Scarica Inside the white cube e più Sintesi del corso in PDF di Arte solo su Docsity! 1 Brian O’Doherty. INSIDE THE WHITE CUBE L’ideologia dello spazio espositivo 1. Osservazioni sullo spazio espositivo Lo spazio espositivo svolge un ruolo cruciale; la storia dell’arte moderna è strettamente inquadrata in quello spazio, tanto che oggi siamo arrivati al punto di vedere prima lo spazio e poi l’arte. La prima immagine che viene in mente è quella di uno spazio bianco ideale, che più di qualunque dipinto, potrebbe costituire l’archetipo dell’arte del Novecento, acquisisce una dimensione sacrale e con un singolare rovesciamento è l’oggetto introdotto a “inquadrare” la galleria stessa e le sue leggi. Una galleria infatti è costruita in base a leggi rigorose, (perché il mondo esterno deve restare fuori), in genere le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco, il soffitto diventa fonte di luce, “qui l’arte diventa libera di vivere la sua vita”. Questo spazio senza ombre, bianco, pulito, artificiale, è dedicato alla tecnologia dell’estetica, le opere d’arte sono montate, appese, distanziate per essere studiate e la loro superficie intatta non è intaccata dal tempo e dalle sue vicissitudini. L’arte esiste in una specie di eternità che fa della galleria uno status comparabile al limbo, per accedervi bisogna essere già morti…in effetti la presenza di quello strano mobile, (il nostro corpo), sembra superflua, è un’intrusione. Il Salon definisce la galleria come un luogo dotato di un muro, a sua volta ricoperto da un muro di dipinti, il muro in sé non ha un’estetica propria: è un semplice necessità per un animale eretto. La galleria del Louvre di Samuel F.B. Morse (1883) sconvolge l’osservatore moderno: una tappezzeria di capolavori, non ancora separati l’uno dall’altro e isolati nello spazio. I quadri più grandi si elevavano verso l’alto, le tele migliori occupavano la zona intermedia, (l’allestimento perfetto era un ingegnoso mosaico di cornici che non lascia libero nemmeno un pezzetto di muro), ciascun dipinto era considerato un’entità autonoma ed era totalmente isolato da una massiccia cornice esterna. L’assolutezza del limite fissato dal margine resta infatti la regola nella pittura da cavalletto fino all’Ottocento, il quadro da cavalletto è una specie di finestra trasportabile che fissata al muro lo attraversa in profondità. Ad un certo punto però cominciano ad apparire dipinti che fanno pressione sulla cornice, dipinti di questo genere – Courbet, Caspar David Friedrich, Whistler e stuoli di piccoli maestri, si collocano tra “profondità infinita e piattezza” e tendono ad essere visti come modelli. Una volta saputo che un frammento di paesaggio è frutto della decisione di escludere ciò che lo circonda, cominciamo a prendere coscienza dello spazio al di fuori del quadro. La cornice diventa una parentesi, la separazione dei dipinti lungo la parete diventa inevitabile e il fenomeno viene accentuato e in larga misura innescato dalla fotografia, dedicata a “estrarre il soggetto dal suo contesto”. La fotografia dagli esordi riconosce il margine ma ne attenua l’assolutismo e in quanto solida convenzione che incatenava il soggetto all’interno del dipinto, stava diventando fragile. Tutto questo si ritrova ampiamente nell’impressionismo, ma questa tendenza si combinava con l’avvio della spinta decisiva che avrebbe finito per trasformare il concetto stesso di quadro, la maniera di appenderlo e in definitiva lo spazio espositivo: il mito della piattezza. 