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I SUPPLIZI CAPITALI IN GRECIA E A ROMA - EVA CANTARELLA, Sintesi del corso di Diritto

RIASSUNTO dell'intero libro de "I supplizi capitali" di Eva Cantarella - a Grecia e a Roma

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Scarica I SUPPLIZI CAPITALI IN GRECIA E A ROMA - EVA CANTARELLA e più Sintesi del corso in PDF di Diritto solo su Docsity! 1 I supplizi capitali in Grecia e a Roma Per ricercare informazioni sulla pena di morte in Grecia bisogna rivolgersi ai poemi omerici, fonte complessa e difficoltosa soprattutto se si intende utilizzarla come documento storico. Ma con le opportune cautele metodologiche l’Iliade e l’Odissea possano essere considerate come tali. A partire da ciò, la società omerica era divisa in sfera pubblica e privata ed erano due mondi diversi, organizzata seconde regole proprie e distinte e i supplizi, nel mondo dei poemi, non venivano inflitti nelle piazze ma nelle case per il diverso livello di organizzazione del pubblico e del privato. Le istituzioni pubbliche che regolavano la vita dell’intera comunità (al cui centro stava l’assemblea popolare, detta “agore” come la piazza in cui si riunivano) erano caratterizzate da una notevole “fluidità”. Di fatti, gli organi pubblici, a cominciare dall’assemblea per giungere al cosiddetto re “basileus” passando attraverso il consiglio degli anziani (i “gerontes” che si riunivano nella “boule”), avevano caratteri istituzionali ancora imprecisi. Ma se non esisteva chi infliggeva la pena di morte “in piazza”, esisteva chi la infliggeva in casa , cioè il “capofamiglia” (anax oikoio, “sovrano della casa”), titolare di una potestà personale assoluta e illimitata sugli appartenenti del gruppo e possedeva il diritto di mettere a morte chi non sopportava la sua autorità. Parte Prima: IL CASTIGO I: Il castigo nelle case dei vivi La casa (oikos) più celebre dei poemi omerici è quella di Odisseo con moglie, figlio, una vecchia nutrice e le ancelle addette al servizio domestico e personale dei padroni e dipendenti che si occupavano di custodire e pascolare greggi. Tutti costoro erano accomunati dal fatto che se avessero infranto le norme sarebbe spettato a Odisseo, re di Itaca, punirli. 1. In casa di Odisseo: l’impiccagione delle ancelle infedeli Infatti, dopo la sua assenza ventennale Odisseo sottopone a castighi severissimi coloro che hanno tradito la sua fiducia: a cominciare dalle ancelle. Esse avevano assecondato i pretendenti alla mano di Penelope che banchettavano nella casa di Odisseo in sua assenza e le ancelle si unirono sessualmente a loro. Furono infedeli alla casa e infedeli al padrone. Il castigo che meritavano era la morte. Odisseo scelse l’impiccagione, ma perché? In Grecia l’impiccagione a morte è tipicamente femminile, sia quando è inflitta come punizione, sia come scelta di morte dalle donne stesse. Ma quel che a noi più interessa sono le numerose impiccagioni di vergini il cui ricordo torna nei miti e nei riti di molte zone della Grecia: apprendendo di questi miti e di questi riti aiuta a chiarire le regole che presiedevano alla morte delle donne. 2. Divulgazioni sulla morte tra rito, mito e pratica punitiva 2.1. In altalena o impiccate: le Kariatidi, Charila, Aletis – Erigone A Karyai, in Arcadia, il culto di Artemide era caratterizzato da cori e danze di vergini spartane. Il rito ricordava un avvenimento drammatico: mentre giocavano, le vergini si impiccarono a un noce, temendo un pericolo. Esse temevano un ratto o una violenza maschile. La festa arcadica celebra un’impiccagione femminile. 2 E altrettanto fa la festa delfica Charila, descritta da Plutarco. Charila era una povera orfanella che durante una carestia chiese del cibo al re fu da questi scacciata e colpita col sandalo. Charila, tanto povera quanto fiera, si impiccò appendendosi alla cintura. La carestia si aggravò e si aggiunse una epimedia tanto grave da interrogare l’oracolo. Questi rispose che bisognava espiare la morte di Charila, e da quel momento , ogni otto anni, si celebrò una festa durante la quale, ilre, dopoa ver distributio legumi e farina, colpiva col sandalo una bambola che raffigurava Charila. In Tessaglia, a Melitea, un tiranno di nome Tartaro faceva condurre al suo palazzo e qui le violentava. Una di esse, Aspalis, riuscì a evitare l’ostaggio impiccandosi. Suo fratello Astigite era deciso a vendicarla, indossò le sue vesti e pugnalò Tartaro. Il popolo buttò il tiranno nel fiume che prese il suo nome e Astigite divenne tiranno. IL corpo di Aspalis era scomparso e per ricordare l’evento, le vergini del luogo sacrificavano un capro, impiccandolo come Aspalis. Ad Atene, invece, in cui si celebrava il rito delle pentole(chytroi), in cui veniva preparato un cibo speciale, la panspermia, un miscuglio di cereali messi a bagno nel miele. Durante la cerimonia le ragazze andavano in altalena. Perché? Quando Oreste, per vendicare il padre, uccise Egesto e Clitemnestra, la figlia di costoro (Erigone) pose fino ai suoi giorni impiccandosi, ma accadde un fatto strano: le vergini ateniesi iniziarono a impiccarsi , e la città si stava svuotando da fanciulle da marito. L’oracolo di Apollo risolse il problema suggerendo di costruire delle altalene, che avrebbero simulato il dondolare sospeso nell’aria come chi si impiccava ma senza perdere la vita. Potrebbero esserci dei collegamenti tra i miti e le iniziazioni femminili. Spesso i riti di passaggio da una classe di età a quella successiva sono stati e sono costantemente accompagnati da un periodo di separazione caratterizzato da un simbolismo di morte. Per esempio, il passaggio dall’età impubere all’età pubere l’adolescente muore simbolicamente per essere sostituito da un nuovo individuo. (un uomo diventa capace di combattere e un cittadino, la donna diventa capace di contrarre un matrimonio. Dunque un individuo muore per la classe sociale di età dalla quale esce, e entra e rinasce in una collocazione sociale nuova. Ebbene, i miti di impiccagione riflettono la struttura di questi riti: 1. Come a Karyai le vergini impiccate all’albero risorgono sotto forma di noci anche in Tessaglia, al posto di Aspalis appare un nuovo corpo che viene onorato come se fosse il suo anche se non lo è. In ambedue i casi vi è una morte e una resurrezione, in una forma nuova, simboleggia il cambiamento di status della fanciulla e segnala il suo ruolo sociale. 2. Solo nel mito di Charila, non si riflette questo schema: non risorge. Ma la festa che celebra la storia di Charila è connessa alla festa delfica “Herois”, che rappresenterebbe la rinascita di Semele a detta di Plutarco. Vi è dunque la discesa della bambola sottoterra e poi la risalita. 5 1.La punizione dei ladri Odisseo, nell’ade, incontra alcuni personaggi ai quali gli dei, per punirli, hanno riservato una sorte che rende loro la vita ultraterrena un supplizio ininterrotto: Tizio, Tantalo e Sisifo. Il poeta, narra di questi castighi in modo verosimile, cioè devono essere castighi che gli ascoltatori, nel corso della loro vita hanno visto infliggere o forse, se non sono supplizi mortali, hanno personalmente subito. Essi riconducono a una realtà sociale. 1.1 Il supplizio di Tizio, Tantalo e Sisifo I personaggi puniti nella casa dell’Ade sono 3: Tizio, colpevole di aver violato Leto, compagna di Zeus Tantalo, colpevole di aver rubato nettare e ambrosia agli dei e averli dati ai mortali Sisifo, figlio di Eolo, e padre di Odisseo. La colpa di Odisseo nei confronti di Zeus è che, quando Zeus rapì Egina, Sisifo svelò al padre chi era il rapitore. Questo fu l’inizio di una lunga vicenda e grazie alle sue astuzie, Sisifo avrebbe contrastato l decisioni divine Come sono puniti i 3? Tizio il gigante è disteso a terra tormentato da 2 avvoltoi che gli rodono il fegato. Tantalo è immerso nell’acqua, ritto in una palude, e sta all’ombra di alcuni alberi pieni di frutti, ma è condannato a fame e sete eterne e ogni volta che vuole bere o mangiare l’acqua sparisce e i frutti vengono spinti lontano dal vento fino alle nuvole. Sisifo, è condannato a spingere per l’eternità un masso in cima a un colle. Ma quando raggiunge la cima, il masso gli sfugge e precipita a valle. Dietro a questi supplizi fantasiosi, vi è il riferimento a una pena realmente praticata in Grecia. Negli scolii dell’Odissea (annotazioni scritte da lettori antichi in margine ai testi classici), la pena di Tantalo è differente: sarebbe stato appeso a una montagna con le mani legate, supplizio che ricorda quello di Melanzio (poiché oltre al tradimento aveva rubato le armi a Odisseo) e presenta delle analogie anche con il supplizio di Prometeo, altro celebre ladro. 1.2 Il supplizio di Prometeo Prometeo aveva rubato il fuoco agli dei, una colpa che meritava due punizioni divine: una collettiva e una personale. Collettiva, perché era volta a colpire tutto il genere umano, al quale Prometeo apparteneva e della cui condizione non aveva saputo accettare i limiti. Personale perché era volta a colpire lui stesso avendo infranto le regole del rapporto uomo – dio. Come pena collettiva, Zeus mandò Pandora, una donna che aveva l’immagine di una casta vergine, piena di grazia e di desiderio struggente, doni fatti dalla dea Afrodite. Ma pandora aveva ricevuto altri doni: una mente sfrontata, un’indole ambigua, un cuore pieno di menzogne e discorsi ingannatori, ovvero era un “male così bello”. Era un castigo per la razza fino a quel momento felice per gli uomini. Tuttavia, ci interessa il castigo personale di Prometeo. Come ci racconta Esodo in “Teogonia”, Prometeo è legato a una colonna e tormentato da avvoltoi che gli mangiano il fegato, il quale si riforma durante la notte per rappresentare una tortura continua (Pena che ricorda quella di Tizio che però è legato a terra, e ricorda anche quella di Tantalo che viene incatenato). E’ dunque un supplizio ricorrente. 