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L.DANIELE, DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA [Sistema istituzionale. Ordinamento. Tutela giurisdizionale. Competenze], Sintesi del corso di Diritto dell'Unione Europea

Sintesi integrativa per ripasso e studio pre esame, facente riferimento al manuale, pagg. 100 (pagg. manuale: 530). #unioneeuropea #dirittoeuropeo #riassunto #ue #dirittodellunioneeuropea #daniele

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 12/03/2020

J.U.S
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Scarica L.DANIELE, DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA [Sistema istituzionale. Ordinamento. Tutela giurisdizionale. Competenze] e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! L.DANIELE DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA INTRODUZIONE: LE ORIGINI E LO SVILUPPO DEL PROCESSO D’INTEGRAZIONE EUROPEA 1. Le esperienze di integrazione secondo il metodo della cooperazione intergovernativa. XIX secolo: si afferma l’ideale di un continente europeo non più diviso in tanti Stati perennemente in lotta fra loro. Tuttavia, la possibilità concreta di realizzarlo si presenta dopo il secondo conflitto mondiale. La catastrofica eredità della guerra e le relative atrocità convincono i politici a individuare nel processo d’integrazione europea l’ineluttabile rimedio per evitarne la ripetizione. Processo che prende piede solo tra gli Stati europei occidentali, profilandosi la guerra fredda, mentre nell’Europa dell’Est si concludono forme alternative di organizzazione militare ( Organizzazione del Patto di Varsavia ) ed economica ( Comecon ). La loro crescente partecipazione al processo d’integrazione europeo avverrà successivamente alla caduta del muro prima, dell’URSS poi. 1.2. L’integrazione dell’Europa occidentale segue due metodi diversi: 1) Metodo tradizionale: si fonda sulla cooperazione intergovernativa- Gli Stati sovrani cooperano fra loro creando strutture apposite per organizzare tale cooperazione. Le caratteristiche principali sono: a) prevalenza di organi di Stati: negli organi principali siedono rappresentanti degli Stati sovrani, che seguono le direttive date dal potere politico di tale Stato. b) prevalenza del principio dell’unanimità: ciascuno Stato ha il diritto di veto. c) assenza o rarità del potere di adottare atti vincolanti: le deliberazioni dell’organizzazione hanno natura di raccomandazione, quelle vincolanti sono eccezioni, solitamente subordinate al principio dell’unanimità. Vengono così create numerose organizzazioni a carattere regionale: 1.3. Innanzitutto, storicamente, è avvenuto a livello di cooperazione militare: UEO, Trattato di Bruxelles (17/3/1948), aggiornato col Trattato di Parigi (23/10/1954). Vi aderiscono a pieno titolo, in linea temporale diversa, 10 Stati (fra cui l’Italia). Considerati gli Stati osservatori e quelli che godono dello status di membri o partner associati, si arriva a 28 Stati. Organo principale è il Consiglio, dove partecipano i rappresentanti permanenti degli Stati, o, se la riunione è a livello ministeriale, dai Ministri degli Esteri e della Difesa. Deliberazioni assunte all’unanimità. Organizzazione rivitalizzata nel 1984 come strumento per attuare la componente relativa alla sicurezza e alla difesa comune della PESC. Prospettiva abbandonata col Trattato di Nizza (2001). NATO, Trattato di Washington (4/4/1949), vi aderiscono anche USA e Canada. Organo principale: Consiglio del Nord Atlantico, composto dai rappresentanti permanenti degli Stati membri, o dai Ministri degli Esteri, della Difesa o dai Capi di Stato e di Governo ove la riunione sia a livello ministeriale. Decisioni assunte all’unanimità. 1.4. Settore dell’integrazione economica, dove tale metodo viene usato per gestire il c.d Piano Marshall ( il cui contributo era condizionato dalla gestione coordinata fra i diversi Paesi beneficiari). OECE ( Org Eu per la Cooper. Econ. ), Trattato di Parigi (16/4/1948). Organo principale: Consiglio, dove partecipa un rappresentante per ogni Stato membro ( designato in funzione della materia da trattare ). Deliberazioni assunte all’unanimità, salvo che il Consiglio non disponga diversamente (all’unanimità), in tal caso la deliberazione assunta non avrà valore rispetto al Paese che ha votato contrario. Fra gli atti si rilevano le decisioni, che hanno valore vincolante per gli Stati membri. Con la fine della sua funzione, avrebbe dovuto trasformarsi in una zona di libero scambio, ma, mentre alcuni Stati (FRA, GER, BENELUX, ITA) decidono di optare per forme di integrazione più avanzate, dando vita alle tre Comunità europee, gli altri (UK, DAN, SWE, NOR, POR, AUS, SV) istituiscono con la Convenzione di Stoccolma (4/1/1960) l’EFTA (o AELE), Associazione europea di libero scambio. Questa realtà ha poi dato vita insieme con la Comunità europea allo Spazio Economico Europeo (SEE), Accordo di Oporto (2/5/1992); anche se poi la maggior parte di essi ha aderito alle CE. OECE ha modificato la propria natura divenendo OCSE ( Org. per la Coop e lo Sviluppo Econ. ), assumendo obiettivi di portata mondiale, nonché l’adesione di Stati extra-europei. 1.5. settore della cooperazione politica, culturale e sociale Consiglio d’Europa, Statuto approvato a Londra il 5/5/1949 da dieci Stati (fra cui ITA), ha compiti molto ampi, come promuovere un’unione più stretta fra gli Stati, salvaguardare il patrimonio comune di diritti e valori ecc. Organo principale: Comitato dei ministri, dove siedono i Ministri degli Esteri o i loro rappresentanti permanenti. Le decisioni più importanti vengono assunte essendoci la maggioranza semplice dei componenti e l’unanimità dei votanti. Strumento d’azione principale è predisporre e favorire la conclusione di Convenzioni internazionali fra gli Stati membri, aperte all’adesione di Stati terzi. Sono dunque atti la cui entrata in vigore è subordinata alla ratifica di ciascuno Stato. La Convenzione più rilevante conclusa nell’ambito del Consiglio è la CEDU, firmata a Roma il 4/11/1950, che si divide in un catalogo di diritti comuni e in un meccanismo di controllo internazionale sul rispetto degli stessi, imperniato sulla Corte europea dei diritti dell’uomo. 2. L’integrazione secondo il metodo comunitario: le origini. 2.1. Il modello della cooperazione intergovernativa dà buoni frutti in ogni ambito, ma gli strumenti applicativi presentano notevoli debolezze. Per esempio, tali organizzazioni possono operare efficacemente solo con il consenso unanime degli Stati membri. Il superamento del principio di unanimità e la volontà di dotare le proprie organizzazioni di maggiore autonomia induce la sperimentazione di un metodo innovativo, ossia il 2) Metodo comunitario (così chiamato dal nome delle tre Comunità europee in cui viene applicato in origine), le cui caratteristiche sono: 3. Lo sviluppo dell’integrazione comunitaria europea: l’unificazione del quadro istituzionale e l’allargamento a nuovi Stati membri. 3.1. La notevole complessità del quadro europeo, a fronte della presenza di tre Comunità con organi indipendenti, conduce subito al tentativo di semplificazione della struttura, volto a realizzare la fusione delle tre Comunità. • La prima tappa avviene già alla firma dei Trattati a Roma: Viene infatti firmata la firma della Convenzione su alcune istituzioni comuni delle Comunità europee. Le istituzioni in comune sono l’Assemblea parlamentare e la Corte di Giustizia, che agiscono per tutte le Comunità, ma nell’ambito dei poteri definiti da ciascun Trattato, diversi fra un Trattato e l’altro. • La seconda tappa è il Trattato che istituisce un Consiglio e una Commissione unici delle Comunità europee, Bruxelles, 8/4/1965. Non vi è più una pluralità di istituzioni c.d esecutive, ma l’operatività delle stesse rimane diversa a seconda delle diverse attribuzioni indicate nei Trattati. • La terza tappa coincide con la scadenza del Trattato CECA nel 2002. Il settore carbosiderurgico viene assorbito dal campo di applicazione del TCE. L’esperienza comunitaria si conclude con il Trattato di Lisbona: la Comunità europea viene assorbita dall’Unione Europea, rispetto a cui era fino ad allora distinta (ex art.1, comma 3, terza frase, TUE). Il TCE diviene Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). La CEEA rimane un ente autonomo, adeguato al Trattato di Lisbona attraverso un apposito protocollo. 3.2. Altro sviluppo importante è stato quello dell’allargamento delle Comunità europee. I vari Trattati istitutivi non sono “trattati aperti”, ma prevedono una procedura che permette l’adesione di ulteriori Stati europei (ora procedura unificata ex art.49 TUE). Al 1/1/2007 gli Stati membri sono 27. Gli allargamenti sono stati 6 (1973; 1981; 1986; 1995; 2004; 2007). Stati con cui sono stati avviati i negoziati per l’adesione: Turchia e Croazia. Stati candidati: ex Repubblica jugoslava di Macedonia. Stati potenziali candidati: Albania, Bosnia- Erzegovina, Montenegro, Serbia e Kosovo. Gli allargamenti hanno dato una dimensione veramente europea rispetto ai primi sei stati, e hanno reso evidente la necessità di una riforma istituzionale, rispetto a quella prevista per sei stati, e parzialmente verificatasi col Trattato di Lisbona ( nonostante, sotto questo punto di vista, il quadro di partenza abbia già subìto nel corso degli anni rilevanti modifiche). 4. Segue: la riduzione del deficit democratico 4.1. La struttura originaria non rispettava il principio della democrazia parlamentare o rappresentativa, perché l’istituzione con maggiori poteri era il Consiglio ( composto da rappresentanti dei Governi degli Stati membri), dov’era rappresentato il potere esecutivo di ciascuno Stato membro e non quello legislativo, che disponeva quindi collegialmente di poteri che, a livello nazionale, spettano al Parlamento. Il Parlamento europeo (così rinominato dall’Atto unico europeo del 1986), nacque infatti con funzioni consultive. La soluzione era impostare una configurazione di tipo bicamerale. Si è avuto così un lento ampliamento dei poteri del Parlamento europeo, nella prospettiva di affiancamento al Consiglio e di condivisione dei poteri, non già di sostituzione. Il carattere duale o bicamerale si desume dalla duplice fonte di legittimazione: la volontà dei cittadini, attraverso l’elezione a suffragio universale diretto dei membri del PE, la volontà degli Stati membri, attraverso i corrispondenti rappresentanti di Governo nel Consiglio. Tale logica si trova nell’art. 10 TUE: il par. 1 afferma che il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa, il par. 2 chiarisce che tale principio si attua in due direzioni diverse e complementari (quelle citate sopra). In particolare viene messo in risalto che anche dai rappresentanti degli Stati membri discende una forma indiretta di rappresentanza dei cittadini, perché i Capi di Stato e di Governo sono democraticamente responsabili di fronte ai loro Parlamenti nazionali e ai loro cittadini (ultima parte par.2). 4.2. L’ampliamento dei poteri del PE è avvenuto per tappe. 1) Lussemburgo, 22/4/1970; Bruxelles, 22/7/ 1975; sono i c.d Trattati di bilancio, che in via combinata attribuiscono al PE ampi poteri in materia di bilancio, prevedendo la procedura di approvazione congiunta con il Consiglio del bilancio unificato delle 3 Comunità (il motivo è l’introduzione, avvenuta con decisione del Consiglio nel 1970, delle risorse proprie: il bilancio comunitario non si basava più sui contributi degli Stati membri, ma su risorse finanziarie autonome, rispetto a cui serve il controllo di un organo democratico PE. La procedura di approvazione è stata stravolta da Lisbona, che ha soppresso la distinzione fra spese obbligatorie e non, e ha previsto una procedura deliberativa simile a quella legislativa ordinaria. 4.3 /4.4. si attua l’art. 137 TCE (decisione del Consiglio, 1976), che consente il passaggio al suffragio universale diretto per l’elezione dei mebri del PE. Le funzioni consultive non cambiano ma l’istituzione si carica di un forte prestigio morale. ◦ 17 e 28/2/1986 firma dell’→ Atto unico europeo, che rispetto ai poteri del PE, introduce la procedura di parere conforme (che non permette al Consiglio di adottare determinati atti senza l’approvazione del PE), e la proedura di cooperazione, che vincola il Consiglio al voto unanime, per superare l’opposizione parlamentare. ◦ 7/2/1992 → Trattato di Maastricht, introduce la procedura di codecisione, attraverso cui si realizza un sistema bicamerale: nessuna delle istituzioni coinvolte può imporsi sull’altra, l’atto approvato è ascrivibile ad entrambe. ◦ 2/10/1997 → Trattato di Amsterdam, estende la procedura di codecisione a numerosi altri settori, modificando nel contempo la procedura stesso in forma più rapida ed efficace. Tratta di Lisbona, si estende ulteriormente (ad es. nel settore della Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale) la procedura di codecisione, ora chiamata procedura legislativa ordinaria. Inoltre, per la prima volta i Parlamenti nazionali svolgono un’attività di controllo e opposizione (ex art. 12 TUE), rispetto ai principi di sussidiarietà e proporzionalità. Vi sono ancora dei settori in cui permane una funzione consultiva del PE. Rispetto alla PESC (politica estera e di sicurezza comune), i poteri parlamentari sono ancora più limitati. Il deficit democratico viene rilevato anche dalla Corte Cost. tedesca (2009), che nel valutare alcune questioni di costituzionalità interne conseguenti a Lisbona, rileva che l’UE non ha ancora assunto la legittimazione democratica di uno Stato nazionale, in particolare rispetto alla ripartizione dei seggi, che può comportare il problema di una mancata corrispondenza fra la maggioranza dei voti espressi e la maggioranza della popolazione europea. Tuttavia rileva anche il fatto che l’Unione non sia una Stato, e che quindi l’esigenza di una maggiore democraticità nella composizione del PE non è elemento tale da rendere il Trattato di Lisbona non conforme alla Costituzione tedesca. 5. Segue: la riemersione della dimensione intergovernativa 5.1. La riduzione del deficit democratico può essere vista come tendenza verso la realtà istituzionale dello Stato moderno da parte dell’unione. Al contempo tuttavia c’è stata una riemersione della dimensione intergovernativa: l’ampliamento del campo di applicazione dell’integrazione europea e l’aumento dei poteri trasferiti a livello europeo sono avvenuti talvolta attraverso il recupero di forme di cooperazione classiche. 5.2. Un primo segnale è dato dall’istituzione del Consiglio europeo (diverso dall’istituzione comunitaria del Consiglio): prassi degli anni 60’ formalizzata nel vertice di Parigi del 9 e 10/12/1974, dove i Capi di Stato e di Governo decisero di riunirsi, insieme con i ministri degli esteri, almeno 3 volte l’anno e quando sia necessario. Il motivo si riscontra nelle difficoltà incontrate nel Consiglio rispetto ai grandi temi, ed è legato al potere relativo che portano i singoli ministri degli esteri. Il Consiglio europeo viene quindi creato al di sopra delle realtà istituzionali europee, come suprema istanza politica volta a dare l’impulso necessario allo sviluppo dell’integrazione europea e definirne gli orientamenti politici generali. Dopo Lisbona il Consiglio europeo è istituzione europea (art. 13 e 15 TUE). Rispetto al 1974, viene aggiunto il Presidente della Commissione, e di un Presidente con mandato di due anni e mezzo rinnovabile una volta. Deliberazioni assunte per consenso (se i Trattati non prevedono la maggioranza qualificata), sono estrinsecate in atti non formali: le conclusioni della Presidenza. 5.3. Un secondo segnale riguarda il ridimensionamento delle votazioni a maggioranza qualificata e alcune cautele a favore degli Stati messi in minoranza. Il fatto che anche le votazioni del Consiglio si adottino a maggioranza semplice (raramente) o qualificata (molto spesso), ha sempre provocato mal di pancia fra gli Stati membri. Infatti  Compromesso di Lussemburgo: è una risoluzione adottata in una riunione straordinaria dei ministri degli esteri nel 1966. Prevedeva che, qualora un membro del Consiglio avesse fatto valere “interessi molto importanti” del proprio Stato, la votazione sarebbe stata sospesa o preclusa, e la discussione sarebbe proseguita per una ragionevole lasso di tempo, tale da permettere una soluzione condivisa. Strumento poi abbandonato, ma che è stato ripreso nell’art.31, par.2, secondo comma, TUE, sulle deliberazioni del Consiglio adottate a maggioranza qualificata nell’ambito PESC. Compromesso di Ioannina: in un Consiglio eu straordinario, riguardante l’ammissione di AU,FIN e SWE; si stabiliva che qualora, nel corso di una discussione, si fosse espressa una minoranza di poco inferiore a quella di blocco, il Consiglio non passasse subito al voto ma aspettasse un ragionevole lasso di tempo al fine di raggiungere una posizione condivisa. Modello ripreso dal Trattato di Lisbona, per la modalità di calcolo del voto a maggioranza qualificata. 7.5. Il Trattato di Amsterdam inserisce formalmente nell’art. 20 TUE la possibilità di cooperazione rafforzata, esteso al secondo pilastro da Nizza. Tale previsione ha portato alla negativa adozione del Protocollo n. 30 sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE alla POL e al UK, che hanno accettato con alcune riserve il carattere vincolante della Carta. 8. Il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa 8.1. La continua revisione dei Trattati è dovuta al fatto che nessuna delle riforme via via approvate è considerata sufficiente, tant’è che si è creata la prassi (dal TUE) di inserire fin dai subito nei Trattati delle clausole che indichino il momento futuro in cui riprendere i lavori. Così non è stato per il Trattato di Lisbona (anche se alcune parti del TUE devono ancora essere modificate), che voleva essere il punto di arrivo del processo avviato con Amsterdam e continuato con Nizza. 8.2. Genesi del Trattato di Lisbona: si ricollega al Trattato di Nizza, a cui è allegata una Dichiarazione relativa al futuro dell’Europa. Il dibattito è previsto iniziare già nel 2001, e un’ulteriore Conferenza intergovernativa di revisione era fissata per il 2004. Le questioni riguardavano: ◦ una maggiore delimitazione delle competenze fra UE e Stati membri che rispecchi il principio di sussidiarietà; ◦ lo status della Carta di Nizza; ◦ una semplificazione dei Trattati (non sostanziale); ◦ il ruolo dei Parlamenti nazionali nell'architettura europea. – Il 14 e 15/12/2001 Il Consiglio europeo di Laeken adotta la → Dichiarazione di Laeken, che pone una serie di domande puntuali. Viene indetta una Convenzione (sul modello di quella creata a suo tempo per la Carta di Nizza), composta da Presidente, due Vice-Presidenti, 15 rappresentanti dei Capi di Stato e di Governo (1/Stato membro), 30 membri dei Parlamenti nazionali, 16 membri del Parlamento europeo e 2 rappresentanti della Commissione. Gli Stati candidati partecipano alla discussione ma non possono bloccare l’eventuale consenso raggiunto dai Paesi membri. Il documento finale doveva essere il punto di partenza della Conferenza intergovernativa del 2004. – 8.3. il 18/7/2003 la Convenzione trasmette al Presidente del Consiglio europeo il→ progetto di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. – Il 4/10/2003 si aprono i lavori della CIG. → – Il 17 e 18/6/2004 il Consiglio europeo di Bruxelles approva il testo del Trattato→ che adotta una Costituzione per l’Europa, solennemente firmato a Roma il 29/10/2004. Non è una vera Costituzione, ma un Trattato, di cui si prevede anche la normale abrogazione, è diviso in 4 parti: 1. norme organizzative e norme su partecipazione democratica; 2. riproposizione della Carta di Nizza; 3. collage delle disposizione del TCE e del TUE che non hanno trovato collocazione nella prima parte; 4. norme generali e finali (in particolare, IV-443 su proc. di revisione ordinaria e IV-447 sull’entrata in vigore) 8.4. Solo diciotto Stati membri provvedono alla ratifica o ottengono l’autorizzazione parlamentare. Altri Stati membri sospendono allora la procedura di ratifica. 9. Il Trattato di riforma di Lisbona 9.1. Dopo alcuni tentativi fallimentari, gli Stati membri, con il Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e 22/6/2007 costituiscono un nuovo CIG, a cui viene assegnato un mandato estremamente preciso e dettagliato, volto a incorporare nel TUE e TCE le disposizioni del Trattato costituzionale, sicché si arriva in breve all’approvazione, il 13/12/2007, del Trattato che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, noto come Trattato di Lisbona. 9.2. Il Trattato di Lisbona rispetto a quello costituzionale: elementi di continuità elementi di discontinuità - rimangono invariate le principali riforme istituzionali, come la trasformazione del Consiglio europeo in una istituzione vera e propria, la previsione per questa di un Presidente stabile, l’istituzione della nuova carica di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, il rafforzamento del ruolo del Presidente della Commissione, la riduzione (a termine) della composizione del PE e della Commissione, generalizzazione della procedura legislativa ordinaria - La struttura a tre pilastri viene inoltre semplificata - de-costituzionalizzazione della riforma e privazione delle sue caratteristiche di originalità ed eccezionalità • la cui prima manifestazione ha carattere formale: il TUE e il TCE non vengono abrogati ma emendati, quindi i Trattati su cui è fondata l’Unione restano due. Il TUE è completamente riscritto, il TCE, a fronte della soppressione della Comunità europea come entità distinta, cambia addirittura nome e natura, perché diventa TFUE, ossia il contenitore di tutte le disposizioni giudicate di minore importanza di quelle presenti nel TUE. • La seconda manifestazione ha carattere terminologico: eliminati quei termini di respiro superstatale dell’Unione, come “costituzionale” o “costituzione”, soppressa la parte sui simboli, il Ministro degli Esteri è ridimensionato nell’Alto rappresentante, non sono più previste fra gli atti giuridici le leggi e le leggi quadro • La terza manifestazione è di contenuto: eliminazione o attenuazione di quelle novità che avvicinavano il nuovo Trattato ad una Costituzione ( tolta la parte che sanciva il primato del dir eu su quello interno; seconda parte ripresa dalla Carta di Nizza). La de- costituzionalizzazione è stata volta alla necessità di superare le resistenze interne agli Stati membri, incontrate con il Trattato precedente. La rinascita dei movimenti euro-scettici ha portato all’inserimento di meccanismi di garanzia a favore degli Stati membri, di due tipi: • possibilità per uno o più Stati membri di bloccare o ritardare l’assunzione rispetto a cui sono contrari (v. calcolo della maggioranza qualificata nel Consiglio). • possibilità per uno o più Stati di sottrarsi ad alcune clausole, o esserne vincolati in maniera diversa rispetto agli altri. Inoltre è stato ribadito il carattere reversibile del processo di integrazione europea (recesso unilaterale dai Trattati, ex art. 50 TUE), nonché la previsione di strumenti idonei ad evitare un’espansione di competenze dell’Unione incontrollata (rafforzamento del potere di controllo e opposizione dei Parlamenti nazionali attraverso l’applicazione del Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. 10. Segue: la ritardata entrata in vigore del Trattato di Lisbona 10.1. Problemi di ratifica sono avvenuti in Irlanda e in Repubblica ceca. In Irlanda, il primo referendum ha dato esito negativo, sicché il Consiglio europeo del 2008 e del 2009 hanno permesso al Governo irlandese di indire un secondo referendum che ha avuto esito positivo. In sostanza, il Consiglio europeo si è impegnato a modificare dopo il 31/10/2014 l’art. 17, par. 5 TUE, che prevede una composizione ridotta della Commissione; inoltre attraverso una decisione si è rassicurata l’Irlanda che i Trattati e la Carta dei diritti non interferiscono con le autonome scelte del Governo irlandese in materia fiscale né con le disposizioni della Costituzione d’Irlanda nelle materie citate. Analogamente per la Repubblica ceca: è stato stipulato un Protocollo che permetterà l’estensione alla Rep. Ceca del Protocollo n’ 30 valido per UK e POL. Per i problemi verificatisi in Germania, v. 4.4. 