2 Lo sviluppo di uno spazio privo di profondità iniziò a esercitare una pressione ulteriore sul margine, qui il grande inventore è naturalmente Monet, che nonostante questo fu un artista limitato, perché si ha come l’impressione che abbia optato per una soluzione provvisoria: l’assenza di tratti salienti rilassa l’occhio e lo invoglia a guardare altrove. Piattezza e oggettualità trovano in genere la loro prima espressione ufficiale nella celebre dichiarazione di Maurice Denis del 1890, secondo la quale un dipinto, prima di essere un soggetto è essenzialmente una superficie ricoperta di linee e colori. Il concetto di struttura del cubismo manteneva lo status quo della pittura da cavalletto, i dipinti di questo movimento sono centripeti, si raccolgono verso il centro e si dissolvono verso il margine, Seurat è riuscito a definire molto meglio i limiti di una formulazione classica ma è Matisse che ha capito meglio di chiunque altro il dilemma del piano, le dimensioni dei suoi dipinti andarono via via aumentando come se la profondità fosse trasposta su una superficie piana. Nei grandi dipinti di Matisse non abbiamo quasi mai coscienza della cornice, la loro solida struttura informale li rende quasi autosufficienti. L’allestimento è in effetti qualcosa del quale vorremmo sapere qualcosa in più, la storia delle convenzioni dell’allestimento da Courbet in poi è ancora da esplorare, si dovrebbe poter collegare la storia interna dei dipinti a quella esterna delle modalità espositive. In epoca moderna, la prima occasione, presumibilmente, in cui un artista radicale creò uno spazio e vi espose i propri dipinti, fu il Pavillon du Realisme personale che Courbet allestì all’esterno dell’exposition del 1855. Alla prima mostra del 1874, gli impressionisti appesero le loro tele una incollata all’altra, proprio come avrebbero fatto al Salon, le loro opere infatti restavano ancora prigioniere della cornice accademica. Quando in occasione della grande retrospettiva di Monet tenutasi al Musem f Modern nel 1960, William C. Seitz fece togliere le cornici, all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete. Nell’arte moderna, la potente voce d’opposizione (per quanto riguarda il quadro da cavalletto/ la pittura) fu quella di Matisse, che formulò, un po' in sordina, una visione del colore che di primo acchito paralizzò il grigiore cubista. In Art and Culture, Greenberg racconta di come gli artisti newyorkesi si siano disintossicati dal Cubismo puntando su Matisse e Mirò. I dipinti dell’espressionismo astratto hanno seguito la strada dell’espansione laterale, si sono gradualmente liberati dalla cornice e hanno cominciato a concepire il margine come un’unità strutturale attraverso cui il dipinto entrava in comunicazione con la parete. Qui entrano in gioco agente e curatore, la maniera in cui entrambi, con l’artista, esponevano queste opere ha contribuito tra la fine degli anni quaranta e cinquanta alla definizione della nuova pittura. Nel corso degli anni cinquanta e sessanta viene a delinearsi un nuovo tema: di quanto spazio ha bisogno un dipinto per “respirare”? l’estetica dell’allestimento si evolve secondo i suoi costumi, che si trasformano in convenzioni e poi leggi. Non più mero supporto passivo, ma protagonista dell’arte, la parete, una volta diventata una potenza estetica ha trasformato qualsiasi cosa vi fosse esposta, soprattutto quando c’è stata la presa di coscienza che il dipinto da cavalletto non dovesse essere necessariamente rettangolare. Le prime tele sagomate di Stella piegavano o tagliavano il margine a seconda delle esigenze della logica interna che le generava, infatti le tele a strisce tagliate a forma di t, u, l che Stella espose da Castelli nel 1960 sviluppavano ogni piccola porzione di parete, dal pavimento al soffitto, da angolo ad angolo. 