6 Tuttavia, a noi non interessano gli elementi fantastici del supplizio di Prometeo, bensì quelli riconducibili alla realtà, forniti da Eschilo in “Prometeo incatenato”. Prometeo, condotto da “Kratos” e “Bie” (Forza e Violenza) ai confini del mondo fu incatenato da Efesto, che lo fece controvoglia, e lo legò a una rupe desolata con nodi che non possono essere sciolti. Deve sempre vegliare in piedi senza mai prendere sonno. Questo supplizio ricorda anche quello di Mnesiloco, condannato a morte per essersi camuffato in vesti femminili, tenta di difendere il poeta dalla donna, poiché accusato di per la usa misoginia. Scoperto, viene condannato a essere legato al palo. Il condannato chiede di essere legato nudo, senza tunica gialla e mitra, una pena accessoria inflitta ai condannati colpevoli di reati gravi che aggiungeva vergogna alla vergogna di essere attaccati al palo. Tanto Prometeo che Mnesiloco evocano e riproducono le modalità di uno stesso supplizio, un supplizio cittadino. Per dare un nome a questo supplizio è necessario ricostruire il modo in cui morirono i cosiddetti “crocifissi del Falero”. III: Il castigo nelle città 1.I crocifissi di Falero Uno dei supplizi capitali ad Atene era chiamato “apotympanismos” e consisteva nell’uccidere il condannato bastonate colpendolo con un randello. Vi è però un'altra interpretazione del secolo scorso: questo supplizio in realtà consisterebbe in una sorta di crocifissione, perché tra il 1911 e il 1915 a Falero furono ritrovati in un cimitero degli strumenti di tortura fu scoperta anche una fossa all’interno della quale si trovarono 17 scheletri gettati senza oneri funebri, con un cerchio di ferro intorno al collo e dei ramponi stretti alle mani e ai piedi. A questi cerchi/ramponi vi erano attaccati dei pezzi di legno, poiché evidentemente gli uomini erano morti appesi al palo, condannati a un periodo di lunga agonia. La differenza e che rispetto alla crocifissione, essere appesi al palo determina una maggiore sofferenza (si ha fame, sete, si devono subire intemperie e morsi di bestie), mentre la crocifissione, il rito romano, permette di morire subito dissanguati. Ma a quali delinquenti veniva riservata questa terribile morte? Ai traditori e ai malfattori. Con “malfattori” si intende i “ladri” in generale, e, accanto a costoro, anche alcuni ladri specializzati, cioè i “trafficanti di schiavi”. Una categoria di delinquenti odiosa quella dei malfattori, essi potevano essere denunciati agli Undici (gli ufficiali a capo della polizia ateniese) e essere trascinati davanti a loro. Potevano confessare ed evitare il processo ed essere messi a morte, oppure se contestavano dinanzi al tribunale popolare, se condannati venivano sottoposti a apotympanismos. Insieme ai traditori e ai ladri, vi erano inclusi anche coloro che commettevano adulterio (moichea), per aver commesso uno dei reati “nascosti”, considerati dai greci particolarmente infami. Se beccati in flagrante potevano essere uccisi dal padre, dal marito, dal convivente, dal figlio o dal fratello dell’adultera. Gli adulteri erano trattati come i malfattori e non solo; anche gli omicidi erano trattati come i ladri, e denunciati agli Undici, gli assassini potevano o confessare o se condannati tramite processo sottoposti anch’essi a apotympanismos. Questo processo oltre ad essere crudele era un’esecuzione particolarmente infamante, poiché i pali erano issati alle porte della città, con la famosa “veste gialla” o compiere la “passeggiata ignominiosa” da fare per le strade più affollate della città. Altre volte, avvinti ai ceppi, abbandonati sulla piazza ed esposti alle beffe della folla. 7 Il legno dunque, in Grecia, era lo strumento di supplizi graduabili nella gravità e negli esiti: nei casi meno gravi era il legno della gogna inflitta come pena accessoria, in casi estremi era il palo della crocifissione, cioè la “colonna”. La terminologia ci porta a Melanzio; anch’egli legato a una colonna. Il supplizio inflitto a Melanzio viene a configurarsi come una prima forma rudimentale di crocifissione. Melanzio viene messo a morte con una forma di esecuzione che nei secoli successivi sarà riservata a tutti i ladri e a tutti i traditori. IV: La morte delle donne Il supplizio del palo era passato dalle case omeriche agli spazi esterni delle città. Il castigo inflitto in casa di Odisseo al ladro Melanzio e nelle case dell’Ade al ladro Tantalo, trasformato in un sorte di crocefissione, era diventata consuetudine per i ladri, i traditori , i malfattori , gli adulteri e gli omicidi. Tuttavia, le donne (come le ancelle infedeli) erano state impiccate o sepolte vive. Perché queste esecuzioni non furono introdotte nei supplizi cittadini? Perché alla polis erano riservate solo le esecuzioni maschili? Qual è il rapporto tra il diritto criminale e le donne? La polis non si disinteressava del comportamento femminile poiché la sua ordinata riproduzione, come corpo sociale e giuridico, dipendeva dal loro comportamento e, più precisamente, da quello sessuale. Non fu certamente un caso che nel momento in cui si diede le prime regole giuridiche, Atene, si preoccupò di individuare il reato di “moicheia”, adulterio. Con questo termine si indicano tutti i reati al di fuori del matrimonio e del concubinato con donna nubile o coniugata (semprechè il rapporto non era tra una professionista dell’amore, come una prostituta). Draconte , il primo legislatore ateniese (VII secolo), decise che il traditore sorpreso sul fatto dovesse essere punito con l’uccisione da parte del padre, del marito, del fratello o del figlio della donna alla quale si era unito. Della punizione della donna però non se ne parla. Come mai? Una prima spiegazione è che la legge non aveva bisogno di parlare dell’uccisione della donna, in quanto la punizione con la morte rientrava nei poteri del familiare che aveva potestà su di lei. Tuttavia, l’esame delle fonti dice che i poteri del padre ateniese erano diversi e inferiori rispetto a quello romano, che potevano arrivare all’uccisione dei figli. Non risultano dalle fonti, tanto classiche quanto arcaiche, la documentazione del diritto paterno di mettere a morte i figli, ne che rientrasse tra i poteri maritali (a differenza di Roma). Era permesso però condannare una moglie a morte, se accusate di un reato che prevedeva questa pena e che veniva perseguito con un’azione pubblica. In questo caso qual’era il supplizio riservato alle donne? 1. I processi pubblici: Aspasia, Frine e le altre Anche se raramente, le fonti parlano di donne accusate e processate pubblicamente. Ricordiamo: Processo contro Aspasia, concubina di Pericle, accusata di “empietà”. Fu accusata dal demagogo Cleone, avversario di Pericle di tenere un bordello nel quale si prostituivano donne libere e di cui beneficiava lo stesso Pericle. Pericle difese la sua concubina con tale passione che i giudici assolsero Aspasia. Processo contro Frine, cortigiana dalla rara bellezza da essere rappresentata come Afrodite, anche lei accusata di empietà. Fece un banale bagno in mare denudandosi e mostrando le forme della sua bellezza. Ella fu assolta grazie all’aiuto di Iperide, di cui si sapeva che era perdutamente innamorato 10 L’antica prassi della vendetta andava eliminata ma non ci si poteva aspettare del tutto che fosse cancellata. Quel che si poteva fare era regolarla e sottoporla in misura crescente al controllo di Stato. Se in età omerica i “Gerontes erano stati delegati ad esercitare un primo controllo al fine di accertare che non fosse esposto alla vendetta chi aveva già pagato il riscatto, nessun controllo esisteva invece sul fatto che l’omicidio fosse stato realmente commesso (Qui il controllo era solo sociale). Ma nel VII secolo A.C., ad Atene, la celebre legge sull’omicidio attribuita a Draconte introdusse alcune fondamentali novità. La legge stabilì che gli omicidi andavano divisi secondo il diverso atteggiamento della volontà colpevole, e di conseguenza andavano puniti con pene diverse: Se l’omicidio era premeditato, la pena era la morte Non premeditato o involontario (se non si convincevano i parenti ad accettare la poine), era l’esilio Se l’omicidio era considerato “legittimo”, vi era l’esenzione dalla pena Quando l’omicidio era legittimo? 1. L’uccisione involontaria dell’avversario durante le gare atletiche 2. L’uccisione di un commilitone in guerra, per errore 3. Uccisione di un brigante in caso di assalto per strada 4. Uccisione di un uomo sorpreso mentre intratteneva un rapporto sessuale con la moglie, la madre, la figlia, la sorella o la concubina dell’omicida (Era in realtà una vendetta socialmente legalizzava ma in via eccezionale) Iniziarono ad esistere in età omerica degli organi giudicanti incaricati di accertare il grado di colpevolezza di un assassino e di irrogare la pena. Questi organi erano: 1. Il tribunale dell’Areopago: Giudicava gli omicidi premeditati 2. Il tribunale del Cinquantuno (51 Efeti): Giudicava tutti gli altri omicidi Ciò che accadeva dopo che avessero emesso sentenza è cosa che la legge non dice. 2.La procedura per i reati di sangue I processi per omicidio venivano celebrati ad Atene per iniziativa dei familiari della vittima, che a questo scopo dovevano compiere 2 atti solenni: Recarsi davanti l’arconte re e indicare il nome del presunto assassino Recarsi sulla tomba del morto e piantarvi una lancia, per dichiarare simbolicamente l’apertura di una guerra. Solo a questo punto il processo poteva aver luogo. Da qui vi era: 1. Una prima dichiarazione solenne con la quale l’arconte – re intimava all’accusato di tenersi lontano dai “luoghi indicati per legge”, cioè dai tribunali, giochi e le sacre Amfizionie. 2. Dopo aver iscritto la causa al basileus, aveva inizio la fase istruttoria del processo, diretta dal basileus, che si svolgeva nel corso di 3 udienze, durante la quale ogni parte esponeva le sue ragioni 3. L’arconte individuava il tipo di omicidio e assegnava la causa all’organo giudicante, a cui spettava emanare la sentenza 11 4. Fase dibattimentale: Iniziava con il giuramento dell’accusatore dinanzi ai resti di uj orso, agnello o toro, e se aveva giurato il falso, la maledizione ricadeva su di lui, la sua casa e i suoi figli. Ciò lo faceva anche l’accusato. I 2 giuramenti li facevano stando in piedi dinanzi a 2 pietre, rispettivamente “la pietra dell’implacabilità” e “del delitto”. 5. Si tenevano le orazioni, pronunciate a turno dall’accusa e dalla difesa, 2 per parte. (Dopo la prima orazione della difesa, nel caso si trattasse di un omicidio volontario l’accusato poteva spontaneamente prendere la via dell’esilio evitando la pena di morte. 