11. La natura dell’Unione europea 11.1. Dopo il Trattato di Lisbona, che ha ricondotto l’intero processo d’integrazione europea ad un ente unitario (L’Unione), dotato di personalità giuridica autonoma (art. 47 TUE), si è creato un vero e proprio Stato europeo? No, l’Unione non è uno Stato, e gli Stati membri non hanno perso la loro sovranità. Nemmeno da un punto di vista empirico, perché l’Unione non esercita un potere completo di governo su un proprio territorio e una propria popolazione. Ancora oggi gli Stati membri esercitano quasi tutte le funzioni essenziali di controllo ed amministrazione. Il quadro istituzionale è unico per l’intera Unione (anche per la CEEA), ma il ruolo e i poteri delle diverse istituzioni mutano. Le disposizioni relative a composizione, poteri e funzionamento delle istituzioni, non sono più nel TCE (art 13-19 Titolo III), ma quelle più importanti sono nel TUE, quelle di dettaglio nel TFUE (Parte IV). 1.2. Il Parlamento Europeo (PE), il Consiglio eu, il Consiglio e la Commissione sono le istituzioni politiche dell’Unione, svolgono funzioni di politica attiva, partecipando a vario titolo all’adozione di atti, legislativi o amministrativi, che modificano o integrano l’ordinamento dell’Unione. La Corte di Giustizia e quella dei Conti sono istituzioni di controllo, rispettivamente sull’attività delle istituzioni politiche e (meno però) degli Stati membri, e a livello contabile sulle entrate e spese delle istituzioni politiche. La BCE è un’istituzione specializzata, che agisce soltanto nell’ambito dell’UEM, ed esercita la competenza esclusiva dell’Unione in materia monetaria, per gli Stati che hanno adottato l’euro. 1.3. Dall’art. 13, par.1. comma primo, TUE, si evince che le azioni svolte dalle istituzioni nei diversi settori di competenza dell’Unione devono essere coordinate tra di loro, secondo il c.d principio di coerenza. In particolare rispetto all’azione esterna, come si evince dall’art. 21, par. 3, secondo comma, TUE. Da un lato, infatti, c’è l’azione della PESC (Titolo V, Capo2, del TUE), dall’altro, le altre azioni e politiche di rilievo esterno (soprattutto quelle ex Parte V del TFUE); benché aventi tutte procedure e modalità proprie, devono contribuire al raggiungimento degli obiettivi dell’azione esterna dell’Unione ex art. 21 TUE. Art. 21, par. 3, secondo comma cit. prevede che il rispetto del principio di coerenza fra azioni esterne e politiche interne è ripartita tra Consiglio e Commissione, con l’assistenza dell’Alto rappresentante. Particolare forma di coordinamento, ad esempio, è prevista nel campo “misure restrittive di tipo economico e finanziario” da assumere nei confronti di Stati terzi, persone o entità non statali. La decisione in sede PESC è presa dal Consiglio, conseguentemente ad voto a maggioranza su proposta congiunta di Alto rappresentante e Commissione eu, dopo aver informato il PE. L'eventuale adozione di misure restrittive, su base di una decisione PESC, da parte del Consiglio, nei confronti di persone fisiche o giuridiche, di gruppi o entità non statali. 1.4. L’art. 13, par. 2, TUE enuncia il principio dell’equilibrio istituzionale, che impone a ciascuna istituzione di rispettare le competenze attribuite dai Trattati alle altre, profilandosi al contrario un vizio di incompetenza che, ai sensi dell’art. 263, comma 2, TFUE, comporta l’illegittimità dell’atto adottato da un’istituzione diversa da quella competente. Tale principio è stato molto utilizzato dal PE in materia di ricorsi di annullamento, in particolare nella sentenza PE c. Consiglio (1990), dove veniva ritenuto ammissibile il ricorso del PE, rispetto all’applicazione da parte del Consiglio di una procedura prevista dal Trattato CEEA (il giudizio verteva sulle decisione in merito al tasso limite di residui radioattivi di prodotti ortofrutticoli vicino a Chernobyl), che non prevedeva la procedura di cooperazione, prevista invece dal TCE. Si trattava, in questo caso, di una lacuna procedurale. 1.5. La seconda frase dell’art. 13, par 2 cit contempla il principio di leale collaborazione tra le istituzioni. Anche qui la sentenza di riferimento contrappone il PE al Consiglio (1995), avente a riguardo il comportamento non collaborativo del primo rispetto ad una richiesta di parere del secondo. Lo stesso principio si ritrova all’art. 4, par. 3, TUE, rispetto ai rapporti tra Unione e Stati membri. Principio anticipato (applicando le norme del Trattato CEE), nel 1990 dalla Corte nella causa Zwartveld, in cui rileva il rifiuto opposto dalla Commissione di cooperare con il giudice istruttore di Groningen (NET), rispetto ad un proc penale avente ad oggetto presunte frodi nella gestione dei fondi comunitari. La Commissione deve collaborare. 1.6. Prima di Lisbona, valeva per le istituzioni anche il principio del rispetto dell’acquis, nozione che indica l’insieme di quanto è stato realizzato o acquisito in un dato momento storico sul piano dell’integrazione europea, quindi anche i principi generali e la giurisprudenza dell CdG, nonché le conclusioni del Consiglio eu e eventuali risoluzioni adottate dalle istituzioni politiche. In sostanza non venivano permessi atti regressivi rispetto a quanto ampliato con l’acquis. Anche nel contesto dell’adesione di nuovi Stati, si vagliava la loro capacità di rispettare l’acquis. È dubbio che tale principio sia stato confermato nel Trattato di Lisbona. Da un lato, l’art. 48, par. 1 TUE, consente la modifica dei Trattati in senso riduttivo e non ampliativo delle competenze dell’Unione. Dall’altro, è stato soppresso l’art. 3, primo comma, TUE, che impegnava le istituzioni a rispettare l’acquis, mentre il nuovo art. 2, par. 2, seconda frase TFUE sancisce la possibilità dell’Unione di rinunciare ad una competenza concorrente, lasciando liberi gli Stati in merito, in applicazione del principio di sussidiarietà. 2. Il Parlamento europeo 2.1. Prima Assembela, poi Assemblea parlamentare, a seguito di una propria deliberazione (1962) e dell’art. 3 dell’AUE poi diviene PE. L’art. 14, par. 2, TUE, prevede che il PE sia composto di rappresentanti di cittadini dell’Unione, formulazione applicativa dell’art. 22, par. 2, TFUE, per cui il diritto di elettorato passivo e attivo nelle elezioni del PE che si tengono in uno Stato membro spetta anche ai cittadini di altro Stato membro, ivi residenti allusione ad un popolo europeo formato da tutti i cittadini dell’Unione. I membri sono eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto (art. 14, par. 3, TUE). Ai sensi dell’art. 223, par.2, primo comma, TFUE, la procedura di elezione può avvenire secondo in maniera conforme o secondo principi comuni. La relativa procedura legislativa speciale prevede: • l’iniziativa del PE • a cui segue la delibera a voto unanime del Consiglio • l’approvazione della stessa da parte del PE • l’approvazione interna degli Stati membri conformemente alle norme costituzionali interne L’attuale disciplina lascia liberi gli Stati membri (in Italia L. 18/1979, modificata da ultimo con L. 10/2009) nella definizione della procedura elettorale, tranne che per questi punti, uniformi per tutti: a) proporzionalità del voto b) regime di incompatibilità c) principio un elettore-un voto d) periodo di svolgimento delle elezioni e) momento di inizio dello spoglio delle schede elettorali. La durata del mandato è di 5 anni, l’art. 14, par. 2 TUE stabilisce il numero massimo di membri, ossia 750 più il Presidente, ogni Paese membro deve godere di almeno 6 seggi e di non più di 96 seggi. Numero totale e distribuzione dei seggi fra gli Stati membri vengono decisi con decisione del Consiglio europeo, adottata su iniziativa del PE e con la sua approvazione. Tant’è che prima di Lisbona in Consiglio europeo ha stabilito un seggio in più per l’Italia, per un totale di 751. Nel quinquennio 2009-2014, al momento dell’elezione il Trattato di Lisbona non è ancora entrato in vigore, sicché risultano eletti (conformemente all’ultimo Atto di Adesione) 736 membri. Dopo l’entrata in vigore del Trattato, vengono adattate le rappresentanze con l’aggiunta di 18 membri, che però avrebbero diminuito quella tedesca. Per evitare la fine anticipata di alcuni mandati, il Consiglio europeo del 2008 ha emesso una dichiarazione con delle misure transitorie, prevedendo uno sforamento in 754 membri per quel solo mandato, dichiarazione che necessita della firma di un Protocollo apposito. 2.2. Il PE dispone di alcuni organi: ◦ Il Presidente, di particolare importanza, dirige i lavori del Parlamento (art. 13 e 14 reg. interno PE), e lo rappresenta nelle relazioni internazionali, nelle cerimonie, negli atti amministrativi e giudiziari (art. 20). ◦ Viene assistito da 14 vice-presidenti, con cui forma l’Ufficio di Presidenza con funzioni consultive (art. 22 e 23). Dato che i membri del Parlamento sono organizzati in gruppi politici (numero minimo per fare un gruppo è di 25, provenienti da almeno un quarto degli Stati membri, ex art. 30), Il Presidente forma con i Presidenti dei gruppi la Conferenza dei Presidenti, che decide dell’organizzazione dei lavori e tiene i rapporti con le altre istituzioni e con i Parlamenti nazionali. ◦ Il PE lavora in aula e in commissione. Commissioni di due tipi: a) commissioni permanenti, previste in un reg interno, si ripartiscono gli affari di cui l’istituzione è investita a seconda della materia. b) commissioni speciali e commissioni temporanee d’inchiesta, istituibili ex art. 226 TFUE 2.3. Funzioni del PE: ex art. 14, par. 1: ◦ Esercizio congiunto al Consiglio della funzione legislativa e di bilancio. ◦ Funzioni di controllo politico e consultive alle condizioni stabilite dai Trattati. ◦ Elezione del Presidente della Commissione. citato in tale contesto l’Eurogruppo, che è una riunione informale dei Capi di Stato e di Governo per la discussione di tematiche legate all’UEM, con la partecipazione della Commissione e della BCE. Viene nominato un presidente con carica di due anni e mezzo, con deliberazione presa a maggioranza degli Stati interessati. Rispetto al funzionamento: il Consiglio non è un organo permanente. Si riunisce in formazioni con calendari diversi e dove siedono i rappresentanti competenti per materia. L’art. 16, par.6 TUE, prevede solo il Consiglio “Affari generali” (assicura coerenza dei lavori del Consiglio, prepara le riunioni del Consiglio eu e ne assicura il seguito in collegamento con il Presidente del Consiglio eu e la Commissione) e quello “Affari esteri” (elabora l’azione esterna dell’Unione, secondo le linee individuate dal Consiglio eu). L’elenco delle “altre formazioni del Consiglio” è deciso dal Consiglio eu a maggioranza qualificata. 3.2. Il Consiglio Affari esteri è presieduto dall’Alto rappresentante, per gli altri è prevista la presidenza di tre Stati ogni 18 mesi, ciascuno dei quali presiede tutti i Consigli per 6 mesi, coadiuvato dagli altri due, sulla base di un programma comune. Il sistema è di rotazione paritaria fra tutti gli Stati membri. La Presidenza convoca le riunioni e stabilisce l’odg. Rappresenta l’istituzione nella sua unità e firma gli atti del Consiglio. Tiene i rapporti con le altre istituzioni. Lo Stato membro che ha la presidenza, inoltre, esprime un rappresentante che presiede anche tuti i comitati che riflettono la composizione del Consiglio, ad eccezione di quelli che si occupano di materia della PESC, dove presiede un rappresentante dell’Alto rappresentante. Il Consiglio delibera a maggioranza semplice, qualificata o all’unanimità. La modalità normale, individuata dall’art. 16, par. 3, TUE, è quella qualificata, anche se sulla definizione ci sono stati dei problemi. Prima dell’1/11/2014 si usava il sistema di Nizza, che prevedeva tre condizioni di raggiungimento della maggioranza qualificata: 1. soglia minima di voti ponderati pari a 255 su 345 (29 voti valgono ITA, GER, FRA, UK; 3 MAL); 2. il voto favorevole della maggioranza dei membri (14) se delibera su proposta dalla Commissione, passa a 18 negli altri casi; 3. quorum demografico dei votanti fissato al 62% della popolazione totale dell’Unione (la verifica avviene su richiesta di un membro del Consiglio). Dopo l’1/11/2014 entra in vigore il sistema di Lisbona, che pone due condizioni: 1. quorum numerico minimo calcolato su due parametri diversi ma obbligatori: su proposta della Commissione o dell’Alto rappresentante, i voti favorevoli devono essere almeno 15 ed essere il 55% del totale dei membri del Consiglio, negli altri casi è necessario il 72%; 2. quorum demografico minimo fissato al 65% della popolazione totale dell’Unione. Previsione limitata dalla disposizione riguardante la minoranza di blocco, che deve comprendere almeno quattro membri del Consiglio, in maniera tale da evitare lo strapotere dei Paesi demograficamente più importanti. Essendo un regime transitorio (fino al 31/3/2017), tuttavia, qualora lo ritenesse opportuno, uno Stato membro può richiedere di votare secondo il par. 3, e quindi secondo il sistema di Nizza. Il metodo di voto all’unanimità consente agli Stati membri di esercitare un potere di veto attraverso voto contrario, ma non attraverso l’astensione, anche se esiste, nell’ambito della PESC, la previsione della c.d “astensione costruttiva”. 3.4. Distinzioni da altri organi: spesso il TFUE individua la decisione da prendersi collegialmente da parte dei rappresentanti degli Stati membri, che però si ritrovano non come Consiglio. Le relative decisioni sono chiamate “decisioni dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio” (perché spesso si riuniscono in coincidenza del Consiglio, in maniera tale da agire diversamente a seconda del punto di discussione). Tali decisioni non sono sottoposte al controllo della CdG. 3.6 (3.5 è affrontato al par. 4.1 e ss.). Il Comitato dei Rappresentanti Permanenti (COREPER), riunisce i rappresentanti diplomatici che ciascuno Stato membro accredita presso l’UE. Composizione identica a quella del Consiglio rispetto alla nazionalità, ma non alla qualità, essendo questi diplomatici, quelli del Consiglio rappresentanti a livello ministeriale. C’è anche una seconda formazione del COREPER a cui partecipano i rappresentanti permanenti aggiunti, elemento di ulteriore discostamento, perché garantisce una continuità di lavoro che manca, invece, al Consiglio. La presidenza spetta al Paese membro che esercita la presidenza di turno del Consiglio. Il COREPER è una sorta di filtro tra Consiglio e Commissione quando la Commissione vuole sottoporre una proposta al Consiglio, la sottopone prima all’esame del COREPER. Questo delibera, se il voto è unanime, la proposta sarà inserita tra i punti A all’orine del giorno del Consiglio (che approverà senza discussione, a meno che non ci sia una specifica richiesta di un membro del Consiglio o della Commissione), diversamente sarà tra i punti B, accompagnata da una relazione del COPERER, e necessiterà della discussione del Consiglio. 3.7. Il Consiglio è assistito dal segretariato generale sotto la responsabilità di un Segretario generale, nominato dal Consiglio (art. 240, par. 2, TFUE). 3.8. Il Trattato di Lisbona inserisce all’art. 18 la carica di Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Tale carica vuole essere fattore di aumento della coerenza tra le varie componenti dell’azione esterna all’Unione, tant’è che le sue funzioni sono: ◦ di guidare la PESC, formulando proposte per l’elaborazione di tale politica e attuandola come mandatario del Consiglio; ◦ di presiedere il Consiglio Affari esteri; ◦ Essere uno dei Vicepresidenti della Commissione, sempre in ambito di politica estera e di sicurezza. Essendo organo del Consiglio e membro della Commissione (c.d double hatting), la sua nomina coinvolge sia il Consiglio eu che la Commissione: spetta al Consiglio eu a maggioranza qualificata con l’accordo del Presidente della Commissione. La durata del mandato rispecchia quella degli altri membri della Commissione, salvo la revoca del mandato nelle stesse modalità di nomina, da parte del Consiglio eu. 3.9. Funzioni del Consiglio superficialmente individuate dall’art. 16, par 1, TUE: • esercizio, insieme al PE, della funzione legislativa e di bilancio; • definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei Trattati. 4. Il Consiglio europeo 4.1. Anche il Consiglio eu è un organo di Stati, che si è affermato in via di prassi per essere poi recepito dal Trattato di Lisbona come organo di vertice dell’intera Unione, dotato di poteri ampi ed eterogenei. 4.2. L’art. 15, par. 3, TUE, descrive la composizione del Consiglio eu: 1. I Capi di Stato e di Governo degli Stati membri; 2. Il Presidente; 3. Il Presidente della Commissione; 4. Partecipa inoltre ai lavori l’Alto rappresentante, che è nella stessa posizione – e sostituisce – i ministri degli affari esteri, di cui dovrebbe conoscere le istanze, essendo Presidente del Consiglio Affari esteri. 4.3. Prima di Lisbona il Presidente era il Capo di Stato o di Governo del paese che deteneva la presidenza del Consiglio, per dare una maggiore continuità è prevista un’apposita carica, della durata di due anni e mezzo, rinnovabile una volta. La nomina avviene con deliberazione a maggioranza qualificata, così la revoca in caso di impedimento o colpa grave. L’unico requisito richiesto è il non esercizio di un mandato nazionale. Il par. 6 dell’art 15 definisce le funzioni (preparazione e continuità dei lavori dell’organo, in cooperazione con il Presidente della Commissione e sulla base dei lavori del Consiglio Affari generali; - rappresentanza esterna dell’Unione in materia di politica estera, salvo quanto di competenza dell’Alto rappresentante), che come tali evidenziano il rischio di una sovrapposizione con le funzioni proprie dell’Alto rappresentante del Presidente della Commissione. 4.4. Metodo di deliberazione tipico è per consenso, ossia mancata opposizione di nessuno dei membri al testo presentato dal Presidente. Ci sono delle previsioni di voto a maggioranza qualificata, dove non partecipano il Presidente e il Presidente della Commissione. 4.5. Funzioni definite dal par.1 dell’art. 15: ◦ dare gli impulsi necessari all’Unione per il suo sviluppo e definirne orientamenti e priorità politiche generali. ◦ Viene precisato che non è titolare di funzioni legislative. Dopo Lisbona si può dire però che abbia assunto veri e propri compiti decisionali, pertanto, l’adozione di quegli atti destinati ad avere effetti giuridici nei confronti di terzi sono sottoposti al controllo della CdG. della CdG, previa consultazione della Commissione e viceversa, aggiungendosi però la consultazione del PE e del Consiglio secondo la proc. legisl. ordinaria. Il regolamento di procedura della CdG è stabilito dalla Corte stessa, ma necessita dell’approvazione del Consiglio a maggioranza qualificata. 6.3. Composizione che, ex art. 19, par. 2, TUE, prevede ◦ un giudice per Stato membro (27), e l’assistenza di avvocati generali (8, e il cui numero è aumentabile con delibera unanime del Consiglio su richiesta della CdG). Viene eletto tra i giudici un Presidente, con un mandato di tre anni, rinnovabile. ◦ Gli avvocati generali hanno una funzione ausiliaria, le conclusioni indicano come, a loro parere, la Corte dovrebbe risolvere la causa. Ma non hanno valore vincolante: se la Corte vi si discosta, può ben farlo senza motivazione. La Corte ha anche sempre respinto la richiesta di una delle parti di poter rispondere all’AG, ed in particolare nella causa Emesa Sugar (2000), dove veniva richiamato dalla ricorrente l’art. 6, par.1 CEDU, nonché una sentenza della Corte europea che individuava una violazione da parte dello Stato resistente perché non aveva permesso all’interessato di replicare alle conclusioni del p.m di fronte alla Corte di Cassazione. Ma per la CdG non c’è analogia fra p.m e a.g, non essendo questi ultimi né una magistratura requirente né un ufficio di p.m, e non dipendendo da alcune autorità. Rispetto alla nazionalità, è prassi che quattro abbiano la nazionalità dei quattro Stati membri maggiori, i posti rimanenti sono ricoperti a rotazione. I requisiti di professionalità e indipendenza. La nomina di giudici e a.g avviene: – di comune accordo dai Governi degli Stati membri, – previa consultazione di un apposito comitato, disciplinato dall’art. 255 TFUE, e composto da 7 personalità scelte fra ex membri della CdG e del Tribunale, membri dei massimi organi giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza, designati dal Consiglio su iniziativa della CdG. Il comitato esprime un parere sull’adeguatezza dei candidati. I giudici devono agire in piena autonomia e indipendenza, l’art. 6 Statuto prevede che possano essere rimossi, se vengono meno ai loro obblighi, dalle loro funzioni su decisione unanime della stessa CdG. La durata del mandato è di 6 anni, rinnovabile; è previsto un rinnovo parziale ogni tre anni e che riguarda metà dei componenti della Corte. 6.4. La Corte opera nelle seguenti formazioni di giudizio: 1. sezioni da 3 a 5 giudici (formazione ordinaria); 2. grande sezione di 11 giudici, tra cui i Presidente e i presidenti delle sezioni a 5; convocata quando lo richiede uno Stato membro o un’istituzione dell’Unione parte nel giudizio; 3. seduta plenaria: tutti i giudici, ove il giudizio abbia un’importanza eccezionale, ovvero in casi particolari (giudizio di rimozione del Mediatore eu, di un Commissario, di un membro della Corte dei Conti). Due fasi della procedura: a) fase scritta, dove si depositano memorie scritte; b) (eventuale) fase orale, udienza con le parti o deposito delle conclusioni dell’ag. Successivamente la Corte delibera in Camera di Consiglio, la sentenza è letta in pubblica udienza. Viene previsto un procedimento accelerato, in merito a questioni ex Titolo V, Parte III TFUE (libertà sicurezza ecc) è previsto un proc. d’urgenza. 6.5. Principali funzioni della CdG hanno natura giurisdizionale. Art 19, par.1, primo comma, TUE: la CdG assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati. Le funzioni consultive si esprimono attraverso pareri di natura parzialmente vincolante. Ad esempio, in materia di accordi internazionali dell’Unione, se richiesto il parere della Corte ex art. 218, par. 11, TFUE, tale parere, ove negativo, non ha effetto ostativo, ma comporta la procedura di revisione dei Trattati ex art. 48 TUE. 7. Il Tribunale dell’Unione europea e i tribunali specializzati 7.1. Fonti normative: - art. 254 e 256 del TFUE; - Statuto della CdG. Anche il Tribunale approva il proprio regolamento di procedura, di concerto con la CdG, ed è sottoposto all’approvazione del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata. Le ragioni dell’istituzione del Tribunale sono di due tipi: a) migliorare il sistema comunitario di tutela giurisdizionale, attraverso la previsione di un doppio grado di giudizio; b) si voleva alleviare l’onere di lavoro sempre crescente per la CdG. Il TUE prevede il Tribunale con l’art. 224. 7.2. La composizione è uguale a quella della CdG, anche se non ci sono a.g (pur essendo questi previsti dall’art. 254 cit.) e i giudici sono 27, anche se lo Statuto della CdG, che ne decide il numero, può aumentarli, con l’unico limite di avere almeno un giudice per Stato membro. La procedura di nomina e la durata del mandato dei giudici e del Presidente è identica a quella della CdG, così come identici sono i requisiti di indipendenza, mentre meno elevato è il livello di professionalità richiesto. 7.3. Nelle formazioni di giudizio, sono previste le sezioni (da 3 a 5 giudici); il regolamento di procedura (art. 10 e ss) stabilisce i casi in cui il Tribunale si riunisce in seduta plenaria, in grande sezione o statuisce nella persona di un giudice unico. 7.4. Come giurisdizione, il Tribunale ha natura duplice: In genere è giudice di primo grado, rispetto alle cause che rientrano nella sua competenza. Le pronunce possono essere impugnate presso la CdG entro 2 mesi dalla notifica della decisione. Ma l’impugnazione presso la CdG, essendo possibile per motivi di diritto, deve considerarsi più vicina ad un ricorso per cassazione. Il Tribunale è giudice di secondo grado rispetto alle cause assegnate alla competenza dei Tribunali specializzati. La natura di giudizio d’appello o di cassazione varia a seconda della previsione della decisione istitutiva del Tribunale specializzato, che potrebbe escludere dai motivi d’impugnazione quelli di fatto, limitandoli a quelli di diritto. La decisione del Tribunale, in secondo grado, può dirsi definitiva: il riesame presso la CdG può essere promosso solo dal primo a.g, in casi eccezionali. 