Scarica L' Italia degli anni Settanta Balestra-Papa e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! L’ITALIA DEGLI ANNI SETTANTA. NARRAZIONI E INTERPRETAZIONI A CONFRONTO L’Italia nella trasformazione globale. Appunti per una lettura non eccezionalista della crisi (Francesco Petrini) A partire dall’inizio del nuovo millennio, l’attenzione della storiografia sugli anni Settanta in Italia ha proposto una lettura meno sbrigativa di quella fino ad allora dominante che vedeva nell’Italia un paese allo sbando, oggetto di strategie altrui. Al contrario è emerso un paese che ha rivestito una inedita centralità nella competizione bipolare, frutto della fragilità dei suoi equilibri interni. L’instabilità politica e sociale del paese sembravano configurare non tanto il rischio di una sua fuoriuscita dal blocco atlantico, quanto quello di una sua permanenza in esso come fattore destabilizzante. A ciò si spose durante le amministrazioni Nixon con una strategia volta ad accantonare il sostegno alle istanze riformatrici come metodo di contenimento del consenso comunista, a vantaggio di strategie di supporto delle forze conservatrici quando non esplicitamente reazionarie. Gli sforzi statunitensi erano però destinati al fallimento, da qui la decisione di passare ad una politica di coinvolgimento degli altri alleati europei. Ciò comportava una minore ingerenza esterna negli equilibri politici della penisola e uno spostamento di accento sulle questioni economiche, senza attenuare la pregiudiziale anticomunista, che, anzi, divenne più stringente. In definitiva, se l’Italia divenne un paese sempre più a sovranità limitata, ciò fu più per l’infittirsi e il mutare delle reti di interdipendenza economica che per le dinamiche della Guerra Fredda. Vi è qui un tema vitale, in cui rintracciare le origini di quello che oramai non si esita a definire il “declino” italiano. A questo riguardo, un ambito di riflessione storica che ha conosciuto uno consistente sviluppo riguarda l’azione di Aldo Moro come ministro degli Esteri, carica ricoperta ininterrottamente tra il 1969 e il 1972 e poi tra il 1973 e il 1974. Da questi studi è emerso il contrastato rapporto con le amministrazioni statunitensi; l’impegno per la distensione in Europa, tanto da far parlare di una sorta di “Ostpolitik italiana”; una politica di attenzione verso il Sud del mondo. Dal quadro delineato emerge un filone piuttosto ricco ed articolato. Molte ricerche oscillano tra due poli che potremmo definire “primato della politica internazionale”, secondo cui l’Italia fu terreno di gioco della rivalità della Guerra Fredda, e “primato della politica interna”, solitamente esplicitato in un generico riferimento alla “crisi” interna, ritenuta sufficiente a spiegare le vicissitudini dell’azione internazionale del Paese. Non vi è dubbio che per comprendere la collocazione dell’Italia sullo scenario internazionale occorra un’analisi più problematica che cerchi di sforzarsi di capire che tipo di crisi l’Italia abbia attraversato e se e in quale misura essa l’abbia differenziata dagli altri grandi paesi dell’area del capitalismo avanzato. La crisi degli anni Settanta rappresenta l’incepparsi un intero modello di sviluppo, quello affermatosi all’indomani della Seconda guerra mondiale, fondato sulla conciliazione tra il perseguimento di politiche di piena occupazione a livello nazionale e un sistema non discriminatorio di scambi internazionale. Da questo punto di vista, la crisi è la risultante dell’alterazione di tre vettori: crisi economica, crisi sociale e crisi egemonica. Dal punto di vista economico, la crisi si esprime nella compressione dei tassi di profitto, frutto di quella che nel gergo marxiano prende il nome di “crisi di sovraccumulazione”, cioè di una condizione di saturazione dei mercati frutto dello stesso successo dei processi di sviluppo degli anni del “boom economico”. Dal punto di vista sociale perché il conflitto sociale rappresenta più che una conseguenza dei processi di ristrutturazione messi in moto dalla crisi, quanto una delle cause scatenanti della crisi stessa: la flessione generalizzata dei tassi di profitto fu il frutto anche delle conquiste, di diritti e salariali, da parte