Scarica Il Decadentismo: D'Annunzio e Pascoli e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! IL DECANTISMO Società, cultura e idee Il 26 maggio 1883, sul periodico parigino “Le Chat Noir”, Paul Verlaine pubblicava un sonetto dal titolo “Longueur”, in cui affermava di identificarsi con l’atmosfera di stanchezza e di estenuazione spirituale dell’impero romano, alla fine della sua decadenza. Il sonetto interpretava uno stato d’animo diffuso nella cultura del tempo, ossia il senso di disfacimento e di fine di tutta una civiltà, l’idea essaporata con un voluttuoso compiacimento autodistruttivo di un imminente cataclisma epocale. Queste idee erano proprie di circoli d’avanguardia che si contrapponevano alla mentalità borghese e ostentavano atteggiamenti bohèmien, ispirandosi al modello maledetto di Baudelaire. La critica ufficiale usò il termine “decadentismo” in accezione negativa e spregiativa ma quei gruppi intellettuali vollero rovesciarne il senso a indicare un privilegio spirituale e ne fecero una sorta di bandiera. Il termine decadentismo indicava un determinato movimento letterario, la critica ha assunto il termine come etichetta di una grande corrente culturale di dimensioni europee, che si colloca negli ultimi due decenni dell’ottocento e nel primo novecento. L’uso del termine è diffuso nella storiografia letteraria italiana mentre in altri paesi sono preferiti diverse denominazioni come ad esempio simbolismo. Inteso in un’accezione più vasta, il decadentismo appare come una somma di manifestazioni artistiche letterarie tra di loro molto differenti, al cui interno si possono individuare denominatori comuni che autorizzano ad usare una formula unica e onnicomprensiva. La visione del mondo decadente La base della visione del mondo decadente è un irrazionalismo misticheggiante che riprende ed esaspera posizioni già largamente presenti nella cultura romantica. Viene radicalmente rifiutata la visione positivistica: •la realtà è un complesso di fenomeni materiali, regolata da leggi ferree, meccaniche; •la scienza, una volta individuate tale leggi, è in grado di garantire una conoscenza oggettiva e totale della realtà e attraverso di essa, il dominio dell’uomo sul mondo; •il progresso è un processo indefinito e senza interruzioni che sancisce il trionfo della civiltà sull’oscuramento e la sconfitta di tutti mali che affliggono l’umanità. Il decadente ritiene al contrario che la ragione e la scienza non possono dare la vera conoscenza del reale perché l’essenza di esso è al di là delle cose, misteriosa ed enigmatica per cui solo rinunciando all’abito razionale si può tentare di attingere all’ignoto. L’anima decadente è perciò sempre protesa verso il mistero che è dietro la realtà visibile. Se nella comune visione razionale le cose possiedono una loro oggettiva individualità, che le isola le une dalle altre, per questa visione mistica tutti gli aspetti dell’essere sono stati legati tra loro da analogie e corrispondenze, che sfuggono alla ragione e possono essere colte solo in un abbandono di empatia irrazionale. La rete di corrispondenze coinvolge anche l’uomo, poiché esiste una sostanziale identità tra io e mondo. Tale unione si realizza sul piano dell’inconscio, in questa zona oscura l’individualità scompare e si fonde con un tutto inconsapevole. La scoperta dell’inconscio è il dato fondamentale della cultura decadente; un ruolo molto importante lo avrà Freud con l’interpretazione dei sogni, il suo fine è portare alla luce della coscienza l’inconscio, sottoporlo al dominio dell’IO. I decadenti distrussero ogni legame razionale, convinti che solo questo abbandono totale potesse garantire la scoperta di una realtà più vera. La politica del decadente Il decadente utilizza mezzi tecnici ottenendo effetti di segreta suggestione come la musicalità. Lo strumento linguistico più usato è quello metaforico e analogico. La metafora nella