7.5. La competenza del Tribunale incontra due limiti: 1) alcune azioni rimangono riservate alla competenza esclusiva della CdG; 2) 2) è entrato in funzione il Tribunale specializzato della funzione pubblica dell’UE, a cui spetta in primo grado il contenzioso con il personale delle istituzioni e degli organi dell’UE, il Tribunale opera qui come giudice di secondo grado. Quindi, in materia di competenza diretta, si può desumere dall’art. 256, par. 1 TFUE, che il Tribunale è competente in primo grado: a) per i ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche contro le istituzioni e gli altri organi; b) per i ricorsi d’annullamento e in carenza proposti da uno Stato membro contro la Commissione (salvi gli atti e le astensioni di quest’ultima in materia di cooperazione rafforzata); c) per i ricorsi d’annullamento proposti da uno Stato membro contro il Consiglio aventi ad oggetto – decisioni rispetto agli aiuti di Stato alle imprese, – atti adottati in forza di un regolamento anti-dumping, – atti di esercizio di competenze d’esecuzione. La competenza viene dunque chiaramente definita in base a criteri personali, ma anche in base a criteri materiali e legati al tipo di ricorso. Restano quindi riservati alla competenza della CdG gli altri ricorsi che uno Stato membro potrebbe proporre, soprattutto nei confronti di PE, Consiglio, o di entrambi qualora l’atto sia adottato congiuntamente. Così come restano riservati i ricorsi per infrazione rivolti agli Stati membri, nonché tutti i ricorsi proposti da una istituzione. Può essere attribuita al Tribunale, ai sensi dell’art. 267 TFUE, anche una competenza pregiudiziale, anche se per il momento tale competenza non è stata prevista per nessuna materia. Questo perché l’eventuale attribuzione di tale competenza potrebbe dilungare straordinariamente i tempi della fase pregiudiziale, essendo prevista l’impugnazione presso la CdG. Astrattamente, lo stesso art. 256, 2 TFUE, permetterebbe al Tribunale di rinviare direttamente alla CdG questioni a lui attribuite, ma che potrebbero avere l’effetto di compromettere, in quanto richiedano una decisione di principio, l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione. In ogni caso, qualora il Tribunale eserciti in futuro la propria competenza pregiudiziale, non potrà ritenersi giudice di primo grado, ma (prevedendo infatti il comma 3 dell’art. 256 il riesame della CdG solo ove sia a rischio l’unita e coerenza del diritto dell’Unione) emetterà sentenze definitive. 7.6. Con Nizza è stata prevista la possibilità di istituire, da parte del PE e del Consiglio, secondo la proc. legisl. ordinaria, e su proposta della Commissione o della CdG, dei Tribunali di primo grado affiancati al Tribunale. L’istituzione avviene attraverso la stipula di un regolamento che individua le competenze e la composizione del Tribunale specializzato, mentre la nomina dei membri avviene attraverso delibera all’unanimità del Consiglio. Le relative sentenze sono impugnabili davanti al Tribunale, una procedura di riesame presso la CdG è ammessa, su istanza del primo a.g, qualora rilevi gravi rischi di i modelli principali: la procedura di consultazione e quella di approvazione. Infine i Trattati possono prevedere le procedure non legislative, categoria molto eterogenea. 2. La definizione della corretta base giuridica 2.1. Per stabilire quale sia la procedura da utilizzare, è necessario individuare la corretta base giuridica dell’atto che si vuole adottare. In sostanza, si tratta di individuare la disposizione del Trattato che attribuisce alle istituzioni il potere di adottare un certo atto. La delicatezza di tale procedura porta spesso a conflitti fra le diverse istituzioni, che si risolvono nei processi di annullamento indetti di volta in volta. Solitamente, l’istituzione che ricorre alla Corte lo fa o perché ritiene più opportuno utilizzare un’altra norma del Trattato o quella di un Trattato diverso, dove avrebbe un ruolo più importante; oppure per ricondurre l’atto impugnato in un settore di competenza caratterizzato da una maggiore presenza di elementi propri del metodo comunitario. Esempio del primo motivo è il caso Chernobyl (v. par. 2.1), esempio del secondo tipo il caso Erasmus, dove la Commissione contesta la scelta del Consiglio di utilizzare un articolo che richiede l’unanimità del voto, al posto di un altro che prevede la procedura di cooperazione. 2.2. La corretta individuazione della base giuridica richiede due elementi oggettivamente rilevabili: lo scopo e il contenuto dell’atto. Ma se un atto persegua una pluralità di scopi o presenti una pluralità di contenuti, bisogna dedurre la base giuridica dal centro di gravità, tralasciando contenuti e scopi accessori. 2.3. Se non si può trovare un centro di gravità, l’atto dovrà eccezionalmente avere una base giuridica plurima, consistente in tutte le disposizioni dei Trattati corrispondenti ai suoi vari scopi e contenuti. Ma questa soluzione non può valere per quelle disposizioni che nell’integrare una base giuridica unica prevedano procedura decisionali incompatibili. In casi del genere l’extrema ratio è il favor per la base giuridica che non pregiudichi i poteri di partecipazione del PE. 2.4. Fino a Lisbona, la soluzione della base giuridica plurima era esclusa anche per gli atti a cavallo tra pilastri diversi. La Corte aveva risolto il problema invocando il vecchio art. 47 TUE e assegnando quindi una funzione residuale alle basi giuridiche del secondo e terzo pilastro. 2.5. La Giurisprudenza afferma l’importanza di natura costituzionale della corretta base giuridica, esigendo la sua indicazione e il relativo obbligo di motivazione. 3. La procedura legislativa ordinaria 3.1. In passato veniva chiamata procedura di codecisione, perché attraverso di essa Consiglio e PE gestiscono insieme il potere decisionale, senza potersi prevaricare l’un l’altro, sicché sono detti “co-legislatori”. La sua nozione è individuata dall’art. 289 TFUE, la sua disciplina dal 294. 3.2. La procedura legislativa ordinaria: ◦ si apre con la proposta della Commissione (il motivo si rinviene nel TCE, che riconoscendo la Commissione come portatrice dell’interesse generale dell’Unione, le faceva fare da contrappeso alle deliberazioni del Consiglio, espressione degli interessi particolari dei singoli Stati membri). Gli art. di riferimento sono il 17, par. 2, TUE e il 289, par. 1, TFUE. Nel primo, si prevede il potere di iniziativa esclusivo della Commissione, anche se in realtà i Trattati (loro basi giuridiche specifiche) possono prevedere (e prevedono) l’attribuzione dell’iniziativa legislativa a soggetti diversi dalla Commissione, il cui potere di iniziativa, quindi, non è assoluto. Il PE e il Consiglio possono però sollecitare, attraverso l’approvazione di una richiesta, la Commissione a presentare una proposta. La Commissione non è tenuta ad effettuarla, infatti non ricorre in sanzioni e non può essere citata alla CdG per carenza, perché la sua astensione non comporterebbe una violazione dei Trattati. Tuttavia, può spingere il PE ad approvare una mozione di censura. Altri organi, inoltre, possono sollecitare l’iniziativa della Commissione, in particolare il Consiglio eu. Lisbona ha poi inserito un istituto di democrazia partecipativa, prevedendo che un numero corposo di cittadini (almeno un milione) possa invitare la Commissione a presentare una proposta su un tema che ritengono importante. Essendo un invito, la Commissione non è obbligata ad agire, sicché ne deriva la comprensione della debolezza dell’istituto eu di iniziativa popolare (il nostro ex art. 71, comma 2, Cost.) 3.3. Sul presupposto della compensazione degli interessi ex TCE, l’art. 293, par. 1 TFUE, prevede che il Consiglio abbia un potere di modifica della proposta limitato, infatti può emendare la proposta solo con voto unanime (questo perché perlomeno con l’unanimità si garantisce che l’atto adottato risponda comunque all’interesse generale della Comunità). L’utilizzo del termine emendare comporta inoltre che il Consiglio non sia abilitato a stravolgere il testo proposto. Tale facoltà è tuttavia permessa per le prime due fasi di lettura e non per la terza. evidente che qualora il Consiglio non sia disposto ad approvare il testo della Commissione, ma non riesca nel contempo a raggiungere l’unanimità per emendarlo, si crei una situazione di stallo. Inoltre l’omessa deliberazione non produce alcun effetto ed è estranea al sindacato della CdG, a meno che non sia una base giuridica specifica a richiedere l’adozione di determinate misure entro un certo termine (v. causa Eurocoton c. Consiglio). Per evitare la situazione di stallo, l’art. 293, par. 2 TFUE prevede che la Commissione possa modificare in ogni fase la propria proposta per favorirne l’approvazione del Consiglio a maggioranza qualificata, piuttosto che rischiare che sia respinta tout court. La Commissione può anche ritirare la proposta, strumento utile quando comprende che PE e Consiglio intendono modificare radicalmente la proposta. 3.4. La procedura si apre quindi con la proposta della Commissione, trasmessa simultaneamente a PE e Consiglio. 1. Prima lettura: adozione da parte del PE della propria “posizione”, trasmessa al Consiglio. Se la posizione del PE è identica a quella della Commissione, il Consiglio può approvarla a maggioranza qualificata, se esprime delle modifiche, deve approvarla all’unanimità. Se il Consiglio si discosta dalla posizione parlamentare, adotta la propria a maggioranza qualificata. 2. Seconda lettura: il Parlamento ha 3 mesi di tempo per decidere, a) di approvare la posizione in prima lettura del Consiglio o omettere di deliberare entro il termine atto adottato nella formulazione del Consiglio;  b) di respingere la posizione, con voto a maggioranza assoluta dei membri  rigetto, la procedura si arresta, l’atto si considera non adottato; c) propone emendamenti, con lo stesso quorum deliberativo di b. intervento del Consiglio (nel frattempo la Commissione emette un parere sugli emendamenti), che a maggioranza qualificata può approvare tutti gli emendamenti del PE (ci vuole l’unanimità per quelli rispetto a cui la Commissione ha espresso parere negativo), ovvero non approvarli tutti. In questo caso si apre una procedura intermedia 2e3/4) Viene convocato un Comitato di conciliazione, composto in forma paritetica da membri del Consiglio e del PE, che ha il compito di approvare in sei settimane un progetto comune con l’ausilio della Commissione, se tale progetto viene approvato, l’atto non si considera adottato. Se viene approvato si apre 3. Terza lettura: approvazione dell’atto da parte di PE e Consiglio (con voto a maggioranza qualificata) entro 6 settimane. Questa è la procedura classica, alcune varianti possono essere considerate se si pensa, ad esempio, all’obbligo di raccogliere i pareri di alcuni organi consultivi, oppure al Protocollo n’2 sull’applicazione dei principi di proporzionalità e sussidiarietà, che prevede una fase preliminare nel caso in cui la maggioranza dei Parlamenti nazionali si siano espressi nel senso che la proposta non rispetta il principio di sussidiarietà. 4. Le procedure legislative speciali: la procedura di consultazione e la procedura di approvazione 4.1. Diverse disposizioni del TFUE fanno da base giuridica per le procedure legislative speciali. Solitamente riguardano deliberazioni del Consiglio e consultazione del PE, ma può anche essere previsto il contrario. La proposta all’interno delle procedure rimane prerogativa della Commissione. 4.2. Procedura di consultazione: Il potere di adottare atti legislativi in un certo settore è in capo al Consiglio, e viene controbilanciato da un obbligo consultazione del PE. Il PE deve emettere un parere consultivo, obbligatorio ma non vincolante. Per lungo tempo tale modalità è stata l’unica possibilità conferita al PE di “ingerirsi” nelle decisioni del Consiglio. Di fatto, la previsione della consultazione ha una valenza sostanziale: la consultazione deve essere effettiva e regolare, cioè il parere del PE non deve essere solo richiesto prima dell’adozione dell’atto, ma dev’essere stato anche ricevuto dal Consiglio. La CdG è stata molto rigida in tal senso: nella sentenza Frères c. Consiglio (detta anche sentenza dell’isoglucosio, 1980), la Corte annulla un regolamento adottato dal Consiglio perché questi non aveva opportunamente consultato il PE. Le ragioni di urgenza addotte dal Consiglio vengono respinte in virtù del fatto che lo stesso non ha richiesto l’attivazione della procedura d’urgenza prevista dal reg. interno del PE, né tantomeno la convocazione del PE in seduta straordinaria. La Corte è stata molto rigida anche nel senso opposto, se si guarda alla sentenza PE c. Consiglio (1995), dove viene rigettato il grave e consistente da parte di uno Stato membro dei valori ex art. 2 TUE. Necessaria qui l’approvazione del PE. 6.3. Quando adotta atti non legislativi nel campo di applicazione del TFUE, il Consiglio segue le procedure modellate su quella di consultazione e approvazione (es. reg e direttive utili all’applicazione delle regole di concorrenza applicabili alle imprese) 7. Le procedure nel settore della PESC 7.1. Nonostante Lisbona, il settore PESC resta separato dagli altri, rientranti nella competenza dell’Unione. Così le relative procedure decisionali applicabili, le differenze principali sono: - Il Consiglio eu esercita un vero e proprio potere decisionali, secondo una procedura specifica; - le deliberazioni sono per lo più dal Consiglio all’unanimità, su proposta degli Stati membri o dell’Alto rappresentante; - il ruolo del PE è molto ridotto, e di carattere consultivo (l’Alto rappresentante lo consulta regolarmene e fa in modo che le sue istanze siano prese in considerazione), può però rivolgere interrogazioni o raccomandazioni al Consiglio o all’Alto rappresentante, e due volte l’anno dibatte dei progressi compiuti. 7.2. Nessuna delle procedure decisionali può essere definita legislativa. Il TUE attribuisce poteri decisionali veri e propri al Consiglio eu, ma pone un’unica regola procedurale, per cui deve deliberare sempre all’unanimità, salvi i casi in cui il capo 2 del Titolo V, TUE relativo alla PESC non disponga diversamente (non sono previsti casi del genere al momento) 7.3. Anche le procedure seguite dal Consiglio sono disciplinate sommariamente. Per esso vale la regola dell’unanimità vigente per il Consiglio eu (salve le eccezioni cit.). All’interno delle dinamiche del Consiglio si è tuttavia cercato di indirizzare gli Stati membri verso l’astensione (che non pregiudica l’unanimità) piuttosto che sul voto contrario, secondo la prassi dell’astensione costruttiva: l’astensione motivata di un membro porta alla non applicazione del principio per lui, ma accetta che impegni l’Unione. Secondo lo spirito di mutua collaborazione deve astenersi dal contrastare l’azione dell’Unione su di essa basata, mentre gli altri Stati devono rispettare la sua posizione. Tale forma di astensione non è ammessa, qualora a farvi ricorso sia un terzo degli Stati membri, rappresentativi di un terzo della popolazione dell’Unione. 7.4. Ll’art. 31, par 2, TUE prevede quattro casi in cui la deliberazione avviene a maggioranza qualificata: a) Sulla decisione definitoria di una posizione dell’Unione sulla base di una decisione strategica del Consiglio eu; b) sulla decisione definitoria di una posizione dell’Unione sulla base di una proposta dell’Alto rappresentante presentata a seguito di una richiesta specifica rivolta a quest’ultimo dal Consiglio eu; c) sulla decisione definitoria dell’attuazione di una definizione di un’azione o posizione dell’Unione; d) nomina di un rappresentante speciale. a) b) e c) richiedono l’adozione dell’atto che presuppone un atto adottato all’unanimità (per a) e b) del Consiglio eu, per c) del Consiglio, adottato autonomamente); mentre d) a maggioranza qualificata. Bisogna rilevare che queste quattro ipotesi di delibera a maggioranza qualificate possono essere paralizzate dalla clausola di salvaguardia prevista dall’art. 31, par. 2, che è poi il compromesso di Lussemburgo (Introduzione, 5.3). L’opposizione motivata dà al Consiglio la sola possibilità, con la stessa maggioranza, di deferire la questione al Consiglio eu, che delibererà all’unanimità. Non si esclude che i poteri da quest’ultimo vantati all’interno della PESC non possano permettergli astrattamente di approvare lui stesso l’atto. Il potere di iniziativa spetta ad ogni Stato, all’Alto rappresentante da solo o con l’appoggio della Commissione. In ambito PESC, è da segnalare poi il potere di attuazione che compete all’Alto rappresentante, e la previsione della creazione di un servizio eu per l’azione esterna di cui si potrebbe avvalere. La procedura per la conclusione degli accordi internazionali 8.1. Procedura disciplinata dall’art.218 TFUE. Il Consiglio decide su tutte le fasi Il negoziato si apre su autorizzazione del Consiglio su raccomandazione della Commissione o dell’Alto rappresentante (se gli accordi riguardano esclusivamente il settore PESC), e viene svolto da un negoziatore, o da una squadra designata dal Consiglio. Il Consiglio può impartire direttive al negoziatore e istituire un comitato speciale che dev’essere consultato. La firma è autorizzata con decisione su proposta del negoziatore, così come l’eventuale sospensione o conclusione. Le delibere sono adottate generalmente a maggioranza qualificata. È richiesta l’unanimità: a) accordi inerenti settori per cui è richiesta l’unanimità per l’adozione del relativo atto interno; b) accordi per associazione; c) accordi con gli Stati candidati all’adesione; d) accordi sull’adesione dell’Unione alla CEDU. La fase della conclusione segue il modello della procedura di consultazione (consultare sempre PE tranne in caso PESC). Il modello di approvazione è previsto invece, rispetto alla conclusione, per i seguenti accordi: a) accordi di associazione; b) accordo sull’adesione dell’Unione alla CEDU; c) accordi che creano un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di cooperazione; d) settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria o la procedura speciale qualora sia necessaria l’approvazione del PE. Viene prevista la possibilità di comprendere la consultazione della CdG, a domanda di Stato membro, del PE, Consiglio o Commissione. 9. Le procedure per l’adozione degli atti d’attuazione e d’esecuzione. 9.1. Spesso gli atti del Consiglio (con o senza PE) vengono detti atti di base o di primo grado, perché affidano alla Commissione il compito di adottare atti di attuazione o d’esecuzione di secondo grado. La differenza fra atti di attuazione ed esecuzione ha assunto importanza dopo Lisbona, perché sono state previste per la prima volta procedure e condizioni diverse. 9.2. L’art. 290, par. 1, comma 1, TFUE, introduce la delega di attuazione, che abilita la Commissione ad adottare atti non legislativi di portata generale, modificativi o integrativi degli elementi non essenziali dell’atto legislativo. Il contenuto dell’atto legislativo di delega: - delimitazione puntuale degli obiettivi, del contenuto, della portata e durata della delega di potere; - fissazione puntuale delle condizioni a cui è soggetta la delega. Sono quindi così individuate delle modalità di controllo che le istituzioni autrici della delega possono esercitare, e consistono: - nel ritirare la delega; - nell’impedire l’entrata in vigore dell’atto delegato sollevando obiezioni entro un termine individuato nella delega stessa. Difficile diviene comunque distinguere gli elementi accessori da quelli principali, mentre non si creano problemi per le modifiche apportate rispetto ad innovazioni tecnico-scientifiche, non preventivabili al momento della delega. Il potere in questo senso conferito alla Commissione sembra più di delegificazione, che non di delega di poteri legislativi a lei estranei. 9.3. Art. 291 TFUE: esecuzione degli atti giuridici vincolanti dell’Unione. Se l’esecuzione è solitamente affidata agli Stati membri, questa può essere affidata alla Commissione o eccezionalmente al Consiglio (in casi specifici motivati e nel riferimento dei Trattati all’azione esterna dell’Unione, in ambito PESC), qualora siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione. Viene previsto poi il controllo da parte degli Stati membri sull’operato della Commissione, nelle modalità individuate attraverso regolamenti approvati con la procedura legislativa ordinaria. Tale istituto di controllo si distingue dalla comitologia, forme codificate di controllo da parte del Consiglio, e in un caso, del PE, che consistono nella previsione di una serie di comitati di esperti nazionali che a vario titolo esaminano i progetti di atti d’esecuzione prima che la Commissione possa adottarli in via definitiva. 10. La procedura per instaurare una cooperazione rafforzata 10.1. Istituto rafforzato con Amsterdam, è la piena accettazione dell’Europa a più velocità. Disciplina contenuta negli art. 20 TUE e da 326 a 334 TFUE. Numerosi sono i requisiti materiali necessari a comporla (intesa a promuovere gli obiettivi del’Unione, proteggere i suoi interessi e favorire il processo d’integrazione, rispettare i Trattati, essere autorizzata, non recare pregiudizio al mercato interno né alla coesione economica, sociale e territoriali, ecc.). 10.2. La procedura per l’autorizzazione ad instaurare una cooperazione rafforzata diverge a seconda che l’oggetto della cooperazione riguardi o meno la PESC. PESC: richiesta di cooperazione presentata al Consiglio, che la trasmette all’Alto rappresentante e alla Commissione, che esprimono un parere sulla coerenza con la PESC e le altre politiche dell’Unione, e al PE per conoscenza. L’autorizzazione è concessa con voto unanime del 1.5. Rispetto alla struttura, si enumerano subito gli atti tipici (l’art. 288 TFUE): 1) regolamenti; 2) direttive; 3) decisioni; 4) pareri; 5) raccomandazioni. Le ultime due non sono vincolanti e non possono fungere da fonti del diritto, diversamente dalle prime tre. Può succedere che uno Stato membro dia spontaneamente attuazione ad una raccomandazione, attraverso propri atti interni, che il giudice interno è chiamato ad applicare, e su cui può ricorrere alla CdG. L’art 288 non prevede una gerarchia tra gli atti vincolanti di tipo diverso: una direttiva può abrogare un regolamento. Spesso è la base giuridica a specificare i tipi di atti da adottare (es. art. 86, par. 1 TFUE, stabilisce che per l’istituzione di una Procura eu debbano essere adottati solo regolamenti. Se la base giuridica non è indicata (solitamente in questo caso le basi giuridiche usano il termine “misure”), spetta alle istituzioni competenti effettuare la scelta nel rispetto del principio di proporzionalità. Vi sono poi degli atti atipici: ad esempio il bilancio della Comunità, atto produttivo di effetti vincolanti che la Corte ha riconosciuto come suscettibile di impugnazione. 1.6. Accanto agli atti tipici, soprattutto nel settore della disciplina della concorrenza e degli aiuti di Stato alle imprese, dove la Commissione gode di poteri di controllo e sanzione e di ampio margine di discrezionalità, si sono sviluppati degli atti in via di prassi. Esempio chiave è quello delle comunicazioni, con cui la Commissione rende noto periodicamente come intende applicare le norme del Trattato rispetto a determinate categorie di fattispecie. Non sono atti normativi, ma la giurisprudenza li considera come atti con cui è la stessa Commissione a definire i limiti del proprio potere discrezionale, e che come tali deve rispettare. La Commissione può invece variare una mera prassi, che come tale non è suscettibile di creare nelle imprese un legittimo affidamento sul suo mantenimento. 1.7. Art. 296 e 297 TFUE, disciplinano elementi comuni a tutti gli atti delle istituzioni: ◦ motivazione; ◦ firma (gli atti legislativi sono firmati dal Presidente del PE e/o dal Presidente del Consiglio, gli atti non legislativi dal Presidente dell’istituzione che li ha adottati); ◦ pubblicazione ed entrata in vigore ( gli atti legislativi e quelli non legislativi consistenti in regolamenti e direttive indirizzati a tutti gli Stati membri, o decisioni che non indicano il destinatario, sono pubblicati nella GU, ed entrano in vigore 20 gg dopo la pubblicazione, salvo diversa disposizione. Le direttive rivolte a determinati Stati membri e le decisioni che designano destinatari sono a questi notificate e quindi efficaci in virtù di tale notificazione). 