dei lavoratori a partire dalla fine degli anni Settanta. Infine, gli anni Settanta sono il periodo della crisi egemonica statunitense, evidenziata dalla difficoltà nel sostenere la competizione delle altre economie capitalistiche e dalla scarsa capacità di risposta del modello occidentale alle aspettative di sviluppo autonomo del Terzo Mondo. Lo sganciamento del dollaro da Bretton Woods va visto proprio sotto questa luce, come un tentativo di liberarsi le mani su entrambi i fronti. Con la crisi di Bretton Woods, tutto un sistema di interdipendenze, cui l’Italia era riuscita a inserirsi con un certo successo, era gravemente indebolito. Dal punto di vista economico, la fine di Bretton Woods significava per l’Italia la sospensione di quell’ancoraggio che le aveva consentito di mantenersi nella comunità dei paesi capitalisti. Le vicende delle relazioni tra Italia e Occidente in questi anni andrebbe interpretata non solo alla luce delle categorie della Guerra Fredda, ma anche sullo sfondo del “conflitto economico mondiale” scatenato dalla crisi sovraccumulazione e delle preoccupazioni per la possibile ascesa al potere di una sinistra pur sempre marxista in uno dei maggiori Paesi del blocco. L’azione di Moro può essere inquadrata in queste coordinate: la ricerca di un aggancio internazionale al processo di stabilizzazione interno, centrato sulla cooptazione delle forze di opposizione. Questo spiega la centralità del nesso nazionale-internazionale nella concezione dello statista pugliese. Tra Stato e mercato: l’economia italiana nei turbolenti anni Settanta (Manfredi Alberti) Nel corso degli anni Settanta l’Italia, insieme alla gran parte dei paesi occidentali, affrontò quella transizione descritta come esaurimento della golden age e del fordismo, ovvero come crisi di quell’assetto politico-economico, sorto nei primi anni postbellici, che aveva visto nei paesi occidentali l’affermazione della grande industria di massa, programmazione economica, crescita sostenuta del reddito e dei consumi e miglioramento delle condizioni di vita della classa lavoratrice. A livello globale i due grandi fattori destabilizzanti furono la crisi del sistema di Bretton Woods, apertasi nel 1971, e i rapidi aumenti dei prezzi del carburante, concentratisi in particolare negli shock petroliferi del 1973 e del 1979. La crisi del sistema di Bretton Woods, che prevedano la centralità del dollaro, la stabilità dei cambi tra le monete e la regolamentazione dei movimenti di capitale e si reggevano sull’indiscussa preponderanza economica statunitense, fu determinata dal manifestarsi di crescenti deficit della bilancia dei pagamenti statunitense, sia dall’affermazione di nuove potenze economiche, come Germania e Giappone, determinando una fase di maggiore rivalità tra i paesi capitalistici. Il secondo elementi destabilizzante, il primo shock petrolifero del 1973, comportò la quadruplicazione del prezzo del petrolio e una forte impennata inflazionistica, determinando in pochi anni la prima seria recessione in Occidente dopo quella degli anni Trenta. Negli anni Partiti, Stato e riforme (Paolo Soddu) Lo shock petrolifero conseguente la guerra del Kippur rivelava la fragilità del miracolo europeo. L’Italia ci giungeva con alcune fragilità di lungo periodo. Se da una parte si consolidavano le istituzioni repubblicane con l’attuazione di istituti rimasti fino ad allora solo su carta e si concludeva la stretta dipendenza delle istituzioni dai partiti, dall’altro il sistema dei partiti arrancava sempre di più. Si prospettavano due strade. La prima strada presupponeva l’approdo a un modello evolutivo che coinvolgeva costituzione, istituzioni e partiti. Pa seconda chiedeva un mutamento costituzionale, con il superamento del modello di democrazia parlamentare consensuale, emerso con la Seconda guerra mondiale in favore dell’elezione del Presidente della Repubblica. Entrambe le ipotesi si prefiggevano il superamento della “democrazia dissociativa” affermatasi con le elezioni del 1948. Questa consisteva nel fatto che maggioranza e opposizione avevano vissuto sé stesse come alternative di sistema. Che la “democrazia dissociativa” fosse in via di esaurimento era manifestato dalle