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Il Piccolo Principe . Un libro da leggere assolutamente, Appunti di Telecomunicazioni

“Storie vissute della natura”.Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava.

Tipologia: Appunti

2016/2017

Caricato il 13/11/2017

manu-83
manu-83 🇮🇹

1 documento

Anteprima parziale del testo

Scarica Il Piccolo Principe . Un libro da leggere assolutamente e più Appunti in PDF di Telecomunicazioni solo su Docsity! è a j VC a ME E PS Antoine de Saint-Exupéry Il Piccolo Prinape I Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato “Storie vissute della natura”, vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell’atto di inghiottire un animale. Eccovi la copia del disegno. C’era scritto: “I boa ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la digestione richiede”. Meditai a lungo sulle avventure della jungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno. Il mio disegno numero uno. Era così: Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: “ Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?” . Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Affinché vedessero chiaramente che cos’era, disegnai l’interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. Il mio disegno numero due si presentava così: Niente di lui mi dava l’impressione di un bambino sperduto nel deserto, a mille miglia da qualsiasi abitazione umana. Quando finalmente potei parlare gli domandai: “Ma che cosa fai qui?” Con tutta risposta, egli ripetè lentamente come si trattasse di cosa di molta importanza: “Per piacere, disegnami una pecora…” Quando un mistero è così sovraccarico, non si osa disubbidire. Per assurdo che mi sembrasse, a mille miglia da ogni abitazione umana, e in pericolo di morte, tirai fuori dalla tasca un foglietto di carta e la penna stilografica. Ma poi ricordai che i miei studi si erano concentrati sulla geografia, sulla storia, sull’aritmetica e sulla grammatica e gli dissi, un pò di malumore, che non sapevo disegnare. Mi rispose: “Non importa. Disegnami una pecora…” Non avevo mai disegnato una pecora e allora feci per lui uno di quei disegni che avevo fatto tante volte: quello del boa dal di dentro; e fui sorpreso di sentirmi rispondere: “No, no, no! Non voglio l’elefante dentro il boa. Il boa è molto pericoloso e l’elefante molto ingombrante. Dove vivo io tutto è molto piccolo. Ho bisogno di una pecora: disegnami una pecora”. Feci il disegno. Lo guardò attentamente, e poi disse: “No! Questa pecora è malaticcia. Fammene un’altra”. Feci un altro disegno. Il mio amico mi sorrise gentilmente, con indulgenza. “Lo puoi vedere da te”, disse, “che questa non è una pecora. È un ariete. Ha le corna”. Rifeci il disegno una terza volta, ma fu rifiutato come i precedenti. “Questa è troppo vecchia. Voglio una pecora che possa vivere a lungo”. Questa volta la mia pazienza era esaurita, avevo fretta di rimettere a posto il mio motore. Buttai giù un quarto disegno. E tirai fuori questa spiegazione: “Questa è soltanto la sua cassetta. La pecora che volevi sta dentro”. Fui molto sorpreso di vedere il viso del mio piccolo giudice illuminarsi. “Questo è proprio quello che volevo. Pensi che questa pecora dovrà avere una gran quantità d’erba?” “Perchè?” “Perché dove vivo io, tutto è molto piccolo…” “Ci sarà certamente abbastanza erba per lei, è molto piccola la pecora che ti ho data”. Si chinò sul disegno: “Non così piccola che – oh, guarda! – si è messa a dormire…” E fu così che feci la conoscenza del piccolo principe. III Ci misi molto tempo a capire da dove venisse. Il piccolo principe, che mi faceva una domanda dopo l'altra, pareva che non sentisse mai le mie. Così, quando vide per la prima volta il mio aeroplano (non lo disegnerò perché sarebbe troppo complicato per me), mi domandò: "Che cos'è questa cosa?" "Non è una cosa - vola. È un aeroplano. È il mio aeroplano". Ero molto fiero di fargli sapere che volavo. Allora gridò: "Come? Sei caduto dal cielo!" "Si", risposi modestamente. "Ah! Questa è buffa..." E il piccolo principe scoppio in una bella risata che mi irritò. Voglio che le mie disgrazie siano prese sul serio. Poi riprese: "Allora anche tu vieni dal cielo! Di quale pianeta sei?" Intravvidi una luce, nel mistero della sua presenza, e lo interrogai bruscamente: "Tu vieni dunque da un altro pianeta?" Fortunatamente per la reputazione dell'asteroide B 612 un dittatore turco impose al suo popolo, sotto pena di morte, di vestire all'europea. L'astronomo rifece la sua dimostrazione nel 1920, con un abito molto elegante. E questa volta tutto il mondo fu con lui. Se vi ho raccontato tanti particolari sull'asteroide B 612 e se vi ho rivelato il suo numero, è proprio per i grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: "Qual'è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?" Ma vi domandano: "Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?" Allora soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi: "Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre, e dei colombi sul tetto"" loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire: "Ho visto una casa di centomila lire", e allora esclamano: "Com'è bella". Così se voi gli dite: "La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste". Bè, loro alzeranno le spalle, e vi tratteranno come un bambino. Ma se voi invece gli dite: "Il pianeta da dove veniva è l'asteroide B 612" allora ne sono subito convinti e vi lasciano in pace con le domande. Sono