2. I Trattati 2.1. Le norme di diritto primario dell’Unione sono in gran parte contenute nei Trattati: TUE e TFUE. Questi sono giuridicamente pariordinati, mentre a livello funzionale il TFUE è strumentale al TUE, essendo il primo insieme di norme di dettaglio, il secondo insieme di norme principali. Hanno natura di fonti primarie anche i Protocolli e gli Allegati ai Trattati. Per prassi poi, l’atto finale delle CIG, convocate per l’approvazione degli atti di adesione e di modifica, reca alcune Dichiarazioni, inerenti le disposizioni dei Trattati o la loro applicazione. Ce ne sono di due tipi: a) Dichiarazione della CIG, il cui valore interpretativo non è vincolante, e la cui natura non è pariordinata alle disposizioni interpretate (infatti non vengono ratificate dagli Stati membri); b) Dichiarazioni di uno o più Stati membri, che hanno meno valore delle prime, perché non emanano da coloro che detengono collettivamente il potere di revisione. 2.2. Dibattuta è la natura giuridica dei Trattati (che ora come ora non porta ad una soluzione univoca). Per alcuni sono considerarsi alla stregua di Trattati internazionali, e questo perché dal TCE fino a Lisbona, le procedure di conclusione dei Trattati hanno seguito le forme e i procedimenti propri di un normale Trattato internazionale (o meglio, istitutivo di un’organizzazione internazionale, art. 5 della Conv. Sul dir. dei Tratt. Di Vienna, 1969); per altri formano insieme (il TUE e il TFUE) una carta costituzionale, perché da un lato definiscono la struttura istituzionale dell’Unione e le procedure e le caratteristiche degli atti derivati da esse, dall’altro individuano una serie di norme materiali che dettano principi e criteri di base applicabili ai vari settori di competenza dell’Unione. La disciplina dei Trattati, inoltre, può essere derogata solo attraverso la procedura di revisione prevista dall’art. 48 TUE. Infine c’è la CdG, organo di garanzia giurisdizionale azionabile da tutti i soggetti interessati. 2.3. La CdG tende a considerare i Trattati come una costituzione. Questo si può desumere dai principi interpretativi da essa applicati (lontani da quelli applicati all’interpretazione classica dei Trattati internazionali): poco rilievo al dato testuale ed ampio uso di criteri di tipo contestuale e teleologico. Le norme del TFUE sulle quattro libertà di circolazione (merci, persone, servizi, capitali), e quelle sulle competenze dell’Unione vengono interpretati estensivamente; quelle che permettono agli Stati membri di adottare o mantenere regolamenti derogatori rispetto alle regole generali, e quelle che consentono agli Stati di usare le loro competenze parallelamente a quelle comunitarie, vengono invece interpretate restrittivamente. Altro criterio molto usato è quello dell’effetto utile, per cui la Corte sceglie, fra le varie possibili, l’interpretazione che consente di riconoscere alla norma la maggiore effettività possibile. 2.4. L’art. 48 TUE disciplina le procedure di revisione. Una di tipo ordinario, due semplificate, più alcune clausole di revisione specifica. 1) La procedura di revisione ordinaria: numerose fasi distinte in fase interne o preparatorie: a) presentazione al Consiglio di un progetto di modifica da parte del governo di uno Stato membro, del PE o della Commissione; b) decisione del Consiglio eu, a maggioranza semplice, favorevole all’esame delle modifiche a lui trasmesse dal Consiglio; c) convocazione, ad opera del Presidente del Consiglio eu, di una convenzione composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, i vari Capi di Stato e di Governo, PE e Commissione (se vi sono modifiche rispetto al settore monetario, anche BCE), per analizzare il progetto e adottare per consenso una raccomandazione per la CIG; c bis) se l’entità delle modifiche non necessità della convocazione, decisione del Consiglio eu a maggioranza semplice, previa approvazione del PE, che definisce il mandato della CIG. d) convocazione di una CIG di rappresentanti di governi degli Stati membri stabilire le modifiche di comune accordo; e) ratifica delle modifiche approvate da tutti gli Stati membri a livello interno. Le procedure costituzionali di ratifica interna variano da Stato a Stato (come la previsione di un referendum popolare o la possibilità di esperire un ricorso costituzionale contro il provvedimento di ratifica). Infine, il par. 5 dell’art. 48 prevede che, se dopo due anni dalla data di firma, i quattro quinti degli Stati membri hanno ratificato, e uno o più abbiano invece incontrato delle difficoltà, la questione è deferita al Consiglio eu, che può adottare misure che riescano a favorire l’entrata in vigore del Trattato di revisione. 2.5. Procedure semplificate di revisione: 1°) Art. 48, par. 6, relativamente alle politiche e azioni interne dell’Unione a) presentazione al Consiglio eu da parte del Governo di uno Stato membro, del PE o della Commissione, di progetti di modifica di quel tipo; b) adozione all’unanimità del Consiglio eu, previa consultazione del PE, della Commissione, ed eventualmente della BCE; c) entrata in vigore della decisione del Consiglio eu, previa approvazione interna degli Stati membri. 2°) Art. 48, par. 7, relativamente a quelle disposizioni del TFUE o del Titolo V del TUE (PESC), che prevedono che, – il Consiglio deliberi all’unanimità in un settore o in un caso determinato ovvero che – il Consiglio adotti atti legislativi secondo una procedura legislativa speciale (c.d procedura passerella). a) iniziativa del Consiglio eu; b) trasmissione dell’iniziativa ai Parlamenti nazionali, ciascuno dei quali può opporsi entro 6 mesi, all’iniziativa, impedendone la prosecuzione; Volpato, che aveva ricevuto una sanzione amministrativa per l’introduzione di ingredienti non autorizzati. La Corte, partendo dal presupposto che il campo di competenza non era dei Trattati, affermava tuttavia che l’interpretazione del diritto comunitario può essere utile all’interprete nella misura in cui il diritto di uno Stato membro imponga di far beneficiare ogni cittadino degli stessi diritti di cui godrebbe, in base al diritto comunitario, il cittadino di un altro Stato membro. Questa pronuncia prende le mosse dalla sentenza Steen del 1990, dove la CdG rimette la risoluzione di una discriminazione alla rovescia alla valutazione della C.C interna, eventualmente attraverso il ricorso al principio di uguaglianza). Tra gli altri principi generali di diritto comunitario si annoverano: il principio di libera circolazione e il principio della tutela giurisdizionale effettiva. Sono talvolta così considerati anche il principio d’attribuzione, quello di sussidiarietà e quello di proporzionalità, che però sono principi espressamente previsti da norme dei Trattati e attengono ad un oggetto specifico. La loro “generalità” è da intendersi come importanza e inderogabili, ma non astratta applicazione a contesti diversi. Semmai possono essere considerati come specifiche applicazioni dei principi più generali. 3.3. Seconda categoria: principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri. Esplicito riferimento del TFUE, all’art. 340, comma 2, sulla responsabilità extracontrattuale della Comunità. Sono rilevanti per l’intero campo di applicazione dei Trattati, poiché usati per verificare la legittimità del comportamento delle istituzioni o degli Stati membri in relazione alla posizione dei singoli. Da segnalarsi i principi inerenti l’idea di Stato di diritto, del principio di legalità (potere delle istituzioni deve trovare fondamento in una norma dei Trattati), del principio della certezza del diritto (conoscibilità delle norme e creazione delle condizioni per rispettarle), del principio di legittimo affidamento (invocabile rispetto a ingiustificate e improvvise modifiche normative), del principio del contraddittorio, del principio di proporzionalità. Quest’ultimo prevede che gli interventi della pubblica autorità, imitativi della libertà o dei diritti dei singoli, per essere legittimi, devono essere idonei a raggiungere l’obiettivo pubblico perseguito e devono essere necessari a questo stesso fine, senza sacrifici superflui per i privati (v causa Man (Sugar), dove la CdG invalida un regolamento che commina una sanzione ad un’azienda esportatrice che, dopo l’accoglimento dell’offerta di esportazione, doveva a) chiedere il corrispondente titolo di esportazione entro 4 gg; b) effettuare l’operazione di esportazione entro 5 mesi. Avendo fatto b), ma richiesto in ritardo a), aveva vista applicata la disposizione del regolamento della Commissione, secondo cui alla violazione di entrambi corrispondesse l’incameramento integrale della cauzione; previsione contestata e annullata dalla CdG, perché mentre b) è obbligo primario rispettato dall’azienda, a) è secondario perché burocraticamente utile alla Commissione, e perciò non parificabile, rispetto alla sanzione, a b), sicché vi era una violazione del principio di proporzionalità. 4. Segue: la protezione dei diritti fondamentali 4.1. Con il Trattato di Lisbona, la protezione dei diritti fondamentali dell’uomo è oggetto dell’art. 6 TUE. Dalla sua analisi si capisce che la protezione dei diritti umani nell’ordinamento dell’Unione trova la sua fonte e la sua disciplina in una pluralità di strumenti normativi: 1) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione eu; 2) la CEDU; 3) i principi fondamentali di cui fanno parte i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. 1 e 2 sono già vincolanti, la CEDU lo diverrà quando sarà perfezionata l’adesione ad essa dell’Unione secondo quanto previsto dal par. 2 dello stesso art. 4.2. Excursus storico: inizialmente, la completa assenza di riferimenti alla tutela dei diritti fondamentali nel TCE ha portato la CdG, a partire dagli anni 70’, a teorizzare l’esistenza di principi generali che ne assicuravano la protezione, e per la cui ricostruzione occorreva trarre ispirazione dai Trattati internazionali in materia (soprattutto la CEDU), e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Il TUE, nella sua versione originaria, aveva recepito normativamente questa impostazione. Ma restava forte la necessità di creare una fonte vera e propria in materia. Inizialmente si era immaginato di far aderire formalmente la CE alla CEDU, come parte contraente. Tale progetto si era arenato con il parere espresso dalla CdG nel 1996, che escludeva che la CE detenesse tale competenza. Tale volontà non è venuta meno, ma nell’impossibilità di pervenire rapidamente all’adesione, si è deciso di redigere un autonomo catalogo di diritti fondamentali dell’UE, detto anche Carta di Nizza, perché lì fu proclamata, ma il suo valore giuridico è stato affermato solo dall’art. 6, par. 2 comma 1, TUE (Lisbona), dove si stabilisce che la Carta ha lo stesso valore giuridico dei Trattati. ◦ 4.3. L’affermazione della CdG sull’esistenza di principi generali del diritto (v. sopra) è collegata strettamente alle prese di posizione assunte in quegli anni dalle C.C italiana e tedesca (risp. 1973 e 1974), dove le Corti affermano che le rispettive norme costituzionali che hanno permesso di aderire alla CE (per ITA, art. 11 Cost), non consentono di derogare alle norme costituzionali che definiscono e proteggono i diritti fondamentali della persona umana. La differenza fra la sentenza Frontini e la Solange 1, è che in Solange 1 la C.C tedesca afferma la possibilità di un controllo diretto sull’atto comunitario in causa da parte sua, imponendo però al giudice a quo di interrogare preventivamente la CdG, e definendola come soluzione provvisoria, in attesa che la CE si doti di un catalogo proprio; mentre in Frontini l’incostituzionalità colpirebbe la legge recante l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione del TCE, ma non già il sindacato diretto sull’atto comunitario. Veniva espressa comunque la c.d teoria dei controlimiti. Tale soluzione però metteva in crisi l’unità sistematica del diritto comunitario e faceva emergere una grave lacuna del relativo ordinamento, sicché in quegli stessi anni la CdG elabora attraverso numerose sentenze una tutela da ricondursi ai principi generali del diritto, che le istituzioni devono rispettare e la cui osservanza è sottoposta al controllo della Corte. Secondo l’impostazione della Corte, quindi: a) i diritti fondamentali vanno tutelati nell’ordinamento comunitario in quanto rientranti nei principi generali del diritto; b) al fine di definirne il contenuto e la portata la Corte utilizza come fonte d’ispirazione le tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e i trattati internazionali in materia di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. La Corte ha poi escluso che la validità di un atto adottato da un’istituzione sia vagliabile alla luce delle norme nazionali, anche se di rango costituzionale. Come già detto, tale impostazione viene recepita nell’art. 6 TUE (versione originale), e formalizzata inoltre in una norma di diritto primario il richiamo diretto alla CEDU, anche se questo non comporta automatica adesione, poiché viene mantenuto fermo il passaggio operato attraverso i principi generali. 4.4. Status attuale della CEDU: fonte non direttamente vincolante per l’Unione, lo diverrà con l’attuazione del processo di adesione ex par. 2, art. 6 TUE. Seppur abbia fino ad ora avuto un ruolo come fonte di ispirazione, a partire dalla sentenza Hauer (44/79), la CdG ha eletto la CEDU a riferimento privilegiato e inevitabile per la propria attività di controllo sul rispetto dei diritti fondamentali, fino a spingersi, negli ultimi anni, ad includere nelle proprie sentenze ampi e precisi riferimenti alla giurisprudenza della Corte eu. 4.5. La Corte eu ha affrontato il problema della responsabilità degli Stati membri di fronte agli organi della Convenzione in conseguenza di attività delle istituzioni ovvero di attività poste in essere dagli Stati membri in esecuzione di atti delle istituzioni, e ne ha dato una sistemazione organica con la sentenza Bosphorus c Irlanda, 2005, emessa dalla Grande Camera. La Corte eu ha affermato che il trasferimento, da parte di alcuni Stati, di poteri sovrani ad un’organizzazione come la CE (ora Unione), non li sottrae, rispetto all’esercizio dei poteri sovrani oggetto del trasferimento, all’obbligo di rispettare i diritti tutelati dalla CEDU. Rispetto alla possibilità e necessità del proprio intervento, la Corte tuttavia distingue a seconda che gli atti dotati dagli Stati siano di attuazione di atti dell’Unione, o se nell’attuazione questi godano di un certo margine di discrezionalità. Qualora infatti manchi ogni discrezionalità in capo agli Stati membri, la Corte non ritiene necessario il proprio intervento (come in Bosphorus, ricondotto a questa fattispecie), poiché ritiene che l’Unione tuteli sia sostanzialmente sia rispetto al meccanismo di controllo i diritti fondamentali in maniera equivalente alla Corte eu (presunzione passibile di prova contraria, e in tal caso la Corte può intervenire, v. Solange 2. V. anche Mattheus c UK, dove si verifica una violazione della CEDU da parte dell’applicazione di norme dei Trattati e non di diritto derivato. Infatti una signora non aveva potuto votare per il PE perché la legge UK non prevedeva la partecipazione dei cittadini ivi presenti alle votazione, ma che era legata ad un Allegato ad un Atto del 1976 relativo alle elezioni a suffragio universale diretto che obbligava il UK, a causa della controversia con la Spagna ca la sovranità di Gibilterra, ad applicare l’Atto solo nei confronti dello UK. In questo caso la Corte eu decide di intervenire, e che c’è stata una violazione del UK non giustificabile dalla stretta applicazione delle previsioni dell’atto cit ). Nel caso in cui invece vi sia una discrezionalità in capo agli Stati, la Corte eu ritiene di dover intervenire. 4.6. L’impostazione teorizzata dalla CdG non ha comunque soddisfatto del tutto le C.C italiana e tedesca, che hanno ribadito la teoria dei controlimiti, rispettivamente in o atto eu, sicché tale opera deve conformarsi ai principi generali del dir. comunitario, soprattutto a quelli riguardanti dir. fondamentali. Spesso i diritti fondamentali vengono invocati dai singoli contro i provvedimenti Stati membri, e quindi anche verso la norma dell’Unione che se ne occupa. Ma talvolta avviene il contrario: caso Omega, sent. 36/02, Omega gestisce un laserdromo in GER, e uno dei giochi laser simula l’uccisione dell’avversario (in frachising da un’impresa britannica), su di esso viene emanato un provvedimento proibitivo da parte delle autorità locali. Omega impugna fino alla CdS tedesco, che rinvia alla CdG. Si ritiene leso il diritto alla libera prestazione dei servizi, ma in virtù di un diritto più importante, invocato dalle autorità locali: quello del rispetto della dignità umana. Bisogna inoltre rilevare che per contestare ad uno Stato membro la lesione di un principio generale o di uno dei diritti previsti dalla Carta, è necessario un collegamento tra il comportamento dello Stato membro e il diritto dell’Unione (v. sent Grogan, 1991, dove delle associazioni studentesche criticano la legislazione irlandese che vieta ogni forma di pubblicità pro-aborto, respinta dalla CdG perché non rientrante nell’ambito comunitario). Anche l’art. 51 della Carta stabilisce questo dovere di collegamento. I comportamenti degli Stati membri possono essere oggetto della procedura di controllo e sanzione ex art. 7 TUE, anche se non collegati al campo di applicazione dei Trattati, qualora vi sia il rischio di una violazione grave e persistente dei valori ex art. 2 TUE. 6.4. L’obbligo del rispetto dei principi generali e della Carta vale anche per tutto il campo di attività dell’Unione, compresi gli ex pilastri secondo e terzo. 7. Il diritto internazionale generale e gli accordi internazionali 7.1. L’Unione è un soggetto di diritto internazionale, che gode di personalità giuridica ex art. 47 TFUE, e che, pertanto: ha il diritto di legazione attivo e passivo; ha la capacità di concludere accordi internazionali con Stati terzi o con altre organizzazioni internazionali; può diventare membro di tali organizzazioni. 7.2. L’Unione è tenuta a rispettare le norme di diritto internazionale generale. Un comportamento delle istituzioni in violazione di tali norme integra un illecito internazionale. Tali norme vincolano l’Unione rispetto ai soggetti terzi. Gli Stati membri, se agiscono nel campo di applicazione dei Trattati, non possono invocare tali principi fra di loro. Per gli Stati membri i Trattati sono una lex specialis prevalente sul diritto generale (principio “inadimplenti non est adimplendum”). Le norme di diritto internazionale generale applicabili all’Unione fanno parte del suo ordinamento giuridico, e come tali devono essere rispettate. Tali norme svolgono una funzione ermeneutica analoga a quella dei principi generali del diritto, e sono quindi utili in via interpretativa. Il diritto internazionale è poi parametro di legittimità degli atti delle istituzioni, sicché può essere invocato sia dalle istituzioni che dagli Stati membri e dai soggetti interni (v. causa Van Duyn). 7.3. Gli accordi internazionali con Stati terzi che vengono in rilievo rispetto all’ordinamento dell’Unione sono di tre tipi: a) accordi internazionali conclusi dagli Stati membri; b) accordi internazionali conclusi dalla CE/Unione; c) accordi misti. a) non fanno parte dell’ordinamento dell’Unione, assumono rilevanza nella misura in cui accordo del genere, a determinate condizioni, può essere invocato dallo Stato contraente come causa di giustificazione per il mancato rispetto degli obblighi derivanti dai Trattati. Questo vale anzitutto per gli accordi stipulati da uno Stato membro prima della data in cui il TCE è entrato in vigore. Lo Stato in questione è tenuto a rispettarli entrambi (perché la Convenzione di Vienna non permette che un Trattato successivo firmato da uno solo dei due Stati, possa abrogare o modificare quello precedente), sicché l’art. 351 TFUE prevede una clausola di compatibilità, per cui le disposizioni dei Trattati non pregiudicano gli obblighi e gli impegno assunti in precedenti Trattati, ma impone agli Stati di ricorrere a tutti i mezzi necessari per eliminare le incompatibilità contestate. Tale clausola dovrebbe applicarsi anche ai Trattati conclusi nelle materie che solo successivamente, tramite modifica, sono divenute di competenza comunitaria. Nei settori di competenza non esclusiva dell’Unione, si può presumere che operi tale clausola rispetto agli accordi conclusi in un periodo in cui l’Unione non aveva ancora esercitato la propria competenza. Nei settori a competenza esclusiva, tale clausola potrà riguardare solo quegli accordi, la cui conclusione sia stata previamente autorizzata dalla Commissione. La clausola di compatibilità permette allo Stato interessato di sottrarsi agli obblighi derivanti dai Trattati solo nella misura strettamente necessaria a permettergli di rispettare gli obblighi assunti con uno Stato terzo. Inoltre la clausola di compatibilità trova un limite nel rispetto dei diritti fondamentali. Per quegli accordi con Stati terzi conclusi anteriormente alla data indicata nell’art. 351 TFUE da tutti gli Stati membri, aventi ad oggetto materie comprese nella competenza esclusiva dell’Unione, è stata ipotizzata una sorta di successione di questa nei diritti ed obblighi che gli Stati membri contraenti traevano dagli accordi in questione, per cui l’Unione stessa era tenuta a rispettarli. Così è avvenuto rispetto al GATT (1947), che ha ad oggetto materie rientranti nella politica commerciale comune ex art. 207 TFUE, ma la necessità di configurare una successione del genere è stata superata dall’Accordo istituitivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (1994), di cui l’Unione è soggetto contraente. Ci si chiede se un fenomeno analogo di successione si sia verificato rispetto alla Carta delle Nazioni Unite, problema sorto in riferimento ad un regolamento attuativo di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, istitutivo di un blocco dei beni a carico di determinate persone sospettate di terrorismo. Regolamento dell’’Unione adottato successivamente a posizione comune della PESC. Se nelle cause di impugnazione proposte da tali soggetti il Tribunale tiene una posizione di totale allineamento, la CdG afferma che il rispetto va garantito, ma che le relative azioni vengono assunte conformemente a quanto previsto dai Trattati comunitari, ed in particolar a seguito della valutazione operata dalla PESC. 7.4. b) fanno parte dell’ordinamento dell’Unione a partire dalla loro entrata in vigore. Si ricordi che la competenza esterna dell’Unione è vincolata al principio di attribuzione e che la sua soggettività internazionale coesiste con quella degli Stati membri. 7.5. c) conclusi inizialmente a causa delle resistenze degli Stati membri a riconoscere le competenze esterne dell’Unione e strumento utile poi di fronte ad ipotesi di accordi riguardanti materie che non rientrassero affatto nella competenza dell’Unione ovvero materie sottoposte alla competenza concorrente di Unione e Stati membri. Talvolta, all’atto della conclusione, l’Unione e gli Stati membri indicano, in un’apposita dichiarazione, le parti di competenza dell’una o degli altri. La CdG, comunque, si considera competente ad interpretare le disposizioni di un accordo misto senza fare differenze. 7.6. Valore giuridico degli accordi internazionali rispetto al diritto primario e derivato dell’Unione: rispetto ai Trattati sono in rapporto di subordinazione, così come sono subordinati ai principi generali, in particolare quelli che tutelano i diritti fondamentali; prevalgono invece sugli atti delle istituzioni (gli accordi conclusi dall’Unione vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri, art. 216, par. 2, TFUE) gli accordi internazionali fanno da parametro di legittimità degli atti delle istituzioni. Esistono delle eccezioni: soprattutto rispetto all’Accordo istitutivo dell’OMC, che, a causa della loro natura flessibile, non figurano in linea di principio tra le normative alla luce delle quali la Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie (orientamento riconosciuto dal DSB, o Dispute Settlement Body, organo giurisdizionale dell’OMC). La Corte ammette due eccezioni all’eccezione, per cui gli accordi OMC fanno da parametro di legittimità: 1) l’atto impugnato sia stato adottato proprio per dare esecuzione agli obblighi derivanti da tali accordi; 2) l’atto impugnato richiama espressamente specifiche disposizioni degli accordi. Nella causa Interanko (2008) è stato si è escluso l’utilizzo come parametro di legittimità della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) 8. I regolamenti 8.1. Art. 288, comma 1, TFUE: Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. 