poesia decadente presuppone una concezione irrazionalistica, è l’espressione di una visione simbolica del mondo, non bisogna confonderla con l’allegoria che rappresenta un concetto astratto attraverso l’immagine concreta. Il simbolismo è oscuro, misterioso e polisemico, ossia più significati. Affine alla funzione della metafora è quella della sinestesia, che consiste nell’accostamento di termini che appartengono a sfere sensazionale diverse come ad esempio la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto e il gusto. Temi e miti della letteratura decadente Buona parte della letteratura decadente è segnata dal sadismo, con il suo complemento immancabile, il masochismo (il sadico prove piacere infliggendo dolore fisico e umiliazioni al proprio partner, il masochista trova invece piacere nel subire tali pratiche) questo lo possiamo ritrovare in Wilde. La nevrosi è una costante che segna tutta la letteratura decadente, e spesso è una caratteristica che appartiene ai protagonisti dei romanzi, dei drammi e delle poesie. Accanto alla malattia nervosa vi è la malattia dell’inconscio che in genere è un altro grande tema decadente. Da un lato essa si pone come metafora di una condizione storica, di un momento di crisi profonda, di smarrimento delle certezze e di angoscia. Dall’altro lato, la malattia diviene condizione privilegiata, segno di nobiltà e di distinzione di uno stato di grazia. Alla malattia umana si associa la malattia delle cose, il gusto decadente ama tutto ciò che è corrotto, impuro e putrescente . (La città decadente per eccellenza è Venezia, che esercita sugli scrittori un fascino inquietante, come ad esempio Fuoco di D’annunzio). La malattia e la corruzione affascinano i decadenti anche perché sono immagini di morte, che in questo periodo diventa un tema dominante e ossessivo. Al fascino esercitato dalla malattia, dalla decadenza e dalla morte, si contrappongono però tendenze opposte, il vitalismo cioè l’esaltazione della pienezza vitale aldilà di ogni norma morale, la ricerca di godimento, la celebrazione della forza barbarica, che impone il suo dominio sui deboli e puoi così rigenerare un mondo esausto (superomismo). Filosoficamente i temi sono concentrati sulle teorie di Schopenhauer mentre per il vitalismo i temi si concentrano solo il teorie di Nietzsche e la letteratura di D’Annunzio. In realtà sono atteggiamenti solo apparentemente in contrapposizione, il culto della forza della vita non è che è un modo per esercitare le l’attrazione morbosa della morte per cercare di sconfiggere un senso di stanchezza e di esaurimento che si affaccia nonostante ogni sforzo sforzo di resistenza. Il vitalismo superomistico non è che l’altra faccia della malattia interiore, del disfacimento e degli impulsi autodistruttivi o meglio la maschera che cerca inutilmente di occultarli. L’artista decadente si isola ferocemente dalla realtà contemporanea, è orgoglioso della propria diversità, rovesciando i segni di nobiltà anche i propri tratti negativi e le proprie ossessioni. Nascono di qui alcune figure ricorrenti nella letteratura decadente: •L’artista maledetto, che profana tutti i valori e le convenzioni della società, che sceglie deliberatamente il male e si compiace di una vita misera, errabonda, sgretolata, condotta sono all’estremo limite dell’autoannientamento attraverso il vizio della carne, l’uso dell’alcol e delle droghe; •l'esteta, l'uomo che vuol trasformare la sua vita in opera d'arte, sostituendo alle leggi morali le leggi del bello e andando costantemente alla ricerca di sensazioni squisite e piaceri raffinati; ha orrore della vita comune, della mediocrità borghese e si isola in una sdegnosa solitudine, circondato solo dalla bellezza e dall'arte; •l’inietto a vivere, che si sente escluso dalla vita che pulsa intorno a lui e a cui egli non sa partecipare per mancanza di energie vitali, per una sottile malattia che corrode