6. Votazione 3.Il sistema dell’esecuzione delegata Pur avendo introdotto le innovazioni della legge di Draconte non vi era alcun cenno riguardo all’esecuzione della sentenza; in questo settore nulla era cambiato. Di fatti, come nella società omerica, anche nella società del VII sec. la messa a morte degli assassini era affidata ai parenti delle vittime e la situazione rimase inalterata per alcuni secoli. Ma a un certo punto accadde che l’esecuzione della sentenza venisse affidata a organi pubblici, anche se la condanna dell’omicida era stata la conseguenza di un’azione privata intentata dai familiari. Quali erano i modi nei quali l’omicida veniva messo a morte nei secoli della delega? Secondo alcuni, la forma più antica della pena di morte in Grecia sarebbe stata la lapidazione. Ma per risolvere il problema bisogna seguire le tracce nelle fonti da questo tipo di messa a morte. VIII: La vendetta pubblica 1.Paride e il chitone di pietre Esiste nei poemi omerici un episodio che ha indotto a pensare che il primo tipo di pena capitale della Grecia post- micenea. L’episodio è celebre: Nel 3 canto dell’Iliade Ettore, accusando di viltà di Paride, fuggito dinanzi a Menelao, dice che se i troiani non fossero stati paurosi com’erano, Paride vestirebbe da tempo un “Chitone di pietre”. Ma è lecito considerare la lapidazione uno dei modi istituzionali dell’esecuzione capitale? La lapidazione, nelle fonti (Quantomeno ad Atene dove si può ricostruire la storia del diritto criminale) non ha e non assume mai i caratteri di una pena istituzionale ma la si usava per esprimere la rabbia e la vendetta contro chi, come Paride, aveva provocato danni alla collettività. Si esplicitava e si attuava il principio della morale sociale secondo cui chi provocava un male ai cittadini meritava una punizione. Non era l’espressione del volere ufficiale del gruppo ma era l’atto spontaneo e moralmente giusto (al di fuori di ogni previsione istituzionale) con il quale il polo puniva chi aveva provocato un male e meritava in risposta un altro male. 1. La lapidazione come vendetta nei tragici e nella realtà sociale Vi sono molti riferimenti alla lapidazione, soprattutto nei tragici. Nell’Agamennone di Eschilo, si dice che l’uccisione di Agamennone non resterà impunita e si lapiderà l’assassino Nell’Aiace di Sofocle, è il coro che minacciato dagli Atridi teme di morire lapidato Nell’Edipo di Sofocle, Edipo dopo aver scoperto il suo matrimonio incestuoso si rammarica di non essere stato lapidato 12 Nelle Troiane di Euripide, Menelao, dopo la fuga a troia di Elena, respinge la moglie infedele e dice di “andar da coloro che la lapideranno” In questi casi, la lapidazione appare con caratteristiche e funzioni già accennate: una vendetta collettiva di tipo istintivo, giusta ma non istituzionale. Nessuno di questi riferimenti può dunque avvalorare la tesi secondo cui la lapidazione fosse una pena cittadina prevista solo per una determinata categoria di reati. Nemmeno il caso di -Oreste. Nell’Oreste di Euripide, gli argivi sono riuniti in assemblea per decidere se Elettra ed Oreste, colpevoli di aver ucciso la madre per vendicare il padre, debbano essere lapidati o decapitati con la spada; accolta la decisione di lapidare i matricidi, ma Oreste ottiene il permesso per sé e sua sorella di suicidarsi con la spada. In questo caso, perché mai anche se si fosse trattato di un vero e proprio processo per matricidio, la decisione avrebbe dovuto essere presa da argivi e non dai tribunali specializzati, competenti in materia di omicidio? Nella rappresentazione tragica, evidentemente non era tanto la corrispondenza dei fatti alla realtà giuridica quel che interessava, quanto alla drammaticità dell’azione e la sua capacità nel descrivere fatti emotivamente e socialmente sconvolgenti. La descrizione di un’assemblea popolare (giuridicamente falsa) di un coinvolgimento dell’intera collettività nel giudizio sul matricidio ,era particolarmente idonea a produrre questo tipo di effetti. D’altra parte però, il riferimento Euripideo assume un significato diverso da quello che sembra avere a prima vista a che fare con la lettura delle Leggi di Platone. 3.La lapidazione come rito espiatorio Nelle Leggi, Platone scrive che coloro che uccideranno con premeditazione il padre, la madre, i fratelli o i figli potranno essere messi a morte e che i magistrati dovranno lanciare delle pietre sul loro capo. Questo è quindi un riferimento euripideo alla lapidazione come pena per i crimini di sangue compiuti all’interno della famiglia? Assolutamente no, poiché le leggi di Platone sono in primis un’utopia e poi , la pena di cui parla Platone non è l’esecuzione di una sentenza capitale, ma una pena rituale del cadavere del condannato a morte, che ha esplicitamente una funzione di carattere espiatorio. E’ necessario ripensare alle origini più antiche dell’uso della pietra come strumento di morte, cioè nella caccia. La possibilità di alimentarsi era collegata alla capacità dell’uomo di usare la pietra per uccidere; egli non appena uccide viene però sopraffatto dal senso di colpa. Qui, l’uccisione diventa sacrificio, rito espiatorio: il rito di morte diventa cerimonia sacra. Questa continuità “caccia – sacrificio” non muta neanche con il passaggio alla società dei coltivatori, come dimostrano le testimonianze dei poemi omerici. Ora è possibile capire perché il matricida Oreste teme la lapidazione e perché Platone vorrebbe che gli assassini dei parenti venissero lapidati → L’omicidio è un crimine che contamina, che prova impurità e deve essere espiato. La pietra, appunto, purifica. Come mai dunque in Omero, la lapidazione è vendetta collettiva di tipo laico? Perché la “dottrina della polluzione” provocata dal sangue è una dottrina nata nei secoli successivi a quelli riflessi dai poemi. In Omero il sangue non è impuro. Chi ha ucciso è costretto ad abbandonare la patria ma solo per evitare la vendetta. All’estero, egli viene ricevuto senza timore e senza alcuna preoccupazione di tipo sacrale. Fu solo in un’epoca successiva che nacque la teoria della polluzione. L'omicidio divenne impuro e richiedeva una purificazione per influsso dell' oracolo di Apollo a Delfi. Le città greche, com'è ben noto, fanno risalire al responso dell'oracolo le loro stesse regole costituzionali. Tra queste anche quella secondo la quale l'omicidio richiede una qualificazione e il sangue versato - aveva detto l'oracolo - provocava una macchia che andava eliminata ,perché in caso contrario avrebbe contaminato tutti coloro che fossero venuti in contatto con l'omicidio. Ecco perché nei tragici l'omicidio deve essere spiato. 15 1.2 Il processo di Socrate Socrate fu accusato per “aver investigato quel che c’è sottoterra e in cielo, tentando di far apparire migliore la ragione peggiore, e questo insegnando ad altri” ovvero di “corrompere i giovani, di non riconoscere gli dei che la città riconosce e anzi di praticare culti nuovi e diversi”. Condannato a morte per empietà ed il suo processo fu indubbiamente un processo politico, poiché i processi politici sono sempre impopolari, così come lo sono le esecuzioni delle sentenze con cui esse si concludono. Il processo fu sicuramente atipico. Egli si difese contestando le basi del processo, anziché lasciarsi in una lunga difesa o portando in tribunale la sua famiglia per impietosire i giudici, come di solito si faceva. Fu riconosciuto colpevole. Dopodiché, come previsto dalla legge dell’Agorà, sia Socrate sia Meleto (l’accusatore) dovettero proporre una pena per i reati di cui l’imputato era stato accusato. Socrate sfidò i giudici proponendo loro di essere mantenuto a spese dalla collettività, poiché riteneva che anche a lui doveva essere riconosciuto l’onore dei benefattori della città, avendo insegnato ai giovani la scienza del bene e del male. Poi consentì, grazie alle insistenze degli amici, di farsi multare. Meleto chiese invece la morte. Furono messe ai voti le proposte: con ampia maggioranza -360 voti a favore contro 140 contrari- accolsero la proposta di Meleto, e condannarono Socrate a morire mediante l’assunzione di Cicuta. Era pratica diffusa auto esiliarsi per evitare la sentenza di morte, ed era probabilmente su questo che contavano gli stessi accusatori. Tuttavia, Socrate aveva già deciso di non andare in esilio, poiché non temeva la morte, e la preferiva all’esilio, un male sicuro. A ROMA I supplizi greci per quanto crudeli, avevano una loro razionalità, una logica a prima vista chiara e penetrabile. I supplizi romani invece, o almeno, alcuni di essi, non si limitano a dare la morte più o meno dolorosa: si complicano di riti misteriosi, comportano cerimonie articolate ed incomprensibili. Pensiamo alla pena del sacco: Dopo la condanna, il reo calzava degli zoccoli di legno e il suo capo coperto da pelle di lupo. Al momento dell’esecuzione veniva chiuso in un sacco ermeticamente sigillato con la pece, insieme a un cane, un gallo, una vipera e in epoca più tarda, una scimmia. Vi si infliggeva un’agonia lunga e dolorosa ma ciò non spiega le ragioni dell’intera cerimonia. Come si interpreta la serie eterogenea dei geti, che non hanno né funzione di provocare la morte, né di renderla più dolorosa e infame? Perché mai una varietà di tormenti? Bisogna sforzarsi di capire il significato che sta dietro ad ogni gesto, luogo utilizzato e strumento, in modo tale che la complessità dei riti non appaia come solo la soddisfazione di una macabra volontà di tormento. Dietro a ogni supplizio appare la storia di una pratica sociale, una credenza magica o religiosa. Problemi di metodo Il tentativo di ricostruire il sistema originario delle esecuzioni è più difficoltoso a Roma, poiché non vi era omero. Le fonti romane consentono di conoscere il sistema dei supplizi capitali solamente a partire dal momento in cui le esecuzioni vennero previste dalla civitas e ci si può affidare a testi giuridici, anche se questi testi permettono la ricostruzione di un diritto relativo a un’età tarda. La protostoria della città, la storia dei suoi primi secoli è affidata ad all’interpretazione critica di altri tipi di fonti. Anche se i romani non hanno un corpus di miti paragonabili a quelli greci, anche Roma aveva le sue leggende, che possono aiutare nel comprender il significato di alcuni riti di morte 16 Vi sono autori come Cicerone, Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco o Aulio Gellio che ci riferiscono, anche se frammentariamente le regole che la tradizione attribuisce ai re di Roma e al decemvirato legislativo che nel 451-450 a.c dettò le celeberrime 12 tavole, che non furono una legge in senso tecnico, ma piuttosto un accordo scritto fra patrizi e plebei. Distrutte durante un incendio appiccato dai galli, le 12 tavole sono infatti ricostruibili attraverso le citazioni di autori più tardi e sono considerate attendibili dalla critica più recente. L’insieme delle regole attribuite all’età regia (tra il 753 A.C. e il 510 a.c.) sono note come leges regiae. Le “leges”, nel periodo monarchico, esprimevano la volontà del magistrato supremo nell’esercizio delle sue funzioni politiche, militari e religiose. Nel complesso, le leges erano comandi del rex, al quale, spettava il potere di legiferare. Concludendo, le leges regiae sono le più antiche disposizioni autoritarie romane. A integrare le informazioni fornite da esse vi sono le 12 tavole. Racconti di antiquari e storici; si tratta però di descrizioni problematiche, considerate da alcuni storicamente problematiche e inattendibili. Gli autori, cioè gli annalisti, furono sospettati di aver falsificato la realtà, per presentare la repubblica più democratica possibile di quanto non lo fosse. Parte Quarta: IL CASTIGO XI: Il castigo nelle case Come nelle poleis greche, anche a Roma alcuni comportamenti furono puniti in casa, anche dopo l’avvento della civitas. 