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INSIDE THE WHITE CUBE, Sintesi del corso di Storia dell'arte contemporanea

Riassunto per immagini del libro di O'Doherty

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 19/04/2021

irene-b-bernardi
irene-b-bernardi 🇮🇹

4.6

(66)

8 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica INSIDE THE WHITE CUBE e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! INSIDE THE WHITE CUBE 
 Brian O’Doherty
 riassunto 
 
 Introduzione 
 Questa raccolta di saggi di Brian O’Doherty, trattano la tematica dell’oggetto d’arte in rapporto al contesto. Questo studio si incentra sugli effetti che il sereno contesto controllato della galleria d’arte ha avuto sull’oggetto artistico. O’Doherty afferma che lo spazio espositivo è costruito sulla base di leggi vigorose; il mondo esterno deve restare fuori, in genere le finestre sono sigillate; i muri dipinti di bianco, il soffitto diventa fonde di luce. Qui l’arte è libera di vivere la sua vita, quasi questo contenitore fosse un edificio sacro. 
 Questo concetto affonda le radici in un’epoca precedente a quella delle chiese medievale. Le camere funerarie dell’Antico Egitto, ad esempio; l’eternità evocata dagli spazi espositivi è apparentemente quella della posterità artistica. Il fine, la magia del white cube e l’immunità del tempo di una certa struttura di potere. 
 O’Doherty scrive che essere presenti davanti a un’opera d’arte significa assentarsi lasciando il posto all’occhio e allo spettatore; facendo questo, rinunciamo alla nostra umanità e diventiamo uno Spettatore di cartone con un Occhio disincantato. "" Osservazioni sullo spazio espositivo
 Nel tardo modernismo abbiamo la comparsa di questo spazio senza ombre, bianco, pulito e artificiale. Le opere sono montate, appese e distanziate per essere studiate. L’arte esiste in una specie di eternità dell’esposizione e benché vi si distinguano diverse caratteristiche “di periodo” non conosce tempo. Si ha ben presente la foto dell’allestimento senza figure, dove l’osservatore è stato finalmente eliminato: siamo lì senza esserci. Questa foto è una metafora dello spazio: in essa l’idea si realizza con la stessa potenza con cui si realizzava un dipinto del Salon degli anni ’30 del Ottocento. Il Salon, definisce implicitamente una galleria, una definizione appropriata all’estetica dell’epoca. Osservando La galleria del Louvre di Samuel F. B. (1), siamo al cospetto del perfetto allestimento come un ingegnoso mosaico di cornici che non lascia libero nemmeno un pezzetto di muro. 
 Il quadro da cavalletto è una specie di finestra trasportabile che, una volta fissata al muro, lo attraversa in profondità. Questo tema è ripetuto all’infinito nell’arte dell’Europa del Nord, dove una finestra all’interno del dipinto non solo inquadra una distanza più remota, ma conferma anche i limiti della cornice. La cornice di questo tipo di opere è un contenitore psicologico per l’artista quanto lo è per lo spettatore la sala in cui si trova. 
 Per questo, sulla parete confusionaria di Samuel F.B., ciascun dipinto era considerato un’entità autonoma ed era totalmente isolato dal sui incombente vicino da una massiccia cornice esterna e al suo interno grazi a un sistema prospettico completo. 
 Più forte è l’illusione, più forte è l’invito rivolto all’occhio dello spettatore, che si astrae dal corpo ed è proiettato nel dipinto come un sostituto in miniatura per abitarne e metterne alla prova le articolazioni spaziali. Una volta saputo che questo frammento di paesaggio è frutto della decisione di escludere tutto ciò che lo circonda, lo spettatore comincia a prendere coscienza dello spazio al di fuori del quadro. La cornice diventa una parentesi; questo fenomeno venne accentuato e innescato dalla nuova scienza (o arte) dedicata a estrarre il soggetto dal suo contesto: la fotografia. Con l’avvento della fotografia, il lavoro di incorniciatura continua a essere compito di quel che restava delle conversioni pittoriche: i punti di sostegno all’interno dell’inquadratura erano forniti da alberi e colline creati ad hoc. Queste, allentano la tensione sul margine permettendo al soggetto di comporsi da solo, anziché cercare di allinearlo con il margine stesso. 