8.2. Prima caratteristica: la portata generale indica che il regolamento ha natura normativa, e pone regole di comportamento rivolte alla generalità dei soggetti. Può accadere che definisca i requisiti di fatto e di diritto richiesti per la sua applicazione in maniera che soltanto un numero relativamente ristretto di persone lo soddisfi. Se il campo d’applicazione è molto ristretto, può succedere che si individuino a priori i suoi destinatari, non per questo difetta del carattere della generalità (in Yusuf, 2005, infatti, l’elenco dei soggetti a cui era destinato il blocco dei beni li aveva portati a contestare la portata generale del regolamento, ma la Corte aveva ribadito la portata generale, adducendo una confusione dei ricorrenti sui concetti di oggetto e destinatari del 1) le posizioni comuni, atti che definiscono l’orientamento dell’Unione rispetto ad una questione specifica, atti tipici della cooperazione intergovernativa; 2) le decisioni-quadro, le più importanti e di maggior fortuna, che si ispira fortemente alle direttive (es. è la decisione quadro del Consiglio sul mandato di arresto eu): lo scopo è lo stesso delle direttive, ossia il riavvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Le decisioni sono vincolanti per gli Stati membri rispetto al risultato da ottenere, salva la competenza degli Stati membri su forma e mezzi. Non hanno tuttavia efficacia diretta (problema lasciato aperto per le direttive e risolto positivamente dalla CdG). 3) le decisioni, atti vincolanti senza efficacia diretta, e attraverso cui può essere perseguito qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi del relativo Titolo; 4) le convenzioni, di cui il Consiglio raccomanda l’adozione agli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali, con l’obbligo per gli Stati membri di avviare le procedure applicative entro un termine previsto dal Consiglio; 10. Le decisioni 10.1. Sono l’ultima categoria di atti vincolanti, quarto comma dell’art. 288, TFUE, secondo cui: la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi e se designa i destinatari, è obbligatoria solo nei loro confronti. Quindi esistono decisioni individuali e generali. 10.2. La decisione individuale ha dei destinatati determinati, e integra elementi del regolamento (poiché dev’essere rispettata nella sua interezza) e della direttiva (ha dei destinatati individuati, anche se a differenza della direttiva può rivolgersi non solo agli Stati membri, ma anche ai soggetti singoli). Le decisioni individuali rivolte agli Stati membri ricalcano le direttive, almeno se prospettano un obbligo di facere, anche se rispetto alle direttive sono molto più specifiche. Esistono anche decisioni che prescrivono un obbligo di non facere. Le decisioni individuali rivolte ai singoli hanno invece natura amministrativa. La loro espressione più importante è nelle decisioni della Commissione in materia di disciplina della concorrenza, e possono prevedere anche la comminazione di sanzioni. In quest’ultima veste, fungono da titolo esecutivo, in virtù dell’art. 299 TFUE, che così definisce gli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE rivolti verso persone che non siano Stati, che comportano un obbligo pecuniario. 10.3. Le decisioni generali hanno varia natura. Esempi: decisioni adottate dal Consiglio eu adottate nell’ambito della procedura di revisione dei Trattati, soprattutto quelle semplificate. Quelle del Consiglio eu che danno attuazione a specifiche disposizioni dei Trattati: - composizione PE; - elenco formazioni del Consiglio diverse da Affari esteri e Affari interni; - presidenza delle formazioni diverse da Affari esteri. Decisioni del Consiglio che individuano il rischio di una violazione dei valori dell’art. 2 TUE da parte di uno Stato membro ovvero quelle che autorizzano una cooperazione rafforzata, e quelle adottate in seno alla PESC. 11. Gli atti del settore PESC 11.1. Il Trattato di Lisbona mantiene un regime speciale per la PESC, i cui atti sono di due tipi: 1) gli orientamenti generali e 2) le decisioni. 1) sono atti del Consiglio eu, di altissima politica, che definiscono le linee guida su cui l’Unione deve muoversi nel settore della politica estera e di sicurezza comune. 2) sono atti del Consiglio, possono definire, a) le azioni che l’Unione deve intraprendere; b) le posizioni che l’Unione deve assumere; c) le modalità di attuazione delle decisioni di cui ad a) e b). 11.2. Gli atti adottati in ambito PESC non hanno mai carattere legislativo, tuttavia le decisioni vincolano gli Stati membri, nelle loro prese di posizione e nella conduzione della loro azione. La Corte si è soffermata su natura e caratteristiche delle posizioni comuni nella causa Gestoras pro amnistia, 2007, in riferimento ad alcune posizioni comuni PESC adottate dal Consiglio in attuazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU inerente l’inclusione di determinati soggetti in un elenco di presunti terroristi. L’ass ricorrente chiedeva il risarcimento del danno ritenendo ingiusta l’inclusione. Il ricorso fu ritenuto irricevibile dal Tribunale, perché il TUE non prevedeva, soprattutto rispetto alla PESC, alcuna possibilità di ricorso contro una posizione comune. La CdG, in secondo grado, afferma l’irricevibilità del ricorso ma ammette che il giudice nazionale, rispetto a cui si ponga il problema della validità di una tale posizione comune, può rimettere alla Corte la questione pregiudiziale di validità dell’atto. (v Parte V, par. 1.4 e 6.5) 12. L’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto dell’UE 12.1. L’Italia ha recepito i Trattati che si sono succeduti nel processo di integrazione eu come normali Trattati di diritto internazionale, ossia attraverso l’ordine di esecuzione di ciascun Trattato è stato conferito con la medesima legge con cui il Parlamento italiano ha autorizzato del Trattato stesso da parte del Capo dello Stato, ai sensi dell’art. 80. Il ricorso ad una legge ordinaria per eseguire Trattati così importanti ha creato non poche difficoltà. Alcuni chiedevano la creazione di una norma costituzionale ad hoc, che però non è mai stata varata (l’art. 117, e la relativa L. cost. 3/2001, si limita a riconoscere l’esistenza dell’ordinamento comunitario), quando invece ciò è avvenuto nel resto dei paesi eu, come FRA e GER. Un progetto di questo tipo è stato affrontato dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, durante la XIII Legislatura, poi mai varato. La legittimazione costituzionale del processo è stata rinvenuta nel secondo comma dell’art. 11, Cost. Questo soprattutto successivamente alla sentenza della C.C sul caso Costa c Enel, del 1964 (che trae origine dall’omonima causa affrontata dalla CdG nello stesso anno), dove la C.C afferma che l’art. 11 non è da intendersi come norma solo permissiva, ma anche procedurale. Nonostante ciò, la previsione che l’esecuzione dei Trattati avvenisse con legge ordinaria ha fatto escludere per molto tempo dalla C.C la primazia del diritto comunitario su quello interno. 12.2. Più difficile è stato il compito di assicurare l’attuazione del diritto secondario o derivato, soprattutto con riguardo alle direttive. Il metodo utilizzato per lungo tempo fu quello della delega al Governo ex art. 76 Cost., che però poneva problemi di ordine tecnico, rispetto alla rispondenza ai limiti fissati dallo stesso art., e di ordine pratico, rispetto ai tempi di produzione della legge. La maggiore novità fu introdotta con la L. 86/1989, c.d Legge La Pergola, oggi modificata dalla L. 11/2005. Queste sono leggi ordinarie, e questo è il loro maggiore limite. Comunque prevedono l’approvazione da parte del Parlamento di una legge comunitaria annuale, che racchiuda i provvedimenti che permettano il pieno adattamento dell’ordinamento interno alla disciplina comunitaria, e l’applicazione di quegli atti che vengano a maturazione entro l’anno di riferimento. In particolare, tale legge contiene a) l’emanazione degli atti comunitari che vincolino la Repubblica a darvi attuazione interna; b) l’accertamento giurisdizionale, con sentenza della CdG, delle incompatibilità della disciplina normativa interna rispetto a quella comunitaria; c) l’emanazione di decisioni quadro e decisioni adottate nell’ambito dell’ex III Pilastro. Dopo la riforma del Titolo V della Cost, alcune Regioni hanno introdotto nel rispettivo ordinamento meccanismi analoghi, attraverso l’adozione di vere e proprie leggi comunitarie regionali. Vengono previsti tre metodi con cui la legge comunitaria conforma l’ordinamento italiano agli obblighi indicati: 1) attuazione diretta, la stessa legge comunitaria abroga o modifica disposizioni statali vigenti, e può essere seguita a) su disposizioni statali vigenti in contrasto con gli obblighi specificati dall’art.1; e b) su disposizioni statali vigenti oggetto di procedure d’infrazione avviate dalla Commissione verso l’Italia. Si tratta del procedimento più dispendioso, perché è il Parlamento che approva la modifica specifica. Viene quindi utilizzato per adempimenti puntuali o quando vi siano motivi d’urgenza; 2) strumento della delega legislativa al Governo, ex art. 76 Cost.; 3) attuazione in via regolamentare e amministrativa (la maggiore novità della L. La Pergola), per cui la legge comunitaria può contenere disposizioni che autorizzano il Governo ad attuare in via regolamentare le direttive a norma dell’art. 11. Ciò può avvenire per le direttive riguardanti materia di competenza esclusiva statale (art. 117, c. 2), non coperte da riserva di legge. Si ha qui una delegificazione delle materie interessate. 12.3. La L 11/2005 si occupa anche dell’attuazione del diritto comunitario da parte delle Regioni. L’ampio ruolo in materia applicativa è sancito dall’art. 117, c. 5 Cost. Le Regioni e le Province autonome, nelle materie di loro competenza esclusiva, possono dare applicazione diretta alle direttive (non agli altri atti normativi dell’UE), senza dover aspettare un intervento preventivo dello Stato. Nelle materie di competenza concorrente, è compito dello Stato definire i principi fondamentali, e così vale anche per gli atti dell’Unione. Lo Stato poi è investito di un potere sostitutivo che può utilizzare in caso di perdurante inadempimento regionale. Rispetto agli altri atti normativi di derivazione comunitaria, lo Stato esercita una sostituzione preventiva, per cui adotta d. lgs. o regolamenti d’attuazione anche riguardo a direttive proprie della competenza legislativa e regolamentare delle Regioni, e si applicano solo a partire dal giorno della scadenza del termine di recepimento e per quelle Regioni che non abbiano già provveduto autonomamente all’attuazione. Si prevede anche un caso di sostituzione successiva, legata alla messa in mora preventiva della Regione che non rispetti la normativa comunitaria, con l’assegnazione di un congruo termine per l’emanazione degli atti necessari. Qualora questo termine decorra, il CdM nomina una commissione apposita a cui partecipa il Presidente della Giunta regionale o provinciale interessata. PARTE IV: DIR DELL’UE E SOGGETTI DEGLI ORDINAMENTI INTERNI 1. Considerazioni generali dell’incondizionatezza proprio nell’art. invocato dalla ricorrente, perché le condizioni che lo Stato membro doveva specificare non riguardavano il contenuto di quell’art. con ciò affermando che le clausole che non necessitano di una integrazione, possono considerarsi direttamente efficaci. Si deve anche rilevare che l’esistenza di norma che consentono di derogare all’applicazione di un’altra norma non esclude l’efficacia diretta di quest’ultima (v caso Van Duyn, 1974, dove in esame è l’art. 39 TCE, che garantisce la libera circolazione con efficacia diretta, rimettendo alla discrezionalità degli Stati i motivi di sicurezza, ordine pubblico e sanità pubblica al par. 3, afferma al contempo che i provvedimento adottati in forza di tale paragrafo sono comunque soggetti a controllo giurisdizionale, per cui la sig.ra Van Duyn può invocare la relativa violazione (che però non si era verificata)). Infine, si rilevi che ai fini dell’efficacia diretta, la destinatarietà formale della norma non ha alcun rilievo. Che la norma si rivolga a Stati o a istituzioni non comporta che sia priva di efficacia diretta (v. causa Defrenne, 1976, dove la sig.ra invocava la violazione della parità di retribuzione da parte del datore di lavoro ex art. 157 TFUE, che si rivolgeva però agli Stati. La Corte afferma che il fatto che il destinatario sia lo Stato non implica che i soggetti interessati non assumano i relativi diritti. 2.5. I presupposti dell’efficacia diretta sono generalmente simili per ogni tipo di norma dell’Unione, con qualche piccola differenza. Per quanto riguarda i Trattati, alcune loro norme di riferiscono espressamente ai singoli, per esempio in materia di concorrenza (art. 101 e 102 TFUE, che vietano alcuni comportamenti alle imprese), queste norme sono direttamente efficaci (es causa 161/84, Pronuptia, un’impresa concessionaria invoca contro la concedente, all’interno di un contratto di franchising, la contrarietà di alcune clausole del contratto rispetto all’art. 101 TFUE, per resistere alla richiesta di pagamento di compensi dovuti in forza del contratto medesimo). Si è già parlato della possibile efficacia diretta delle disposizioni dei Trattati formalmente rivolte agli Stati membri (v Van Gend & Loos; Defrenne; Van Duyn), merita però un accenno il problema creato dalle norme TCE la cui applicazione era subordinata, secondo la loro formulazione originaria, alla scadenza del periodo transitorio o della sua prima tappa. Si prevedeva che durante tale periodo le istituzioni o gli Stati membri dessero corso a determinati adempimenti a scopo preparatorio. Es: art. 52 TCE su libertà di stabilimento impone la sua assicurazione entro la fine del periodo transitorio. Per facilitarlo, si richiede al Consiglio di porre in essere un programma generale, e successivamente delle direttive relative alle varie attività. Scaduto il termine, risultava perseguito il primo ma non le seconde, sicché il sig. Reynes propose un’azione a causa del divieto del Belgio di accettare la sua iscrizione all’albo degli avvocati, avendo lui preso la laurea in Belgio ma essendo di nazionalità olandese, sulla base di questo art. La Corte accettò il ricorso, perché la scadenza del termine è sufficiente per rendere incondizionata una norma che prima non lo era. In ogni caso, né prima né dopo Lisbona la CdG si è espressa sull’efficacia diretta delle norme dell’ex II e III Pilastro, essendo queste norme che abilitano le istituzioni ad adottare determinati atti per certi settori e secondo certi fini, e no già norme di contenuto materiale da cui i privati possano trarre diritti o subire obblighi. Le norme dei Trattati hanno efficacia verticale, ma anche orizzontale (v Angonese, 2000, dove il sig. contestava l’esclusione da un concorso per un posto presso la Cassa di Risparmio di Bolzano, a causa del mancato possedimento del patentino bilingue. Tale patentino era una discriminazione nei suoi confronti, poiché sapeva le lingue, e quindi invocava l’art. 45 TFUE. Il pretore di Bolzano chiede in rinvio se la relativa azione possa essere mossa contro un soggetto privato come la Cassa Risparmio, e la risposta è affermativa, soprattutto rispetto al divieto di discriminazione). 2.6. Per quanto riguarda gli accordi internazionali conclusi dalla Comunità/Unione con Stati terzi ai sensi dell’art. 216 TFUE, è possibile che alcuni privati vogliano far valere direttamente la disciplina ivi contenuta, per contestare i comportamenti o provvedimenti di Stati membri e istituzioni (questo se per esempio è previsto regime d’importazione di particolare favore). Si veda Kupferberg, causa 104/81, relativa all’interpretazione di una norma dell’accordo (art. 21) di libero scambio CE/Portogallo: la sig.ra (che importa vino dal Portogallo), si oppone al conguaglio fiscale operato dall’amministrazione del monopolio tedesco dell’alcool, invocando una discriminazione ai sensi dell’accordo stesso (art. 21). La verifica circa l’efficacia delle disposizioni degli accordi internazionali verte sul loro contesto, in due tempi: a) bisogna dimostrare che la natura e la struttura dell’accordo permettono di riconoscere effetti diretti alle sue disposizioni in generale (v. Becker); b) bisogna poi dimostrare che la singola disposizione gode di sufficiente precisione e incondizionatezza (se per Kupferberg sono soddisfatti entrambi, così non è per gli accordi OMC, almeno nelle materie di competenza eu, mentre può ben darsi che esprimano efficacia diretta nelle materie di competenza nazionale e rispetto all’ordinamento interno degli Stati membri, ovvero rispetto a quelle materie di competenza concorrente sui cui però l’Unione non ha ancora adottato una propria disciplina). 2.7. Per i regolamenti il problema non si pone in generale, essendo questi direttamente applicabili. Si pone ove siano essi stessi a prevedere provvedimenti integrativi o esecutivi da parte degli Stati membri. Se mancano i provvedimenti nazionali, il test va fatto sul regolamento causa 93/71, Leonesio, dove la sig.ra esigeva dal MiPAAF il pagamento del premio per l’abbattimento delle mucche da latte previsto da un regolamento. Questo rispondeva che il regolamento poneva in capo agli Stati il pagamento del premio e che non c’erano i fondi, per cui la relativa norma non era direttamente efficace, poiché non stanziata dallo Stato. La CdG risponde che l’applicazione uniforme dei regolamenti impegna gli Stati e che le disposizioni ivi previste rispetto alle quali devono sorgere dei diritti soggettivi in capo ai cittadini non includono considerazioni di bilancio. Anche i regolamenti hanno efficacie diretta orizzontale e verticale. 3. Segue: casi particolari (direttive, decisioni, atti degli ex pilastri non comunitari) 3.1. Rispetto ai presupposti sostanziali, anche le direttive devono soddisfare i requisiti di sufficiente precisione e incondizionatezza (come sancito nella sentenza Marshall, 1986). Le differenze riguardano il momento in cui scaturisce l’efficacia diretta e i soggetti rispetto a cui può essere fatta valere. 3.2. Portata temporale: per sua natura, la direttiva non è concepita come fonte di effetti diretti, poiché la disciplina dei rapporti giuridici interni, rientranti nel suo oggetto, non viene posta dalla direttiva stessa, ma dalle norme di attuazione emanate dagli Stati membri, per cui le direttive hanno un’efficacia normativa interna indiretta o mediata. Il ragionamento rispetto alla loro efficacia si pone nel caso di patologie del meccanismo di recezione (quando gli Stati membri le attuano in ritardo oppure in forme non corrette o sufficienti), che impediscono il raggiungimento del risultato voluto; e si rivolge quindi al momento successivo alla scadenza del termine per l’attuazione concesso agli Stati membri. Prima di questo momento, l’unico effetto giuridico che la direttiva produce è obbligare lo Stato membro ad attuarla. Si può parlare di efficacia diretta anticipata solo nel caso di direttive recepite dallo Stato prima del termine, ma in maniera incompleta o insufficiente. La Giurisprudenza non si è espressa sul punto, fornendo magari qualche spunto a favore, ma preferendo usare altri strumenti in Mangold, 2005, la Corte usa il principio generale di non discriminazione per superare l’obiezione che al tempo della proposizione della causa il termine per la scadenza della direttiva non fosse ancora scaduto. 3.3. Portata soggettiva dell’efficacia diretta di una direttiva: il ragionamento della Giurisprudenza ha ruotato sostanzialmente sul nesso fra efficacia diretta e violazione dell’obbligo di attuazione da parte degli Stati membri. La CdG ha puntato inizialmente sul carattere obbligatorio della direttiva, ma anche alla teoria dell’effetto utile, che si produce nell’interpretazione delle norme al fine di estenderne gli effetti il più possibile, come in Van Duyn, 1974, dove la sig.ra affermava che il motivo del suo fermo era legato alla pericolosità attribuita a Scientology, e non già ad un suo comportamento, come previsto dalla direttiva, il UK contestava che alla norma della direttiva, in quanto tale, non potessero riconoscersi effetti diretti, mentre il giudice afferma che si restringerebbe la portata della norma se essa non fosse invocabile dai soggetti interni. Successivamente la CdG introduce il concetto per cui l’efficacia diretta sarebbe da considerarsi come una sorta di sanzione a carico dello Stato membro inadempiente, concetto introdotto in Ratti, 1979, dove il giudice italiano contestava la violazione delle norme interne sull’etichettaggio dei prodotti al sig. Ratti, il quale invocava la loro liceità ai sensi di una direttiva non recepita dall’Italia e scaduta, per cui la Corte afferma che uno Stato membro che non abbia dato attuazione alle disposizioni della direttiva non possa opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa (principio dell’estoppel). Dato che l’efficacia in terna della norma discende dalla sua obbligatorietà nei confronti degli Stati membri, si capisce perché la CdG ne abbia limitato l’efficacia ai soli rapporti verticali. Essendo quindi l’autorità pubblica tenuta ad applicare la direttiva, e non già i privati, viene affermata l’efficacia diretta verticale, ed escluse, invece a) rapporti verticali invertiti (da un soggetto pubblico contro privato, v Berlusconi, 2005); b) rapporti orizzontali (esclusione sancita in Marshall, 1986, e poi in Faccini Dori, 1994, dove una direttiva sulla tutela dei consumatori, non recepita dall’Italia, permetteva al consumatore entro un certo termine l’esercizio del diritto di recesso, tuttavia la Corte nega nel caso di specie l’efficacia diretta, in quanto trattasi di rapporto orizzontale) 3.4. Determinante è quindi stabilire se il soggetto rispetto a cui è invocata la direttiva sia un soggetto pubblico o privato. La CdG ritiene che l’obbligo di attuare la direttiva non incombe soltanto sugli organi dello Stato centrale, ma su qualsiasi articolazione della struttura pubblica (v. Marshall, la società a cui fa causa la sig.ra, appartenendo al servizio sanitario pubblico, è soggetto pubblico rispetto a cui la sig.ra può invocare una direttiva inattuata). 3.5. La negazione dell’efficacia diretta ai rapporti orizzontali è molto criticata perché crea evidenti discriminazioni, essendo l’invocabilità della direttiva subordinata a fattori casuali. si sentirebbe privata dell’effetto utile della sua competenza pregiudiziale se non fosse permesso agli individui di far valere le decisioni quadro al fine di ottenere un’interpretazione conforme; c) l’esistenza dell’obbligo di leale collaborazione a carico degli Stati anche nel settore del III Pilastro, e senza una disposizione specifica a riguardo. 5. Il risarcimento del danno 5.1. Altra forma di efficacia diretta consiste nel riconoscere che la norma dell’Unione può essere fonte di un diritto al risarcimento del danno 5.2. Pacifico che, qualora gli organi di uno Stato membro ledano il diritto attribuito ad un singolo da una norma dell’Unione direttamente efficace, provocando un danno, tali organi siano tenuti al risarcimento 5.3. Più problematica l’ipotesi di mancata attuazione di una direttiva priva di efficacia diretta. Qui è il comportamento omissivo degli organi statali ad impedire il sorgere stesso del diritto, sicché il relativo pregiudizio si configura rispetto al momento che precede il suo sorgere. Si parla così di efficacia indiretta della direttiva, posto che il diritto al risarcimento costituisce un diritto a sé stante. Tale principio, riguardante l’ottenimento di un risarcimento di un danno subito a fronte della mancata attuazione di una direttiva è stato sancito nella sentenza Francovich, 1991. 5.4. Tre condizioni definite dalla giurisprudenza affinché sorga il diritto al risarcimento: 1) la norma dell’Unione violata dev’essere diretta a conferire diritti ai singoli danneggiati, diritti la cui individuazione si possa trarre dalla direttiva stessa; 2) la violazione della norma dev’essere sufficientemente grave e manifesta; 3) tra violazione e danno ci dev’essere un nesso di causalità diretto. 1) in Francovich la CdG individua nella norma un diritto di garanzia dei lavoratori subordinati dei loro crediti non pagati relativi alla retribuzione, e il contenuto di tale garanzia è individuabile in un importo minimo inderogabile. 