1. Morire di Inedia: le adultere e le donne che bevevano vino Una delle più antiche lese regiae, attribuita da Dionigi di Alicarnasso a Romolo, si preoccupò di stabilire quando il marito poteva mettere a morte la moglie. Essa poteva essere messa a morte dai parenti in caso di rapporto sessuale illecito o se avesse bevuto vino. Vi doveva essere una legge che stabiliva ciò perché la donna, una volta sposata si trasferiva nella famiglia del marito, ma si trovava ancora in posizione di figlia. Di fatti, anche se giuridicamente apparteneva ormai alla famiglia del marito, il padre non perdeva del tutto il potere su di lei. Ed ecco Romolo delimitare gli ambiti di esercizio del “ius vitae ac necis” maritale, per la necessità di coordinare poteri del marito con quelli del padre di famiglia originario garantendo al padre che il marito avrebbe esercitato il potere punitivo solamente nei casi in cui era giusto è necessario farlo. Che l’adulterio fosse punito con la morte non desta meraviglia, ma perché anche il bere vino? Secondo credenze magiche, il vino ammetteva un principio di vita non diverso dal contenuto del seme maschile e la donna che lo beveva ammetteva un sé un corpo estraneo = adulterio Secondo le credenze popolari, il vino era considerato abortivo Secondo le credenze religiose, il vino, in particolare il “temetum”, consentiva alle donne di prevedere il futuro, dire cose disdicevoli, svelare segreti di famiglia e creare situazioni imbarazzanti. La spiegazione che li accomuna è che il vino era proibito loro permetteva loro di perdere il controllo e venir meno ai loro doveri. La donna, commessi questi reati, veniva messa a morte per inedia, una pena considerata meno crudele di altre. 2. Il castigo delle Vestali come paradigma 17 Le sacerdotesse di Vesta erano vincolate da un voto di castità trentennale. Selezionate tra i 6 e i 12anni di età, le fanciulle più nobili al momento della consacrazione uscivano dalla potestà paterna ed erano le uniche donne “sui iuris” ovvero non sottoposte al potere di un Pater familias. Potevano fare testamento senza bisogno dell'assistenza di un tutore , questo però non significa che Le vestali non fossero sottoposte al controllo maschile. Al momento della consacrazione il Pontifex Maximus acquistava su di loro un potere che nel caso esse infrangessero il voto di castità le condannava a morte. La morte delle vestali era terribile: Infatti dopo una lugubre cerimonia giungevano sul luogo del loro supplizio ovvero sulla porta collina, coperte da veli e venivano fatte scendere dal Pontifex in una camera sotterranea dove erano stati messi un letto, del pane, dell'acqua, del latte, dell'olio una fiaccola. La loro condizione di sacerdotesse cittadine e la convinzione dei romani che la salvezza e la prosperità dello Stato venissero messe in pericolo dal comportamento licenzioso delle donne rendevano indispensabile dare all'esecuzione la massima solennità e pubblicità. La prima Vestale essere condannata fu Pinaria, sotto il regno di Tarquinio Prisco. Per quanto riguarda l'esecuzione , vestali e donne comuni morivano nello stesso modo: sfinite dall'inedia. La morte delle vestali era al tempo stesso una punizione e un'offerta propiziatoria agli dei. La cerimonia propiziatoria si complicava di particolari il cui simbolismo rinvia a un’esecuzione domestica. Infatti venivano sepolte una stanza sotterranea illuminata da una fiaccola fornita da letto e beni alimentari: venivano Murate vive una casa sotterranea. I loro compiti rituali erano la proiezione dei compiti domestici femminili. infatti Una volta all'anno, il 15 giugno, le vestali spazzano la polvere e le ceneri del focolare sacro, e si destreggiavano nella preparazione di una salsa che veniva sparsa sugli animali sacrificali. Pulizia e preparazione del cibo, dunque, i compiti quotidiani delle donne comuni. Se erano vestali erano punite dal Pontifex , che rappresentava il potere laico del pater familias, che puniva invece figlie e mogli. A Roma la scelta di far morire le donne di inedia sembra dovuta al carattere discreto e domestico di questo tipo di esecuzione . Se nel caso delle vestali la riservatezza veniva meno , era a causa del loro status di pubblico e della loro visibilità sociale in vita. Dall'altro anche perché l'esecuzione era un sacrificio agli dei e sacrifici richiedono solennità. Ma questo non toglie che la morte delle vestali ricalca fedelmente la morte silenziosa e invisibile delle donne comuni, alle quali peraltro è riservato anche un altro tipo di morte: quella per strangolamento, che a noi suona impietosa ma che i romani considerano invece una morte privilegiata. 3.Tra casa e città: il suicidio onorevole e la morte privilegiata per strangolamento o per inedia Suicidio onorevole: Quando un Romano decideva di mettere fine ai suoi giorni usava il "laccio" che toglieva il respiro in pochi istanti. Per i Romani suicidarsi era spesso una necessità dettata dalla violenza della vita politica o da situazioni avverse. Suicidarsi era una scelta di libertà moralmente encomiabile. La scelta del mezzo per un romano era tutt'altro che secondaria quantomeno nei primi secoli, il giudizio sociale sul suicidio dipendeva dal modo in cui la morte era stata cercata ottenuta: e il primo posto nella graduatoria dei suicidi onorevoli spettava alla spada. il romano non doveva permettere agli altri di ucciderlo ma doveva piuttosto suicidarsi, possibilmente con la spada. E se accadeva che con la spada fallisse, non per questo doveva arrendersi: da vero uomo egli non doveva temere alcuna sofferenza. Morte per strangolamento: Alcune forme di suicidio discrete erano considerate perfettamente onorevoli, se disonorevole al massimo era l'impiccagione tutt'altro lo fu per esempio il 20 al maggior numero possibile di persone, dopo che il condannato aveva eseguito la passeggiata ignominiosa. In seguito il reo, con le mani legate al dorso e la schiena curva sotto il peso della furca, veniva fustigato e pungolato dagli aiutanti del magistrato. Insultato dalla folla e preso a sassate in seguito la scura colpiva brutalmente il collo. La pena non induce a pensare che la sua funzione fosse quella deterrente. Il suo scopo principale era quello di sottolineare l'autorità incontrastata di chi la infliggeva e di offrire il colpevole agli dei come vittima sacrificale. 1.1 Sacrificio agli dei o esecuzione laica? Secondo Mommsen, la decapitazione con la scure era un'esecuzione sacrale ovvero un sacrificio agli dei. Questa è un'ipotesi assai discutibile perché quando i romani celebravano sacrifici di sangue animale, seguivano un rituale rigorosamente prescritto nei minimi dettagli, al di là del fatto che talvolta l'arma che uccideva le vittime animali era la scure, tra il sacrificio alla divinità e la securi percussio, non vi è analogia alcuna. Le regole del sacrificio cruento erano: la vittima doveva essere uccisa nel silenzio più assoluto, deve essere cosparsa della “Mola salsa” spargendola sul suo capo e sul coltello sacrificale. Poi si dà finalmente inizio alla parte centrale del rito, cioè l'uccisione della bestia e la divisione delle sue carni. L'arma, come abbiamo detto, non era sempre la scure. La bestia preventivamente stordita da un colpo di martello alla testa veniva finita con la scure solo se si trattava di un bovino; se era un suino o un ovino veniva finito con il coltello. Bisogna notare che l’arma era calata sul collo della vittima senza il minimo cenno di entrare in contatto con il Dio e senza traccia alcuna del proposito di destinare a questi il condannato. 1.2 I soldati di Cesare: teste umane affisse alla regia Nella città ormai sua, Cesare si avviava a diventare un dittatore. Aveva voluto dare segno del suo modo di intendere la disciplina militare alle truppe che si erano ammutinate e protestavano per l'acquisto di tende di seta volta impedire che il sole disturbasse gli spettatori. Non avendo ricevuto il soldo, i soldati considerano la spesa discutibile e superflua. Cesare non poteva che punirli e così fece: fece arrestare un soldato e ordinò di ucciderne altri due secondo un particolare rito religioso. Essi furono sacrificati nel Campo di Marte e ordinò che le loro teste furono portate alla reggia e infisse. È evidente che queste esecuzioni affondino in una pratica precedente religiosa ma è da escludere che questa fosse un'antica esecuzione capitale come affermò Mommsen. L'esibizione o l’infissione in pubblico delle teste non era una pratica istituzionale ma solo l'uso sociale bellico. Nel caso di Cesare, la causa della sua decisione si ritrova piuttosto in un altro rito che non ha a che vedere con la securi percussio. 