5 fuori era perfettamente in linea con l’inclinazione della galleria sul suo asse. Mettendo a nudo l’effetto che il contesto aveva sull’arte, il contenitore sul contenuto. Duchamp riconobbe una zona dell’arte che non era stata ancora inventata, la sua trovata fu il primo di una serie di gesti che “sviluppano” l’idea dello spazio espositivo come entità a sé. A partire da questo momento inizia una sorta di fenomeno di dispersione d’energia dall’arte all’ambient circostante. Con il tempo la mitizzazione della galleria è cresciuta in maniera inversamente proporzionale alla “letteralizzazione” dell’arte. Come ogni idea brillante a posteriori Sacchi di carbone divenne un fatto ovvio, i gesti sono una forma di invenzione, se messi in atto una sola volta, operano un cambiamento di prospettiva su tutto un insieme di assunti e di idee, in questo senso il gesto può essere didattico come afferma Barbara Rose, se insegna qualcosa però, lo fa con ironia, astuzia, provocazione. Ad esempio l’idea di scambiare soffitto e pavimento ormai può essere ripetuta in quanto progetto. I progetti-arte a breve termine creati per occasioni e luoghi specifici sollevano la questione della sopravvivenza dell’effimero e documenti e fotografie non presentano altre che arte già morta. I gesti sono mutevoli e alcuni di essi possono, a posteriori, diventare progetti. Nei due compiuti allora da Duchamp nella galleria c’è la perspicace intuizione di un progetto, sopravvissuti alla loro irriverenza sono diventati materiale storico. La destinazione di Sacchi di carbone, come pure Mile of String, realizzato quattro anni dopo nel 1942, per la mostra “First Papers of Surrealism” organizzata al 551 di Madison Avenue resta ambigua (quei gesti erano indirizzati al pubblico, alla storia, alla critica d’arte o ad altri artisti?) Mile of String è l’immagine di un tempo morto, una mostra paralizzata in una senilità precoce e trasformata nella soffitta di un grottesco film dell’orrore. Nessuno dei due gesti di Duchamp tiene conto delle altre opere presenti, diventano carta da parati, anche gli spettatori in un certo sono maltrattati, perché costretti a sollevare le gambe come galline per spostarsi da un punto all’altro della sala. Quello spago che teneva i visitatori a distanza delle opere diventava l’unica cosa che avrebbero ricordato, 1609 metri ininterrotti, lo spettatore era sotto assedio, ogni centimetro contrassegnato. È così che Duchamp elabora la monade modernista: il pubblico nella galleria scatola. Ridurre lo spazio a scatola o viceversa, trasformare la scatola in spazio espositivo è uno dei nodi formali dell’arte di Duchamp: quello del contenimento interno-esterno…ma la scatola, contenitore di idee, sarebbe un surrogato della testa? Come attesta Mile of String, Duchamp adora i trabocchetti, tiene in sospeso il pubblico, che è sempre lì di sua spontanea volontà, sui suoi stessi codici, impedendogli di disapprovare il maltrattamento di cui è vittima e procurandogli così un ulteriore fastidio. L’ostilità nei confronti del pubblico è uno degli elementi chiave del modernismo, attraverso di essa si crea un conflitto ideologico sui valori dell’arte, dello stile di vita che la accompagna, nonché su quelli della matrice sociale in cui entrambi si collocano. Nel più serio degli scenari il rapporto artista-pubblico può essere interpretato come un mettere alla prova l’ordine sociale attraverso propositi radicali poi riassorbiti da sistema istituzionali: gallerie, musei, collezionisti, persino riviste e critici interni, che arrivano a barattare il successo con l’anestesia ideologica. Questo dialogo artista-pubblico contribuisce in maniera rilevante alla definizione del tipo di società che abbiamo sviluppato- ogni arte aveva un luogo, una sala da concerto, un teatro – in cui si conformava alla struttura sociale e talvolta la metteva alla prova. Il Postmodernismo avvicina l’artista allo spettatore, rendendoli più simili; troppo spesso l’ostilità classica viene mediata dall’ironia e la farsa. Per molti di noi la galleria è esclusiva, isolata nella sua 6 porzione di spazio, ciò che è esposto assume l’aspetto di un bene raro e prezioso come un