 Tutto questo lo si ritrova nell’Impressionismo, che fece spesso del margine un arbitro tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori dal dipinto; lo sviluppo di uno spazio letterale privo di profondità iniziò a esercitare una pressione ulteriore sul margine. Qui l’inventore è Monet. 
 Un altro pittore che colse il dilemma del piano pittorico e il tropismo che lo spingeva a estendersi verso l’esterno è Matisse dove nei suoi dipinti non si ha quasi mai coscienza della cornice. La solida struttura informale, abbinata a un senso accorto della decorazione, li rende quasi autosufficienti. " Colleghiamo ora la storia interna dei dipinti a quella esterna delle modalità espositive. 
 In epoca moderna, la prima occasione in cui un artista radicale creò uno spazio e vi espose i propri dipinti fu il Pavillon du Réalisme personale che Coubert allestì all’esterno dell’Exposition del 1855 dove si ritrovò a ideare il contesto della sua opera e, di conseguenza, a pronunciarsi sul valore di quest’ultima. 
 Alla prima mostra del 1874, gli Impressionisti appesero le loro tele una incollata all’altra, proprio come avrebbero fatto al Salon. Le loro opere, che pure affermavano la loro piattezza e i loro dubbi rispetto al ruolo di limite svolto dal margine, erano ancora prigionieri dai grandi maestri. 
 In occasione della grande retrospettiva di Monet nel 1960 al Museum of Modern Art, William C. Seitz fece togliere le cornici; l’allestimento interpretava correttamente il rapporto tra i dipinti e la parete e via via che il piano pittorico veniva “sovraletterizzato”, le superfici si indurivano. 
 La differenza tra il quadro da cavalletto e il murale era così esplicata. "" La pittura tardo-modernista (in maniera particolare il Color Field) non abbia mai cercato di impadronirsi della parete, né abbia tentato una riconciliazione tra il murale e il quadro a cavalletto. All’epoca, invece, il movimento si è conformato al contesto sociale in maniera quasi preoccupante. " A prescindere da questo, la pittura tardo-modernista ha avanzato alcune ingegnose ipotesi su come spremere qualcosa di più dal piano pittorico. Qui la strategia usata è stata la similitudine (fingere) non la metafora (credere): dire che il pano pittorico è “come…”. I puntini erano riempiti da oggetti piatti che si fondevano con la superficie letterale su cui sono piacevolmente adagiati: le Flags di Jasper Johns, i blackboard paintings di Ct Twombly e così via. " Queste soluzioni che consistono nell’incidere il piano pittorico (la risposta di Lucio Fontana al problema della superficie) fino a far sparire la tela e attaccare direttamente l’intonaco alla parete. 
 Nell’arte moderna, tuttavia, la potente voce dell’opposizione fu quella di Henri Matisse (già citato) il quale formulò alla sua maniera, razionale e un po’ in sordina, una visione del colore che di primo acchito paralizzò il grigiore dubita. Greenberg, in Arte e cultura, racconta come gli artisti newyorkesi si siano disintossicati dal Cubismo puntando gli occhi su Mirò e appunto Matisse. " I dipinti dell’Espressionismo Astratto si sono liberati della cornice e gradualmente hanno cominciato a concepire il margine come un’unità strutturale attraverso cui il dipinti o entrava in comunicazione con la parete. È qui che entra in scena l’agente e il curatore. La maniera in cui entrambi, con la collaborazione dell’artista, esponevano queste opere ha contribuito, tra la fine degli anni Quaranta e Cinquanta, alla definizione di una nuova pittura. 
 La parete diventa una protagonista dell’arte, diventando la sede delle ideologie contrapposte, ogni nuovo sviluppo doveva essere corredato da una visione di essa; una volta diventata una potenza estetica, la parete ha trasformato qualsiasi cosa vi fosse esposta. 
