E qui, finalmente, il re di Roma smascherò pubblicamente il traditore. Dopo aver ordinato che gli alleati prendessero i posti centrali, così che potessero essere facilmente circondati, Tullo parlò ai suoi soldati e a Mezio: “Come, dunque, hai tenuto l’animo diviso tra la fortuna fidenate e quella romana, ora sarà il tuo corpo a essere diviso”. E a questo punto, fatte avanzare due quadrighe, fece legare a queste le estremità di Mezio e spronò i cavalli in opposte direzioni, così che questi “si portarono via il corpo, squarciato là dove le membra erano state avvinte, su ciascuno dei carri”. Un’applicazione minuziosa e accurata della vendetta2 che resterà a lungo nel ricordo dei romani. Il supplizio di Mezio non poteva non sollevare discussioni contenute nel XX libro delle Notti attiche di Aulo Gellio. Nel corso della disputa tra Cecilio e Favorino, infatti, il giurista, sostenendo che la pena aveva funzione deterrente, citava a supporto della sua tesi il supplizio di Mezio. Ma Favorino ribatteva che questo supplizio, semmai, dimostrava la tesi da lui sostenuta, quella secondo la quale la pena altro non era che vendetta. Il supplizio inflitto a Mezio fu una vendetta pubblica, attuata dal re per conto della collettività. A volte, poteva anche accadere che l’esercizio della vendetta pubblica venisse delegato dalla civitas a dei privati, considerati più legittimati di altri a compierla: più precisamente, poteva accadere che esso venisse affidato ai parenti di chi per la civitas aveva perduto la vita. 2. Vendicare Attilio Regolo Narra Tuditano, che quando a Roma si venne a sapere della morte di Attilio Regolo, il senato consegnò i più nobili tra i prigionieri ai figli di costui, perché ne vendicassero la morte. Vendetta fu fatta per mano della vedova dell’eroe. Ricevuti gli ostaggi cartaginesi in consegna, costei avrebbe legato uno di questi, Amilcare, ancora vivo, al cadavere del compagno Bodostare. Un supplizio che, a quanto pare, a Roma fu applicato solo in questo caso, ma che non fu, tuttavia, un’invenzione della vendicativa signora. A questa pratica, infatti, fanno riferimento sia Virgilio sia Valerio Massimo. Valerio Massimo ritiene si trattasse di un supplizio etrusco ma più interessante è il resoconto di Gellio. Secondo una delle versioni della sua storia, Attilio Regolo era stato sottoposto a una tortura realizzata cucendo le sue palpebre, esponendolo ai dardi del sole più accecante e lasciandolo morire straziato dalla mancanza di sonno. Ed ecco il racconto della vendetta: “I più nobili tra i prigionieri cartaginesi furono consegnati dal Senato ai figli di Regolo, e chiusi in una botte irta di chiodi acuminatissimi morirono tormentati dalla stessa insonnia”. Una vendetta non solo crudele, ma minuziosa, attenta ai particolari. Un supplizio che rivela l’abitudine a una prassi vendicativa applicata secondo forme che rispondevano a regole tutt’altro che improvvisate o estemporanee, che valutavano i gesti, che misuravano le sofferenze, le confrontavano, volevano che fossero non solo equivalenti nella misura, ma simbolicamente tali da riprodurre le modalità con le quali il male era stato inflitto. La vendetta privata e la sua utilizzazione in funzione di pena cittadina La storia romana e quella greca rivelano che il controllo della vendetta fu una delle prime preoccupazioni della civitas. Ed evidenziano quali furono i passi che la civitas compì per realizzare questo obiettivo. - Il primo di essi fu quello di individuare i casi nei quali la vendetta poteva essere fatta. - Il secondo fu quello di stabilire che in alcuni casi la vendetta non era solo un atto autorizzato, ma anche dovuto. - Il terzo passo fu quello di stabilire che la reazione doveva essere proporzionata all’offesa subita, e di riservarsi il diritto di individuare la misura della risposta consentita per ciascuno dei delitti che legittimavano la vendetta. Quali erano questi delitti? l’omicidio, alcuni tipi di furto e alcune ipotesi di lesioni personali. Delitti di diversa gravità, puniti con pene-vendette di tipo minore, e cioè le lesioni personali definite come membri ruptio. Le dodici tavole stabilivano: “subisca il taglione, a meno che la vittima non accetti una composizione pecuniaria”. In che cosa consisteva il taglione, come veniva applicato, dove e a opera di chi? Il taglione scrive Isidoro, è simile alla vendetta ed è strutturato in modo che uno