la sua volontà: egli può solo rifugiarsi nelle sue fantasie, vagheggiando in sterminati sogni l'azione da cui è escluso; vorrebbe provare forti passioni, ma si sente inaridito, isterilito, impotente; più che vivere, si osserva vivere; il senso di impotenza e di esclusione sono causati da un eccesso di pensiero, dal continuo osservarsi e studiarsi che raggela i suoi sentimenti e blocca l'azione; •la donna fatale, dominatrice del maschio fragile e sottomesso, lussuriosa e perversa, crudele torturatrice, maga ammaliatrice al cui fascino non si può sfuggire, che consuma le energie vitali dell'uomo, lo porta alla follia, alla distruzione. L’inetto a vivere conosce una variante originale con il fanciullino pascoliano: il rifiuto della condizione adulta e che esprime l’esigenza di una regressione a forma di coscienza primigenia, anteriori alla vita logica quindi è anch’esso espressione dell’irrazionalismo e del fondamentale misticismo che sono propri della concezione decadenti. Dalla tendenza decadente ad esaltare la pienezza vitale e la forza barbarica per nascondere la sensazione di debolezza e sconfitta ha origine la figura del superuomo di D’Annunzio, liberamente ispirato alle teorie di Nietzsche: il superuomo dannunziano è l’individuo superiore alla massa mediocre, forte e dominatore, che si muove alla conquista di mete eroiche, senza essere ostacolato da dubbi e incertezze. Il mito si carica anche di violenze politiche che il superuomo il compito di riportare l’Italia alla grandezza passata e i suoi destini imperiali. DECADENTISMO E ROMANTICISMO Tutte le tematiche del Decadentismo si trovano già nel Romanticismo, in particolare nel Romanticismo tedesco e inglese. Pertanto il Decadentismo può a buon diritto essere ritenuto una seconda fase del Romanticismo. Sulla base di un comune irrazionalismo, del rifiuto della realtà e della fuga verso un “altrove” ideale e fantastico, l’età romantica si segnalava per il suo slancio entusiastico, per la tensione verso l’infinita espansione dell’IO, per le forme di ribellione eroica e titanica, che rilevano una vergine energia spirituale, il Decadentismo è contrassegnato da un senso di stanchezza, estenuazione, smarrimento, da un presentimento di fine e di sfacelo, che inibisce ogni slancio energico e induce a ripiegarsi nell’analisi inerte della propria “malattia” e debolezza. Il Romanticismo aveva ambizioni costruttive mentre il decadentismo non punta alla totalità, ma solo al frammento; il mondo non ha più centro, così come l’opera d’arte; il singolo particolare assume un valore assoluto, vale quanto l’insieme. Ne deriva ancora che se lo slancio verso l’ideale consentiva agli scrittori romantici forme di impegno politico sociale; l’artista decadente rifiuta invece ogni impegno, erige la forma artistica a valore supremo e afferma il principio della poesia pura (senza contaminazione politica e morale). compiacimento per un mondo magico, superstizioso e sanguinario. Le novelle di D’Annunzio si richiamano al regionalismo veristico, la loro sostanza è del tutto estranea al gusto documentario, agli interessi sociali, alla visione positivistica del Verismo, e si collega alla matrice irrazionalistica del decadentismo. D’Annunzio insiste sui temi di sensualità perversa, compendiati in immagini di una femminilità fatale e distruttrice. Queste opere poetiche sono il frutto della fase dell’esetismo dannunziano, che si esprime nella formula “il Verso è tutto”. L’arte infatti è suprema, proprio per questo che la sua vita doveva essere un’opera d’arte che sfocia in un vero e proprio culto del bello. I versi dannunziani sono fitti di echi letterari che provengono dai poeti classici. D’Annunzio proviene dal ceto medio e non ha paura che la società lo schiacci, perché egli vuole il successo e la forma per condurre una vita aristocratica, per questo D’Annunzio scriverà libri, per vendere molto, e utilizzerà anche