 Oggi è impossibile allestire una mostra senza perlustrare la parete come un ispettore sanitario: bisogna tener conto dell’estetica che inevitabilmente trasformerà in arte l’opera, spesso diffondendone le intenzioni. La potenza estetica della parete ha ricevuto un impulso finale da una presa di coscienza che, a posteriori, ha tutta l’autorità dell’inevitabilità storica: il dipinto da cavalletto non doveva essere per forza rettangolare. 
 Le tele a strisce di Frank Stella (2) tagliate a forma di T, U e L che l’artista espose da Castelli nel 1960 “sviluppavano” ogni piccola porzione di parete, dal pavimento al soffitto, da angolo ad angolo. 
 La presentazione faceva oscillare quelle opere tra un effetto d’insieme e un senso d’indipendenza. La rottura del rettangolo confermò formalmente l’autonomia della parete.
 Totale ciò che William Anastasi (3) fa alla Dwan Gallery di NY negli anni Sessanta: fotografa la galleria vuota, rilevò i parametri della parete dall’alto al basso e da destra a sinistra per poi realizzare una serigrafia su una tela leggermente più piccola della parete e la appesa si quest’ultima. Coprire la parete con un’immagine di se stessa significa posizionare un’opera d’arte proprio nella zona in cui superficie, murale e parete hanno intrecciato un dialogo di importanza centrale per l’avanguardia. La parete diventò una sorta di murale readymade che avrebbe condizionato tutte le altre mostre organizzate successivamente in quello spazio. """""" Essere presenti davanti a un’opera d’arte, allora, significa assentarsi lasciando il posto all’Occhio e allo Spettatore che ci riferiscono cosa avremmo potuto vedere se fossimo stati lì. L’opera d’arte assente spesso per noi è più presente (probabilmente Rothko l’ha capito meglio di chiunque altro). 
 Lo Spettatore e l’Occhio, infatti, sono convenzioni che stabilizzano il senso perduto di noi stessi. Essi riconoscono che la nostra identità è di per sé una finzione e ci illudono di essere presenti attraverso un’autocoscienza ambigua. Noi, come soggetti presenti in galleria/musei, oggettiviamo e consumiamo l’arte per nutrire il nostro io inesistente o per mantenere un cosiddetto “uomo formalista” affamato di esperienze estetiche. " I primi osservatori delle opere Impressioniste (fine Ottocento) devono aver avuto un sacco di problemi; quando tentavano di verificar il soggetto avvicinandosi alla tela, quello spariva. Lo Spettatore era costretto a correre avanti e indietro per intrappolare qualche frammento di contenuto prima che svanisse. Il dipinto non era più un oggetto passivo, ma dava istruzioni. " Una volta che l’opera d’arte “attiva” viene inclusa nell’arco percettivo, vengono chiamati in causa i sensi, e poiché sono questi ultimi a raccogliere i dati che confermano l’identità, essa diventa problematica. " Guardare un’opera d’arte è diventanti un atto consapevole, qualsiasi certezza riguardo a cosa c’è “là fuori” è stata intaccata dalle certezze del processo percettivo. L’Occhio e lo Spettatore rappresentano quel processo, che riformula in maniera costante i paradossi della coscienza. 
 L’Arte Concettuale intransigente, infatti, elimina l’Occhio a vantaggio della mente. Il pubblico legge. Il linguaggio è dotato degli strumenti necessari per esaminare la serie di condizioni che elaborano il prodotto finito dell’arte, ovvero il significato. C’è dunque un fanastico paradosso nella “installazione” presentata da Joseph Kosuth nel 1972 alla Leo Castello Gallery (3) composta di tavoli, panchine e libri aperti. Non era una sala da guardare, ma una sala di lettura. " Se l’Arte Concettuale elimina l’Occhio rendendolo di nuovo servo della mente, la Body Art, nella versione proposta da Chris Burden, identifica lo Spettatore con l’artista e l’artista con l’arte. La punizione dello Spettatore è uno dei fransi temi dell’arte d’avanguardia.