reazioni che provocò, a cominciare dai partiti armati, attivi nelle frange più radicali della destra e della sinistra. Essi esprimevano la volontà di contrastare le trasformazioni che si manifestavano sul piano globale innanzitutto nei sistemi produttivi, nell’organizzazione delle imprese e in quella politica della società. La “democrazia dissociativa” presupponeva l’ordine statico internazionale e interno e si avvaleva di una concezioni più largamente condivisa di quanto si pensi e i rafforzamento del consenso e degli interessi particolari che si tutelavano. La via consensuale si proponeva di essere l’opposto. Con il riconoscimento della via consensuale l’Italia si apprestava a ripercorrere la via intrapresa dalla Repubblica Federale nel 1966 con la Grande coalizione. In Italia il Pci era il principale soggetto costituente. Nel 1973 il segretario del Partito, Enrico Berlinguer, sosteneva la necessità di giungere a un compromesso storico, ossia a un accordo di lungo periodo fra le forze comuniste, socialiste e cattoliche, come univa via per scongiurare di soluzioni autoritarie e per allargare le basi dell’azione riformatrice. Il carattere moderato e rassicurante della proposta di Berlinguer fecero del Pci, in questa fase, il naturale punto di convergenza delle numerose ed eterogenee istanze di trasformazione che si agitavano nella società italiana. Lo si vide in occasione delle elezioni regionali e locali del giugno 1975 e poi nelle politiche del 1976, dove il Pci toccò il suo massimo storico (34,4%), avvicinandosi alle percentuali della Dc, mentre il Psi restò sotto il 10%. La sconfitta portò alla crisi del vecchio gruppo dirigente e all’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi, leader della corrente autonomista. L’esito delle elezioni del giugno ’76 lasciava aperto il problema di una nuova formula di governo. Visto che i socialisti non erano disponibili a una riedizione del centro-sinistra, l’unica soluzione praticabile stava in un coinvolgimento del Pci nella maggioranza. Si giunse così, in agosto, alla costituzione di un governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti, che ottenne l’astensione in Parlamento di tutti gli altri partiti, esclusi il Msi e i radicali. Cominciava così la breve stagione dei governi di solidarietà nazionale, basati cioè su maggioranze allargate anche al Pci: una risposta unitaria della classe politica a una situazione resa sempre più preoccupante dalla crisi economica e soprattutto dal dilatarsi del fenomeno terrorista, ora anche di sinistra. La solidarietà nazionale era contrastata esplicitamente dai radicali, dalla nuova sinistra, da settori conservatori o irriducibilmente anticomunisti. A mostrare l’indubitabile fragilità di quel tentativo basti tener conto che per affossarla furono sufficienti il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, presidente della Dc e principale artefice della nuova politica di “solidarietà nazionale”. Pochi mesi dopo l’accaduto, il Pci uscì dalla maggioranza che sosteneva Andreotti. Finì la “solidarietà nazionale” e si aprì una nuova stagione che teneva insieme tutte le forze dell’area della legittimità. Eppure, per il sistema politico nel suo complesso gli anni Settanta furono di non ritorno, specie nella Presidenza della Repubblica. L’elezione di Sandro Pertiti nel 1978, infatti, non segnò la vittoria di un partito o di uno schieramento. Completò, nello spaventoso indebolimento politico dei partiti, l’automatizzazione della massima istituzione, quale indiscutibile rappresentanza dell’interesse generale. Inoltre, con il 1976 raggiunse il culmine della partecipazione elettorale degli italiani e la solidarietà nazionale rappresentò la fase culminante di un ciclo riformatore più disteso, che raggiunse l’apice con il referendum sul divorzio e la legge sull’aborto. Violenza politica e terrorismo tra storia e storiografia (Monica Galfré) Il contesto nel quale affonda le radici il fenomeno del terrorismo di destra e di sinistra è quello dei conflitti di varia natura innescati dalla contestazione studentesca e da quella operaia, rispettivamente 1968 e 1969. Una particolarità tutta italiana è la “strategia della tensione”, di cui fanno parte