la sua vita privata per farsi pubblicità. L’esteta però non ha la forza di opporsi realmente alla borghesia in ascesa, che a fine secolo si avvia sulla strada dell’industrialismo e cosi egli avverte la fragilità dell’esteta e il culto della bellezza si trasforma in menzogna. La costruzione dell’estetismo entra in crisi. Il primo romanzo scritto da D’Annunzio è “Il piacere” e ne è la testimonianza più esplicita. Al centro del romanzo si pone Andrea Sperelli, il quale non è che un “doppio” di D’Annunzio stesso, in cui l’autore obiettiva la sua crisi e la sua insoddisfazione. Andrea è un giovane aristocratico, artista proveniente da una famiglia di artisti, “tutto impregnato di arte”. Il principio “fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”, in un uomo dalla volontà debolissima quale è Andrea, diviene una forza distruttrice, che lo priva di ogni energia morale e creativa, lo svuota e lo isterilisce. La crisi trova il suo banco di prova nel rapporto con la donna. L’eroe è diviso tra due immagini femminili, Elena Muti, la donna fatale, che incarna l’erotismo lussurioso, e Maria Ferres, la donna pura, che rappresenta ai suoi occhi l’occasione di un riscatto e di una elevazione spirituale. Ma in realtà l’esteta libertino mente a sé stesso: la figura della donna angelo è solo oggetto di un gioco erotico più sottile e perverso, fungendo da sostituto di Elena, che Andrea continua a desiderare e che lo rifiuta. Andrea finisce per tradire la sua menzogna con Maria, ed è abbandonato da lei, restando solo con il suo vuoto e la sua sconfitta. Con questo D’Annunzio critica il suo altr’ego, infatti con Il piacere, D’Annunzio non si distacca completamente con l’esteta, infatti D’Annunzio cerca di creare un romanzo psicologico; e una cosa che si ritroverà anche nelle suo opere sarà la costruzione di sottili trame simboliche. Qui si apre un periodo di incertezze dove subirà il fascino russo di Dostoevskij, dove scriverà Poema paradisiaco ossia un ritorno alle cose semplici, all’infanzia e il vagheggiamento di passato ormai perduto. La “bontà” è però una soluzione provvisoria. Uno sblocco alternativo alla crisi dell’estetismo scaturirà della letteratura del filosofo Nietzsche. I romanzi del superuomo D’Annunzio coglie alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, banalizzandoli e trasformandoli a suo piacimenti. Innanzitutto il rifiuto del conformismo borghese, odiava i principi egualitari; esaltava lo spirito “dionisiaco” (Dioniso era il dio greco dell’ebbrezza); il rifiuto dell’etica della pietà, dell’altruismo, che mascherano solo l’incapacità di godere la gioia dionisiaca del vivere, l’esaltazione della “volontà di potenza”, dello spirito della lotta e dell’affermazione di sé; il mito del superuomo, un nuovo tipo di umanità, liberata e gioiosa. Vuole però una nuova aristocrazia che si affermi su tutti e questi privilegiati dovranno portare l’Italia ad un dominio mondiale simile all’antica Roma. Il superuomo di D’Annunzio era aggressivo, dominatore di un élite che deve essere violenta e allo stesso tempo raffinata. Infatti e proprio grazie a questo artista superuomo che si può realizzare il sogno di D’Annunzio di diventare vate. L’ideologia del superuomo a differenza di quello dell’esteta può portare a veri cambiamenti, infatti il superuomo deve porre fine al caos attuale e distruggere l’egualità. Nel ciclo di “Romanzi della rosa” vi sono Il Piacere, l’Invincibile e l’ultimo ossia il Trionfo della Morte. L’eroe Giorgio Aurispa, ancora esteta è simile ad Andrea, esso è profondamento colpito da una malattia interiore, che lo svuota e perciò va alla ricerca di un nuovo senso della vita, infatti qui D’Annunzio vuole far comprendere che il nuovo intellettuale deve essere libero dal peso del vittimismo e della sconfitta; può essere considerato più un romanzo psicologico. Ciclo del giglio rappresenta la purità del superuomo, doveva