gioiello o un pezzo di argenteria; l’estetica si trasforma in commercio: la galleria è costosa e ai non iniziati il suo contenuto appare quasi indecifrabile: l’arte è difficile. Con il Postmodernismo lo spazio espositivo perde la sua neutralità, le pareti assimilano, l’arte scarica… l’apparente neutralità della parete bianca è un’illusione. Essa rappresenta una collettività con idee e presupposti comuni, artista e pubblico sono per così dire impercettibilmente vaporizzati in 2d su uno sfondo bianco, lo sviluppo del White cube immacolato e privo di identità è uno dei trionfi del modernismo: uno sviluppo al tempo stesso commerciale, estetico, tecnologico. L’arte si mette sempre più a nudo ma la parete immacolata della galleria è impura, comprende commercio estetica artista etica e opportunismo. Ha conservato la possibilità dell’arte ma l’ha resa difficile, è essenzialmente un’invenzione formalista. Nel bene e nel male è l’unica grande convenzione attraverso cui l’arte viene fruita e ciò che lo rende stabile è la mancanza di alternative. La maggior parte delle persone che guarda all’arte oggi non guarda all’arte, ma all’idea che ha in mente, a rendere interessanti gli artisti sono le contraddizioni che essi scelgono per attirare l’attenzione, le forbici che inventano per ritagliare l’immagine che hanno di sé. Albert Boime su Arts nel 1970 scriveva di Mondrian: - “Mondrian si oppone alla soggettività, sulla base del fatto che l’individualismo porta alla disarmonia e al conflitto e interferisce con la creazione di un ambiente materiale armonioso” Mondrian, con la “sua stanza” propose un’alternativa al White cube che il modernismo ha ignorato, analizzando lo spazio che creò (nel quale lui stesso non ha mai messo piede, dato che il suo progetto del 1926 per il Salon de Madame B. a Dresden fu realizzato solo nel 1970), un luogo che accoglieva i bisogni primari: un letto, una scrivania, uno scaffale. Sottoposti ad un sistema di appoggi e scorrimenti, rettangoli e quadrati definiscono un luogo che somiglia all’interno di un dipinto cubista. Se le sale trasformate da Duchamp-ironiche, spiritose e fallibili- accettavano ancora la galleria come luogo legittimo del discorso, la stanza immacolata di Mondrian – un altare dedicato allo spirito e a Madame Blavatsky- cercava al contrario di indurre un nuovo ordine che l’avrebbe resa superflua. 4. La galleria come gesto Non sarà stata proprio la galleria vuota, ora riempita dallo spazio elastico che identifichiamo con la Mente, la più grande invenzione del Modernismo? Descrivere il contenuto di quello spazio solleva una serie di interrogativi zen, quando un vuoto diventa pieno? Cos’è che cambia tutto restando immutato? La galleria diventa il grado zero dello spazio, soggetto a infinite mutazioni. I gesti che lo attivano possono costringere il suo contenuto implicito a manifestarsi, questo contenuto va in due direzioni: esprime opinioni sull’arte al suo interno e commenta il contesto più ampio (la strada, la città, il denaro, gli affari) che lo contiene. I primi gesti furono piuttosto maldestri, sintomo di una consapevolezza non ancora perfetta. Come quello compito da Yves Klein il 28 aprile 1958 alla Galerie Iris Clert, la celebre fotografia lo ritrae mentre salta in caduta libera da una finestra del primo piano (esperto di Judo, sapeva come atterrare); dipinse di blu la facciata che dava sulla strada, servì cocktail blu e pagò una guardia per presidiare all’ingresso, tolse gli arredi e dipinse di bianco l’interno. Il tempo ha rivelato un metodo nella follia di Klein e spiegato come il modernismo abbia saputo ricreare, dalle fotografie alcuni dei 7 suoi momenti più decisivi. I gesti in realtà sono due: quello originale che presenzia a un momento di cui non ha ancora una percezione completa, è in anticipo con se stesso quello che