fatti così. Non c'è da prendersela. I bambini devono essere indulgenti coi grandi. Ma certo, noi che comprendiamo la vita, noi che ce ne infischiamo dei numeri! Mi sarebbe piaciuto cominciare questo racconto come una storia di fate. Mi sarebbe piaciuto dire: "C'era una volta un piccolo principe che viveva su di un pianeta poco più grande di lui e aveva bisogno di un amico..." Per coloro che comprendono la vita, sarebbe stato molto più vero. Perché non mi piace che si legga il mio libro alla leggera. È un grande dispiacere per me confidare questi ricordi. Sono già sei anni che il mio amico se ne è andato con la sua pecora e io cerco di descriverlo per non dimenticarlo. È triste dimenticare un amico. E posso anch'io diventare come i grandi che non s'interessano più che di cifre. Ed è anche per questo che ho comperato una scatola coi colori e con le matite. Non è facile rimettersi al disegno alla mia età quando non si sono fatti altri tentativi che quello di un serpente boa dal di fuori e quello di un serpente boa dal di dentro, e all'età di sei anni. Mi studierò di fare ritratti somigliantissimi. Ma non sono affatto sicuro di riuscirci. Un disegno va bene, ma l'altro non assomiglia per niente. Mi sbaglio anche sulla statura. Qui il piccolo principe è troppo grande. Là è troppo piccolo. Esito persino sul colore del suo vestito. E allora tento e tentenno, bene o male. E finirò per sbagliarmi su certi particolari più importanti. Ma questo bisogna perdonarmelo. Il mio amico non mi dava mai delle spiegazioni. Forse credeva che fossi come lui. Io, sfortunatamente, non sapevo vedere le pecore attraverso le casse. Può darsi che io sia un pò come i grandi. Devo essere invecchiato. E dico: "Bambini! Fate attenzione ai baobab!" E per avvertire i miei amici di un pericolo che hanno sempre sfiorato, come me stesso, senza conoscerlo, ho tanto lavorato a questo disegno. La lezione che davo, giustificava la fatica. Voi mi domanderete forse: Perché non ci sono in questo libro altri disegni altrettanto grandiosi come quello dei baobab? La risposta è molto semplice: Ho cercato di farne uno, ma non ci sono riuscito. Quando ho disegnato i baobab ero animato dal sentimento dell'urgenza. VI Oh, piccolo principe, ho capito a poco a poco la tua piccola vita malinconica. Per molto tempo tu non avevi avuto per distrazione che la dolcezza dei tramonti. Ho appreso questo nuovo particolare il quarto giorno, al mattino, quando mi hai detto: "Mi piacciono tanto i tramonti. Andiamo a vedere un tramonto..." "Ma bisogna aspettare..." "Aspettare che?" "Che il sole tramonti..." Da prima hai avuto un'aria molto sorpresa, e poi hai riso di te stesso e mi hai detto: "Mi credo sempre a casa mia!..." Infatti. Quando agli Stati Uniti è mezzogiorno tutto il mondo sa che il sole tramonta sulla Francia. Basterebbe poter andare in Francia in un minuto per assistere al tramonto. Sfortunatamente la Francia è troppo lontana. Ma sul tuo piccolo pianeta ti bastava spostare la tua sedia di qualche passo. E guardavi il crepuscolo tutte le volte che volevi... "Un giorno ho visto il sole tramontare quarantatrè volte!" E più tardi hai soggiunto: "Sai... quando si è molto tristi si amano i tramonti..." "Il giorno delle quarantatrè volte eri tanto triste?" Ma il piccolo principe non rispose. VII Al quinto giorno, sempre grazie alla pecora, mi fu svelato questo segreto della vita del piccolo principe. Mi domandò bruscamente, senza preamboli, come il frutto di un problema meditato a lungo in silenzio: "Una pecora se mangia gli arbusti, mangia anche i fiori?" "Una pecora mangia tutto quello che trova". "Anche i fiori che hanno le spine?" "Si. Anche i fiori che hanno le spine". "Ma allora le spine a che cosa servono?" Non lo sapevo. Ero in quel momento occupatissimo a cercare di svitare un bullone troppo stretto del mio motore. Ero preoccupato perché la mia panne cominciava ad apparirmi molto grave e l'acqua da bere che si consumava mi faceva temere il peggio. "Le spine a che cosa servono?" Il piccolo principe non rinunciava mai a una domanda che aveva fatta. Ero irritato per il mio bullone e risposi a casaccio: "Le spine non servono a niente, è pura cattiveria da parte dei fiori". "Oh!" Ma dopo un silenzio mi gettò in viso con una specie di rancore: "Non ti credo! I fiori sono deboli. Sono ingenui. Si rassicurano come possono. Si credono terribili con le loro spine..." Non risposi. In quel momento mi dicevo: "Se questo bullone resiste ancora, lo farò saltare con un colpo di martello". Il piccolo principe disturbò di nuovo le mie riflessioni. "E tu credi, tu, che i fiori..." "Ma no! Ma no! Non credo niente! Ho risposto una cosa qualsiasi. Mi occupo di cose serie, io!" Mi guardò stupefatto. "Di cose serie!" Mi vedeva col martello in mano, le dita nere di sugna, chinato su un oggetto che gli sembrava molto brutto. "Parli come i grandi!" Ne ebbi un pò di vergogna. Ma, senza pietà, aggiunse: "Tu confondi tutto... tu mescoli tutto!" Era veramente irritato. Scuoteva al vento i suoi capelli dorati. "Io non conosco un pianeta su cui c'è un signor Chermisi. Non ha mai respirato un fiore. Non ha mai guardato una stella. Non ha mai voluto bene a nessuno. Non fa altro che addizioni. VIII Imparai ben presto a conoscere meglio questo fiore. C'erano sempre stati sul pianeta del piccolo principe dei fiori molto semplici, ornati di una sola raggiera di petali, che non tenevano posto e non disturbavano nessuno. Apparivano un mattino nell'erba e si spegnevano