"""""""""""""""""""""""""""""" """" " """" " (1) (2) (3) Il contesto come contenuto" Parliamo del contesto in cui si realizzano le esposizioni: Marcel Duchamp nel 1938 in occasione dell’Exposition internationale du Surréalisme alla Galerie Beaux-Arts trasferisce letteralmente il pavimento sul soffitto. Entrando nello spazio si vedeva la maggior parte delle opere di quei tipi strambi accuratamente collocate nelle loro cornici tradizionali per poi alzare gli occhi e accorgersi dell’opera 1200 Coal Bags (1): 1200 sacchi di carbone collocati da Duchamp sul soffitto che ricopriva il ruolo di “generatore-arbitro” della mostra." Fedele alla sua passione per i giochi di parole, l’artista mise sottosopra la mostra costringendo i visitatori a stare “a testa in giù”: il soffitto si era trasformato nel pavimento e il pavimento, per completare il concetto, nel soffitto. Era la prima volta che un artista abbracciava un’interna galleria in un solo gesto, per di più mentre pullulava di altre opere; facendo questo Duchamp individuò un’area dell’arte che non era stata ancora inventata. La sua trovata fu il primo di una serie di gesti che “sviluppavano” l’idea dello spazio espositivo come entità a sé, che si prestava alla manipolazione come una vetrina. 
 L’idea di scambiare soffitto e pavimento ormai può essere ripetuta in quanto “progetto”: trattandosi di un’invenzione, però, il brevetto del gesto conta molto di più del suo contenuto formale. Probabilmente il contenuto formale di un gesto risiede nella sua appropriatezza, economia e grazia. Questi progetti (arte a breve termine creata per occasioni e luoghi specifici) solevano la questione della sopravvivenza dell’effimero, sempre ammesso che sopravviva. Documenti e fotografie sfidano l’immaginario presentandogli un’arte che è già morta. 
 I progetti non documentati al limite possono sopravvivere come diceria ed essere associati alla figura di colui che li ha originati, il quale è costretto a elaborare un mito convincente." Nel 1942 Duchamp realizza Mile of String (2) per la mostra First Paper of Surrealism, un altro gesto che non tiene conto delle altre opere presenti, che diventano subito come carta da parati." Il maltrattamento delle loro opere è mascherato da maltrattamento degli spettatori, costretti a sollevare la zampa come galline per spostarsi da un punto all’altro della sala. Quello spago che teneva i visitatori a distanza dalle opere diventò l’unica cosa che avrebbero ricordato. " Dalle fotografie, lo spago sembra perlustrare lo spazio senza sosta, si avvolge e si impiglia con ostinazione demenziale su tutto ciò che incontra ed è così che Duchamp elabora la monade modernista: il pubblico della galleria-scatola.
 Lo spago non fa altro che tradurre alla lettera lo spazio illustrato da molti dei dipinti esposti; dipingere una cosa vuol dire incassarla nello spazio dell’illusione: il dissolvimento della cornice ha trasferito quella funzione allo spazio espositivo. Ridurre lo spazio a scatola o viceversa, trasformare la scatola in spazio espositivo è uno dei nodi formali dell’arte di Duchamp: quello del contenimento-interno-esterno. " Questo fare di Duchamp, tiene in sospeso lo spettatore impedendogli di disapprovare il maltrattamento di cui è vittima e procurandogli così un ulteriore fastidio. L’ostilità nei confronti del pubblico è uno degli elementi chiave del modernismo; attraverso questo, si crea un conflitto ideologico sui valori dell’arte, dello stile di vita che la accompagna, nonché su quelli della matrice sociale in cui entrambi si collocano. "" Il rapporto artista-pubblico può essere interpretato come un mettere alla prova l’ordine sociale attraverso propositi radicali poi riassorbiti dal sistema istituzionale (gallerie, musei, collezionisti, critici, etc..) che arriva a barattare il successo con l’anestesia ideologica.