arriva a noi che siamo distanti dall’evento e lo comprendiamo meglio. Al vernissage parteciparono 3000 persone, la galleria luogo di trasformazione diventava immagine del sistema mistico di Klein, in un certo senso Klein offriva se stesso agli altri che lo consumavano. Fu il primo di una serie di gesti che hanno usato la galleria come controparte dialettica, gesti che hanno una storia e un’origine: ognuno ci rivela qualcosa sui patti sociali ed estetici che preservano lo spazio espositivo, luogo in cui si conducono “lotte di potere”. Ad esempio al gesto di Klein produsse una reazione nella stessa galleria, la “Vide” lasciò spazio al Plein di Arman, un cumolo di immondizia detriti e scarti, una massa così grande da schiacciare le pareti. Questo gesto ha una connotazione più terrena e aggressiva, riempire lo spazio di rifiuti, lo spazio di trasformazione e poi quando è sovraccarico chiedergli di digerirlo. Il visitatore rimane fuori, dentro lo spazio espositivo e il suo contenuto sono ormai inseparabili. Perché i nuovi realisti furono i primi a cimentarsi in simili gesti alla fine degli anni ’50 e negli anni ’60? Il loro percorso artistico, pervaso di coscienza sociale, stava giungendo ad uno “scioglimento” cruciale, ma venne interrotto dalle dinamiche internazionali dell’arte. “La sfortuna dell’avanguardia parigina” (battezzata proprio dalla presentazione de “Le Vide” di Klein) è stata coincidere con il declino di Parigi e l’ascesa di New York” scrisse Jan De Marck. “Nella lotta per la conquista dell’attenzione internazionale, la “francesità” diventò uno svantaggio e i giovani artisti americani si convinsero che la tradizione a cui si ispiravano fosse fallita”. Fatta eccezione per quello di Klein, i primi gesti del gruppo denotavano una certa ferocia, anche il più gradevole dei gesti dei nuovi realisti aveva un nocciolo duro: Nel 1961 Daniel Spoerri si accordò con il direttore della galleria Addi Koepcke di Stoccolma: lui e sua moglie avrebbero venduto prodotti alimentari appena acquistati in un negozio “al prezzo corrente di mercato”, alcuni articoli avevano un certificato d’autenticità firmato dall’artista. O Tosun Bayrak che con la sua automobile bianca, sporca e ammaccata, ferma in strada, a New York e piena zeppa di budella di animali, come la testa di un toro, abbandonata fino a che la puzza non invase tutto il quartiere. Quali che fossero i suoi eccessi, l’avanguardia americana non ha mai attaccato il concetto di galleria, se non per un breve periodo al fine di promuover la Land Art (che poi comunque veniva fotografato e portato in galleria per essere venduto). In America il materialismo è un bisogno spirituale sepolto nelle profondità di una psiche che conquista i suoi oggetti dal nulla e ci rinuncia, la Pop Art lo ha capito! Nell’ottobre del 1968 l’artista europeo più sensibile alle politiche dello spazio espositivo, Daniel Buren, sigillò la galleria Apollinaire di Milano per tutta la durata della mostra, incollando alla porta strisce verticali bianche e verdi su stoffa. Questo gesto, come quello di Klein fu preceduto da una prova generale un po' diversa. A Milano le strisce di Buren chiusero la galleria nello stesso modo in cui gli ispettori sanitari chiudono i locali infatti, la galleria è considerata sintomo di un corpo sociale disturbato, l’agente tossico isolato al suo interno non è tanto l’arte quanto ciò che la contiene in ogni senso. La concettualizzazione della galleria raggiunse il suo apice un anno dopo, nel 1969 su Art o Project Bulletin 17, le cui pagine erano una sorta di spazio artistico fluttuante, Robert Barry scrisse “durante la mostra la galleria rimarrà chiusa”, l’idea venne realizzata presso l’Eugenia Butler 10 insignificante e trascurabile Le rappresentazioni degli atelier ci consentono l’accesso a spazi privilegiati, studi e loft