non solo le stragi neofasciste, ma anche un insieme di attentati di altra natura. Il terrorismo nero italiano è senza dubbio legato, oltre che al passato fascista del paese, anche al clima della Guerra Fredda: si sviluppa nel Paese sede del più forte partito comunista di Occidente e si muove all’interno di una intricata trama, tra mondo militare, servizi segreti, interessi internazionali e responsabilità dello Stato; colpisce nel muccio, non rivendica i suoi attentati, a differenza di quello di sinistra. Dalla bomba in Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 alle stragi di Piazza della Loggia e del treno Italicus nel 1974, la prima fase della “strategia della tensione” appare una reazione al cosiddetto biennio rosso, cioè al ’68 studentesco e al ’69 operaio. Se il terrorismo di destra è dentro lo Stato, contro lo Stato è senza dubbio quello di sinistra. Da una parte la fine dell’età dell’oro dell’economia occidentale, il tramonto del presidente degli Usa Richard Nixon con lo scandalo Watergate e il crollo delle dittature fasciste in Portogallo, Grecia e Spagna; dall’altra la crisi dell’egemonia democristiana emersa con il referendum sul divorzio, la crescita elettorale del Pci e l’ipotesi del compromesso storico. È in questo contesto prende corpo l’attacco al cuore dello Stato delle Brigate Rosse, attive dal 1969 al 1970. Bisogna tenere conto di cosa abbia significato il ritorno della morte e della violenza politica nella società del benessere, che le aveva progressivamente e apparentemente bandite dopo la Seconda guerra mondiale. Alle origini del crescente senso di insicurezza che allora si diffonde c’è anche l’oscura percezione di un pericolo prossimo e dissimulato nelle pieghe della società, che ha in qualche modo a che fare con i nodi rimasti insoluti della storia nazionale. I terroristi sia di destra sia di sinistra sono figure incomparabili, ma sia gli uni che gli altri sono molti ragazzi normali, persino di buona famiglia, come Marco Donato Cattin, figlio di Carlo, vicesegretario della Dc e più volte ministro, che sembra riassumere il terrorismo in una resa dei conti tra padri e figli. La storiografia ha nel complesso rifiutato l’identificazione degli anni Settanta con la sola violenza politica e il terrorismo. L’unica eccezione a questa sordità è il caso Moro, che con il tempo ha assunto il significato periodizzante di fine della Prima Repubblica. Considerati fenomeni residuali di un’età di tramonto, la violenza politica ed eversiva degli anni Settanta è stata così spinta in una terra di nessuno, che le ha sottratto rilevanza anche sul piano storico. Si tratterebbe invece di seguire altre strade: innanzitutto porre la questione del cotesto – e quindi anche del consenso – in cui si collocano i terrorismi, e a questo proposito non è forse inutile ricordare che le stesse fonti ufficiali parlano di 10000 inquisiti per l’eversione di sinistra; e quindi interrogarsi sigli effetti, che vanno al di là della forza reale delle organizzazioni. Già alla fine degli anni Settanta si sviluppò un dibattito molto articolato che vide protagonisti in modo particolari i sociologi e i politologi, con la conseguenza di imprimere alla riflessione delle caratteristiche che ritardano il passaggio a un approccio compiutamente storico. Innanzitutto è subito privilegiata la dimensione internazionale del terrorismo, con la conseguente ricerca di modelli univoci e categorie generali, quella di terrorismo per prima, mettendo in secondo piano il rapporto con le altre forme di violenza politica e il rapporto con la storia nazionale. In questo caso si sconta evidentemente una difficoltà più generale a fare i conti con la violenza politica, che gioca un ruolo anche a sinistra oltre che a destra. Non a caso gli storici, soprattutto quelli della generazione del ’68, individuano in quegli anni un tornante decisivo della modernizzazione civile e culturale del paese, con l’effetto, però, di dividere il decennio in due metà, una buona e una cattiva, da una parte il’68, la stagione dei movimenti e la reazione allo stragismo neofascista, dall’altra il terrorismo di sinistra. In un contesto come quello delineato i gruppi armati e la violenza politica di