la sera. Ma questo era spuntato un giorno, da un seme venuto chissà da dove, e il piccolo principe aveva sorvegliato da vicino questo ramoscello che non assomigliava a nessun altro ramoscello. Poteva essere una nuova specie di baobab. Ma l'arbusto cessò presto di crescere e cominciò a preparare un fiore. Il piccolo principe che assisteva alla formazione di un bocciolo enorme, sentiva che ne sarebbe uscita un'apparizione miracolosa, ma il fiore non smetteva più di prepararsi ad essere bello, al riparo della sua camera verde. Sceglieva con cura i suoi colori, si vestiva lentamente, aggiustava i suoi petali ad uno ad uno. Non voleva uscire sgualcito come un papavero. Non voleva apparire che nel pieno splendore della sua bellezza. Eh, si, c'era una gran civetteria in tutto questo! La sua misteriosa toeletta era durata giorni e giorni. E poi, ecco che un mattino, proprio all'ora del levar del sole, si era mostrato. E lui, che aveva lavorato con tanta precisione, disse sbadigliando: "Ah! mi sveglio ora. Ti chiedo scusa... sono ancora tutto spettinato..." Il piccolo principe allora non potè frenare la sua ammirazione: "Come sei bello !" "Vero", rispose dolcemente il fiore, "e sono insieme al sole..." Il piccolo principe indovinò che non era molto modesto, ma era così commovente! "Credo che sia l'ora del caffè e latte", aveva soggiunto, "vorresti pensare a me..." E il piccolo principe, tutto confuso, andò a cercare un innaffiatoio di acqua fresca e servì al fiore la sua colazione. Così l'aveva ben presto tormentato con la sua vanità un poco ombrosa. Per esempio, un giorno, parlando delle sue quattro spine, gli aveva detto: "Possono venire le tigri, con i loro artigli!" "Non ci sono tigri sul mio pianeta", aveva obiettato il piccolo principe, "e poi le tigri non mangiano l'erba". "Io non sono un'erba", aveva dolcemente risposto il fiore. "Scusami..." "Non ho paura delle tigri, ma ho orrore delle correnti d'aria... Non avresti per caso un paravento?" "Orrore delle correnti d'aria?" "È un pò grave per una pianta", aveva osservato il piccolo principe. "È molto complicato questo fiore..." "Alla sera mi metterai al riparo sotto a una campana di vetro. Fa molto freddo qui da te... Non è una sistemazione che mi soddisfi. Da dove vengo io..." Ma si era interrotto. Era venuto sotto forma di seme. Non poteva conoscere nulla degli altri mondi. Umiliato di essersi lasciato sorprendere a dire una bugia così ingenua, aveva tossito due o tre volte, per mettere il piccolo principe dalla parte del torto... "È questo un paravento?..." "Andavo a cercarlo, ma tu non mi parlavi!" Allora aveva forzato la sua tosse per fargli venire dei rimorsi. Così il piccolo principe, nonostante tutta la buona volontà del suo amore, aveva cominciato a dubitare di lui. Aveva preso sul serio delle parole senza importanza che l'avevano reso infelice. "Avrei dovuto non ascoltarlo", mi confidò un giorno, "non bisogna mai ascoltare i fiori. Basta guardarli e respirarli. Il mio, profumava il mio pianeta, ma non sapevo rallegrarmene. Quella storia degli artigli, che mi aveva tanto raggelato, avrebbe dovuto intenerirmi." E mi confidò ancora: "Non ho saputo capire niente allora! Avrei dovuto giudicarlo dagli atti, non dalle parole. Mi profumava e mi illuminava. Non avrei mai dovuto venirmene via! Avrei dovuto indovinare la sua tenerezza dietro le piccole astuzie. I fiori sono così contraddittori! Ma ero troppo giovane per saperlo amare". X Il piccolo principe si trovava nella regione degli asteroidi 325, 326, 327, 328, 329 e 330. Cominciò a visitarli per cercare un'occupazione e per istruirsi. Il primo asteroide era abitato da un re. Il re, vestito di porpora e d'ermellino, sedeva su un trono molto semplice e nello stesso tempo maestoso. "Ah! ecco un suddito", esclamò il re appena vide il piccolo principe. E il piccolo principe si domandò: "Come può riconoscermi se non mi ha mai visto?" Non sapeva che per i re il mondo è molto semplificato. Tutti gli uomini sono dei sudditi. "Avvicinati che ti veda meglio", gli disse il re che era molto fiero di essere finalmente re per qualcuno. Il piccolo principe cercò con gli occhi dove potersi sedere, ma il pianeta era tutto occupato dal magnifico manto di ermellino. Dovette rimanere in piedi, ma era tanto stanco che sbadigliò. "È contro all'etichetta sbadigliare alla presenza di un re", gli disse il monarca, "te lo proibisco". "Non posso farne a meno", rispose tutto confuso il piccolo principe. "Ho fatto un lungo viaggio e non ho dormito..." "Allora", gli disse il re, "ti ordino di sbadigliare. Sono anni che non vedo qualcuno che sbadiglia, e gli sbadigli sono una curiosità per me. Avanti! Sbadiglia ancora. È un ordine". "Mi avete intimidito... non posso più", disse il piccolo principe arrossendo. "Hum! hum!" rispose il re. "Allora io... io ti ordino di sbadigliare un pò e un pò..." Borbottò qualche cosa e sembrò seccato. Perché il re teneva assolutamente a che la sua autorità fosse rispettata. Non tollerava la disubbidienza. Era un monarca assoluto. Ma siccome era molto buono, dava degli ordini ragionevoli. "Se ordinassi", diceva abitualmente, "se ordinassi a un generale di trasformarsi in un uccello marino, e se il generale non ubbidisse, non sarebbe colpa del generale. Sarebbe colpa mia"" "Posso sedermi?" s'informò timidamente il piccolo principe. "Ti ordino di sederti", gli rispose il re che ritirò maestosamente una falda del suo mantello di ermellino. Il piccolo principe era molto stupito. Il