 Il postmodernismo avvicina l’artista allo spettatore, rendendoli più simili; per molti, la galleria emana ancora energie negative quando ci aggiriamo al suo interno. Qui l’estetica si trasforma in una sorta di elitario sociale dove la galleria è esclusiva (ai non iniziati il contenuto sembra quasi incomprensibile: l’arte è difficile). 
 La classica galleria d’avanguardia è un limbo tra lo studio e il salotto; qui l’orgoglio dell’artista per le sue creazioni si sovrappone perfettamente al desiderio borghese di possesso.
 Oggi è difficile non giungere alla conclusione che l’arte del tardo-modernismo in realtà sia irreparabilmente dominata dai presupposti della borghesia, come profetizzava la velenosa e solenne prefazione che Baudelaire scrisse per il Salon del 1846 intitolata Ai borghesi.
 L’arte degli anni Settanta è una moltitudine di generi eterogenei e non gerarchici, di soluzioni spiccamente provvisorie, non per dire instabili. Il grosso delle energie non confluisce più nella scultura o nella pittura formale ma nelle categorie miste come performance, post-minimalismo, I gesti estesi a tutta la galleria si moltiplicarono sul finire degli anni sessanta e proseguirono sporadicamente nel decennio successivo. A Chicago, Christo e sue moglie Jean Claude (3) realizzarono uno dei loro famosi “impacchettamenti” per il Museum of Contemporary Art.
 Con grande sorpresa di tutti, l’impacchetamento dei due artisti fu portato a compimento senza interventi ostili da parte del comune; si trattò della più audace collaborazione tra un artista e un direttore di museo di quegli anni (Jan van der Marck).
 Gli imballaggi di Christo e Jean Claude sono una sorta di parodia delle divine trasformazioni dell’arte. Si appropriano dell’oggetto, ma in modo imperfetto. L’oggetto è perduto e mistificato. 
 Questo metodo riporta i temi estetici nel loro contesto sociale, per poi impegnarsi in un’operazione di mediazione politica. Una posizione deve essere presa non solo dal mondo dell’arte, ma anche dal pubblico del momento, per il quale solitamente l’arte è distante." La decisione di imballare un tipo di museo come quello, era sintomo della profonda serietà dei due artisti e di van der Marck, i quali avvertivano il malese di un’arte spesso soffocata da un’istituzione che, come l’università, adesso tende a somigliare ad un’azienda. Così, questo progetto e la sua realizzazione suggeriscono l’idea che imballare sia sinonimo di comprendere. 
 In quel momento la galleria era oggetto di una certa dose di ostilità puramente formale, anche se gli artisti la usavano perché tollerava la loro esistenza su due livelli, necessaria per sopravviene. È questo, non c’è dubbio, uno dei segni impressi dall’arte d’avanguardia nella matrice post- capitalista: tutti questi gesti riconoscono nella galleria un vuoto carico del contenuto che un tempo era dell’arte. """"""""""""""""""""""""""""""""""""" " " (1) (2) (3) Studio e galleria. Il rapporto tra il luogo in cui l’arte si crea e lo spazio in cui viene esposta. " Nel 1964 Lucas Saramas (1) trasferì il contenuto della sua camera da letto-studio dal New Jersey a New York (più precisamente alla Green Gallery). Lì ricostruì la stanza e l’espose come fosse un’opera: lo studio diventava così un pezzo da galleria, benché non venne venduto.
 Il gesto di Saramas sovrapponeva studio e galleria, i due luoghi in cui l’arte sollecita il proprio significato; con questo, costrinse queste due realtà a coincidere sovvertendo il loro tradizionale rapporto. Mettendo in mostra uno stile di vita congelato nel tempo artificiale della galleria, Samaras stava immaginando un artista assente: se stesso. 