2) la Corte la ritiene soddisfatta automaticamente nei casi in cui la norma non lascia allo Stato membro alcun margine di discrezionalità, ipotesi che si verifica allorquando lo Stato non abbia dato alcuna applicazione ad una direttiva. Non è comunque richiesta la presenza di un particolare elemento psicologico (dolo o colpa) da parte degli organi responsabili del danno. La CdG ha riconosciuto che gli organi che possono mettere in gioco la responsabilità per danni dello Stato membro, in virtù dei loro comportamenti commissivi o omissivi sono: gli organi legislativi di uno Stato, autorità fiscali, cassa di previdenza, ente locale, potere giudiziario (sentenza Köbler, 2003, dove tale insegnante aveva chiesto, ai fini del riconoscimento di un’indennità accordata a docenti con una certa anzianità di servizio, la somma della docenza prestata in Austria con un periodo svolto in Germania. Le autorità austriache rifiutavano tale richiesta e questi proponeva un’azione invocando la lesione del diritto alla libera circolazione. Il giudice di ultima istanza rigettava la richiesta senza rinviare alla CdG. Quest’ultima veniva interrogata dalla Corte di Vienna, e rispondeva nel senso che fosse configurabile la possibilità di un risarcimento legato alla violazione effettuata da un organo giudiziario, soprattutto rispetto all’obbligo di rinvio, ma che nel merito del caso il comportamento della corte austriaca non fosse stato arbitrario e che non si potesse parlare quindi di violazione grave e manifesta di una norma comunitaria. Infine, le condizioni formali e sostanziali per l’esercizio del diritto al risarcimento, compresa la definizione del giudice competente, dipendono dalle varie legislazioni nazionali, salvi i limiti da osservarsi rispetto alle azioni aventi ad oggetto diritti che trovano la loro fonte in norme dell’Unione 6. La tutela processuale dei diritti derivanti da norme dell’Unione. 6.1. Posto che i soggetti interni possono invocare le norme dell’Unione di fronte al giudice nazionale, per ottenere la relativa tutela, ci si chiede quali siano forma e modi attraverso cui ciò possa avvenire, indagare cioè gli aspetti processuali. In linea di massima si può dire che, salvo eventuali interventi di armonizzazione da parte delle istituzioni dell’Unione, la definizione degli aspetti processuali spetti all’ordinamento nazionale (come affermato in Rewe, 1976). 6.2. Si tratta del principio dell’autonomia degli Stati membri, che però non è assoluto: non sempre le norme processuali nazionali possono essere applicate alle azioni esercitate per la tutela di diritti originati da una fonte dell’Unione, ci sono due condizioni: 1) principio di equivalenza, per cui le modalità definiti a livello interno per la tutela di posizioni derivanti dal diritto dell’Unione non possono essere meno favorevoli di quelle applicate in via giudiziaria di posizioni analoghe, di origine puramente interna (manifestazione del principio generale di non discriminazione); 2) principio di effettività, per cui le modalità non possono essere tali da rendere praticamente impossibile o troppo difficile l’esercizio dei diritti derivanti da norme dell’Unione. Sono due condizioni cumulative (manifestazione del diritto fondamentale ad una tutela giurisdizionale effettiva). In Rewe, 1976, si trattava di un’azione di restituzione proposta oltre il termine previsto dal diritto tedesco, i cui termini di decadenza erano considerati ragionevoli dalla Corte. Col tempo, l’atteggiamento della CdG è stato sempre più severo rispetto alle corti nazionali: v. Peterbroeck, 1995, dove la CdG esclude che delle norme nazionali possano limitare il potere del giudice di sollevare d’ufficio argomenti tratti dal diritto dell’Unione. Questione aperta rimane stabilire se, in caso di diritto attribuito ad una direttiva inattuata, i termini di prescrizione e decadenza previsti dal diritto nazionale decorrano prima della sua attuazione. In Emmott, 1991, lamentava la violazione di una direttiva in merito alla corresponsione di alcune prestazioni sociali, direttiva non trasposta dall’Irlanda. A seguito della risposta interlocutoria delle autorità, proponeva un’azione risarcitoria, oltre tuttavia il termine di decadenza previsto dal diritto irlandese. La CdG, interrogata sulla questione, affermò che fino al momento della trasposizione interna, i singoli non sono in grado di conoscere appieno i loro diritti, e che quindi il relativo termine di ricorso può incominciare a decorrere da tale momento. Principio di effettività considerato anche in Manfredi, 2006, dove la Corte valuta la compatibilità con tale principio di alcuni aspetti della normativa italiana sulle azioni di risarcimento per violazione, esprimendo forti dubbi riguardo al fatto che il termine di prescrizione, in casi del genere, decorra dal giorno in cui l’intesa è stata posta in essere, così come non ritiene rispondente al principio di effettività il fatto che il danno risarcibile venga limitato al solo danno emergente e non al lucro cessante. In Unibet, 2007, l’azienda contesta la normativa svedese che non le permette di vendere i propri servizi via internet e viola quindi la libertà in tema di prestazione di servizi, propone quindi un’azione per accertare l’incompatibilità delle norme interne con il diritto dell’Unione, respinta fino alla Corte suprema, che interroga la CdG, che constata innanzitutto che Unibet avrebbe potuto ottenere la dichiarazione di incompatibilità con un giudizio d’annullamento dei provvedimenti adottati contro di lei, ovvero con un’azione di risarcimento, piuttosto che con la richiesta di una sentenza dichiarativa. In ogni caso, ritiene che la tutela dei diritti conferiti ai singoli non necessiti dell’esistenza di un ricorso autonomo diretto, qualora vi siano altri ricorsi interni che consentano tale valutazione in via incidentale. 6.3. Il principio dell’autonomia processuale e i relativi limiti si applicano anche nel caso di azioni per ottenere il risarcimento del danno imputabile ad organi statali per violazione dei diritti dell’Unione (v. Francovich). Nella sentenza Traghetti del Mediterraneo (TDM) la CdG ha negato che la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati (risarcimento per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie) risponda al principio di effettività. TDM aveva proposto azione contro Tirrenia, accusandola di aver ricevuto degli aiuti di Stato vietati dal TCE. L’azione veniva rigettata in tutti i gradi di giudizio, la Cassazione non ritenendo compatibili tali aiuti con le norme citate. TDM proponeva azione di risarcimento ai sensi della L. 117/88, che però pone condizioni estremamente restrittive per poter ottenere un risarcimento, rilevando la Corte che il diritto eu osta ad una legislazione nazionale che escluda la violazione da parte dello Stato membro del diritto eu, imputabile ad un organo giurisdizionale. Così come osta al diritto nazionale il fatto che tale responsabilità sia individuata nei soli casi di dolo e colpa grave del giudice. 7. Il primato del diritto dell’Unione 7.1. I conflitti che possono sorgere all’interno degli Stati membri fra norme dell’Unione e norme interne incompatibili viene risolto sulla base del principio del primato dell’Unione, secondo cui le norme nazionali non possono in alcun modo ostacolare l’applicazione del diritto dell’Unione all’interno degli ordinamenti degli Stati membri. 7.2. A livello logico, il principio del primato si salda con quello dell’efficacia diretta. Diversamente, l’efficacia di una norma varierebbe da Stato a Stato, mentre è esigenza fondamentale dell’ordinamento dell’Unione che le sue norme siano applicate uniformemente in tutti gli Stati membri. Il principio del primato invece non vale in assenza di efficacia diretta della norma, poiché quest’ultima non può essere applicata direttamente dal giudice e comportare la disapplicazione della norma interna incompatibile. Questo non vuol dire che la norma priva di efficacia diretta abbia una minore forza obbligatoria nei confronti degli Stati membri. Infatti una sua violazione può essere oggetto di ricorso per infrazione ex artt. 258 e ss. TFUE, inoltre la C.C italiana ricorda che la norma priva di effetti diretti (come una decisione quadro dell’ex III Pilastro) rientra nella nozione di vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, che, a norma dell’art. 117, comma 1, Cost. costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. 7.3. A cedere di fronte al diritto dell’Unione sono le norme interne di qualunque rango. Il principio del primato si è affermato per la prima volta con la sent. Costa c. Enel, causa 6/64, dove la legge italiana di nazionalizzazione dell’energia elettrica, di cui il sig. Costa contestava la compatibilità con alcuni artt. TCE, era successiva all’ordine di esecuzione del Trattato stesso. Il Governo italiano sosteneva l’inammissibilità assoluta della questione pregiudiziale del Giudice conciliatore di Milano, affermando che il giudice nazionale deve applicare la legge interna. La CdG risponde in maniera contraria, affermando il principio di cui sopra. Una recente manifestazione del principio si ha con la successive sollevato in questione di costituzionalità in violazione dell’art. 11). La C.C ragiona introducendo il criterio della competenza, per cui l’ordinamento interno e quello dell’Unione vanno tenuti separati, per cui non si possono assimilare le norme dell’Unione a quelle interne. Bisogna piuttosto stabilire se la materia oggetto della norma rientri tra quello rispetto a cui l’Italia ha deciso di limitare la propria sovranità in favore dell’Unione. Qualora risulti, il giudice italiano, senza dare importanza al valore cronologico, applica la norma eu. Questa soluzione vale solo quando il potere trasferito alla (allora) Comunità si estrinseca in una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno, come quella del regolamento. Soluzione estesa dalla giurisprudenza successiva a tutte le fonti comunitarie capaci di produrre effetti diretti. 8.4. Le differenze rispetto a Simmenthal si individuano nella diversa concezione dei due ordinamenti per le Corti: visione di separatezza per la C.C, visione integrazionista per la CdG. Secondo la C.C la norma interna confliggente non è perciò invalida come sembra dedursi da Simmenthal, ma resta in vigore, non potendo interferire nella sfera occupata dall’atto eu. Tant’è che in Madcenter, 2009, la Corte nega che la norma di un regolamento possa dar vita a un combinato disposto con una norma interna. Comunque, la Corte esclude in due casi che il giudice possa disapplicare direttamente la norma interna a favore di quella comunitaria, pretendendo che sia invece sollevata questione di costituzionalità. Sono i casi riservati alla competenza residua della C.C. 8.5. Prima ipotesi: norma dell’Unione contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e ai diritti dell’uomo. Competenza affermata nel 1973 in Frontini, che va a confliggere con la competenza esclusiva della CdG a giudicare della violazione dei diritti dell’uomo da parte di atti delle istituzioni. Con ciò che la C.C non esclude che il giudice a quo possa prima rivolgersi alla CdG, e solo poi alla C.C, in caso di risposta non convincente del primo. 8.6. Seconda ipotesi: norme di legge dirette ad impedire il rispetto dei principi fondamentali dei Trattati. Competenza sancita in Granital, riferentesi a quei casi caratterizzati da particolare gravità e da una comprovata intenzione di impedire l’applicazione in Italia di interi settori del diritto dell’Unione. 8.7. La competenza della C.C sussiste, comunque, in tutte le ipotesi che si pongano al di fuori del giudizio di costituzionalità in via incidentale. Se infatti tale conflitto venga in rilievo nell’ambito di una delle sue competenze dirette (giudizio in via principale, sui conflitti di attribuzione, sull’ammissibilità dei referendum), la Corte è tenuta a risolverli (in questo ambito è stata di straordinaria importanza la sent. 102/2008, dove la C.C per la prima volta effettua un rinvio alla CdG, in quanto unico giudice in via principale, motivo che la obbliga a porre la questione alla CdG) 8.8. Con la riforma del Titolo V Cost. il principio del primato ha trovato consacrazione costituzionale (art. 117, imposizione al legislatore nazionale e regionale di agire nel rispetto dell’ordinamento comunitario). 8.9. Bisogna precisare che nel caso di contrasto rispetto ad una norma dell’Unione priva di efficacia diretta, non potendo il giudice procede alla disapplicazione diretta della legge interna, deve invece sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1 Cost. Principio affermato nella sentenza M.K.P del 2010 (eccezioni sollevate sulla legge di recepimento di una decisione quadro GAI) PARTE V: IL SISTEMA DI TUTELA GIURISDIZIONALE 1. Considerazioni generali 1.1. Il sistema di tutela giurisdizionale dell’Unione è ripartito su due livelli: 1) La CdG; 2) gli organi giurisdizionali degli Stati membri. 1) Gli spettano in via esclusiva alcune azioni tassativamente enumerate dai Trattati, che i soggetti interessati possono proporre direttamente davanti ad una delle articolazioni della CdG: a) ricorsi per infrazione: proposti nei confronti di uno Stato membro accusato di aver violato gli obblighi derivanti dai Trattati (artt. 258 e 259 TFUE); b) ricorsi d’annullamento, attraverso i quali viene contestata la legittimità degli atti delle istituzioni (art. 263 TFUE); ricorsi in carenza, attraverso cui si vuole far constatare l’illegittimità delle omissioni addebitabili alle istituzioni (art. 265 TFUE); d) ricorsi per risarcimento, che hanno ad oggetto la responsabilità extracontrattuale delle istituzioni (art. 268 TFUE). Altre competenze dirette minori sono: a) tra istituzioni e propri dipendenti; b) riguardanti la Banca eu degli investimenti; c) derivanti da contratti di diritto privato stipulati dall’Unione, qualora il contratto contenga una clausola compromissoria che preveda la competenza della CdG. Va ricordata anche la c.d eccezione di invalidità, attraverso cui l’invalidità di un atto di portata generale può essere fatta valere non solo in via diretta attraverso un ricorso per infrazione, ma anche in via d’eccezione (qualora il termine per farla valere in via diretta sia decorso) nell’ambito di un’altra controversia presso la CdG riguardante l’applicazione dell’atto stesso. Competenze consultive della Corte: compatibilità con i Trattati degli accordi internazionali la cui conclusione è prevista dalle istituzioni (v Parte I, par. 8.1). Al di fuori di tali azioni, vige la competenza dei giudici nazionali. Si può dire che le competenze giurisdizionali siano generali per i giudizi nazionali e speciali per la CdG, carattere confermato dall’art. 274 TFUE. 1.2. I due livelli non operano in maniera distinta: per assicurare il preservarsi del carattere di uniformità delle norme anche a livello applicativo, viene assicurato uno strumento di collaborazione che prende il nome di rinvio pregiudiziale (art. 19, par. 3, lett. B, TUE, disciplinato dall’art. 267 TFUE), per cui in alcuni casi il giudice nazionale ha la possibilità ovvero l’obbligo di deferire alla CdG le questioni riguardanti il diritto dell’Unione. In quest’ambito la CdG esercita una competenza indiretta, perché conosce solo delle questioni su cui viene interpellata dal giudice nazionale, a cui spetta la decisione sull’intera controversia, dopo la sua pronuncia. 1.3. Per la CdG tale sistema di tutela giurisdizionale è completo, per cui l’ordinamento dell’Unione rispetta il principio generale della tutela giurisdizionale effettiva, sancito dalla Carta dei dir e dalla CEDU. Ne deriva che, da un lato, il titolare di una posizione soggettiva derivata dalla norma eu deve poter esperire un ricorso effettivo di fronte ad un giudice competente contro gli atti delle autorità pubbliche dello Stato che lo minano; dall’altro, un soggetto che venga pregiudicato da un atto delle istituzioni deve poter ottenere il controllo giurisdizionale della validità di tale atto. Se vi sono delle lacune, intendendosi l’assenza di un rimedio giurisdizionale utile, dovrebbero essere colmate attraverso un’interpretazione evolutiva delle norme applicabili. La nozione di lacuna deve configurarsi rispetto all’intero sistema, perché non basta la mancanza del rimedio giurisdizionale a livello primario, ma deve mancare anche a livello nazionale. Esempio di mancanza del primo livello e presenza del secondo: sent. Parti écologiste Les Verts, 1983, dove veniva impugnata una decisione del PE, richiedendone l’annullamento ai sensi del TCE, che prevede tale possibilità solo per gli atti di Consiglio e Commissione, la Corte lo ammette lo stesso, perché sennò ci sarebbe una lacuna, e la possibilità della richiesta è in linea con lo spirito del Trattato. Esempio per cui, mancando entrambi, è necessaria un’interpretazione estensiva è nella sent Uniòn de Pequenos agricultores, dove la Corte sancisce un principio che ispirerà il futuro art. 19, par. 1, comma 2, TUE, che così recita:” Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione. 1.4. Prima di Lisbona, gli atti dell’ex II e III Pilastro non godevano di una tutela pari a quella del primo. Infatti, gli atti del settore PESC ne erano del tutto sprovvisti (e lo sono rimasti tuttora, tranne che per il ricorso di annullamento speciale previsto dall’art. 275 TFUE, avente ad oggetti le decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti delle persone fisiche o giuridiche adottate dal Consiglio), gli atti in materia di Cooperazione prevedevano all’art. 36 TUE l’attribuzione alla CdG di talune competenze dirette e in via pregiudiziale molto ridotte rispetto a quelle previste per il TCE (oggi l’art. 10 del Protocollo 36 prevede che gli effetti degli atti emanati prima di Lisbona mantengano i loro effetti per ulteriori 5 anni, salvo per gli atti che subiscono delle modifiche, che fanno scattare subito su di essi l’applicazione della disciplina ordinaria. Si ricordi in tal senso la clausola di opting out prevista dall’art 10 stesso per UK, che non accettare l’estensione della nuova disciplina degli atti in questione, che smettono di essere a lui applicati). Rispetto alle differenti competenze attribuite alla CdG, rimane fondamentale individuare la corretta base giuridica, rimanendo pur essa in grado di verificare la legittimità di tale scelta ex art. 275, par. 2 TFUE. Si può dire oggi che è rispettato il principio generale del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva in tali settori? La risposta è nella Gestoras pro amnistia: in caso di mancanza di un rimedio giurisdizionale azionabile di fronte alla CdG, sono i giudici nazionali, secondo il principio affermato in Union de Pequenos agricultores e ora inserito nel TUE, a doversi fare carico di offrire tale rimedio attraverso un’interpretazione ampia delle norme del proprio diritto interno. 2. Il ricorso per infrazione. 2.1. Disciplinato dagli artt. 258 e 259, TFUE, L’oggetto del ricorso è la violazione da parte di uno Stato membro di uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei Trattati. Importante anche l’art. 260, che definisce la portata degli obblighi gravanti sullo Stato membro in caso di accoglimento del ricorso e le conseguenze dell’eventuale violazione di tali obblighi. 2.2. Per Stato membro s’intende lo Stato-organizzatore, comprensivo di tutte le articolazioni in cui è organizzato l’esercizio del potere pubblico sul territorio statale. Quindi non solo il potere esecutivo, ma anche quello legislativo e giudiziario, o di altri enti territoriali dotati di autonomia e competenze esclusive (Regioni, Comuni) Commissione deve creare le condizioni di un equo contraddittorio attraverso osservazioni scritte. Comma 2: la Commissione emette un parere motivato entro tre mesi, e il procedimento prosegue secondo le disposizioni dell’art. 258. Se invece non emette il parere, lo Stato membro può adire direttamente la CdG. In caso di accoglimento, la sentenza della CdG avrà le stesse caratteristiche di quella emanata a seguito di un ricorso della Commissione. 3. Il ricorso d’annullamento 3.1. Disciplinato dagli artt. 263 e ss TFUE, è la forma principale di controllo giurisdizionale di legittimità prevista per gli atti delle istituzioni, e mira all’annullamento degli atti che risultino viziati. Il sistema di tutela giurisdizionale dell’Unione prevede anche altre procedure di controllo: a) l’eccezione di invalidità (art. 277); b) le questioni pregiudiziali di validità (art. 267); c) può essere esercitato anche nell’ambito di un ricorso per risarcimento dei danni extracontrattuali (art. 268), dal momento che la responsabilità contrattuale dell’Unione presuppone l’invalidità dell’atto che ha causato il danno. La pluralità delle procedure richiede il mantenimento di una certa coerenza fra le stesse, che si esprime attraverso l’introduzione di elementi di armonizzazione della relativa disciplina. Esempi: a) ammissione che nell’ambito di una questione pregiudiziale di validità ex art. 267, si possano far valere gli stessi vizi di legittimità previsti dall’art. 263, comma 2 (v. par. 10.6); b) estensione della possibilità della Corte di limitare gli effetti ratione temporis o personarum delle sue sentenze d’annullamento ex art. 264, anche alle sentenze pregiudiziali d’invalidità; c) aver negato ad un soggetto legittimato a proporre ricorso d’annullamento ex art. 263, comma 4, contro un determinato atto, di poter sollevare contro lo stesso, essendo decorso il termine per il ricorso, eccezione di invalidità in un altro giudizio presso la Corte ovvero davanti al giudice nazionale, al fine che questi sollevi questione pregiudiziale di validità. La Corte si arroga il monopolio sul controllo di legittimità del diritto derivato dell’Unione. Infatti i giudici nazionali non dispongono del potere di dichiarare invalido o disapplicare un atto delle istituzioni che non sia già stato dichiarato invalido dalla Corte. La teorizzazione del monopolio avviene con la sentenza Foto-Frost del 1987, in cui un’impresa stabilita in Germania importa prodotti da altri Stati membri. Ritenendo applicabile il Protocollo sul commercio tedesco allegato al TCE, le autorità doganali tedesche non applicano alcun dazio, ma emerge che i dazi sono dovuti. Il giudice nazionale ritiene di poter omettere di procedere al recupero, ma per questi casi un regolamento del Consiglio richiede l’autorizzazione della Commissione, che esprime pare negativo. Il giudice adotta quindi un provvedimento di recupero, che l’azienda impugna. Il relativo giudice ritiene che la decisione della Commissione sia invalida, e chiede alla CdG se il giudice nazionale possa sindacare la validità della decisione della Commissione e quindi del relativo provvedimento, ma ottiene risposta negativa dalla Corte. Il ragionamento della Corte riposa sul fatto che che se ogni giudice nazionale potesse procede in questo senso, verrebbe meno l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione. Il giudice nazionale che nutra dei dubbi sulla validità di un atto delle istituzioni, non ha altra scelta che sottoporre una questione pregiudiziale di validità alla Corte. In questi casi, il rinvio diviene obbligatorio, anche se il giudice non è di ultima istanza. 3.2. Art. 263, comma 1, definisce gli atti impugnabili facendo riferimento a tre criteri: a) l’autore; b) il tipo; c) gli effetti. a) possono essere impugnati gli atti di tutte le istituzioni (eccetto la CdG e la Corte dei Conti), nonché gli atti degli organi e organismi dell’Unione  tutti questi soggetti sono dotati di legittimazione passiva nell’ambito del ricorso d’annullamento. b) gli atti legislativi sono sempre impugnabili, mentre l’impugnabilità degli altri atti dipende da c), ossia della loro capacità di produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Per Consiglio, Commissione e BCE lo scopo viene raggiunto implicitamente, escludendo l’impugnabilità di raccomandazioni e pareri, e ricomprendendovi invece quella degli atti ex art. 288 (regolamenti, direttive e decisioni). Per PE, Consiglio eu e per gli organi e organismi dell’Unione, i cui atti hanno natura spesso atipica, l’art. 263 stabilisce espressamente che deve trattarsi di atti destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi. I dubbi sulla capacità di produrre effetti giuridici obbligatori si configurano in realtà solo nei confronti degli atti atipici. Non essendoci una definizione normativa degli stessi, è necessario valutarne volta per volta la natura. La Corte precisa, in Commissione c. Francia (rispetto al valore di una comunicazione), che l’azione di annullamento può esperirsi nei confronti di qualsiasi atto che sia destinato a produrre effetti giuridici propri. Caso particolare è quello dei c.d atti preparatori, che esauriscono le varie fasi di un procedimento complesso, destinato a sfociare in un provvedimento finale. L’atto di per sé non è definitivo e quindi non impugnabile, ma la sua illegittimità è derivata, perché si fa discendere dal provvedimento finale, a meno che tale atto non sia di per sé stesso capace di modificare la posizione giuridica degli interessati (si pensa a Italia c. Commissione, 1992, dove viene impugnata una decisione della Commissione inerente l’avvio di una procedura di controllo degli aiuti di Stato alle imprese l’atto, anche se preparatorio, comporta che lo Stato membro non può attuare il progetto di aiuto sottoposto all’esame della Commissione, quindi la decisione produce effetti giuridici, sicché è impugnabile. 