essere una Trilogia ma scrisse solo Le Vergini delle rocce, dove l’eroe, Claudio Cantelmo è forte e sicuro ed è il manifesto politico del superuomo. Ciclo del Melograno rappresenta la passione dove scrisse solo un romanzo ossia Fuoco con il protagonista Stelio Effrena che ha una storia con un’attrice, con questa storia rappresenta la sua reale storia con Eleonora Duce. Vi solo lunghe discussioni e analisi psicologiche. Dopo un periodo di teatro scrive il romanzo Forse che sì forse che no, dove Paolo Tarsis realizzò la sua volontà eroica nel volo. È un intreccio più drammatico infatti si vede la sua esperienza teatrale. Le opere drammatiche Grazie al teatro D’Annunzio conoscerà e inizierà la sua relazione con Eleonora Duse. D’Annunzio voleva costruire un teatro fuori dal comune, pieno di personaggi d’eccezione e una trama simbolica, come La neve, Parisina, Francesca da Rimini. Scrisse anche alcune drammi ambientati nel presente, come La Gloria, la Gioconda, il Ferro, lontani dall’ambiente borghese. Alcuni drammi sono politici come La neve, la Gloria. La figlia di Iorio, D’Annunzio la definisce “tragedia pastorale”. Lo scrittore ambienta la vicenda in un Abruzzo primitivo, magico e superstizioso, mitico e fuori dal tempo, e si compiace di insistere su miti, credenze, oggetti tipici della civiltà organica agricolo-pastorale, vi è il gusto tutto decadente per il barbarico ed il primitivo. Le laudi Cerca di diffondere la sua ideologia di vate grazie al ciclo dei romanzi che non riuscì però a terminare. Nel campo della lirica vuole scrivere sette libri di Laudi del cielo del more della terra e degli eroi. Nel 1903 erano stati terminati e pubblicati i primi tre, Maria, Elettra e Alcyone. Un quarto libro fu Merope raccogliendo le Condizioni della gesta d’oltremare. Un quinto libro fu Asterope che comprende le poesie ispirate alla Prima guerra mondiale. Il primo libro, Maia, non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema unitario di oltre ottomila versi, non segue uno schema fisso, ma adotta il verso libero con rime ricorrenti senza schema fisso. Il poema è la trasfigurazione mirica di un viaggio in Grecia realmente compiuto da D’Annunzio. Il protagonista odia le metropoli industriali che considera orrende. Il poeta inneggia la modernità come il capitale, la macchina, che fino a prima odiava ma ora considera come nuovi strumenti per fini eroici; ora inneggia anche le masse operaie perché sono strumenti essenziali nelle mani del super uomo; infatti tutto ciò serve a D’Annunzio anche se ha paura e orrore per queste cose. I suoi sogni di onnipotenza lo porteranno a superare le proprie paure e non a rinchiudersi in sé stesso come intellettuali precedenti. Il D’Annunzio autentico è quello decadente che esplora tutto ciò che è oscuro e che ha nostalgia del passato. Nel libro Elettra vi è una propaganda politica diretta piena di ideologia nazionalistiche e belliche, tutto rappresentato da un futuro glorioso e bello con un passato da riscattare. Nel libro Alcione vi è un tema lirico della fusione panico con la natura (panico derivante dal dio Pan, ossia dio della natura). Il libro è composto da 88 componenti, è come il diario ideale di una vacanza estiva scritto in 4 anni. La stagione estiva era considerata la più sensuale e infatti l’io del poeta si fonde con l’infinito sentendosi quasi divini e sfociano così in un superomismo, un esempio è La pioggia del pineto, con 32 versi liberi, l’ultimo verso di ogni strofa è concluso con Ermione. Il Alcyone manca però l’esaltazione dianistica e così il libro offre risultati più alti delle poesie d’annunziane. Il periodo notturno Dopo Forse che si forse che no, D’Annunzio non scrive più romanzi. La Leda senza cigno è ancora un’opera narrativa, ma non ha più la complessa struttura del romanzo, avvicinandosi alla novella; questo abbandono avviene per una crisi generale del romani ottocentesco. Nel 