pianeta era piccolissimo e allora su che cosa il re poteva regnare? "Sire", gli disse, "scusatemi se vi interrogo..." "Ti ordino di interrogarmi", si affrettò a rispondere il re. "Sire, su che cosa regnate?" "Su tutto", rispose il re con grande semplicità. "Su tutto?" Il re con un gesto discreto indicò il suo pianeta, gli altri pianeti, e le stelle. "Su tutto questo?" domandò il piccolo principe. "Su tutto questo..." rispose il re. Perché non era solamente un monarca assoluto, ma era un monarca universale. "E le stelle vi ubbidiscono?" "Certamente", gli disse il re. "Mi ubbidiscono immediatamente. Non tollero l'indisciplina". Un tale potere meravigliò il piccolo principe. Se l'avesse avuto lui, avrebbe potuto assistere non a quarantatrè , ma a settantadue, o anche a cento, a duecento tramonti nella stessa giornata, senza dover spostare mai la sua sedia! E sentendosi un pò triste al pensiero del suo piccolo pianeta abbandonato, si azzardò'a sollecitare una grazia dal re: "Vorrei tanto vedere un tramonto... Fatemi questo piacere... Ordinate al sole di tramontare..." "Se ordinassi a un generale di volare da un fiore all'altro come una farfalla, o di scrivere una tragedia, o di trasformarsi in un uccello marino; e se il generale non eseguisse l'ordine ricevuto, chi avrebbe torto, lui o io?" "L'avreste voi", disse con fermezza il piccolo principe. "Esatto. Bisogna esigere da ciascuno quello che ciascuno può dare", continuò il re. "L'autorità riposa, prima di tutto, sulla ragione. Se tu ordini al tuo popolo di andare a gettarsi in mare, farà la rivoluzione. Ho il diritto di esigere l'ubbidienza perché i miei ordini sono ragionevoli". "E allora il mio tramonto?" ricordò il piccolo principe che non si dimenticava mai di una domanda una volta che l'aveva fatta. "L'avrai, il tuo tramonto, lo esigerò, ma, nella mia sapienza di governo, aspetterò che le condizioni siano favorevoli". "E quando saranno?" s'informò il piccolo principe. "Hem! hem!" gli rispose il re che intanto consultava un grosso calendario, "hem! hem! sarà verso, verso, sarà questa sera verso le sette e quaranta! E vedrai come sarò ubbidito a puntino". Il piccolo principe sbadigliò. Rimpiangeva il suo tramonto mancato. E poi incominciava ad annoiarsi. "Non ho più niente da fare qui", disse il re. "Me ne vado". "Non partire", rispose il re che era tanto fiero di avere un suddito, "non partire, ti farò ministro!" "Ministro di che?" "Di... della giustizia!" "Ma se non c'è nessuno da giudicare?" "Non si sa mai" gli disse il re. "Non ho ancora fatto il giro del mio regno. Sono molto vecchio, ma c'è posto per una carrozza e mi stanco a camminare". "Oh! ma ho già visto io", disse il piccolo principe sporgendosi per dare ancora un'occhiata sull'altra parte del pianeta. "Neppure laggiù c'è qualcuno". "Giudicherai te stesso", gli rispose il re. "È la cosa più difficile. È molto più difficile giudicare se stessi che gli altri. Se riesci a giudicarti bene è segno che sei veramente un saggio". "Io", disse il piccolo principe, "io posso giudicarmi ovunque. Non ho bisogno di abitare qui". "Hem! hem!" disse il re. "Credo che da qualche parte sul mio pianeta ci sia un vecchio topo. Lo sento durante la notte. Potrai giudicare questo vecchio topo. Lo condannerai a morte di tanto in tanto. Così la sua vita dipenderà dalla tua giustizia. Ma lo grazierai ogni volta per economizzarlo. Non ce n'è che uno". "Non mi piace condannare a morte", rispose il piccolo principe, "preferisco andarmene". "No", disse il re. Ma il piccolo principe che aveva finiti i suoi preparativi di partenza, non voleva dare un dolore al vecchio monarca: "Se Vostra Maestà desidera essere ubbidito puntualmente, può darmi un ordine ragionevole. Potrebbe ordinarmi, per esempio, di partire prima che sia passato un minuto. Mi pare che le condizioni siano favorevoli..." E siccome il re non rispondeva, il piccolo principe esitò un momento e poi con un sospiro se ne partì. "Ti nomino mio ambasciatore", si affrettò a gridargli appresso il re. Aveva un'aria di grande autorità. "Sono ben strani i grandi", si disse il piccolo principe durante il viaggio. XIII Il quarto pianeta era abitato da un uomo d'affari. Questo uomo era così occupato che non alzò neppure la testa all'arrivo del piccolo principe. "Buon giorno", gli disse questi. "La vostra sigaretta si è spenta". "Tre più due fa cinque. Cinque più sette: dodici. Dodici più tre: quindici. Buon giorno. Quindici più sette fa ventidue. Ventidue più sei: ventotto. Non ho tempo per riaccenderla. Ventisei più cinque trentuno. Ouf! Dunque fa cinquecento e un milione seicento ventiduemila settecento trentuno". "Cinquecento e un milione di che?" "Hem! Sei sempre lì? Cinquecento e un milione di ... non lo so più. Ho talmente da fare! Sono un uomo serio, io, non mi diverto con delle frottole! Due più cinque: sette..." "Cinquecento e un milione di che?" ripetè il piccolo principe che mai aveva rinunciato a una domanda una volta che l'aveva espressa. L'uomo d'affari alzò la testa: "Da cinquantaquattro anni che abito in questo pianeta non sono stato disturbato che tre volte. La prima volta è stato ventidue anni fa, da una melolonta che era caduta chissà da dove. Faceva un rumore spaventoso e ho fatto quattro errori in una addizione. La seconda volta è stato undici anni fa per una crisi di reumatismi. Non mi muovo mai, non ho il tempo di girandolare. Sono un uomo serio, io. La terza volta ... eccolo! Dicevo dunque cinquecento e un milione". "Milione