3.3. La legittimazione attiva è individuata dai commi 3 e 4 dell’art. 263, che prevede condizioni diverse di ricevibilità, per cui vi sono tre categorie di ricorrenti. Prima categoria: c.d ricorrenti privilegiati, e comprende: - Stati membri; - PE; - Consiglio; - Commissione. Privilegiati perché il loro ricorso ha portata generale, e in quanto portatori di un interesse generale alla legittimità degli atti delle istituzioni, possono proporre ricorso contro qualunque atto e senza dimostrare uno specifico interesse. Qui per Stati membri vengono intese le sole autorità di Governo (la Regione quindi rientrerà nella terza categoria). La L. La Loggia, comunque, attribuisce a Regioni e Province autonome, agendo individualmente, un mero potere di sollecitare il ricorso, mentre, attraverso la Conferenza Stato-Regioni, con deliberazione a maggioranza assoluta, tali soggetti possono addirittura obbligare il Governo a fare ricorso. Il Protocollo n’ 2 sull’applicazione del principio di sussidiarietà e proporzionalità prevede un tipo di ricorso apposito in caso di violazione del principio di sussidiarietà ex art. 263, proponibile da parte di uno Stato membro, trasmesso a nome del suo Parlamento nazionale o dal Comitato delle regioni, avverso atti legislativi per l’adozione dei quali il TFUE richiede la sua consultazione. Seconda categoria: c.d ricorrenti intermedi, comprendente: - Corte dei Conti; - BCE, - Comitato delle regioni, la cui legittimazione a ricorrere dev’essere specificamente finalizzata a salvaguardare le proprie prerogative (l’atto impugnato invade la loro sfera di competenze riservate o ne pregiudica l’esercizio). 3.4. Terza categoria: c.d ricorrenti non privilegiati, ossia, - persone fisiche e giuridiche. Le condizioni di legittimazione al ricorso sono molto restrittive. Inoltre, bisogna considerare il fatto che la giurisprudenza in merito si è formata sull’art. 230, TCE, rispetto a cui l’art. 263, comma 4 modifica alcune parti: sostanzialmente, vi è una semplificazione della prima parte, che non ruota in più intorno al concetto di decisione, ma si riferisce ad atti adottati nei confronti del ricorrente o che lo riguardano direttamente ed individualmente. La parte finale è nuova e individua una terza ipotesi. La norma quindi disciplina tre ipotesi distinte: 1) una persona fisica o giuridica impugna un atto adottato nei suoi confronti, cioè di cui il ricorrente sia il destinatario. In questo caso, basta dimostrare di avere un interesse a ricorrere (cioè che la sua posizione giuridica sia pregiudicata dall’atto). Gli esempi maggiori si sono verificati nel campo della disciplina della concorrenza. Ultimamente bisogna rilevare quelle misure restrittive nei confronti di persone adottate in ambito PESC, per cui Lisbona ha stabilito una forma speciale di ricorso, individuata nell’art. 275, par. 2. 2) una persona fisica o giuridica impugna un atto di cui formalmente non è il destinatario, e deve dimostrare che l’atto lo riguarda direttamente e individualmente. 3) deroga del 2) anche qui la persona non è destinatario formale dell’atto impugnato, ma l’atto dev’essere a) regolamentare e b) non comportare alcuna misura d’esecuzione; in questo caso il ricorrente dovrà dimostrare che l’atto lo riguarda direttamente (e non anche individualmente, come in 2)). L’identificazione di quando il doppio requisito dell’interesse diretto e di quello individuale potesse dirsi soddisfatto ha creato un problema interpretativo notevole. Conviene quindi guardare ai precedenti della giurisprudenza (relativa però all’art. 230 del TCE), distinguendoli a seconda che l’atto impugnato sia a) una decisione rivolta ad altre persone fisiche o giuridiche (eccetto gli Stati membri); b) un regolamento o una decisione rivolta a uno o più Stati membri. 3.5. Perché una persona fisica o giuridica possa impugnare una decisione rivolta ad un’altra persona fisica o giuridica (che non sia uno Stato membro), l’onere probatorio non è eccessivo bisogna dimostrare che il ricorrente è portatore di un interesse qualificato all’annullamento dell’atto. Tale interesse si ritiene generalmente implicito nel fatto di aver provocato l’avvio del procedimento che ha portato all’adozione dell’atto impugnato o di avervi partecipato, sicché la ricevibilità del ricorso viene ammessa, senza procedere ad un esame differenziato della sussistenza dei due interessi. Gli esempi sono soprattutto in materia di concorrenza: in Metro, 1977, la ricorrente aveva presentato una denuncia contro SABA, che non la inseriva nella sua rete di distribuzione. Metro invita la Commissione a far cessare il comportamento di SABA. La Commissione adotta invece una decisione di esenzione verso SABA, Metro propone quindi azione di annullamento presso la CdG, che dichiara il ricorso ricevibile, sulla base che le persone fisiche e giuridiche, qualora la loro domanda sia respinta dalla Commissione, devono poter esperire l’azione di annullamento per la tutela dei propri interessi legittimi 3.6. Qualora invece l’atto impugnato sia costituito da un regolamento o anche da una decisione rivolta a uno o più Stati membri, l’onere probatorio che il ricorrente non privilegiato deve superare è maggiore. Tale difficoltà non riguarda l’interesse diretto, inteso come pregiudizio diretto del ricorrente, e non in virtù di provvedimenti di esecuzione o attuazione, perché il regolamento è direttamente applicabile, e perciò l’interesse diretto è in re ipsa. Quanto alle decisioni rivolte agli Stati membri, bisogna Il riferimento è innanzitutto alle forme relative al procedimento da seguire per l’emanazione dell’atto (es. obbligo di consultazione del PE). Altre ipotesi di violazione sostanziale attengono all’atto in quanto tale, di cui la più importante riguarda la violazione dell’obbligo di motivazione, prescritto in termini generali ex art. 296, comma 2 TFUE. Essendo un difetto d’ordine pubblico, è rilevabile in via d’ufficio. Nella sentenza E e F, 2010, i sig.ri, imputati in un’azione penale in Germania per l’iscrizione e il sostegno all’organizzazione DHKP-C, iscritta all’elenco (in continuo aggiornamento) di persone fisiche e giuridiche sospette di terrorismo, ai sensi di un regolamento del Consiglio che adotta una posizione comune PESC, attuativa di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU; invocano la mancata motivazione dell’iscrizione dell’associazione all’elenco, per cui il giudice a quo interroga sul punto la CdG, che rileva la gravità del difetto di motivazione, che come tale, deve portare il giudice a quo a disapplicare le disposizioni controverse, poiché non legittimano un procedimento penale in capo agli imputati. La Corte rileva che tale difetto non può essere sanato da elementi di prova indicati in una successiva decisione, che aveva aggiornato l’elenco, poiché contrariamente si disconoscerebbe il principio di irretroattività delle disposizioni che possono dar luogo ad una condanna di natura penale. Quindi, in linea generale, si può dire che l’obbligo di motivazione risulta violato quando la motivazione è del tutto assente o insufficiente. La valutazione dell’insufficienza dev’essere vagliata rispetto alla natura della norma, perché è chiaro che una decisione, che provoca effetti individuali, dovrà essere maggiormente motivata rispetto ad un regolamento o una direttiva, la cui efficacia è generale. c) il vizio di violazione dei trattati e di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione è l’ipotesi più invocata, perché ingloba logicamente l’incompetenza e la violazione di forme sostanziali. Il vizio è espressione del principio della gerarchia delle fonti dell’Unione, e può riguardare qualsiasi norma di grado superiore rispetto a quella invocata. d) lo sviamento di potere si ha quando un’istituzione emana un atto che ha il potere di adottare, perseguendo però scopi diversi da quelli per cui il potere le è stato attribuito (ipotesi rara). 3.10. Il termine di ricorso è di due mesi e decorre: a) dalla pubblicazione sulla GU, se pubblicato; b) dalla notificazione, se l’atto è stato notificato (solo per il destinatario della notificazione); c) in mancanza dei primi due, dal giorno in cui il ricorrente ha avuto conoscenza dell’atto. 3.11. Art. 264 TFUE disciplina l’efficacia delle sentenze di annullamento. Primo comma: se la CdG rileva la fondatezza del ricorso, dichiara nullo e non avvenuto l’atto portata generale e retroattiva della sentenza.. Secondo comma: eccezione al comma 1, per cui la Corte, se lo ritiene necessario, precisa gli effetti dell’atto annullato da considerarsi definitivi. Le limitazioni possono riguardare la portata ratione personarum dell’annullamento, in questo caso l’atto è annullato solo nei confronti del ricorrente. Oppure può riguardare la portata temporale, stabilendo il decorso degli effetti ad un momento successivo l’ex tunc, ovvero a partire dall’adozione di un nuovo atto da parte delle istituzioni. Ai sensi dell’art. 266, comma 1 TFUE: l’istituzione, organo o organismo da cui emana l’atto annullato sono tenuti a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza comporta. Rimane salvo il diritto dell’interessato a far valere la responsabilità extracontrattuale dell’autore dell’atto annullato. 3.12. Il controllo esercitato dalla Corte sugli atti delle istituzioni ex art 263 è un controllo di mera legittimità. La sentenza si limita ad annullare l’atto, anche se l’art. 261 prevede che i regolamenti adottati congiuntamente da Consiglio e PE o dal solo Consiglio possano attribuire alla CdG anche una competenza di merito, limitata al riesame delle sanzioni previste nel regolamento, del cui ammontare ha quindi potere di modifica. 3.13. Prima di Lisbona, l’art. 35, par. 6 TUE prevedeva un controllo analogo a quello ex art. 263 da parte della CdG sulla legittimità degli atti adottati in seno all’ex III Pilastro, proponibile ad opera di uno Stato membro o della Commissione, entro due mesi dalla pubblicazione dell’atto. Tale competenza resterà per i 5 anni successivi a Lisbona, salvo modifiche, grazie all’art. 10 del Protocollo 36 sulle disposizioni transitorie. 4. Il ricorso in carenza. 4.1. Disciplinato dall’art. 265 TFUE, ed è un’altra forma di controllo giurisdizionale della legittimità del comportamento delle istituzioni. L’oggetto del controllo è un comportamento omissivo (definito carenza) che si assume illegittimo, perché tenuto in violazione di un obbligo di agire previsto dai Trattati. I presupposti quindi sono: a) esistenza di un obbligo di agire a carico dell’istituzione in causa; b) la violazione di tale obbligo 4.2. La necessaria presenza di un obbligo di agire esclude che si possa ricorrere in carenza contro l’omissione di atti la cui adozione è affidata alla discrezionalità delle istituzioni. Non può infatti esperirsi ricorso contro l’omessa emanazione di un parere motivato ex art. 258 TFUE. La giurisprudenza ha però ammesso (con qualche tentennamento) la possibilità di ricorrere in carenza da parte di colui che ha presentato alla Commissione una denuncia contro imprese, per violazione delle regole di concorrenza, ovvero conto uno Stato membro, per violazione delle regole relative agli aiuti di Stato. 4.3. La violazione di un obbligo di agire ex art. 265 può essere fatta valere a condizione che: a) l’istituzione, organo o organismo in causa siano stati previamente richiesti di agire, e b) sia scaduto il termine di due mesi da tale richiesta, senza che l’istituzione abbia preso posizione. C’è anche qui, quindi, la previsione di una fase precontenziosa obbligatoria. La richiesta di agire (o messa in mora o diffida) dev’essere formulata in maniera tale che l’istituzione capisca che, in caso di inerzia, verrà fatto ricorso. Inoltre la richiesta deve indicare con chiarezza e precisioni i provvedimenti che l’istituzione è richiesta di adottare. Per interrompere la mora basta esprimere un parere motivato contrario e adottare un atto di contenuto non coincidente con quello richiesto, perché costituiscono prese di posizione. L’atto sarà comunque impugnabile ex art. 263. La presa di posizione dev’essere definitiva, non rilevando le comunicazioni c.d interlocutorie, che fanno sussistere la mora (anche le comunicazioni della Commissione possono integrare una presa di posizione). Se l’istituzione non prende posizione entro due mesi dalla richiesta, il soggetto che l’ha formulata può ricorrere presso la CdG entro i successivi due. Se la presa di posizione interviene dopo i due mesi e prima della pronuncia della CdG, cade l’oggetto del ricorso, ma l’istituzione può essere condannata al risarcimento delle spese processuali. 4.4. La legittimazione passiva è propria: a) del PE, Consiglio eu, Consiglio, Commissione e BCE; b) degli organi e organismi dell’Unione. La legittimazione compete: a) Stati membri e altre istituzioni (comprese BCE e Corte dei Conti), c.d ricorrenti privilegiati; b) ogni persona fisica o giuridica, c.s ricorrenti non privilegiati, perché dispongono di un diritto di ricorso limitato, disciplinato dal terzo comma, all’omissione da parte dei soggetti su cui ricade la legittimazione passiva, dell’emanazione nei loro confronti di un atto che non sia una raccomandazione o un parere. Questa norma è stata interpretata in due modi: 1) soltanto le decisioni possono essere emanate nei confronti di una persona fisica e giuridica, per cui il loro diritto di ricorso sarebbe limitato alle decisioni di cui sono destinatari formali; 2) la disposizione va letta alla luce dell’art. 263, comma 4, che gli permetterebbe di ricorrere anche contro l’omissione di un regolamento o direttiva da rivolgere ad altre persone, dimostrando però che l’atto omesso, se emanato, riguarderebbe direttamente ed individualmente il ricorrente. La seconda interpretazione ha prevalso in giurisprudenza (v. Telecinco). 4.6. Se il ricorso viene accolto, il giudice comunitario emana una sentenza di accertamento, ma non gli spetta colmare la carenza, né tantomeno condannare l’istituzione responsabile ad un obbligo di facere specifico. Sussiste in capo all’istituzione responsabile, comunque, un obbligo di agire ex art. 266. 5. Il ricorso per risarcimento di danni. 5.1. Disciplinato dall’art. 340, comma 2 TFUE, per cui, in materia di responsabilità extracontrattuale, l’Unione deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni e dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. Il comma 3 riguarda la BCE, e ricalca il secondo, se non per il fatto che a rispondere delle sue violazioni non è l’Unione, ma la BCE stessa. La competenza a conoscere tali controversie è attribuita alla CdG dall’art. 268. Riguardo alla responsabilità contrattuale dell’Unione, la competenza della CdG può essere previsti da una clausola compromissoria inserita nel contratto. 5.2. Notevole dibattito su cosa debba intendersi per “controversie relative al risarcimento dei danni di cui all’art. 340, comma 2 e 3”. Dapprima si è cercato di assimilare tale ricorso a quello per carenza e annullamento, sulla base di un fine comune, ossia eliminazione degli effetti giuridici di un atto o di un comportamento omissivo delle istituzioni, con l’obiettivo di estendere anche a tale ricorso le condizioni di ricevibilità molto restrittive degli artt. 263, comma 4 e 265, comma 3. La Corte non si è prestata a tale manovra, individuando un carattere autonomo e dotato di funzione propria del ricorso per risarcimento, argomentando, nella causa Zuckerfabrick Schoppenstedt, 1971, che tale ricorso differisce da quello d’annullamento perché tende a ottenere, non già l’eliminazione di un atto determinato, ma il risarcimento del danno causato da un’istituzione nell’esercizio dei suoi compiti. 5.3. Necessario è stato anche distinguere tale procedimento dalle azioni che i soggetti possono esperire dinanzi ai giudici nazionali. Il criterio riposa sull’oggetto della pretesa del singolo, e sulla possibilità che ci sia un’azione interna in grado di soddisfare pienamente la pretesa stessa. Infatti il ricorso per risarcimento si configura come rimedio residuale. Se in Wagner (1979), la pretesa del sig. viene respinta sulla base del specifico paragrafo all’art. 267, che si occupa dei casi del genere e prescrive un procedimento rapido in presenza di persone in stato di detenzione. 6.6. La competenza pregiudiziale viene in rilievo anche rispetto al diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva, perché se è vero che la competenza ex art. 267 è utile per i motivi illustrati sopra, la negazione da parte del giudice (soprattutto di quello di ultima istanza) di rimettere una questione alla Corte, ove le circostanze lo richiedessero, si tramuterebbe in un pregiudizio a tale diritto per i soggetti interessati. 7. Segue: ammissibilità e rilevanza della questione pregiudiziale. 7.1. Il giudice nazionale e quello della CdG, attraverso il rinvio, svolgono un ruolo complementare al fine di individuare la soluzione al caso concreto. Non c’è rapporto di gerarchia, ecco perché la Corte non esercita alcun tipo di controllo sulla competenza del giudice nazionale a conoscere del giudizio nel cui ambito le questioni pregiudiziali sono state sollevate, ovvero sulla regolarità del giudizio stesso e, in particolare, del provvedimento di rinvio. Questi aspetti vengono infatti disciplinati dal diritto interno, non da quello dell’Unione. La Corte ha invece posto dei requisiti riguardanti il contenuto del provvedimento di rinvio. Soprattutto in riferimento al settore della concorrenza, il giudice nazionale deve definire l’ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o spiegare almeno le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono sollevate. Infatti, in mancanza di elementi sufficienti, la Corte non potrebbe giungere ad un’interpretazione del diritto comunitario utile per il giudice nazionale, e potrebbe riservarsi la possibilità di non rispondere alle questioni pregiudiziali. 7.2. Normalmente la Corte non verifica la necessità del rinvio e la rilevanza delle questioni di diritto dell’Unione rispetto alla soluzione del caso pendente davanti al giudice nazionale. La Corte, almeno inizialmente, ritiene che spetti solo al giudice nazionale vagliare la necessità e rilevanza del rinvio. Tuttavia, successivamente ad un uso talvolta improprio o abusivo del rinvio, la Corte si è riservata il potere di verificare la rilevanza delle questioni a lei sottoposte al fine di capire se è competente a rispondere e se non sussistano le ipotesi patologiche individuate in giurisprudenza, che sono: a) questioni poste nell’ambito di controversie fittizie, dove le parti sono già d’accordo sull’interpretazione della norma controversa e vogliono solo ottenere una pronuncia della Corte, che come tale vale erga omnes (v. Foglia, 1980); b) questioni manifestamente irrilevanti, dove la norma oggetto del rinvio non è applicabile in alcun modo alla fattispecie oggetto del giudizio nazionale; c) questioni puramente ipotetiche, in virtù della loro genericità o della irrilevanza per la decisione del giudice nazionale. 7.3. Ora la Corte è orientata in verso maggiore prudenza, tant’è che sembra partire da una sorta di presunzione di rilevanza, per cui si accontenta in genere che il giudice nazionale abbia indicato i motivi che lo inducono a ritenere necessarie le risposte alle questioni pregiudiziali. A volte le basta constatare che la rilevanza non possa essere esclusa, come nella sentenza Cartesio, 2006, dove l’azienda ungherese propone reclamo contro la mancata iscrizione nel registro dei trasferimenti d’impresa (verso l’Italia) presso il giudice nazionale, che pone cinque questioni pregiudiziali alla CdG, fra cui una per cui il codice di procedura civile ungherese sembrava contrastare con l’art. 267, poiché prevedeva un ricorso in cassazione contro la decisione di rinvio pregiudiziale, per cui il giudice a quo non poteva sospendere la causa in attesa della sentenza della Corte, ma proseguirne l’esame. Anche se i rilievi di Irlanda e Commissione sono corretti rispetto all’oggettiva ipoteticità della questione (decisione di rinvio non impugnata e peraltro termine scaduto), la Corte accetta di rispondere alle questioni poste, perché non può escludersi la rilevanza della questione. 8. Segue: la nozione di giurisdizione. 8.1. La competenza pregiudiziale spetta solo ad un organo che possa essere definito come “organo giurisdizionale di uno degli Stati membri”. Tale nozione è autonoma, nel senso che la Corte si riserva il potere di verifica, sicché può non essere coincidente con le definizioni ricavabili dagli Stati membri. 8.2. Il primo requisito è che svolga una funzione giurisdizionale, cioè che sia chiamato a statuire nell’ambito di un procedimento destinato a risolversi in una pronuncia di carattere giurisdizionale. Il giudizio va effettuato con riferimento alle funzioni svolte dall’organo nello specifico caso che ha dato origine al rinvio. Per esempio in Job Centre, 1995, la Corte nega la funzione giurisdizionale del Tribunale di Milano, rispetto alle questioni pregiudiziali poste come giudice del registro delle imprese (competenza solitamente amministrativa, di natura non giurisdizionale). Si ritiene investita invece delle questioni poste nell’ambito del giudizio relativo al reclamo contro il decreto del Tribunale che rifiuti l’omologazione. La Corte ha poi negato che la Corte dei Conti svolga una funzione giurisdizionale quando esercita il controllo a posteriori sulla regolarità dell’attività amministrativa. Ha invece accolto la soluzione opposta riguardo il Consiglio di Stato, quando agisce nell’ambito di un procedimento di ricorso straordinario al PdR, sulla base del fatto che il suo parere è vincolante, salva deliberazione contraria del CdM. Rispetto alla C.C: la C.C ritiene di essere legittimata al rinvio pregiudiziale solo nell’ambito dei giudizi di costituzionalità in via principale, mentre per i ricorsi in via principale nega tale competenza, affermando il sistema della doppia pregiudizialità, per cui il giudice nazionale deve prima rimettere la questione di interpretazione delle norme eu prima alla CdG e poi, se del caso, a lei. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato non è da ritenersi organo giurisdizionale, però può darsi rinvio rispetto alle impugnazioni dei provvedimenti del AGCM davanti al Tar Lazio. 8.3. Nei casi dubbi, servono ulteriori requisiti: origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente. In ogni caso bisogna rilevare che l’approccio della Corte in tal senso è molto elastico. Solitamente il criterio dell’indipendenza è valutato con ampiezza, come nel caso Dorsch Consult, dove viene ritenuta indipendente l’attività dela Commissione federale per la sorveglianza sull’aggiudicazione degli appalti (criticata in questo senso perché estroflessione del ministero) 8.4. Più rigorosa sul vaglio dell’origine legale dell’organo, con particolare riferimento al caso degli arbitri, che non vengono considerati competenti al rinvio, con l’unica eccezione dell’arbitrato obbligatorio, quando le parti sono tenute per legge a sottoporre ad arbitrato le proprie controversie in una determinata materia. 9. Segue: facoltà e obbligo di rinvio. 9.1. Il giudice non di ultima istanza ha una facoltà di rinvio, mentre quello di ultima istanza ha un obbligo di rinvio. La ratio è duplice: da un lato, in un giudizio di ultima istanza, un errore del giudice nel risolvere questioni di diritto dell’Unione resterebbe senza ulteriore rimedio, per cui l’obbligo si pone come estrema forma di tutela offerta ai soggetti interessati; dall’altro, un’eventuale pronuncia che contenga un’interpretazione erronea, potrebbe condizionare la giurisprudenza in virtù della sua autorevolezza (civil law) o in virtù dello stare decisis (common law). 