900 in Italia si sperimentano nuove forme di prosa, lirica, evocativa, di memoria, frammentaria. Cosi D’Annunzio pubblicherà il Notturno e il libro segreto; opere diverse tra loro ma accomunate dal taglio autobiografico. Per questo furono apprezzate dalla critica, vi si colse un D’Annunzio genuino e sincero con queste prose che presentavano ricordi d’infanzia, sensazioni fuggevoli, sensazioni soggettive e una esplorazione della sua interiorità pervasa inquietudini e perplessità. Anche la struttura di queste opere è nuova, vi è il frammento: una fusione del presente e passato, un mescolare il ricordo alla fantasia, alla visione quasi allucinata, tutto con percezioni sensoriali casuali. Quest’ultima stagione della produzione dannunziana viene comunemente definita “Notturno” composta nel 1916, in un periodo in cui lo scrittore era costretto ad un’assoluta immobilità e cecità, grazie a quest’ultima (che poi tramuterà in perdita totale dell’occhio destro) tutta l’esperienza vitale si concentra sugli altri sensi o nell’auscultazione della propria interiorità. Impressioni, visioni, ricordi vengono annotati su lunghe strisce di carta che rendono possibile l’operazione della scrittura anche senza l’uso della vista. Queste prose rivelano ancora una presenza di pose narcisistiche e di autocelebrazioni del popolo. GIOVANNI PASCOLI La vita Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855, da una famiglia della piccola borghesia rurale, di condizione agiata. Era la tipica famiglia patriarcale, molto numerosa, infatti Giovanni era il quarto figlio di ben 10. La sua vita serena venne sconvolta da una tragedia destinata a segnare l’esistenza del poeta, il 10 agosto 1867, suo padre Ruggero Pascoli, fu ucciso a fucilate, probabilmente da un rivale che aspirava a prendere il suo posto di amministratore, (Giovanni scriverà il 10 agosto, stelle cadenti) a causa dell’omertà della gente ma anche per inerzia dell’indagini, il colpevole non fu mai individuato, e questo diede al giovane Pascoli, il senso di ingiustizia bruciante. Nel giro di pochi anni seguirono altri lutti, nel 1868 morirono la madre e la sorella maggiore, nel ‘71 il fratello Luigi e nel ‘76 Giacomo. Per quanto riguarda la sua carriera scolastica frequentò il collegio degli Scolopi, dove ricevette una rigorosa formazione classica. Nel 1873, Pascoli ottenne una borsa di studio presso l’università di Bologna, grazie al suo brillante esito di un esame (nella commissione vi era Carducci). Negli anni universitari, Pascoli subì il fascino dell’ideologia socialista, che si stava diffondendo negli ambienti studenteschi. A causa delle sue manifestazioni contro il governo, fu arrestato nel 1879 e trascorse alcuni mesi in carcere, per poi essere assolto. Riprese con impegno gli studi e nel 1882 si laureò, iniziò subito la sua carriera di insegnante liceale, prima a Matera e poi a Massa. Qui chiamò a vivere con sé le due sorelle, Ida e Mariù, ricostruendo così idealmente quel nido familiare che i lutti avevano distrutto. Si trasferì, nel 1887, a Livorno, sempre con le sorelle, dove rimase fino al 1895. Il nido familiare L’attaccamento morboso alle sorelle rivela la fragilità della struttura psicologica del poeta, che fissato dei traumi subiti nell’infanzia, ricerca nel “nido” la protezione di un mondo esterno, quello degli adulti che gli appare minaccioso e pieno di insidie. A questo si unisce, il ricordo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano continuamente nel nido, riproponendo il passato di lutti e dolori, inibendo al poeta ogni rapporto con la realtà esterna. Non vi sono relazioni amorose nella vita del poeta, come lui stesso confessa conduce una vita forzatamente casta. C’è in lui il desiderio di un vero nido in cui esercitare il ruolo di padre, ma il legame ossessivo con il nido infantile spezzato gli rende impossibile la realizzazione del sogno. La vita amorosa ai suoi occhi