ricchi di materiali residui. Nel 1967-68 l’artista newyorkese Lowell Nesbitt visitò gli studi dei suoi colleghi in compagnia di un fotografo, quasi fosse un regista cinematografico , gli indicava cosa immortalare, senza toccare né spostare nulla, per lui questi luoghi erano “ritratti degli artisti in cui non c’erano né volti né corpi”, tra tutti gli studi visitati figurava anche quello di Louise Nevelson, come in tutti i suoi lavori, mise un po' di ordine , ma si attenne al proposito di lasciare ogni cosa nel punto esatto in cui l’aveva trovata. Con Nesbitt l’artista scompare, lo studio è diventato l’artista mancato, il creatore è un intruso nel suo stesso spazio, dove ritorna con vari pretesti e trasferimenti, come in Study for skin 1962, di Jasper Johns, il disegno dell’artista assente preme la faccia contro la finestra del suo studio lasciando una traccia della sua presenza. Naturalmente le opere di Johns abbondano di riferimenti all’artista assente, in quanto residui potremmo, forse, chiamarli para-creazioni. In definitiva, il Cubismo, Costruttivismo, l’Espressionismo e perfino il Surrealismo hanno tutti romanzato l’autore assente, riempendo il vuoto con il mito dell’artista. A giudicare dalle fotografie, gli atelier dei primi avanguardisti mostravano una certa rusticità funzionale, al pari delle immagini che documentano le prime performance, questi ambienti non hanno consapevolezza della posterità e il loro arredamento in genere è limitato all’indispensabile per vivere e lavorare. Il movimento che elevò a feticcio, i feticci, il Surrealismo, accentuò il carattere magico della belva dentro l’atelier, facendo emergere con forza dall’insieme degli oggetti un linguaggio che non era mai stato né visto, né sentito prima. Nello studio surrealista nacquero sogni di riforma sociale fondata sull’anarchia che spesso degenerava. Emerse un nuovo tipo d’artista, il suo modo di lavorare è caratterizzato dall’alternarsi di fasi di attività furiosa e pause creative, il temperamento tendente alla malinconia e il comportamento sociale da un desiderio di solitudine e da eccentricità di ogni genere Eccentricità certo, riprese dai surrealisti ed espressionisti astratti, i quali, come ha raccontato Lee Krasner, alle feste facevano a gara nell’esibire le loro donne con strani costumi, è il sessismo che serpeggia nell’avanguardia, come dimostra anche la presenza della modella nello studio. Lo studio come luogo in cui gli adepti di un culto decidono di vivere, formando una sorta di comune con tanto di leader, per sperimentare pratiche non ortodosse agli occhi dell’opinione popolare e produrre arte per gli sciocchi che la vogliono: sembra la descrizione dello studio che Andy Warhol chiamò ironicamente Factory, lì il capo del culto, trasformato in un dandy, un personaggio al centro di un culto della personalità. All’estremo opposto rispetto a lui, nella cultura dello studio a New York negli anni sessanta troviamo Rauschenberg, che nel suo stile arbitrario, univa arte, scienza, la danza con i collezionisti, il denaro, il mondo degli affari e la cultura della carta stampata nella piacevole promessa di una gratificazione immediata. Era conosciuto per la sua generosità che stimolò un’intera generazione, aprì una casa a Lafayette Street. Fu proprio nel suo studio che nacque Bed 1955, il pezzo che forse sintetizza al meglio questa gloriosa confusione tra arte e vita, uno spazio di profonda intimità, anzi saturo di elementi personali, di impronte, residui di identità, pone sullo stesso piano orizzontale torture del sesso e l’estasi della morte. L’atto di sollevare il letto, in modo verticale, fa scatenare impetuosamente, sulla sua superficie le potenti convenzioni estetiche inserite nel guardare un dipinto appeso alla parete. 