1.3 Il cavallo di ottobre (october equus) A Roma, nel mese di ottobre veniva celebrata una solenne cerimonia religiosa al termine della quale una testa di equino veniva da prima tagliata e successivamente affissa al muro di un edificio pubblico, esattamente come successe ai soldati di Cesare. Il rito veniva chiamato “cavallo di ottobre” e veniva celebrato nel Campo di Marte in onore a Marte e prevedeva che al cavallo sacrificato venissero tagliate la testa e la coda. La testa, come sappiamo, veniva fissata a una parete, che talvolta era quella della Regia ma non sempre era necessariamente questa. La coda ancora grondante di sangue doveva essere portata alla Regia, così che il suo sangue bagnasse l'altare. Bisogna però tenere a mente due cose: La prima, che Marte oltre che dio della guerra, sia Dio della fecondità. La seconda, che la parola “cauda” in latino non significa solo “coda” ma anche “pene”. Il sangue di quest’ultimo avrebbe avuto la funzione aveva la funzione evidentissima di rappresentare il 21 rito di fecondità in onore di Marte Agrario. L’ October Equus, in questo senso, era un rito di fecondità. Inoltre, sia il pene del cavallo sia la coda potevano sgocciolare e arrivare alla Regia (dal campo di Marte) ancora imbevuti di sangue. Se la parte del cavallo utilizzata fosse proprio la coda gli argomenti dei sostenitori della tesi del rito di fecondità verrebbero a meno. Secondo altri storici moderni il sangue versato sul Focolare della regia eliminava le impurità provocate dalla guerra e l'affissione della testa significava l'attribuzione della vittoria allo Stato. La constatazione che rende ragione la scelta di Cesare, infatti, è proprio che si trattava di un rito di guerra, bellico, e non di fecondità. L’ esecuzione fu al tempo stesso una punizione esemplare, e un sacrificio a Marte : essendo dei soldati, i ribelli vengono sacrificati come i cavalli di ottobre. Il gesto di Cesare, dunque, si spiega senza bisogno di ricorrere all'ipotesi del tutto indimostrata ed indimostrabile del riaffiorare di un'antica esecuzione sacrificale per decapitazione. 1.4 Conclusioni sulla decapitazione La scure, come abbiamo visto, era simbolo dell'impero. La securi percussio era un atto punitivo laico; come tale nacque, fu utilizzato dapprima Roma e successivamente (quando a Roma venne vietato) fuori città; ma anche qui a un certo punto cedette il passo ad altri strumenti. Ricorrere alla scure a questo punto era considerato disdicevole; si doveva usare la spada per l’esecuzione di sentenze capitali, non la scure. Dapprima sotto la scure e poi sotto la spada, dunque, le teste dei condannati a morte caddero fino al termine della storia di Roma. Anche quando la securi percussio venne abolita, coloro che avevano commesso crimini contro lo stato continuavano a venire decollati, con l'unica differenza della sostituzione dell'arma. Parte quinta: L’ESPIAZIONE XIII: Il supplizio dell’albero infelice 1.La morte di Orazia, il processo di Orazi Durante il regno di Tullo Ostilio, la potenza etrusca minaccia sia la città di Roma sia quella di Alba longa. Pur divisi da una latente inimicizia, i romani e gli Albani decisero allora di allearsi contro il comune nemico affidando a un duello la scelta della città a cui sarebbe aspettata la posizione egemone. Gli Albani scelsero come campioni i tre fratelli Curiazi, i romani i tre fratelli Orazi. Due dei tre Orazi erano stati uccisi dai campioni nemici. L'orazio superstite allora ricorse a una stratagemma. Fingendo di darsi alla fuga, riuscì a distanziare tra loro i Curiazi e ad affrontarli individualmente garantendo la vittoria Roma. La sorella di Orazio ,vide tra le spoglie rivali il mantello da lei tessuto per il fidanzato curiazio. Non riuscendo a controllare il dolore, dimentica di essere una cittadina romana e con i capelli sciolti in segno di lutto, la fanciulla prese invocare tra le lacrime il suo amore perduto. Orazio, il campione vincitore, disse alla sorella di sparire poiché aveva dimenticato la patria. Detto ciò, trafisse Orazia con la spada. Il gesto di Orazio apparve terribile e nonostante i meriti ricevuti venne condotto in giudizio dinanzi al re. Questi che non voleva assumersi la responsabilità di condannare personalmente a morte un eroe nazionale, riunì l'assemblea Popolare e disse: “Secondo la legge nomino i duumviri, che giudichino Orazio di perduellio”. 22 Si trattava di una legge terribile, definita dal Livio, “Lex Horrendi Carminis”. Essi lo giudicarono per perduellio e lo condannarono all’ Arbor infelix e che lo si frustasse sia dentro sia fuori del pomerium. Orazio però chiese la provocatio, ovvero la verifica Popolare e la parola passo così al popolo. Il padre intervenne in difesa del figlio e disse che non aveva fatto altro che anticipare quello che egli stesso avrebbe fatto nell'esercizio dei suoi poteri paterni. Orazia era stata “legittimamente uccisa”, così il popolo assolse il giovane dall'accusa di perduellio. Infatti, piangendo il fidanzato morto, Orazia era venuta meno alla suo dovere di lealtà della patria: aveva tradito. Punire un figlio colpevole di un crimine pubblico potevano essere solo il padre, nell'esercizio del suo potere domestico oppure il Rex in forza del suo Imperium. Orazio, né padre, né magistrato, ha quindi usurpato un potere che non era suo. Perché mai Orazio però è accusato di perduellio? Le fonti diverse da Livio non parlano di perduellio ma dicono che Orazio fu accusato di parricidio poiché avevo ucciso volontariamente una persona di stato libero. Vi sono 2 risposte: 1. Secondo alcuni, si veniva accusati di perduellio chi aveva compiuto il crimine di mettere a morte una persona che il magistrato non aveva ancora condannato. 2. Una seconda interpretazione è che il re vede l’accusa come perduellio come una concessione per avere una possibilità di salvezza. Qualora fosse accusato di parricidium, l’eroe non avrebbe avuto la possibilità di provocare ad populum, concessa all’epoca solo ai rei di tradimento. 2.La Lex Horrendi Carminis E’ una legge che stabiliva come i traditori dovevano essere uccisi. L’intepretazione di questa legge è tutt’altro che pacifica: al condannato doveva essere velato il capo, sospeso all’albero infelice e essere fustigato sia dentro il pomerio che fuori. 3.Albero felice, albero infelice Cosa significa l'espressione Arbor infelix? 1. In primo luogo l'albero che non portava frutti o che portava frutti selvatici e non commestibili. 2. Si fa anche riferimento a preoccupazioni magico-religiose: arbor felix vuol dire che l'albero era di buon auspicio, mentre “infelix”di cattivo augurio ,in particolare sotto la protezione degli Dei infernali, come per esempio la felce, il fico nero, i rovi, il pero selvatico(..). 3. Se ci soffermiamo sulla parola “infelix”, oltre a quelli che lo erano per natura, esistevano alberi che lo diventano per circostanze esterne e sopravvenute. Se una persona si impiccava nei dintorni di una vigna, l'intera Vigna diventava impura e l’albero non poteva essere usato per i riti religiosi. E’ possibile infatti pensare che l'albero del supplizio non dovesse essere infelix per natura ma fosse così definito perché diventava tale dopo il supplizio. Ma l'ipotesi non è seriamente sostenibile: la legge infatti prescriveva che il supplizio avvenisse in un arbor infelix ed evidentemente a un albero che era già tale. 4.Albero infelice e impiccagione Secondo un’ipotesi da molti sostenuta, la suspensio al’arbor infelix sarebbe stata un'impiccagione. In realtà sospendere non significa solo sollevare un oggetto in modo che resti sospeso senza punti di appoggio. 25 La croce entrò a far parte dei supplizi di Stato solo a partire dall'età imperiale, quando il supplizio, una volta servile, venne riservato anche gli uomini liberi e più precisamente ai delinquenti di condizione sociale inferiore. La comparsa della Croce nel giardino dei supplizi è comunque tarda e relativamente breve: sotto Costantino infatti venne abolita. 6.L’albero infelice e la fustigazione a morte (supplicium more maiorum) Finalmente in possesso degli elementi necessari per comprendere il significato, eccoci di nuovo la descrizione liviana del supplizio che Orazio avrebbe dovuto subire se fosse stato condannato per perduellio “legato sub furca, torturato dalle verghe”. Quando Livio descrive il supplizio immagina Orazio legato all’albero(forca=un albero biforcuto) a cui l'eroe sarebbe stato legato per essere ucciso secondo i dettami della lex horrendi carminis e al quale altre fonti fanno riferimento definendolo “supplicium more maiorum”. 6.1Supplizio di Marco Manlio Capitolino Nel 384 a.c., un uomo venne condannato per aver tentato di ristabilire la monarchia. Era un patrizio di chiara fama chiamato Marco Manlio Capitolino e aveva difeso Roma durante l'occupazione dei galli, guidando una sedizione. Egli era violento per carattere e iniziò a pensare di non essere onorato come meritava. Quando giunse al punto di istigare apertamente la plebe alla rivolta armata commise l'errore che lo portò alla rovina. Per liberarsi di lui, infatti, lo accusarono di aver tentato di restaurare la monarchia, essendo che anche i tribuni della plebe si iniziarono a preoccupare dei suoi progetti. Quale fu la sorte di Manlio? Secondo Livio, fu precipitato della Rupe Tarpea ma un'altra tradizione lo vuole fustigato a morte. Inevitabile che si ricordi della morte di spurio Cassio, traditore come Manlio; ma tra la storia di Spurio traditore, accusato di voler installare la tirannide, è differente da quella di Manlio. La fustigazione che uccise Spurio fu una punizione domestica, quella che uccise Manlio fu una pubblica pena e non contiene il minimo cenno all'intervento paterno: appare una pena pubblica per tradimento. 7. Conclusioni sulla Lex Horrendi Carminis Quando fu Dunque il momento in cui a Roma si stabilì che i traditori venissero uccisi sotto le verghe, dopo essere stati legati all'albero infelice? La risposta più immediata è quando fu vietato l'uso della scure in città. Ma l'uso di essa in città, come sappiamo, viene vietato all'inizio dell'età repubblicana. La lex horrendi carminis, invece, è di età monarchica. Possiamo inoltre dire che il supplizio all'albero sia stato introdotto con il dominio etrusco. La classificazione degli alberi in felices e infelices è di origine etrusca. Non è certo difficile pensare che sia stato uno dei re etruschi a introdurre un supplizio che si celebrava ai rami degli alberi infelici, consacrandolo agli dei inferi. Che il supplizio all'albero avesse carattere sacrificale inoltre è chiaramente confermato dalla prescrizione “ al reo sia coperto il capo”, poiché la copertura del capo è il segno della consacrazione della vittima. Infine, ulteriore conferma delle origini etrusche di questi supplizio, è la regola secondo la quale il reo poteva essere frustrato nel pomerium, sia fuori dal pomerium. Una simile regola non può essere precedente all'età etrusca. 