ha un fascino torbido, è qualcosa di proibito e misterioso, da contemplare da lontano con palpiti e tremori. Le esigenze affettive del poeta, sono a livello conscio soddisfatti interamente dal rapporto con le sorelle, che rivestono un evidente funzione materna (mentre a sua volta il “fanciullino” da loro amorosamente accudito riveste verso le due donne una funzione protettiva, “paterna”). Si può capire allora perché il matrimonio di Ida, nel 1885, fu sentito da Pascoli come un tradimento, e determinò in lui una vera manifestazione depressiva e viceversa quando si profilò vagamente un suo matrimonio con la cugina, dove Giovanni dovette rinunciare per la gelosia di Mariù. Questa complessa e torbida situazione affettiva del poeta è la chiave necessaria per cogliere il carattere turbato, tormentato e morboso della poesia di Pascoli, carattere che si gela dietro l’apparenza dell’innocenza e del candore fanciulleschi, della celebrazione delle piccole cose, delle realtà più semplici e umili: senza tener presente quel punto di partenza si rischia di scambiare la sua poesia per un modesto idillio, senza scorgere la sua vera, inquietante e proprio per questo affascinante sostanza. L’insegnamento universitario e la poesia Nel 1895, dopo il matrimonio di Ida, Pascoli prese in affitto una casa a Castelvecchio di Barga, nella campagna lucchese. Qui, con la fedele sorella Mari, trascorreva lunghi periodi, lontano dalla vita cittadina che detestava e di cui aveva orrore, a contatto con il mondo della campagna che ai suoi occhi costituiva un Eden di serenità e pace, di sentimenti semplici e puri. Intanto, nel 1895, Pascoli aveva ottenuto la cattedra di Grammatica greca e latina all'Università di Bologna, poi di Letteratura latina all'Università di Messina, dove insegnò sino al 1903. Passò quindi a Pisa, ed infine dal 1905 subentrò al suo maestro Carducci nella cattedra di Letteratura italiana a uditorio ideale. Questa immagine di Pascoli fu accolta anche dalla critica, che a lungo parlò di poeta delle piccole cose, della natura campestre e degli affetti famigliari, del poeta “fanciullino” cantore della bontà, dell’innocenza, fornendone un’immagine dolce che ne esorcizzava e ne rimuoveva gli aspetti più inquietanti. Il grande Pascoli decadente È questo il Pascoli che oggi gode di minor credito e che non si legge più più o si legge con fastidio. Le trasformazioni del clima culturale e del gusto hanno portato alla luce un Pascoli tutto diverso, scoprendone la straordinaria novità e forza d’urto, un Pascoli inquieto, tormentato, morboso, visionario, che ben si inserisce nel panorama del decadentismo europeo. È il Pascoli che è in perenne ricerca del mistero che è al di là del poeta pedagogico si delinea un grandissimo poeta dell’irrazionale (come il decadentismo che è appunto un movimento irrazionale) capace di raggiungere profondità inaudite; perciò il poeta “fanciullino” può a buon diritto essere ritenuto il nostro scrittore più autenticamente decadente, riconoscendo al termine un valore culturale del tutto positivo, a indicare una tendenza che dà voce agli smarrimenti e alle angosce di un periodo di terribili tensioni. I CANTI DI CASTELVECCHIO I Canti di Castelvecchio (1903) sono definiti dal poeta stesso, nella prefazione, «Myricae», quindi si propongono intenzionalmente di continuare la linea della prima raccolta. Anche qui ritornano immagini della vita di campagna, canti d'uccelli, alberi, fiori, suoni di campane, e ricompare una misura più breve, lirica anziché narrativa. I componimenti si susseguono secondo un disegno segreto, che allude al succedersi delle stagioni: ancora una volta l'immutabile ciclo naturale si presenta come un rifugio rassicurante e consolante dal dolore e dall'angoscia dell'esistenza storica e sociale. Ricorre con frequenza ossessiva, infatti, il motivo della tragedia familiare e dei cari morti, che si stringono intorno