 In questo lavoro, la galleria incorniciava lo studio, che a sua volta incorniciava il modo di vivere dell’artista, che a sua volta incorniciava gli attrezzi dell’artista, che a loro volta incorniciavano l’artista che non c’era. Il gesto di Lucas vuole essere un commento sui criteri estetici in vigore alla metà degli anni sessanta e si fonda sull’enorme aumento del potere di trasfigurazione della galleria. Simboleggia una delle forze che trasformano la galleria vuota in opera d’arte: il collage, e la sua estensione in oggetti ingombranti quanto il trasferimento dello studio." Samaras ci rammenta che è l’artista a generare la propria mitologia, trasferendola poi allo studio che, per pubblico, diventa il focus misterioso dell’atto creativo (e potenzialmente sovversivo). 
 Questo mito dipende dal modo in cui l’artista vide percepito, dal suo stile di vita e dal tipo di opere che realizza. Esso presuppone la presenza di quella borghesia di cui parla Baudelaria nell’introduzione al Salon del 1846. secondo questo scenario, la borghesia affida la propria immaginazione alienata non solo all’artista, ma anche allo spazio magico in cui l’arte viene ponderata e creata. Si crea così un circuito autoreferenziale che inciderà sullo sviluppo dell’opera d’arte autoreferenziale e sui sistemi estetici chiuso del tardo-modernismo. "" Parliamo della performance Seedbed eseguita da Vito Acconci nel 1972 a NY alla Sonnabend Gallery: l’artista se ne stava nascosto sotto una pedana inclinata con il chiaro proposito di masturbarsi per tutta la durata della mostra con una formidabile dichiarazione di resistenza.
 Acconci stesso portava con sé il suo studio, vale a dire il suo corpo. Per un breve periodo fu quest’ultimo la “tela” su cui artisti scrivevano i loro gesti. 
 Si possono “leggere” gli atelier come fossero testi rivelatori (a loro modo) quanto le opere. Nell’arte europea possono essere individuati quattro celebri passaggi in cui lo studio diventa soggetto esplicito dell’opera 
 1) Ritratto dei coniugi Arnolfini, Jan Van Eyck, 1434: l’artista è riflesso nello specchio appeso alla parete 
 2) Las Meninas, Velázquez, 1659: il pittore scruta tutto serio l’osservatore da dietro la tela" 3) L’arte della pittura di Vermeer, 1666-1673 
 4) L’atelier del pittore, Courbet, 1855 
 L’artista che dipinge se stesso nell’atto di dipingere è uno strano circolo chiuso, in cui il pittore si presenta come mezzo attraverso cui si realizza l’opera." A mano a mano che si addentra nel modernismo, l’artista come mezzo si traduce nel medium stesso, ovvero il colore: questo diventa una secrezione quasi mitica, una sorta di eiaculazione generativa (il colore come veicolo di trascendenza). 
 Il colore in quanto medium idealizzato succede alla rappresentazione simbolica degli strumenti del pittore nell’arte classica. 
 L’atelier del pittore di Courbet è un manifesto in cui è riassunta per citare le parole dell’autore “la storia morale e fisica del mio studio”. In questa composizione metaforica, l’artista materializza una serie di idee provenienti direttamente dal protagonista al cavalletto, ovvero se stesso. " La rappresentazione degli atelier ci consentono l’accesso a spazi privilegiati. Studi e loft sono ingombri di materiali residui, che diventano non solo degni di nota: nel 1967-1968, l’artista newyorkese Lowell Nesbitt (2) visitò gli studi dei suoi colleghi in compagnia di un fotografo a cui indicava cosa immortalare, senza toccare né spostare nulla, pensando che gli atelier fossero “ritratti degli artisti in cui non c’erano né volti né corpi”." Confrontando la fotografia dello studio di Nesbitt con la sua riproduzione su tela, i vestiti sullo sfondo come maniche e gambe divaricate sostituiscono l’artista che sta accanto a noi, dipingere e guarda la scena (l’abito fa l’artista assente). " Nel ritrarre l’atelier di Claes Oldeburg, Nesbitt idealizzò leggermente, ma si attenne con fermezza al proposito di lasciare ogni cosa nel punto esatto in cui l’aveva trovata; questa idea del disordine """ """ (1) (2) (3) """ " (4)