26 Il supplizio dell'albero viene introdotto dunque sul fine dell'età monarchica, sotto i colpi delle verghe. Non morivano solo i rei di perduellio condannati in forza della Lex horrendi carminis. La fustigazione a morte era riservata anche a i criminali e tra di essi coloro che si erano uniti sessualmente alle vergini vestali. XIV: Altre fustigazioni a morte 1.L’amante della Vestale Un tempo era conservata una legge, il cui testo è andata distrutto durante l’incendio appiccato dai Galli. Questa legge stabiliva che gli amanti delle vestali che erano venute meno al loro voto di castità morissero nudi, con la forca al collo come degli schiavi, fustigati a morte nel comizio. Quel che sembra essere certo è che la fustigazione a morte del complice della Vestale. Era l'esecuzione di una pena pubblica e non di una pena domestica, eseguita nel comizio, ovvero nel luogo politico per eccellenza. 2.L’incantatore: chi incanta il racconto, chi il raccolto, chi i nemici, chi l’innamorata Le 12 tavole - scrive Plinio - stabilivano che colui che avesse attentato nottetempo all'altro raccolto fosse “messo a morte sospeso a Cerere”. A quale morte alludeva quest'espressione? Secondo le dodici tavole era punito con la morte colui che trasportava nel suo campo le messi già raccolte dal vicino che erano ottenute grazie alle virtù di una formula magica opportunamente cantata e recitata. Le formule magiche non servono solo a impossessarsi delle messe altrui; servivano anche gettare il malocchio su un campo al fine di rovinare un raccolto: “qui fruges excantassit” diceva la legge nel criminalizzare questa pratica. Composto da ex e cantare, il verbo rinvia alla previsione di altri due delitti magici “malum carmen incantare” e “occentare”, a loro volta puniti con la morte.Essi erano atti che offendevano l'onorabilità e l'immagine altrui, come per esempio l'atto di indirizzare a qualcuno una poesia infamante. “Malum carmen incantare” voleva dunque dire recitare una formula magica che avrebbe portato del male al destinatario. La seconda “occentare” (ob+cantare) indicava l'atto di recitare una formula all'indirizzo di colui che gli aveva fatto un torto e questo atto veniva compiuto dinanzi alla porta del nemico. La porta era un luogo magico religioso custodito dal Dio Ianus . Dalla porta entravano gli spiriti benevoli e malevoli con le relative conseguenze. Chi voleva il male di un avversario compiva una magia dinanzi alla sua porta. Sempre dinanzi alla porta, gli innamorati traditi o respinti invocavano l'amata cantando una canzone che secondo Ovidio avrebbe costretto la sua porta ad aprirsi. Quindi, parlando del malum Carmen, “incantare Malum Carmen” intende “chi fa ad altri infamia o flagitium”. “Flagitium”, all'epoca in cui scrive Cicerone, indicava il il disonore inteso sia come sensazione di chi subiva (cioè vergogna), sia come sanzione sociale. Dunque incantare un Malum Carmen è un atto di diffamazione, oppure , secondo Huvelin, una vendetta magica. La flagellazione, infatti, aveva il valore positivo di atto propiziatorio, quanto quello negativo di atto espiatorio. Torniamo così alle 12 tavole: la pena per i comportamenti descritti (ovvero il furto e il danneggiamento magico notturno delle messi) era la “suspensio cereri”. L'analogia tra la formula che prevedeva questa esecuzione e quella con cui la lex horrendi carminis stabiliva che il reo doveva essere fustigato a morte porta una conclusione inevitabile: chi aveva rubato o danneggiato con mezzi magici l'altrui raccolto moriva sotto i colpi implacabili delle verghe come reo di perduellio. Ma come morivano coloro che anziché delle messe avevano fatto una magia alle persone? Sembrerebbe che anche in questo caso il reo fosse flagellato a morte. L’ ipotesi che tutte le magie venissero sanzionate con la stessa previsione è più che plausibile. La fustigazione era una delle forme in cui si faceva la magia alle 27 persone(flagitium). Come non considerare la possibilità che nel momento in cui questa magia fu criminalizzata, si sia stabilito di punirla infliggendo al colpevole una pena che rinviasse allo stesso delitto? Con la fustigazione, il reo veniva ucciso in onore di Cerere perché era la dea della fertilità e a lei, al momento del raccolto, spettava l'offerta delle primizie. Ecco perché l'attentato alle messi offendeva Cerere: la privava di queste offerte e per placare la sua ira bisognava che la morte del colpevole le fosse dedicata. In conclusione l'Antico valore magico della fustigazione venne recepito dalla Civitas, che nel trasformarlo in esecuzione cittadina, lo utilizzò ai suoi fini. Grazie al suo valore espiatorio, la fustigazione a morte ben si prestava a celebrare quelle esecuzioni capitali che venivano dedicate agli dei: il ricordo della sua natura magica contribuì a farla selezionare tra i supplizi destinati a punire i delitti religiosi. XV: Il rogo In età imperiale alcune sentenze capitali venivano eseguite bruciando vivi i condannati, come gli omosessuali passivi, e più specificatamente solo quelli che si prostituivano nei bordelli della capitale. La decisione di estendere la pena a tutti gli omosessuali passivi fu presa da Teodosio II nel 438 a c. Ma quale fu il momento in cui il rogo entrò nel numero delle pene capitali e quale fu il reato che in quel momento indusse a farvi ricorso? Il rogo a Roma era un'esecuzione capitale antichissima e le dodici tavole stabilivano che colui che avesse dolosamente dato fuoco a un edificio e al covone di frumento a questi appoggiato doveva essere legato, fustigato e bruciato vivo. Un altro attentato alle messi dunque, dopo il furto e il danneggiamento anche l'incendio. L'unico delitto per il quale le dodici tavole prevedevano la morte sul rogo. Una riflessione approfondita dimostra che le fiamme che consumavano l’incendiario appaiono come un'esecuzione di tipo purificatorio ed espiatorio e non come una vendetta. 1.I tribuni bruciati: supplizio del fuoco o ordalia? Si ricorda il famoso drammatico episodio dei nuovi tribuni combusti. Nella prima metà del V secolo si narra di un tribuno di nome Publio Muzio che mise a morte nove dei suoi colleghi o forse ne provocò la morte. Si ricordi un omonimo di P.Muzio è stato arrestato per aver tentato di uccidere il re Etrusco Porsenna. Aveva messo sul fuoco la mano destra con la quale aveva giurato di salvare la patria e avendola lasciata eroicamente consumare tra le fiamme senza emettere un lamento, Caio Muzio era diventato Scevola per i suoi concittadini e per la storia (poiché in italiano “scevola” significa sinistro). Publio Muzio, lo Scevola che discende dall'eroe, sembra aver bruciato i suoi colleghi. Probabilmente, secondo alcuni, Muzio aveva contribuito alla morte di costoro denunciandoli e provocandone l'ordalia, secondo altri anch’ egli stesso avrebbe subito l’ordalia, ed era stato esposto alle fiamme come l'Antico eroe omonimo per poi sopravviverne. 2.Le ordalie a Roma Che i romani un tempo usassero affidare la soluzione delle questioni controverse al giudizio delle divinità emerge da numerose testimonianze. In una data imprecisata il fuoco di Vesta si spense e La Vestale Emilia incaricata di vegliare su di esso venne considerata la causa del sinistro presagio. Riuscì a provare la sua innocenza tendendo la mano verso l'altare e invocando la dea che aveva servito in suo soccorso. Stracciato un lembo dalla sua veste, lo gettò sull’altare. Dalla cenere ormai fredda, si accese una fiamma che avvolse la garza, provando l’innocenza di Emilia e salvandole la vita. Nei casi in cui appunto si viene accusati, l’accusa viene provata l'intervento della divinità, invocata dalla presunta colpevole prima di sottoporsi a una prova. 30 Come affermaò Tito Livio si fecero alcuni sacrifici straordinari nel foro Boario, sino a quel momento mai bagnato di sangue umano, con rito estraneo ai costumi religiosi dei romani. Con la frase “estranei ai costumi religiosi dei romani” voleva dire che i sacrifici umani non erano abituali a Roma e questo è certamente vero. Ma quel che interessa non è tanto la frequenza dei sacrifici umani quanto il modo in cui essi vennero compiuti e a ben vedere essi affondano le loro radici nelle stesse credenze che spiegano il rito della devotio. Nel momento in cui, spinti da eventi straordinari, i romani deciso di immollare vite umane, riemerse l’antica idea che la vittima consacrata dovesse raggiungere gli dei sotto terra. Di fronte all'ira divina la morte delle vestali(a loro volta sepolte vive) non fu considerata sufficiente a placare gli dei : perché la loro ira cessasse era necessario offrire anche vittime innocenti. Inoltre mentre placavano l’ira divina, i romani annientavano simbolicamente 2 stirpi nemiche. Se in questo caso la consegna delle vittime agli dei non avveniva attraverso un lancio, il significato del gesto sacrificale è evidentemente lo stesso. Precipitare a seppellire avevano il medesimo valore simbolico, così come il gesto, a volte sacrificale, di sommergere la vittima nell'acqua. 2.3 Gli argei, l’origine dei Saturnalia, i 60enni gettati dal ponte I romani non solo capivano ma condividevano la convinzione dei greci secondo cui sprofondare nella’acqua e schiantarsi al suolo erano gesti equivalenti: l’oggetto del lancio raggiungeva gli dei. 3. La precipitazione come ordalia La precipitazione esattamente come in Grecia, veniva in utilizzata come forma di ordalia sia a Roma e sia in molti dei territori che i Romani conquistarono. Nei territori dei Leontini, si trovavano due crateri profondissimi. !uesti crateri erano pieni di acque biancastre ribollente sature di gas e di zolfo ed erano considerati sacri agli dei. Coloro che dovevano prestare giuramento solenne raggiungevano il cratere e giunti sul bordo delle acque giravano secondo la formula scritta su una tavoletta e attendevano il responso Divino. Se avevano girato il vero non gliene veniva alcun male. Se avevano giurato il il falso morivano. Ovviamente in seguito alla precipitazione, se un condannato sopravviveva al lancio, gli era stata risparmiata alla vita. La sopravvivenza in quanto l'evento miracoloso comportava la concessione della Grazia. La storia della precipitazione si snoda in territorio Italico seguendo le orme già riscontrate in Grecia: da sacrificio a ordalia a esecuzione che punisce dei crimini religiosi. 