al poeta a rinsaldare quel vincolo di sangue e d'affetti che la brutale violenza degli uomini ha spezzato. Vi è anche il rimando continuo del nuovo paesaggio di Castelvecchio a quello antico dell'infanzia in Romagna, quasi ad istituire un legame ideale tra il nuovo «nido» costruito dal poeta e quello spazzato via dalla tragedia (parallelismo che prende vita esplicitamente nel ciclo intitolato Ritorno a San Mauro). Non mancano però anche in questa raccolta i temi più inquieti e morbosi, che danno corpo alle segrete ossessioni del poeta: l'eros, contemplato col turbamento del fanciullo per il quale il rapporto adulto è qualcosa di ignoto, affascinante e ripugnante insieme (Il gelsomino notturno), e la morte, che a volte appare un rifugio dolce in cui sprofondare, come in una regressione nel grembo materno (La mia sera). Dalle piccole cose della realtà umile lo sguardo si allarga poi agli infiniti spazi cosmici, ad immaginare misteriose apocalissi future che distruggeranno forse la vita dell'universo (Il ciocco). I POEMETTI Una fisionomia diversa possiedono i poemetti raccolto per la prima volta nel 1897, poi ripubblicati con aggiunte nel 1900 ed infine nella veste definitiva, diversi in 2 raccolte distinte, Primi poemetti (1904) e nuovi poemetti (1909). Si tratta di componimenti più ampi di quelle di Myricae che all’impianto lirico sostituiscono un più disteso taglio narrativo, diventando spesso dei veri e propri racconti in versi. Muta anche la struttura metrica: ai Versi breve subentrano di regola, le terzine dantesche (decasillabi, rime incatenate) raggruppate in sezioni più o meno ampie. Anche qui, però, assume rilievo dominante la vita della campagna. All’interno delle 2 raccolte si viene a delineare un vero e proprio “Romanzo Georgico”, cioè la descrizione di una famiglia rurale di barga, colta in tutti i momenti caratteristici della vita contadina. Il poeta vuole celebrare la piccola proprietà rurale, presentandola come depositaria di tutta una serie di valori tradizionali e autentici, solidarietà familiare e affetti, laboriosità, bontà, purezza morale, schiettezza, semplicità, saggezza, in contrapposizione alla negatività della realtà contemporanea. È evidente perciò come questa raffigurazione della campagna non abbia punti di contatto con quella che pochi anni prima era stata offerta dal verismo, in particolare da verga: il mondo rurale Pascoliano è idealizzato e idillico, ignora gli aspetti più crudi della realtà popolare, il bisogno, la miseria, la degradazione e l’abbrutimento della natura umana, ignora i conflitti sociali, la violenza della lotta per la vita, la disumanità delle leggi economiche. Pascoli si sofferma sugli aspetti più quotidiani, umili e dimesse di quel mondo. Non solo, ma il poeta vuole mettere in rilievo quanto di poetico è insito anche nella realtà umili, la loro dignità “sublime” per cui le più consuete attività quotidiane della vita di campagna sono da lui trasfigurate in una luce di epos. Al di fuori di questo ciclo georgico si collocano numerosi poemetti, che presentano temi più inquietanti e torbidi, densi di significati simbolici, come il vischio che insiste sull’immagine mostruosa di una pianta parassita e vampira che succhia la vita di un albero da frutto, dando origine a un ibrido ripugnante digitale purpurea con al centro un fiore di morte che emana profumo inebriante e insidioso e turba l’innocenza delle educande di un convento di suor Virginia. Vanno poi ricordati altre altri testi famosi: l’aquilone tutto giocato sul tema della memoria che riporta stagioni passate, facendo rivivere l’infanzia, Italy che affronta invece il tema sociale, quello dell’emigrazione che tanto sta a cuore a Pascoli descrivendo il ritorno temporaneo di una famiglia di emigranti al paese natale e il conflitto fra due mondi quello moderno industriale della nuova patria l’America e quello arcaico della campagna lucchese.