11 Ma cosa sarebbe del pezzo di Rauschenberg se tornasse indietro? Di certo non sarebbe solo. Lo studio infatti è sempre più o meno affollato di opere, e si svuota periodicamente, mentre una tela è a lavoro, le altre, finite e incompiute sono confinate in una zona d’attesa, finché saranno lì rimangono nell’orbita dell’artista e possono essere soggette a modifiche o revisioni. Ormai siamo tutti consapevoli dei campi di forza che circondano l’artista nel suo studio, che si tratti di uno spazio d’accumulazione o di un luogo di frugalità monastica. Un esempio perfetto di studio inteso come opera di accumulazione è il Merzabau di Schwitters, iniziato ad Hannover nel 1923. Simile ad una sorta di organismo industrioso, l’artista si spogliò del proprio esoscheletro a mano a mano che lo studio lo espelleva e limitava l’accesso a un solo visitatore per volta, che poi si trovava compresso nel paesaggio saturo, questo genere di studio ha un valore didattico, persino leggendario, come sostituti del loro creatore acquisiscono parte della sua aura. Benché in modo molto diverso, anche lo studio di Francis Bacon era un collage vivente, un “cumolo di compostaggio” come lo definiva lui stesso. Saturo di libri, foto, riviste, avanzi accumulati come specchi, barattoli di vernice, caotico e simile ad un ventre dentro al quale poteva lavorare, forse simboleggiato dalle gabbie che intrappolano molti dei suoi personaggi; oggi è stato ricostruito nella Hugh Lane Gallery di Dublino. Contrariamente all’atelier di Bacon, quello di Rohtko era spoglio, funzionale, puritano un autentico studio povero; c’era un flusso di visitatori silenziosi, Rotko li fissava per cercare di decifrare, una volta cacciò una persona perché secondo lui “non aveva rispettato l’opera”, lo studio in alto e in penombra sembrava un’anticamera della trascendenza. Quant’era lontano Duchamp da tutto questo, quando negli ultimi anni della sua vita espose piacevolmente uno studio vuoto per dimostrare che come aveva annunciato, aveva abbandonato l’arte (in realtà stava completando il suo ultimo grande lavoro, Ètrant donnés). I paradossi duchampiani hanno un che di comico, l’atelier vuoto, diventa la prova di una non produzione, un gesto creativo per dimostrare la sterilità, la paralisi dell’atto creativo; nessuno mai lo vide lavorare, praticava la sua arte segreta in uno studio segreto. Lo studio frugale, spogliato di tutto quanto non è strettamente necessario all’attività del pittore, trova la massima espressione ottocentesca nel celebre libro dipinto del 1812 in cui Georg Kersting ritrasse Caspa David Friederich nel suo atelier. Lo studio di Friederich era assolutamente nudo, non conteneva altro che un cavalletto, un sedia e un tavolo. Il punto però non è il pittore che si dipinge nell’atto di dipingere, all’opera c’è un altro artista, Kersting, un processo è contenuto nell’altro, poiché l‘artista sta praticando ciò che rappresenta. Come avviene la transazione tra interno ed esterno? la finestra ne è il simbolo? Dentro lo studio pensante e fuori l’indaffarata vita quotidiana, la finestra, nel dipinto inquadra una porzione di realtà, un’illusione nell’illusione; nelle rappresentazioni della finestra dello studio, quindi, l’opposizione tra questi due mondi, interno ed esterno, comune a tutte le culture, risulta particolarmente potente, Frederich la scelse come soggetto. La vista dalla finestra del suo atelier 1806, o in Donna alla finestra 1802, dove c’è una figura femminile che compare di schiena, con un altro raddoppiamento, dunque, egli pone l’osservatore all’interno della tela. In qualsiasi modo in cui consideriamo la finestra, aperta o chiusa, un occhio, arbitro che definisce il dentro e il fuori ma partecipa a entrambi. L’atto di guardare costituisce tuttavia il soggetto preferito dell’artista americano Edward Hopper, il soggetto è spesso costituito da donne solitarie che a loro