9.2. La nozione di giudice di ultima istanza non dipende dal rango occupato nell’ordinamento nazionale, quanto piuttosto dalla possibilità concreta di proporre un’impugnazione contro le decisioni del giudice. In Italia giudici di ultima istanza sono la Corte di Cassazione, il Consiglio di Stato e la C.C, rispetto ai giudizi in via principale. 9.3. La facoltà di rinvio in capo agli altri giudici comporta per loro una valutazione sul se rinviare una questione, ma anche quando rinviarla (anche se la CdG precisa che sarebbe meglio aver accertato i fatti e risolto le questioni di diritto interno) 9.4. La Corte ha inserito alcuni elementi di flessibilità dell’obbligo di rinvio, per cercare di avvicinare la posizione delle due categorie interne di giudici. Ha affermato infatti che gli stessi giudici di ultima istanza godono dello stesso potere di valutazione degli altri giudici nazionali, per cui il fatto che le parti abbiano sollevato questioni di diritto dell’Unione non comporta automaticamente l’obbligo di rinvio. Ha poi individuato alcune ipotesi in cui, pur in presenza di questioni rilevanti, l’obbligo può omettersi, c.d facoltà di rinvio anche per i giudici di ultima istanza: a) quando la questione è materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia stata già decisa in via pregiudiziale; b) quando la risposta risulti da una giurisprudenza costante della Corte che, indipendentemente dalla natura del procedimento in cui è stata prodotta, risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere; c) quando la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio alla soluzione da dare alla questione sollevata (ipotesi dell’atto chiaro) ipotesi più delicata e produttiva di abusi, tant’è che la Corte precisa che per vantarla il giudice di ultima istanza debba: - convincersi che la stessa soluzione si imporrebbe ai giudici degli altri Stati membri e alla CdG; - raffrontare le diverse versioni linguistiche delle norme dell’Unione; - tenere conto della non necessaria coincidenza tra il significato di una medesima nozione giuridica nel diritto dell’Unione e nel diritto interno; - ricollocare la norma dell’Unione nel suo contesto e alla luce delle sue finalità. Si prevede, infine, anche un’ipotesi di obbligo di rinvio anche per i giudici non di ultima istanza: riguarda le sole questioni pregiudiziali di validità, per cui se il giudice nazionale ravvisa come fondate delle argomentazioni che portano a considerare illegittima una norma dell’Unione, questi deve obbligatoriamente rinviare la questione in via pregiudiziale alla CdG. 9.5. L’art. 68, par. 1 TCE, che limitava ai soli giudici di ultima istanza il potere di rinviare questioni pregiudiziali inerenti i settori del Titolo IV (asilo, immigrazione, visti ecc.) è stato soppresso (ora è tutto ex art. 267). Per gli atti riconducibili all’ex III Pilastro vale il solito art. 10 del Protocollo n’36. nazionale di ultima istanza; c) tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario. Infine, bisogna rilevare che la Corte si riserva di limitare nel tempo le proprie sentenze pregiudiziali, tanto interpretative quanto di validità. Potere motivato da esigenze di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento, anche se la Corte fa espressamente salva la possibilità di invocare la sentenza pregiudiziale da parte di coloro che abbiano proposto un’azione giudiziaria o un reclamo equivalente prima della sentenza stessa (v. FRAGD). PARTE VI: LE COMPETENZE DELL’UNIONE EUROPEA 1. Considerazioni generali in materia di competenza: il principio d’attribuzione. 1.1. Il problema della qualificazione e definizione delle competenze dell’UE si è posto rispetto alla CE (prima di Lisbona gli altri due settori, i c.d ex II e III Pilastro, erano considerati non comunitari). La CE infatti aveva un’impostazione sovranazionale che la rendeva molto autonoma rispetto agli Stati membri, che non sempre riuscivano a controllarne i processi decisionali. Era dunque forte il rischio del c.d “competence creep”, ossia un’estensione delle sue competenze senza il passaggio dall’art. 48 TUE (procedura di revisione dei Trattati), e privando così gli Stati del loro potere individuale di veto (rischio inesistente per gli altri due Pilastri, costruiti e organizzati secondo il metodo intergovernativo). Per questo il problema della delimitazione delle competenze è stato affrontato con riferimento al TCE, e attraverso l’inserimento dell’art. 5, in cui si sancivano principi generali in materia: principio di attribuzione, di sussidiarietà e di proporzionalità. In un secondo momento, con la previsione dell’abolizione del sistema a pilastri e l’estensione della disciplina comunitaria all’ex III Pilastro, si è espressa l’esigenza di arrivare ad una disciplina di più ampia portata da dedicare al problema delle competenze. Il Trattato di Lisbona ha rafforzato lo status dei tre principi enunciati prima, inserendoli nell’art. 5 del TUE. Si è previsto uno speciale controllo del rispetto del principio di sussidiarietà, affidato ai Parlamenti nazionali, ad opera del Protocollo n’ 2. Il TFUE definisce, all’art. 2, la distinzione fra le varie categorie di competenze dell’Unione, all’art. 3, fornisce una loro elencazione categoria per categoria. 1.2. Principio di attribuzione: non essendo l’Unione un ente a finalità e competenze generali, ma potendo agire nell’ambito delle competenze attribuitegli dai Trattati, e soltanto per gli obiettivi da essi indicati, l’art. 5, par. 1 e 2, pone l’accento sul carattere derivato delle competenze dell’Unione. La seconda frase del par. 2 pone l’accento sulla specialità (la competenza non può presumersi) delle competenze dell’Unione rispetto a quelle degli Stati membri (regola generale della competenza degli Stati membri). Il principio di attribuzione esige che per ciascun atto dell’Unione venga indicata la base giuridica su cui l’atto è fondato. 1.3. La portata del principio di attribuzione non è però così rigida: l’Unione, anche in mancanza di espressa previsione dei Trattati, può essere considerata competente quando l’esercizio di un certo potere risulti indispensabile per l’esercizio di un potere espressamente previsto ovvero per il raggiungimento degli obiettivi dell’ente (teoria dei poteri impliciti) es. più famoso è l’affermazione della competenza comunitaria a stipulare accordi internazionali in materia di trasporti, nonostante la mancanza di un’esplicita previsione a riguardo, in forza del c.d principio del parallelismo dei poteri interni ed esterni (l’Unione può concludere accordi internazionali in tutte le materie per le quali disponga del potere di adottare atti sul piano interno) 1.4. C’è poi l’art. 352, par. 1 TFUE, che deroga parzialmente al principio della competenza d’attribuzione, nota anche come clausola di flessibilità. L’inserimento di una norma di questo tipo rivela come gli stessi Stati membri sappiano dell’impossibilità di definire in anticipo e con esattezza i poteri di cui avrebbe bisogno l’Unione. In ogni caso la procedura è delle più solenni, prevedendo sempre una delibera de Consiglio all’unanimità, su proposta della Commissione e previa autorizzazione del PE. La seconda frase dello stesso art. precisa che qualora si intendesse adottare un atto legislativo, si debba seguire una procedura legislativa speciale dello stesso tipo (e quindi non ordinaria). Considerato il peso che l’adozione di un atto ex art. 352 può comportare sul piano delle competenze fra Stati membri e Unione, il par. 2 di tale art. impone alla Commissione, in sede di proposta ex par. 1, a richiamare su di essa l’attenzione dei Parlamenti nazionali, in ottemperanza del Protocollo n’ 2. Da un punto di vista sostanziale, bisogna soddisfare numerose condizioni: a) la nuova azione dev’essere necessaria nel quadro delle politiche definite dai Trattati per realizzare uno degli obiettivi di cui ai Trattati; b) senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine; c) la nuova azione non può comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i Trattati lo escludono; d) e non può servire per il conseguimento di obiettivi riguardanti la PESC. a) la necessità dell’azione comporta una notevole discrezionalità in favore delle istituzioni: la vastità degli scopi previsti dall’art. 3 TUE, soprattutto dopo l’abolizione del sistema a Pilastri, è tale che qualsiasi azione potrebbe collegarsi con essi, qualora ce ne fosse la volontà politica; b) mancata previsione di adeguati poteri: una prima sentenza della Corte (Massey Ferguson, 1973) ne sminuisce l’importanza, ritenendo sufficiente il ricorso per il ricorso al vecchio art. 308 TCE, l’assenza di una soluzione abbastanza efficace nell’ambito del TCE l’esigenza di garantire la certezza del diritto. La Corte ha però poi assunto un atteggiamento più restrittivo, sottolineando il carattere residuale della norma ed escludendone l’utilizzabilità ogni volta che il TCE prevedeva una base giuridica alternativa. c) esclusione di misure d’armonizzazione: mira ad impedire che, attraverso misure approvate ai sensi dell’art. 352, le istituzioni possano aggirare un limite alla loro competenza espressamente voluto dai Trattati. L’art. 352 affida alle istituzioni la scelta del tipo di atto da adottare, riferendosi genericamente a “le disposizioni appropriate”. Ci si è chiesti se esistano dei limiti intrinseci alla possibilità di ricorrere all’art. 352 (questa è anzitutto un minus della procedura ex art. 48 TUE). Secondo l’interpretazione che la Corte diede del vecchio art. 308 TCE, tale norma, pur consentendo nuove azioni, non permette deviazioni o deroghe rispetto alla disciplina materiale fissata dagli stessi Trattati. Tale orientamento comprende il caso in cui le disposizioni che si vorrebbero fondare sull’art. 352 siano tali da modificare, sia pur indirettamente, la struttura istituzionale dell’Unione, come delineata dai Trattati (secondo la Corte un caso di questo tipo si sarebbe verificato con l’adesione alla CEDU). L’Unione può vedersi riconoscere nuovi poteri, ossia consentirle di intervenire in settori non menzionati espressamente dai Trattati, precisando però la Corte che non si vada al di là dell’ambito generale risultante dal complesso delle disposizioni del Trattato ed in particolare di quelle che definiscono compiti e azioni della Comunità. Una limitazione al ricorso ex art. 352 è poi posta dall’introduzione del principio di sussidiarietà, applicabile ogniqualvolta la sola base giuridica per l’azione dell’Unione è costituita dall’art. 352. In questi casi la competenza è di tipo concorrente e soggiace al principio in questione. 2. I vari tipi di competenza. 2.1. Non tutte le competenze attribuite dai Trattati all’Unione hanno pari natura. L’art. 2 TFUE effettua una tripartizione: 1) par. 1, competenze esclusive; 2) par. 2, competenze concorrenti; 3) par. 5 competenze di sostegno, coordinamento e completamento (c.d di terzo tipo). Accanto a queste, l’art. 2 prevede una competenza di coordinamento nel campo delle politiche economiche e dell’occupazione (par. 3) e le competenze per definire e attuare la PESC (par. 4) 2.2. Caratteristiche delle competenze esclusive (art. 2, par. 1): - esistenza del potere di adottare atti legislativi o vincolanti in genere soltanto in capo all’Unione; - assenza del potere di adottare atti del genere in capo agli Stati membri anche in caso di inazione dell’Unione; - poteri degli Stati membri di agire in due casi a) se autorizzati dall’Unione b) se si stratta di atti destinati a dare attuazione ad atti dell’Unione. L’art. 3, par. 1, contiene un’elencazione dei settori in cui l’Unione ha competenza esclusiva, ed è tassativa: - unione doganale; - definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; - politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro; - conservazione delle risorse biologiche de mare nel quadro della politica comune della pesca; - politica commerciale comune. Un’altra competenza riguarda la conclusione di accordi internazionali (rimandata a infra, par. 5.3). Da rilevare che il TCE non precisava il carattere esclusivo o concorrente di una competenza, che andava risolto in via interpretativa, soprattutto rispetto agli scopi perseguiti es. il settore della politica commerciale era già considerato di competenza esclusiva dell’Unione, perché politiche economiche diverse degli Stati membri avrebbero compromesso le finalità collettive della Comunità. 2.3. Caratteristiche delle competenze concorrenti (c.d ripartire, art. 2, par. 2): - coesistenza del potere di adottare atti legislativi e vincolanti in genere in capo sia all’Unione che agli Stati membri; - pienezza del potere di azione degli Stati membri in caso di inerzia dell’Unione; - progressiva perdita del potere di azione degli Stati membri man mano che l’Unione agisce; - riacquisto del potere di azione da parte degli Stati membri nella misura in cui l’Unione decide di cessare dall’esercitare la propria competenza (cosa che ha portato a pensare all’insussistenza, dopo Lisbona, del principio dell’acquis). Si ricordi che in virtù del principio di leale collaborazione di cui all’art. 4, par. 3, TUE, gli Stati membri sono tenuti ad astenersi da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione essi non potrebbero adottare provvedimenti in materie già oggetto di atti dell’Unione. Qualora l’Unione adottasse per un settore concorrente una disciplina completa, la sua competenza, nei fatti, muterebbe in esclusiva (c.d svuotamento o pre-emption), pertanto ne risulta che nei settori di competenza concorrente, l’estensione o la sopravvivenza della competenza degli Stati ritirarlo, ma con obbligo di specifica motivazione. Disciplina diversa è prevista se per l’adozione dell’atto è richiesta la procedura legislativa ordinaria. Se contro il relativo progetto si esprime negativamente la maggioranza semplice dei Parlamenti nazionali, la Commissione, per mantenere il progetto in atto, deve emanare un parere motivato e la procedura incontra una fase preliminare, prima della prima lettura, esclusivamente dedicata alla verifica del rispetto del principio di sussidiarietà. Se il Consiglio o il PE votano con maggioranza dell 55% dei membri nel senso che la proposta contrasta col principio di sussidiarietà, la relativa proposta legislativa decade e non forma oggetto di ulteriore esame. 3.4. Sul controllo giurisdizionale in merito al rispetto del principio di proporzionalità, la Corte ha esteso con prudenza il proprio sindacato, nel tenere conto che la scelta di considerare un atto conforme al principio di sussidiarietà appartiene a quella sfera di discrezionalità politica riservata alle istituzioni e in cui la Corte non deve ingerirsi. Dapprima, la violazione del principio di sussidiarietà fu invocata dalla parti come vizio della motivazione nella sentenza Germania c PE e Consiglio, 1997, la Germania contestava l’approvazione congiunta di una direttiva istitutiva di un sistema armonizzato di garanzia dei depositi bancari, facendo leva sulla violazione dell’obbligo di motivazione. La Corte respinge il motivo, sulla base del fatto che per comune valutazione delle due istituzioni si rendeva necessario assicurare un livello di armonizzazione minimo sul tema, per tutti gli Stati membri, per cui la loro azione veniva considerata migliore e quella statale non sufficiente. Successivamente, la Corte si è pronunciata rispetto alla violazione del principio in esame in quanto vizio autonomo rientrante in quello di violazione dei Trattati. L’art. 8, par. 1 del Protocollo n’ 2 conferma la giustiziabilità delle violazioni del principio in esame, stabilendo una forma di ricorso d’annullamento speciale, per cui la Corte è competente a pronunciarsi sul ricorso per violazione del principio di sussidiarietà proposto, ai sensi dell’art. 263, da uno Stato membro, o trasmessi da quest’ultimo in conformità con il rispettivo ordinamento giuridico interno a nome del suo Parlamento nazionale. Il par. 2 prevede inoltre un ricorso analogo da parte del Comitato delle regioni avverso quegli atti legislativi per i quali il TFUE richiede la sua consultazione. Ciò ha permesso alla Corte (in British Tobacco, 2002) di stabilire che la verifica del rispetto del principio di sussidiarietà va effettuata sotto i profili a) della migliore realizzabilità a livello comunitario degli obiettivi fissati e b) del non oltrepassamento, da parte dell’azione comunitaria, della misura necessaria per realizzare l’obiettivo cui tale azione è diretta (profili soddisfatti entrambi nel caso di specie). 4. Il principio di proporzionalità. 4.1. Art. 5, par. 4: In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati. Tanto nei settori di competenza esclusiva, quanto in quelli di competenza concorrente, l’intervento dell’Unione, una volta deciso, dev’essere limitato a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati. Il principio di proporzionalità vuole tutelare gli Stati membri da interventi dell’Unione di portata ingiustificabilmente ampia. Integra quindi un’esigenza comune insieme col principio di sussidiarietà. 4.2. La Corte limita il proprio sindacato sulla violazione di tale principio alle ipotesi di errore manifesto, sviamento di potere o manifesto travalicamento dei limiti della discrezionalità. 4.3. L’esigenza di rispettare il principio di proporzionalità comporta restrizioni per quanto concerne 1) il tipo di atto da adottare, ed 2) il suo contenuto. 1) va richiamato l’art. 296: qualora i Trattati non prevedano l’atto da adottare, le istituzioni decidono di volta in volta, nel rispetto delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità. 4.4. Da chiarire il rapporto fra 1) il principio di proporzionalità ex art. 5, par. 4, e 2) il principio generale omonimo. 2) affermatosi come forma di tutela dei singoli nei confronti delle rispettive autorità, quando queste agiscono in un settore rientrante nel campo d’applicazione dei Trattati. Il principio infatti esige che i sacrifici e le limitazioni di libertà imposti ai singoli non eccedano quanto necessario per il raggiungimento degli scopi pubblici da perseguire e in particolare a) siano idonei a raggiungere l’obiettivo perseguito e b) siano necessari a questo stesso fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui. 1) Riguarda invece il rapporto tra le competenze comunitarie e quelle degli Stati membri, ed è dunque una garanzia rispetto a questi ultimi. Essendo i criteri utilizzati gli stessi di quelli propri del principio generale, tale principio si può considerare una specifica applicazione di quello generale. 5. La competenza a concludere accordi internazionali 5.1. C.d competenza esterna dell’Unione. L’Unione può concludere accordi internazionali con altri soggetti di tale ordinamento, senza dover passare attraverso gli Stati membri. Tuttavia, la sua competenza esterna non ha portata illimitata essa soggiace al principio d’attribuzione. Inoltre, tale soggettività di diritto internazionale coesiste con quella degli Stati membri, che ha portata a frequenti controversie sulla portata della competenza esterna dell’Unione. In passato, mancava una norma che definisse la portata della competenza esterna dell’Unione, il Trattato di Lisbona ne inserisce due nel TFUE: - art. 216, par. 1, che definisce in termini generali in quali casi l’Unione è competente a concludere trattati internazionali; - l’art. 3, par. 2, che stabilisce i casi di competenza esclusiva dell’Unione. Questi articoli codificano l’orientamento della CdG, consolidatosi nell’esercizio della funzione consultiva in materia di accordi internazionali prevista ex art. 218, par. 11, TFUE. 5.2. Art. 216, par. 1, TFUE, casi in cui l’Unione è dotata di competenza esterna: a) casi in cui la conclusione di un accordo è prevista dai Trattati competenza esterna normativamente prevista (in maniera espressa dai Trattati), che inizialmente riguardava solo gli accordi in materia di politica commerciale comune e gli accordi di associazione, poi estesa; b) casi in cui la conclusione di un accordo è necessaria per la realizzazione di uno degli obiettivi fissati dai Trattati, nell’ambito delle politiche dell’Unione competenza parallela preventiva, utilizzata in casi eccezionali dove la competenza interna è attivata proprio in occasione della conclusione di un accordo internazionale. Perché sorga tale competenza è necessario dimostrare che la partecipazione dell’Unione all’accordo è indispensabile per la realizzazione degli obiettivi dell’Unione stessa, poiché tali obiettivi non si potrebbero conseguire in maniera autonoma; c) casi in cui la conclusione di un accordo è prevista da un atto giuridico vincolante dell’Unione specificazione di d, è una situazione in cui, l’Unione ha già esercitato la propria competenza interna e ha adottato un atto in cui si prevede che l’Unione concluda accordi internazionali con Stati terzi nella medesima materia oggetto dell’atto; d) casi in cui l’accordo da concludere possa incidere su norme comuni o alterarne la portata competenza parallela successiva, in cui la competenza parallela esterna viene esercitata dopo che l’Unione ha già adottato sul piano interno atti aventi ad oggetto la stessa materia dell’accordo, per cui è necessario che lo concluda l’Unione, perché diversamente potrebbero venirne minate le norme interne. b, c e d) sono quindi ipotesi di competenza esterna parallela, per cui la Corte aveva ammesso che l’Unione potesse concludere accordi internazionali anche nelle materie per le quali disponga del potere di adottare atti sul piano interno (c.d principio del parallelismo dei poteri interni ed esterni) 5.3. Stabilire se la competenza dell’Unione è esclusiva o concorrente, in maniera tale da determinare in quali casi non sia permesso agli Stati di concludere un accordo nel medesimo campo in alternativa all’Unione o in fianco ad essa (c.d accordi misti), è questione delicata. Il par. 1 dell’art. 3 è norma attributiva di competenza esterna di tipo esclusivo i settori che tale par. attribuisce alla competenza esclusiva dell’Unione lo sono sia sul piano interno che esterno. Il testo del par. 2 aggiunge altri casi di competenza esterna esclusiva, per cui, si può dire che la competenza esterna dell’Unione è esclusiva nei seguenti casi: a) accordi che riguardano settori rientranti nella competenza esclusiva dell’Unione sul piano interno (art. 3, par. 1) competenza esterna originariamente esclusiva, nelle materie in cui l’Unione ha competenza esclusiva sul piano interno, lo ha anche sul piano esterno, per cui l’Unione è l’unica a poter concludere accordi internazionali nel campo della politica commerciale comune, nonché nel campo delle risorse biologiche di mare, e la concreta estensione della competenza esterna di questo tipo è determinata dalle norme dei Trattati che la prevedono; b) accordi la cui conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione (art. 3, par. 2, prima parte); c) accordi la cui conclusione è necessaria per consentire all’Unione di esercitare le sue competenze a livello interno (art. 3, par. 2, seconda parte); d) accordi la cui conclusione può incidere su norme comuni o modificarne la portata (art. 3, par. 2, terza parte). I casi b) c) e d) sono tutti casi di competenza esterna esclusiva derivata. Si tratta di accordi aventi ad oggetto settori rientranti nelle competenze concorrenti o anche in quelle di sostegno, coordinamento e completamento. Teoricamente un accordo di questo tipo potrebbe essere concluso dalla sola Unione, in via mista, solo dagli Stati membri, per cui la scelta è dettata da considerazioni di ordine politico, più che giuridico, e dalla volontà degli Stati membri di non cedere il passo all’Unione sul piano dei rapporti con gli Stati terzi. Nel corso del tempo si possono produrre le condizioni per cui la competenza venga accentrata sull’Unione. Nei casi b e d) quest’effetto di accentramento dipende dall’avvenuto esercizio della competenza interna dell’Unione, nel caso d) l’esercizio della competenza interna si è tradotto nell’adozione di norme comuni dell’Unione sulle quali l’accordo inciderebbe o la cui portata sarebbe modificata, per cui è giustificato l’intervento dell’Unione. In b) è l’atto legislativo a prevedere che l’accordo in questione sia concluso dall’Unione, per cui non sarebbe rispettato, diversamente. Nel caso c) la competenza esterna non dipende dall’esercizio della competenza interna, ma che senza la conclusione dell’accordo in questione, quella esterna non potrebbe più esserla nemmeno in futuro.
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