subisca quello che a fatto. Il taglione risulta essere una vendetta regolamentata in riferimento all’entità del male che può essere inflitto all’offensore. La regola del taglione può derivare da una pratica sociale spontanea e tradursi in una regola consuetudinaria che limita la vendetta ancor prima che lo Stato nasca. A stabilire il taglione può essere lo stato. Come esempio di regolamentazione legislativa del taglione bisogna ricordare quella alla quale, nel racconto di Demostene, fecero ricorso gli abitanti di Locri Epizefiri: a Locri, ove per le lesioni personali vigeva la legge del taglione, si stabilì per legge che, se un monocolo avesse privato di un occhio un concittadino, non lo si potesse privare dell’unico occhio di cui disponeva. Così facendo, infatti, gli si sarebbe fatto subire un male maggiore di quello da lui provocato. La diffusione della legge del taglione nel mondo antico sta a rivelare la minuziosità estrema con cui si riteneva di dover valutare l’equivalenza tra il male inflitto e quello subito. ucciso “imprudens” non poteva essere messo a morte dai parenti della vittima. Tutto quel che si poteva pretendere da lui era che consegnasse un ariete. A confermare l’esistenza di questa regola sta anche una norma delle Dodici Tavole, che con riferimento a un’ipotesi specifica di omicidio involontario, relativa all’uso delle armi, stabiliva: “Se il dardo sfuggì di mano, più che essere lanciato, venga offerto un ariete. L’ariete aveva quindi funzione di piaculum, vale a dire di offerta espiatoria. Tra i crimini che turbavano la pax deorum, infatti, alcuni erano ritenuti “inespiabili”, altri “espiabili”. Quelli inespiabili richiedevano la morte di chi li aveva commessi. Gli altri, invece, potevano essere espiati con un sacrificio sostitutivo, quale, nella specie, il sacrificio di un ariete. La funzione dell’ariete era quella di rimuovere la maledizione divina. Che il sacrificio dell’ariete avesse la funzione di ristabilire la pax deorum sembra dunque innegabile: ma questo non significa, tuttavia, che esso avesse solamente questa funzione. La legge di Numa stabiliva che la vittima sacrificale sostitutiva dovesse essere consegnata ai parenti della vittima dinanzi al popolo riunito. La pubblica consegna apparirebbe del tutto priva di logica se il sacrificio dell’ariete avesse avuto solo funzione espiatoria. Evidentemente, accanto alla funzione di vittima sostitutiva, l’ariete aveva anche quella di poine: era la riparazione sostitutiva che consentiva ai parenti della vittima di ricevere quella soddisfazione che il divieto di farsi vendetta impediva loro di prendersi personalmente, ma di cui la civitas non li aveva completamente privati. I parenti della vittima, dopo averlo ricevuto, provvedevano personalmente a sacrificarlo; mentre compivano un rito religioso nell’interesse della civitas, essi ottenevano anche la soddisfazione psicologica di mettere a morte, di loro mano, una vittima che rappresentava simbolicamente chi era stato causa del loro dolore. Grazie alla consegna e al sacrificio dell’ariete, le due esigenze che avevano da sempre spinto a fare vendetta continuavano a essere soddisfatte. Nel regolare il ricorso alla forza fisica da parte dei privati (nel caso dell’omicidio involontario, nell’escludere che vi si potesse fare ricorso), la città si preoccupò di non privare i parenti delle vittime di un qualche ruolo attivo, concreto, che consentisse la loro partecipazione alla punizione del reo. A differenza della legge sull’omicidio involontario, chiaramente ispirata anche alla necessità di placare l’ira divina, quella sull’omicidio volontario sembra ignorare una simile esigenza. Solo l’accostamento tra le due leggi permette di sapere che l’omicidio era considerato uno scelus, a seconda dei casi inespiabile o espiabile. A Roma, sin dalle origini dell’organizzazione cittadina, l’omicidio era considerato un illecito che turbava la pax deorum, e la vendetta si colorava di conseguenza di un carattere sacrale che rendeva duplicemente indispensabile la morte dell’omicida: egli doveva morire sia per compensare socialmente e psicologicamente i parenti dell’ucciso, sia per purificare la città, espiando lo scelus e allontanando l’ira divina. 