4. La precipitazione come castigo Durante l'incontro in cui Tarquinio il Superbi aveva convocato i capi della città Latina e fu accusato da Turno Erdonio di voler dominare dalle città. Per sbarazzarsi di lui, dopo aver fatto nascondere nella sua casa delle spade, Tarquinio lo accusa di essere lui a voler dominare il Lazio e di aver ordito una congiura per prendere il potere con le armi. Si stabilì che Turno venisse ucciso e fu gettato nell'acqua della Fonte Ferentina, coperto con un graticcio carico di pietre. Il supplizio del graticcio non compare tra quelli previsti dal diritto di Roma. Ma appena si riflette sulla simbologia dei gestii che lo compongono può in qualche modo può richiamare più di una tra le pratiche di morte cui essi facevano ricorso. Secondo alcuni le pietre usate per ricoprire il graticcio che sommerse Turno potrebbe ricordare la lapidazione peraltro mai raccolta tra le istituzioni cittadini. Secondo altri ricorda la pena del sacco ma questa ipotesi non riuscì mai a convincere. Infatti ciò che induce escludere l'accostamento del supplizio di turno sia alla lapidazione, sia alla pena del Sacco è la rappresentazione che di esse avevano e ci hanno trasmesso i romani stessi: per loro Turno fu precipitato nell'acqua e come sappiamo acqua e terra erano simbolicamente equivalenti. La grata che gli copre il capo era certamente utile al fine di sommergerlo ma non indispensabile a questo scopo poiché con 31 le mani e i piedi legati, Turno sarebbe comunque sprofondato nelle acque. La grata costringe inevitabilmente a pensare al velo steso posto sul capo delle vittime sacrificali. Ma aldilà di questo, l’esecuzione di turno altro non fu che quella di chiaveva tradito la Fides. Se anziché dalla Rupe tarpea e gli fu gettato nella Fonte ferentina, fu perché non aveva tradito la città ma la lega: era nel luogo sacro ove L'assemblea dei latini si riuniva e che turno, accusato di tradimento, doveva morire come i traditori. 5. La precipitazione e la plebe Resta da capire per quale ragione a Roma il tradimento era punito con la precipitazione (deiecto). Ripensando la distinzione tra perduellio e pregiudizio è possibile ipotizzare che la perduellio fosse punita quella fustigazione a morte e la proditio (tradimento) con la precipitazione. In particolare un tradimento è punito con la precipitazione se è collegato con il difficile problema dei rapporti fra patrizi e plebei e con quello che discendeva dai poteri e dai diritti dei magistrati della plebe. Coriolano rischiò di essere precipitato per aver offeso i tribuni. Spurio Cassio precipitato per avere avanzato una proposta di legge che era dispiaciuta e plebei e Patrizi. Manlio capitolino fu condannato a essere precipitato quando il suo atteggiamento antipatrizio divenne così aggressivo da preoccupare persino i tribuni della plebe Sesto Lucio venne gettato dalla rupe per aver tradito la plebe. Non a caso dunque magistrati cui aspettava presiedere questa esecuzione erano i tributi della plebe. Fino al momento imprecisato in cui la precipitazione venne formalmente vietata (età di Claudio), il compito di eseguirla spettava ai magistrati plebei. Ma a partire dal momento in cui la plebe era stato riconosciuto il diritto di cittadinanza, chi offendeva i tribuni non ledeva più solamente gli interessi plebei ma provocava una frattura tra i due ordini e metteva in discussione gli equilibri indispensabili per la pace l'intera collettività. I tribuni della plebe, che non potevano ricorrere ad azioni legate alla manifestazione di un potere istituzionale, non volevano uccidere brutalmente come chi commetteva non volgare amicidio. Volevano che la morte da loro inflitta apparisse come una punizione la giusta risposta un comportamento inaccettabile. Semplicissima da realizzare un essere, essa era al tempo stesso un gesto di consolidata religiosità, era un valore ben diverso da quello di un qualunque atto di violenza e consentiva ai tribuni di non considerarsi e di non essere considerati assassini. La città di conobbe che gli atti che mettevano in pericolo la convivenza di due ordini dovevano essere considerati tradimento e i tribuni erano i magistrati cittadini che eseguivano una sentenza di morte pronunziata dalla città. 6. La precipitazione in città: conclusioni su Tarpea La storia della traditrice traditrici Tarpea non è legata dunque solamente al nome e al fatto che della Rupe venissero precipitati i traditori come tarpea. Ella come sappiamo morì sepolta viva. Coperto dagli scudi, il suo corpo scomparve, come quello di chi si era consacrato agli dei o come quello delle vittime sacrificali interrate vive nel Foro Boario o come quello di Turno Erdonio e dei traditori precipitati della Rupe. Vivisepoltura, precipitazione e sommersione appaiono chiaramente realizzazioni diverse di un'esecuzione ispirata allo stesso principio e volta raggiungere lo stesso scopo: consegnare la vittima gli dei Inferi. Precipitazioni e vivisepoltura erano lo stesso tipo di morte o quantomeno erano due morti espirate allo stesso principio: come le vestali incestae, Tarpea viene ricondotta alla terra come vittima sacrificale, con un'esecuzione certamente anomala. Ella dunque fu punita non solo perché traditrice ma anche come una traditrice. La rupe da cui venivano precipitati i traditori aveva il suo nome non solo perché ella era morta i suoi piedi ma anche soprattutto perché era morta della stessa morte riservata i traditori. 32 XVI: La pena del sacco Nel linguaggio della vita quotidiana il “culleus” era un banalissimo contenitore di cuoio a tenuta stagna ma nel lessico dei supplizi era lo strumento d'esecuzione riservata ai parricidi. I colpevoli di parricidio dovevano essere percossi con le verghe e cuciti in un sacco insieme un cane, a un giallo gallinaccio, a una vipera e una scimmia e dovevano essere gettati nel mare oppure nel più vicino corso d'acqua. Il reo doveva indossare degli zoccoli di legno e attorno al suo volto veniva legato un cappuccio di pelle di lupo. Chiudere il condannato in un contenitore prima di sommergerlo non fu invenzione romana ma l'invenzione romana fu quello di chiudere il reo insieme a degli animali. Indubbiamente gli animali cuciti insieme a lui erano letali per il parricida ma non è l'unica ragione. L'abitudine di cucire nel sacco alcuni animali nacque spontaneamente nella crudele fantasia di coloro che provvedevano l'esecuzione e al di fuori di ogni dettato normativo cominciarono a cucire nel sacco gli animali di più facile reperimento e molto aggressivi: dopo essersi lentamente affermata e consolidata la pratica venne confermata per legge. 1.Il bestiario del parricida Ogni animale simboleggiava qualcosa. i cani sono bestie che non risparmia neppure loro simili, da alcuni considerati vili immondi, disprezzabili e ignobili (Orazio e Virgilio). il gallo è un animale talmente battagliero da terrorizzare persino i leoni. Bisogna specificare che il giallo cucito nel sacco era il “gallo gallinaccio” cioè il cappone, e che il cappone nell'antichità era considerato particolarmente feroce. Ma sul piano simbolico, il gallo è indubbiamente l'animale più problematico, è l'animale “autore della luce” e il parricida uccide chi ha lui dato la luce. Un'altra interpretazione è che il gallo uccide le serpi. Ka presenza del gallo e della serpe nel sacco suggerisce l'idea di una catena senza fine di uccisioni, della violazione di quella regola fondamentale e della convivenza civile che il parricida aveva infranto nella città. La vipera, se femmina, partoriva una piccola vipera al giorno, in totale circa 20. Le altre, quindi, spazientite dell'attesa, escono dal fianco della madre uccidendola. Anche nel caso della vipera il riferimento simbolico è chiaro. Per la scimmia vi sono due metafore: secondo Plinio le scimmie amavano a tal punto i figli neonati da soffocarli nel loro abbraccio. Per la loro somiglianza all'uomo erano considerate la sua orripilante caricatura. Per Cicerone la scimmia e un uomo che non vale un soldo. Il cane il, il gallo, la vipera e la scimmia sarebbero stati inseriti nel sacco perché erano tutti animali prodigiosi, cioè mostruosi, che bisognava eliminare per evitare che diffondessero il contagio che portavano in sé Eerano considerati come il parricida, a sua volta considerato un prodigium. Un prodigium è per definizione un essere che presenta caratteristiche orrende e spaventose: come pensare che fossero considerati tali animali banalissimi con il cane il giallo? Le spiegazioni simboliche restano convincenti: vero o false che fossero le caratteristiche attribuite al cane e agli altri animali rinviavano al carattere e al gesso del parricida. Il pericoloso bestiario svolgeva dunque un duplice compito: finchè i vita, lo aggrediva, lo tormentava, lo straziava con ferocia e disumanità, pari a quella che aveva dimostrato quando aveva compiuto il più infame dei crimini. Dopo la morte confondeva i suoi resti con quelli dell'uomo in un ossario promiscuo, che forse un giorno sarebbe stato sospinto su una riva più o meno lontana. Non tutti coloro che viene uccisi nel sacco erano parricidi. In età post classica, per volere di Costanzo e Costante si stabilì che nel sacco venissero cuciti i condannati per adulterio . Questo ovviamente non esclude che nei fatti al momento dell'esecuzione si decidesse di aggravare la loro pena con l'inserzione 35 3.La condizione e il destino dell’homo sacer Quando la civitas assunse la sacratio nel quadro istituzionale delle pene, aveva scelto come conseguenza di mettere al bando il reo, ripudiandolo. Privata di ogni diritto religioso e politico, questa persona poteva essere uccisa senza che la sua uccisione fosse considerata un omicidio. La morte non era una conseguenza diretta della sacratio ma solo un’eventualità. Parte sesta: LA VENDETTA XIX: Cultura e pratica della vendetta La vendetta può avere un ruolo importante nella regolamentazione dei rapporti sociali. AM come conoscere il suo ruolo nella preistoria della cultura romana? L’assenza di fonti rende difficile capirlo poiché lo storico di Roma non ha a sua disposizione l’Iliade e l’Odissea. Ma testi più disparati ci dimostrano che la cultura della vendetta era profondamente radicata nella cultura romana. Anche quando la vendetta era stata vietata, l’idea che la pena servisse a dare soddisfazione sociale e conforto