volta, magari, guardano fuori dalla finestra, 12 convinte di non essere viste; i suoi dipinti propongono una sorta di galateo del guardare, lo sguardo che si pone sulle donne infatti non è mai lo sguardo del desiderio, non le espone al degrado della pulsione maschile ma sintetizza invece una modalità del guardare che a sua volta implica l’assenza di un osservatore pervenuto, sostituito da una visione astratta e disinteressata. Di questo galateo dello sguardo le finestre di Hopper sono i surrogati, le tappe, gli strumenti, i segni, i significanti. Matisse nel 1916, realizzò un’opera che può essere considerata una pietra miliare, rispetto a ben quattro temi: il pittore, la finestra, il dipinto nel dipinto e la modella. Il romanticismo trasformò la modella da figura terrena a musa, collaboratrice passiva, simbologia della sessualità dell’artista. L’arte moderna offre tutta una serie di modelle famose, da Jo Heffernan di Courbet o Victorine Meurent di Manet, Kiki di Man Ray alle donne di Picasso. Ma il nudo diventato musa, svestito e offerto allo sguardo maschile, modellò anche la capacità delle donne di trasformarsi in una sorta di stanza dell’eco del desiderio maschile. Negli anni cinquanta l’atto creativo, divenne un feticcio in voga, che esonerava l’osservatore dalla fatica di capire l’opera. Il mistero dell’opera diventò il mistero della sua creazione. Siamo giunti dunque alla questione decisiva, in che modo lo studio ha influenzato il White cube? Due atelier, quello di Mondrian e quello di Brancusi hanno svolto un ruolo cruciale, Mondrian ne aveva due, uno a Parigi e l’altro a New York entrambi celebri. La sua arte eliminava quello che fa piacere chiamare mondo reale, ma per ironia della sorte la follia della sua precisione ha finito per produrre quel residuo logico chiamato “Design”, Mondrian influenzò tutti, dall’architetto alla haute couture, la sua ricerca divenne buon gusto. Nel suo studio nulla doveva interferire con le coordinate della sua idea, possiamo definire questo come “puritanesimo” che si trasferì al White cube, dove il visitatore è di troppo, esiste infatti un tipo di arte che disprezza il corpo, anche quello di chi la produce. Si può dire dunque che il suo studio sia stato unna proto-galleria, e uno dei fattori da cui hanno avuto origine sono l’orgogliosa sterilità e l’isolamento dell’arte all’interno del White cube. Anche lo studio di Brancusi (che invece era circondato da un ammasso di sculture) ha avuto un’influenza, o meglio ha creato l’idea dello studio dell’artista dei nostri tempi, nessuno studio è più famoso del suo. Nel 1926, preparando una mostra a New York l’artista sperava di riuscire a costruire o ricostruire una stanza in cui il suo lavoro potesse essere visto in maniera corretta. Il suo atelier era di fatto una galleria e Brancusi il direttore, l’artista modificava continuamente la disposizione delle sue sculture esprimendo così una preoccupazione per il rapporto tra ciascun pezzo e il mondo. Infine i tre punti che hanno definito lo studio e che a loro volta hanno influenzato la natura della galleria e del museo sono ormai al completo. All’origine troviamo la mitologia dell’artista, in un secondo momento l’artista trasferisce questa mistica allo spazio fecondo dello studio, terza fase è la ribalta dello studio povero che soprattutto con Mondrian e Brancusi ha contribuito a creare il luogo pulito e ben illuminato in cui l’arte viene esposta. Ma con l’intrusione delle installazioni, del video e tutto il resto, il White cube, è diventato sempre più irrilevante, la galleria un sito “il luogo in cui qualsiasi si trova, si trova e si troverà” Se un tempo la galleria trasformava tutto quello che vi si trovava in arte, i nuovi media hanno capovolto il processo: ora sono loro a trasformare incessantemente la galleria a loro piacemento.