di che?" L'uomo d'affari capì che non c'era speranza di pace. "Milioni di quelle piccole cose che si vedono qualche volta nel cielo". "Di mosche?" "Ma no, di piccole cose che brillano". "Di api?" "Ma no. Di quelle piccole cose dorate che fanno fantasticare i poltroni. Ma sono un uomo serio, io! Non ho il tempo di fantasticare". "Ah! di stelle?" "Eccoci. Di stelle". "E che ne fai di cinquecento milioni di stelle?" "Cinquecento e un milione seicentoventiduemilasettecentotrentuno. Sono un uomo serio io, sono un uomo preciso." "E che te ne fai di queste stelle?" "Che cosa me ne faccio?" "Si". "Niente. Le possiedo io". "Tu possiedi le stelle?" "Si". "Ma ho già veduto un re che..." "I re non possiedono. Ci regnano sopra. È molto diverso". "E a che ti serve possedere le stelle?" "MI serve ad essere ricco". "E a che ti serve essere ricco?" "A comperare delle altre stelle, se qualcuno ne trova". Questo qui, si disse il piccolo principe, ragiona un pò come il mio ubriacone. Ma pure domandò ancora: "Come si può possedere le stelle?" "Di chi sono?" rispose facendo stridere i denti l'uomo d'affari. "Non lo so, di nessuno". "Allora sono mie che vi ho pensato per il primo". "E questo basta?" "Certo. Quando trovi un diamante che non è di nessuno, è tuo. Quando trovi un'isola che non è di nessuno, è tua. Quando tu hai un'idea per il primo, la fai brevettare, ed è tua. E io possiedo le stelle, perché mai nessuno prima di me si è sognato di possederle". "Questo è vero", disse il piccolo principe. "Che te ne fai?" "Le amministro. Le conto e le riconto", disse l'uomo d'affari. "È una cosa difficile, ma io sono un uomo serio!" Il piccolo principe non era ancora soddisfatto. "Io, se possiedo un fazzoletto di seta, posso metterlo intorno al collo e portarmelo via. Se possiedo un fiore, posso cogliere il mio fiore e portarlo con me. Ma tu non puoi cogliere le stelle". "No, ma posso depositarle alla banca". "Che cosa vuol dire?" "Vuol dire che scrivo su un pezzetto di carta il numero delle mie stelle e poi chiudo a chiave questo pezzetto di carta in un cassetto". "Tutto qui?" "È sufficiente". È divertente, pensò il piccolo principe, e abbastanza poetico. Ma non è molto serio. Il piccolo principe aveva sulle cose serie delle idee molto diverse da quelle dei grandi. "Io", disse il piccolo principe, "possiedo un fiore che innaffio tutti i giorni. Possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane. Perché spazzo il camino anche di quello spento. Non si sa mai. È utile ai miei vulcani, ed è utile al mio fiore che io li possegga. Ma tu non sei utile alle stelle..." L'uomo d'affari aprì la bocca ma non trovò niente da rispondere e il piccolo principe se ne andò . Decisamente i grandi sono proprio straordinari, si disse semplicemente durante il viaggio. XV Il sesto pianeta era dieci volte più grande. Era abitato da un vecchio signore che scriveva degli enormi libri. "Ecco un esploratore", esclamò quando scorse il piccolo principe. Il piccolo principe si sedette sul tavolo ansimando un poco. Era in viaggio da tanto tempo. "Da dove vieni?" gli domandò il vecchio signore. "Che cos'è questo grosso libro?" disse il piccolo principe. "Che cosa fate qui?" "Sono un geografo", disse il vecchio signore. "Che cos'è un geografo?" "È un sapiente che sa dove si trovano i mari, i fiumi, le città, le montagne e i deserti". "È molto interessante", disse il piccolo principe, "questo finalmente è un vero mestiere!" E diede un'occhiata tutto intorno sul pianeta del geografo. Non aveva mai visto fino ad ora un pianeta così maestoso. "È molto bello il vostro pianeta. Ci sono degli oceani?" "Non lo posso sapere", disse il geografo. "Ah! (il piccolo principe fu deluso) E delle montagne?" "Non lo posso sapere", disse il geografo. "E delle città e dei fiumi e dei deserti?" "Neppure lo posso sapere", disse il geografo. "Ma siete un geografo!" "Esatto", disse il geografo, "ma non sono un esploratore. Manco completamente di esploratori. Non è il geografo che va a fare il conto delle città, dei fiumi, delle montagne, dei mari, degli oceani e dei deserti. Il geografo è troppo importante per andare in giro. Non lascia mai il suo ufficio, ma riceve gli esploratori, li interroga e prende degli appunti sui loro ricordi. E se i ricordi di uno di loro gli sembrano interessanti, il geografo fa fare un'inchiesta sulla moralità dell'esploratore". "Perchè?" "Perché se l'esploratore mentisse porterebbe una catastrofe nei libri di geografia. Ed anche un esploratore che bevesse troppo". "Perchè?" "Perché gli ubriachi vedono doppio e allora il geografo si annoterebbe due montagne là dove ce n'è una sola". "Io conosco qualcuno" disse il piccolo principe, "che sarebbe un cattivo esploratore". "È possibile. Dunque, quando la moralità dell'esploratore sembra buona, si fa un'inchiesta sulla sua scoperta". "Si va a vedere?". "No, è troppo complicato. Ma si esige che l'esploratore fornisca le prove. Per esempio, se si tratta di una grossa montagna, si esige che riporti delle grosse pietre". All'improvviso il geografo si commosse. "Ma tu, tu vieni da lontano! Tu sei un esploratore! Mi devi descrivere il tuo pianeta!" E il geografo, avendo aperto il suo registro, temperò la sua matita. I resoconti degli esploratori si annotano da prima a matita, e si aspetta per annotarli a penna che l'esploratore abbia fornito delle prove. "Allora?" interrogò il geografo. "Oh! da me", disse il piccolo principe, "non è molto interessante, è talmente piccolo. Ho tre vulcani, due