4. La punizione del furto: il ladro notturno e quello che si difende con le armi Una norma delle Dodici Tavole stabiliva che, se qualcuno avesse ucciso un ladro sorpreso a rubare di notte, l’uccisione di questi fosse legittima. Anche nel caso del furto, la città aveva stabilito che la vendetta poteva essere esercitata solo in ipotesi di particolare gravità, che in questo caso non si qualificavano come tali per la presenza di un atteggiamento più o meno colpevole della volontà. Nel caso del furto, la maggior gravità del reato discendeva dalle circostanze o dalle modalità in cui il delitto era stato compiuto e il ladro era stato scoperto. Il rubare nottetempo era considerato indice di un atteggiamento particolarmente antisociale: e questa antisocialità giustificava l’esercizio immediato della forza fisica. Ma in alcuni casi anche chi rubava di giorno poteva essere ucciso: più precisamente, poteva essere ucciso qualora, scoperto in flagrante, si difendesse ricorrendo alle armi. Così stabiliva, infatti, un’altra norma decemvirale, che sottoponeva la legittimità della reazione omicida a una condizione: chi sorprendeva il ladro doveva plorare, vale a dire doveva “chiamare a gran voce” i vicini perché lo aiutassero e, soprattutto, perché testimoniassero che il ladro scoperto sul fatto si era difeso con le armi. Il semplice fatto che il ladro fosse armato non giustificava la sua uccisione. Perché questa fosse giustificata, egli doveva far ricorso a un’arma, indicata dalla legge come una “freccia”. Nel caso del fur nocturnus la norma che autorizzava la vendetta, trasformandola in pena cittadina era determinata dall’impossibilità di tollerare un atteggiamento considerato di particolare antisocialità. Nel caso del ladro che si difende con le armi, invece, essa era dettata dalla necessità di tutelare il derubato da un pericolo reale e concreto. Con riferimento al furto notturno, si può leggere in un passo di Gaio che l’uccisione del ladro era consentita solo se il derubato aveva “testificato con clamore”, ossia aveva chiamato a gran voce dei testimoni. Gli altri testi in nostro possesso richiedono questa formalità solo per la messa a morte del ladro che si difende a mano armata. Evidentemente, dunque, siamo di fronte a una restrizione del diritto di uccidere, successiva alle Dodici Tavole. Regolamentazione delle altre ipotesi di furto flagrante: Se non rubava di notte, o se rubando di giorno, non si difendeva a mano armata, il ladro sorpreso in flagrante non poteva essere ucciso, a meno che non fosse di condizione servile: nel qual caso veniva precipitato dalla rupe Tarpea. Se era libero, invece, egli veniva fustigato e assegnato al derubato, che disponeva di lui come di uno schiavo. Tornando ai casi in cui il furto legittimava l’uccisione del ladro: in questi casi la vendetta veniva autorizzata e legittimata dalla civitas, ma non veniva imposta. Chi sorprendeva il ladro, se voleva, poteva accettare una compensazione in denaro, grazie alla quale il ladro evitava la morte. Come scrive Ulpiano, infatti, la legge permette di accettare una pactio per i furti. La formula che in questi casi consentiva la vendetta di sangue, infatti, suonava “sia ucciso legittimamente”. E “sia ucciso legittimamente” significava, appunto, che il ladro poteva, non che doveva essere ucciso. La regola, in altri termini, considerava “legittima” l’uccisione del ladro, ma non la rendeva obbligatoria. Il furto era un delitto laico. La civitas, pertanto, non aveva alcuna ragione di imporre l’uccisione del ladro. Quel che le interessava era solo controllare la vendetta di sangue, riaffermando, anche in questo caso, il suo diritto esclusivo di stabilire quali erano i comportamenti che meritavano la morte. Così come la pena del taglione prevista per le lesioni personali, la pena di morte inflitta ai ladri rivela in modo ancor più evidente e immediato delle norme sull’omicidio i modi in cui la città, controllando progressivamente l’uso della forza privata, trasformò i vendicatori privati in “agenti” autorizzati a usare la forza in nome e per conto della collettività. Le vittime del furto continuavano a ottenere la soddisfazione sociale e psicologica cui ritenevano di avere diritto: e al tempo stesso, nel far questo, affermavano il principio che il furto, così come l’omicidio, era un comportamento intollerabile per l’intero corpo sociale, di fronte al quale era interesse comune reagire, infliggendo un male al trasgressore per il bene di tutti. La loro vendetta era una pena cittadina.
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