psicologico a chi aveva subito un torto permane inalterata. La coscienza sociale considerava la vendetta una pratica nobile e valutava la sua attuazione come prova di coraggio e dell’onore di chi aveva fatto ricorso, anche quando ormai era quella legale la sola consentita, ottenuta attraverso la pubblica esecuzione di una sentenza capitale. Se accadeva che qualcuno si facesse vendetta da solo senza mediazione della civitas, vi era chi riteneva questa vendetta più onorevole di quella legale. MA farsi vendetta da soli era stato vietato da tempo. Teoricamente chi uccideva per vendetta doveva essere condannato come assassino. Ma non sempre era così. Vi erano dei casi in cui poteva continuare ad essere esercitata. Secondo la “lex Julia de adulteriis” di Augusto del 18 avanti Crist,o a determinate condizioni, il padre e il marito potevano uccidere l'amante della figlia e della moglie senza incorre in alcuna sanzione. Spesso molti mariti se non arrivavano uccidere il complice della moglie, si abbandonavano vendette diverse e a torture certamente vietata dalla legge, ma consentite dalla prassi. A Roma il consenso che circondava il marito che aveva rischiato il proprio onore era totale. Alcuni amanti perdevano il naso oppure erano privati della virilità. Tuttavia il marito poteva uccidere l'amante secondo la lex Julia solo se lo sorprendeva in flagrante all’interno della sua casa e solo se l'amante era schiavo o appartenenti alle classi sociali più basse .entro tre giorni dalla medesima, il marito dovrà informare dell' accaduto il magistrato territorialmente competente punto ma con il trascorrere dei secoli limiti dell impunità maritale anziché restringersi andarono progressivamente espandendosi. In primo luogo, l’impunità originariamente limitata alla sola uccisione dell amante si estese anche a quello della moglie e se aveva ucciso l'amante al di fuori delle condizioni richieste dalla legge non veniva punito come omicida ma subiva una pena più lieve. Il suo giusto desiderio di vendetta giustificava in larga misura la sua azione, per non dire che la rendeva socialmente apprezzabile. Accanto alla vendetta privata esisteva anche la vendetta pubblica, che la civitas riteneva di dover compiere nei confronti dei nemici, dei traditori, degli amici o degli alleati infedeli. XX: La vendetta pubblica IL supplizio di Mezio Fufezio Racconta Livio virgola che Mezio fufezio, dittatore di Alba, concluse la pace col re Tullo Ostilio e si alleò con i romani. Ma era un alleato tutt'altro che leale e istigava i popoli vicini alla ribellione . Gli abitanti di Fidene si allearono ai miei veienti e dichiararono guerra a Roma. Dunque il re Tullo chiamò in aiuto Mezio. Egli in battaglia non si comportò come un alleato e aveva deciso di prendere tempo e di vedere come la battaglia si sarebbe svolta per poi, al momento opportuno, schierarsi dalla parte dei vincitori. I romani dissero al re 36 quanto stava accadendo e Tullo dichiarò a gran voce che gli alleati stavano compiendo una manovra di aggiramento. I fidenati allora, presi dal panico, si diedero alla fuga . Roma aveva vinto la guerra e Mezio, convinto che la sua manovra fosse passata inosservata ,si presentò al re complimentandosi con lui per la vittoria. Tullo lo accolse benevolmente e gli ordinò di unire il suo accampamento a quello dei romani. Il mattino seguente Mezio eseguì l’ordine e si recò con i suoi all'assemblea convocata dal re. Qui il re smascheròò pubblicamente il traditore poiché fu il violatore del patto e come dunque tenne l'animo diviso tra le fortune fidenate e quella romana, ora sarà il corpo di Mezio a essere diviso. Fece legare le estremità del suo corpo alle quadrighe e spronò i cavalli in diverse direzioni, così che questi si portassero via il corpo squarciato dai carri. Alcuni sostrngono che la pena avesse funzione deterrente e altri sostengono che invece non era altro che una vendetta pubblica attuata dal re per conto della collettività. A volte poteva accadere che l'esercizio della vendetta pubblica fosse affidata dalla civitas ai parenti della vittima, legittimati a compierla. 1. Vendicare Attilio Regolo Quando a Roma si viene a sapere della morte di Attilio Regolo, il Senato consegnò i più nobili cartaginesi ai figli costui perché ne vendicassero la morte e vendetta fu fatta senza pietà. Secondo una delle versioni della sua storia, Attilio regolo era stato sottoposto a una tortura realizzata cucendo le sue palpebre, esponendola ai dardi del sole più cocente e lasciandolo morire stroncato dalla mancanza di sonno. Ed ecco il racconto della vendetta: i più nobili tra i prigionieri cartaginesi furono consegnati dal Senato ai figli di Regolo, e chiusi in una botte piena di chiodi acuminatissimi per morire tormentati dalla stessa insonnia. Una vendetta crudele e minuziosa in modo che le stesse sofferenze fossero non sono equivalenti nella misura ma simbolicamente tali da riprodurre la modalità con le quali il male era stato inflitto. XXI: La vendetta privata e la sua utilizzazione in funzione di pena cittadina Il controllo della vendetta fu una delle prime preoccupazioni della civitas. La storia romana e quella greca evidenziano quali furono i passi per realizzare questo obiettivo. 1.Il primo di essi fu quello di individuare i casi nei quali la vendetta poteva essere fatta. 2.Il secondo fu quello di stabilire che in alcuni casi la vendetta, non era solo un atto autorizzato ma anche dovuto. 3.Il terzo fu quello di stabilire che la reazione doveva essere proporzionata all’offesa ed individuare la risposta consentita per ciascuno dei delitti. Quali erano questi delitti? Erano l'omicidio, alcuni tipi di furto e alcune ipotesi di lesioni personali. Con lesioni personali si fa riferimento alla ”membri ruptio”: chi ha rotto un membro subisce il taglione, a meno che la vittima non accetti una composizione pecuniaria il taglione è una vendetta perché si subisce ciò che si ha fatto e non presuppone necessariamente l'intervento dello Stato. La regola del taglione può derivare da una pratica sociale spontanea e tradursi in una regola consuetudinaria che limita la vendetta ancor prima che lo stato nasca. A Roma la civitas stabilì che si applicasse la pena del taglione a carico di chi aveva “rotto un membro” ad altri. Secondo alcuni rompere un membro significava asportare un loro un arto o un organo, mentre secondo altri significava compiere qualunque atto di violenza contro la persona che annullasse o turbasse anche solo temporaneamente la normale funzionalità di una parte del corpo. Il taglione, trattandosi di una vendetta e commisurata al danno conflitto, deve essere compiuto sotto il controllo pubblico. Si trattava però di un duplice controllo quando si rendeva necessario solo qualora colui 37 che aveva accusato di aver rotto un membro negasse ogni addebito e il secondo caso era di controllare che la vendetta si limitasse la misura del taglione. La vendetta veniva eseguita dal parente più stretto della vittima. Quello certo è che la punizione delle lesioni fisiche non prevedeva la pena capitale. Quali erano però i delitti puniti con la pena di morte? 1.La punizione dell’omicidio volontario: paricidas esto La legge di Numa diceva che se qualcuno avesse ucciso volontariamente un uomo libero “paricidas esto”. Cosa significa questo? Che l'omicida doveva essere considerato e punito come parricida? Se così fosse, la pena per l'omicidio sarebbe stata la “poena cullei”. L’ipotesi secondo la quale la formula avrebbe equiparato l'omicida al parricida si scontra, infatti, in primo luogo, con le difficoltà di immaginare che un delitto come l'omicidio, la cui repressione era di fondamentale importanza per la civitas, venisse punito con una norma che anziché indicare direttamente una sanzione rinviava un altro delitto e a un'altra sanzione. Sembra che non solo sia estremamente improbabile ma anche in contrasto con la pratica normativa dell’epoca . Se l’interpretazione di cui sopra fosse esatta infatti, ci troveremo di fronte all’ unica lex Regia. Secondo altri, la formula indicava che doveva esserci un parente vendicatore. In una situazione e in un ambiente in cui la risposta all’omicidio era stata per secoli la vendetta privata, la civitas nascente, nel momento in cui decide di avocare a sé il diritto di stabilire quali fossero i comportamenti meritevoli di una sanzione, si trova a dover fare i conti con una prassi vendicativa così radicata da rendere estremamente difficile pensare di poterla cancellare da un giorno all'altro. Come in Grecia, il problema era quello di conciliare una mentalità che considerava la vendetta privata non solo un diritto ma anche un dovere sociale con l'affermazione del diritto esclusivo della civitas di stabilire come e quando un comportamento meritasse di essere punito con la morte. La civitas romana decise di intervenire operando una sorta di mediazione e dunque anche a Roma in alcuni casi, si autorizzarono i parenti della vittima a uccidere l'assassino. Nell’ autorizzare questa pratica, in primo luogo essa ne modificò radicalmente il carattere e la natura, sottraendola però al campo dell'iniziativa familiare e trasformando i parenti autorizzati a uccidere, da vendicatori privati in agenti delegati dalla civitas. In secondo luogo, essa limitò la possibilità di uccidere l'assassino all’ipotesi che costui avesse commesso l’omicidio volontario, riservandosi il diritto di accertare se e quando l'omicidio fosse tale, e incaricandosi delle relative indagini tramite gli aiutanti del re chiamati “questores parricidiis”. Infine, stabilendo che l'omicida volontario doveva essere ucciso, vietò ai parenti di accettare una composizione pecuniaria: chi aveva commesso un omicidio volontario, a partire da quel momento, non poteva più sottrarsi alla pena di morte. 2. La lapidazione: esecuzione delegata per omicidio? I parenti potevano scegliere liberamente l'esecuzione che preferivano: tutto induce a pensare che spesso essi scegliessero il tipo di morte che la vittima aveva subito. I modi dell’esecuzione dunque erano i più svariati e uno di questi modi era la lapidazione. A Roma la pietra non era strumento di giustizia cittadina ma di una giustizia collettiva e spontanea ,che colpiva chi aveva provocato un male alla collettività. Più che come uno strumento della vendetta privata, la
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