in attività e uno spento. Ma non si sa mai". "Non si sa mai", disse il geografo. "Ho anche un fiore". "Noi non annotiamo i fiori", disse il geografo. "Perchè? Sono la cosa più bella". "Perché i fiori sono effimeri". "Che cosa vuol dire <effimero>?" "Le geografie", disse il geografo, "sono i libri più preziosi fra tutti i libri. Non passano mai di moda. È molto raro che una montagna cambi di posto. È molto raro che un oceano si prosciughi. Noi descriviamo delle cose eterne". "Ma i vulcani spenti si possono risvegliare", interruppe il piccolo principe. "Che cosa vuol dire <effimero>?" "Che i vulcani siano spenti o in azione, è lo stesso per noi", disse il geografo. "Quello che conta per noi è il monte, lui non cambia". "Ma che cosa vuol dire <effimero>?" ripetè il piccolo principe che in vita sua non aveva mai rinunciato a una domanda una volta che l'aveva fatta. "Vuol dire <che è minacciato di scomparire in un tempo breve>". "Il mio fiore è destinato a scomparire presto?" "Certamente". Il mio fiore è effimero, si disse il piccolo principe, e non ha che quattro spine per difendersi dal mondo! E io l'ho lasciato solo! E per la prima volta si sentì pungere dal rammarico. Ma si fece coraggio: "Che cosa mi consigliate di andare a visitare?" "Il pianeta Terra", gli rispose il geografo. "Ha una buona reputazione..." E il piccolo principe se ne andò pensando al suo fiore. Il piccolo principe sorrise: "Non mi sembri molto potente... non hai neppure delle zampe... e non puoi neppure camminare..." "Posso trasportarti più lontano che un bastimento", disse il serpente. Si arrotolò attorno alla caviglia del piccolo principe come un braccialetto d'oro: "Colui che tocco, lo restituisco alla terra da dove è venuto. Ma tu sei puro e vieni da una stella..." Il piccolo principe non rispose. "Mi fai pena, tu così debole, su questa Terra di granito. Potrò aiutarti un giorno se rimpiangerai troppo il tuo pianeta. Posso..." "Oh! Ho capito benissimo", disse il piccolo principe, "ma perché parli sempre per enigmi?" "Li risolvo tutti", disse il serpente. E rimasero in silenzio. XVIII Il piccolo principe traversò il deserto e non incontrò che un fiore. Un fiore a tre petali, un piccolo fiore da niente... "Buon giorno", disse il piccolo principe. "Buon giorno", disse il fiore. "Dove sono gli uomini?" domandò gentilmente il piccolo principe. Un giorno il fiore aveva visto passare una carovana: "Gli uomini? Ne esistono, credo, sei o sette. Li ho visti molti anni fa. Ma non si sa mai dove trovarli. Il vento li spinge qual e là. Non hanno radici, e questo li imbarazza molto". "Addio", disse il piccolo principe. "Addio", disse il fiore. XIX Il piccolo principe fece l'ascensione di un'altra montagna. Le sole montagne che avesse mai visto, erano i tre vulcani che gli arrivavano alle ginocchia. E adoperava il vulcano spento come uno sgabello. "Da una montagna alta come questa", si disse perciò, "vedrò di un colpo tutto il pianeta e tutti gli uomini..." Ma non vide altro che guglie di roccia ben affilate. "Buon giorno", disse a caso. "Buon giorno... buon giorno... buon giorno..." rispose l'eco. "Chi siete?" disse il piccolo principe. "Chi siete?... chi siete?... chi siete?..." rispose l'eco. "Siate miei amici, io sono solo", disse. "Io sono solo... io sono solo... io sono solo..." rispose l'eco. "Che buffo pianeta", pensò allora, "è tutto secco, pieno di punte e tutto salato. E gli uomini mancano d'immaginazione. Ripetono ciò che loro si dice... Da me avevo un fiore e parlava sempre per primo...". "No". "Non c'è niente di perfetto", sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea: "La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano..." La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: "Per favore... addomesticami", disse. "Volentieri", disse il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose". "Non ci conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!" "Che cosa bisogna fare?" domandò il piccolo principe. "Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe. "In principio tu ti sederai un pò lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un pò più vicino..." Il piccolo principe ritornò l'indomani. "Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti". "Che cos'è un rito?" disse il piccolo principe. "Anche questa è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe. "È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza". Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!" disse la volpe, "... piangerò". "La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi..." "È vero", disse la volpe. "Ma piangerai!" disse il piccolo principe. "È certo", disse la volpe. "Ma allora che ci guadagni?" "Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". Poi soggiunse: "Và a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto". Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose. "Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo". E le rose erano a disagio. "Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa". E ritornò dalla volpe. "Addio", disse. "Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi". "L'essenziale è invisibile agli occhi", ripetè il piccolo principe, per ricordarselo. "È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante". "È il tempo che ho perduto per la mia rosa..." sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. "Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa..." "Io sono responsabile della mia rosa..." ripetè il piccolo principe per ricordarselo. XXIV Eravamo all'ottavo giorno della mia panne nel deserti, e avevo ascoltato la storia del mercante bevendo l'ultima goccia della mia provvista d'acqua: "Ah!" dissi al piccolo principe, "sono molto graziosi i tuoi ricordi, ma io non ho ancora riparato il mio aeroplano, non ho più niente da bere e sarei felice anch'io se potessi camminare adagio adagio verso una fontana!" "Il mio amico la volpe, mi disse..." "Caro il mio ometto, non si tratta più volpe!" "Perchè?" "Perché moriremo di sete..." Non capì il mio ragionamento e mi rispose: "Fa bene l'aver avuto un nemico, anche se poi si muore. Io, io sono molto contento d'aver avuto un amico volpe..." Non misura il pericolo, mi dissi. Non ha mai nè fame, nè sete. Gli basta un pò di sole... Ma mi guardò e rispose al mio pensiero: "Anch'io ho sete... cerchiamo un pozzo..." Ebbi un gesto di stanchezza: è assurdo cercare un pozzo, a caso, nell'immensità del deserto. Tuttavia ci mettemmo in cammino. Dopo aver camminato per ore in silenzio, venne la notte, e le stelle cominciarono ad accendersi. Le vedevo come in un sogno, attraverso alla febbre che mi era venuta per la sete. Le parole del piccolo principe danzavano nella mia memoria. "Hai sete anche tu?" gli domandai. Ma non rispose alla mia domanda. Mi disse semplicemente: "Un pò d'acqua può far bene anche al cuore..." Non compresi la sua risposta, ma stetti zitto... sapevo bene che non bisognava interrogarlo. Era stanco. Si sedette. Mi sedetti accanto a lui. E dopo un silenzio disse ancora: "Le stelle sono belle per un fiore che non si vede..." Risposi: "Già", e guardai, senza parlare, le pieghe della sabbia sotto la luna. "Il deserto è bello", soggiunse. Ed era vero. Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio... "Ciò che abbellisce il deserto", disse il piccolo principe, "è che nasconde un pozzo in qualche luogo..." Fui sorpreso di capire d'un tratto quella misteriosa irradiazione della sabbia. Quando ero piccolo abitavo in una casa antica, e la leggenda raccontava che c'era un tesoro nascosto. Naturalmente nessuno ha mai potuto scoprirlo, nè forse l'hai mai cercato. Eppure incantava tutta la casa. La mia casa nascondeva un segreto nel fondo del suo cuore... "Si", dissi al piccolo principe, "che si tratti di una casa, delle stelle o del deserto, quello che fa la loro bellezza è invisibile". "Sono contento", disse il piccolo principe, "che tu sia d'accordo con la mia volpe". Incominciava ad addormentarsi, io la presi tra le braccia e mi rimisi in cammino. Ero commosso. Mi sembrava do portare un fragile tesoro. Mi sembrava pure che non ci fosse niente di più fragile sulla Terra. Guardavo, alla luce della luna, quella fronte pallida, quegli occhi chiusi, quelle ciocche di capelli che tremavano al vento, e mi dicevo: "Questo che io vedo non è che la scorza. Il più importante è invisibile..." E siccome le sue labbra semiaperte abbozzavano un mezzo sorriso mi disse ancora: "Ecco ciò che mi commuove di più di questo piccolo principe addormentato: è la sua fedeltà a un fiore, è l'immagine di una rosa che risplende in lui come la fiamma di una lampada, anche quando dorme..." E lo pensavo ancora più fragile. Bisogna ben proteggere le lampade: un colpo di vento le può spegnere... E così camminando, scoprii il pozzo al levar del sole. XXV "Gli uomini", disse il piccolo principe, "si imbucano nei rapidi, ma non sanno più che cosa cercano. Allora si agitano, e girano intorno a se stessi..." E soggiunse: "Non vale la pena..." Il pozzo che avevamo raggiunto non assomigliava ai pozzi sahariani". I pozzi sahariani sono dei semplici buchi scavati nella sabbia. Questo assomiglia a un pozzo di villaggio. Ma non c'era alcun villaggio intorno, e mi sembrava di sognare. "È strano", dissi al piccolo principe, "è tutto pronto: la carrucola, il secchio e la corda..." Rise, toccò la corda, fece funzionare la carrucola. E la carrucola gemette come geme una vecchia banderuola dopo che il vento ha dormito a lungo. "Senti", disse il piccolo principe, "noi svegliamo questo pozzo e lui canta..." Non volevo che facesse uno sforzo. "Lasciami fare", gli dissi, "è troppo pesante per te". Lentamente issai il secchio fino all'orlo del pozzo. Lo misi bene in equilibrio. Nelle mie orecchie perdurava il canto della carrucola e nell'acqua che tremava ancora, vedevo tremare il sole. "Ho sete di questa acqua", disse il piccolo principe, "dammi da bere..." E capii quello che aveva cercato! Sollevai il secchio fino alle sue labbra. Bevette con gli occhi chiusi. Era dolce come una festa. Quest'acqua era ben altra cosa che un alimento. Era nata dalla marcia sotto le stelle, dal canto della carrucola, dallo sforzo delle mie braccia. Faceva bene al cuore, come un dono. Quando ero piccolo, le luci dell'albero di Natale, la musica della Messa di mezzanotte, la dolcezza dei sorrisi, facevano risplendere i doni di Natale che ricevevo. "Da te, gli uomini", disse il piccolo principe, "coltivano cinquemila rose nello stesso giardino..." e non trovano quello che cercano..." "Non lo trovano", risposi. "E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un pò d'acqua..." "Certo", risposi. E il piccolo principe soggiunse: "Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore". Avevo bevuto. Respiravo bene. La sabbia, al levar del sole, era color del miele. Ero felice anche di questo color di miele. Perché mi sentivo invece angustiato? "Devi mantenere la tua promessa", mi disse dolcemente il piccolo principe, che di nuovo si era seduto vicino a me. "Quale promessa?" "Sai... una museruola per la mia pecora... sono responsabile di quel fiore!" Tirai fuori dalla tasca i miei schizzi. Il piccolo principe li vide e disse ridendo: "I tuoi baobab assomigliano un pò a dei cavoli..." "Oh!" Io, che ero così fiero dei baobab! "La tua volpe... le sue orecchie... assomigliano un pò a delle corna... e sono troppe lunghe!" E rise ancora. "Sei ingiusto, ometto, non sapevo disegnare altro che boa dal di dentro e dal di fuori". "Oh, andrà bene", disse, "i bambini capiscono". Non rispose alla mia domanda, ma soggiunse: "Anch'io, oggi, ritorno a casa..." Poi, melanconicamente: "È molto più lontano... è molto più difficile..." Sentivo che stava succedendo qualche cosa di straordinario. Lo stringevo fra le braccia come un bimbetto, eppure mi sembrava che scivolasse verticalmente in un abisso, senza che io potessi fare nulla per trattenerlo... Aveva lo sguardo serio, perduto lontano: "Ho la tua pecora. E ho la cassetta per la pecora. E ho la museruola..." E sorrise con malinconia. Attesi a lungo. Sentivo che a poco a poco si riscaldava: "Ometto caro, hai avuto paura..." Aveva avuto sicuramente paura! Ma rise con dolcezza: "Avrò ben più paura questa sera..." Mi sentii gelare di nuovo per il sentimento dell'irreparabile. E capii che non potevo sopportare l'idea di non sentire più quel riso. Era per me come una fontana nel deserto. "Ometto, voglio ancora sentirti ridere..." Ma mi disse: "Sarà un anno questa notte. La mia stella sarà proprio sopra al luogo dove sono caduto l'anno scorso..." "Ometto, non è vero che è un brutto sogno quella storia del serpente, dell'appuntamento e della stella?..." Ma non mi rispose. Disse: "Quello che è importante, non lo si vede..." "Certo..." "È come per il fiore. Se tu vuoi bene a un fiore che sta in una stella, è dolce, la notte, guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite". "Certo..." "È come per l'acqua. Quella che tu mi hai dato da bere era come una musica, c'era la carrucola e c'era la corda... ti ricordi... era buona". "Certo..." "Guarderai le stelle, la notte. È troppo piccolo da me perché ti possa mostrare dove si trova la mia stella. È meglio così. La mia stella sarà per te una delle stelle. Allora, tutte le stelle, ti piacerà guardarle... Tutte, saranno tue amiche. E poi ti voglio fare un regalo..." Rise ancora. "Ah! Ometto, ometto mio, mi piace sentire questo riso!" "E sarà proprio questo il mio regalo... sarà come per l'acqua..." "Che cosa vuoi dire?" "Gli uomini hanno delle stelle che non sono le stesse. Per gli uni, quelli che viaggiano, le stelle sono delle guide. Per altri non sono che delle piccole luci. Per altri, che sono dei sapienti, sono dei problemi. Per il mio uomo d'affari erano dell'oro. Ma tutte queste stelle stanno zitte. Tu, tu avrai delle stelle come nessuno ha..." "Che cosa vuoi dire?" "Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, visto che io riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere!" E rise ancora. "E quando ti sarai consolato (ci si consola sempre), sarai contento di avermi conosciuto. Sarai sempre il mio amico. Avrai voglia di ridere con me. E aprirai a volte la finestra, così, per il piacere... E i tuoi amici saranno stupiti di vederti ridere guardando il cielo. Allora tu dirai: "Si, le stelle mi fanno sempre ridere!" e ti crederanno pazzo. "T'avrò fatto un brutto scherzo..." E rise ancora. "Sarà come se t'avessi dato, invece delle stelle, mucchi di sonagli che sanno ridere..." E rise ancora. Poi ridivenne serio. "Questa notte... sai, non venire". "Non ti lascerò". "Sembrerà che io mi senta male... sembrerà un pò che io muoia. È così. Non venire a vedere, non vale la pena..." "Non ti lascerò". Ma era preoccupato. "Ti dico questo... Anche per il serpente. Non bisogna che ti morda... I serpenti sono cattivi. Ti può mordere per il piacere di..." "Non ti lascerò". "Ma qualcosa lo rassicurò: "È vero che non hanno più veleno per il secondo morso..." Quella notte non lo vidi mettersi in cammino. Si era dileguato senza far rumore. Quando riuscii a raggiungerlo camminava deciso, con un passo rapido. Mi disse solamente: "Ah! Sei qui..." E mi prese per mano. Ma ancora si tormentava: "Hai avuto torto. Avrai dispiacere. Sembrerò morto e non sarà vero..." Io stavo zitto. "Capisci? È troppo lontano. Non posso portare appresso il mio corpo. È troppo pesante". Io stavo zitto. "Ma sarà come una vecchia scorza abbandonata. Non sono tristi le vecchie scorze..." Io stavo zitto. Si scoraggiò un poco. Ma fece ancora uno sforzo: "Sarà bello, sai. Anch'io guarderò le stelle. Tutte le stelle saranno dei pozzi con una carrucola arrugginita. Tutte le stelle mi verseranno da bere..." Io stavo zitto. "Sarà talmente divertente! Tu avrai cinquecento milioni di sonagli, io avrò cinquecento milioni di fontane..." E tacque anche lui perché piangeva. "È là. Lasciami fare un passo da solo". Si sedette perché aveva paura. E disse ancora: "Sai... il mio fiore... ne sono responsabile! Ed è talmente debole e talmente ingenuo. Ha quattro spine da niente per proteggermi dal mondo...". Mi sedetti anch'io perché non potevo più stare in piedi. Disse: "Ecco... è questo qui..." Esitò ancora un poco, poi si rialzò. Fece un passo. Io non potevo muovermi. Non ci fu che un guizzo giallo vicino alla sua caviglia. Rimase immobile per un istante. Non gridò. Cadde dolcemente come cade un albero. Non fece neppure rumore sulla sabbia.