sinistra si rivelano delle presenze scomode o marginali, e la tendenza è quella di insistere sulla natura difensiva della violenza di sinistra contro la violenza fascista. Nella prima metà degli anni Ottanta, quando si comincia a parlare di fine dell’emergenza, gli studi compiono un passo avanti. Escono in questi anni i frutti dell’ampia ricerca promossa dall’Istituto Carlo Cattaneo di Bologna che, basandosi su un gran numero di interviste agli ex militanti, ne valorizza la dimensione esistenziale e lega la scelta armata alla radicalizzazione dei movimenti sociali. Sull’approccio a questi temi incide anche la fine del secolo breve. Innanzitutto la caduta del bipolarismo e la nascita della storia globale provincializzano l’Europa, rafforzando la necessità di inserire anche la parabola eversiva in una dimensione più ampia. In un primo tempo, tra i fattori che incidono sullo sviluppo della violenza politica e dei terrorismi, è richiamato il clima della Guerra Fredda, nel suo stretto intreccio di fattori nazionali e internazionali, come la caduta dell’amministrazione Nixon con lo scandalo Watergate del 1974, un importante turning point, a partire dal quale il contesto internazionale torna a irrigidirsi nuovamente. Il trauma dell’11 settembre 2001 ha impresso un impulso decisivo e inaugurato una sorta di golden age dei terrorism studies, che ha privilegiato un approccio comparativo dilatato nel tempo e nello spazio, con il rischio di generalizzare, invece di andare in profondità, senza contare le forzature e persino gli equivoci. Ciononostante l’ultimo decennio ha registrato un progresso altrettanto innegabile sul piano della ricerca, che è riuscita ad avvicinare la storia dell’eversione alla storia del paese, come parte integrante e non separata. Si pensi all’interesse per il rapporto tra violenza politica e cattolicesimo e per il ruolo che svolge la Chiesa negli anni dell’emergenza; all’impatto politico e sociale del caso Moro; mentre ci si è poco interrogati sulla posizione che assume il salario e l’orario di lavoro, ma anche le condizioni di lavoro e la possibilità di incidere su di esse modificando l’organizzazione produttiva. Da una parte le insoddisfazioni di chi aveva fatto il boom economico, di chi aveva costruito il benessere nazionale usufruendo nessuno in parte, si canalizzarono nel denunciare le forme di gerarchizzazione e differenziazione nel lavoro. Dall'altra, il cottimo venne contestato e rifiutato, portandosi dietro la messa in discussione dei ritmi dei tempi di lavoro ma anche nei termini di strutture organizzative e produttive. La crisi di autorità e di gerarchia in fabbrica non puntò solo a contestare e condizionare l’arbitrio del comando aziendale ma le forme e le modalità con cui era esercitato nella dimensione organizzativa e nella conseguente struttura sociale del lavoro. Questa capacità sindacale di raccogliere e poi amplificare, generalizzandoli, i bisogni, le rivendicazioni delle vertenze operaie sindacali è ben sintetizzato dalla conquista nei contratti nazionali del 1973-1974 della parità normativa operai-impiegati con l’inquadramento unico e dell’istituto per il diritto allo studio retribuito, comunemente no come 150 ore. Alla metà degli anni Settanta la crisi economica iniziò a condizionare pesantemente le strategie del sindacato che, come conseguenza delle tensioni sociali accresciute dall’emergenza del terrissimo, si indirizzò in senso moderato verso obiettivi legati alle politiche economiche e sociali, già sperimentate negli anni precedenti: investimenti nel Mezzogiorno, lotta alla disoccupazione, servizi a sostegno del lavoro femminile e della famiglia, la parità salariale fra uomini e donne dal 1977, il sistema sanitario nazionale a carattere universalistico e gratuito nel 1978, ecc. Nel 1992 Aris Accornero descrisse il periodo che va dalla fine degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta come un vera e propria “parabola” italiana. In quel decennio l’egemonia dell’operaismo si coagulò in maniera capillare e diffusa a livello nazionale strutturandosi attorno a tre modelli culturali di riferimento: il modello rivendicativo (gli aumenti salariali uguali per tutti, le 150, la prevenzione ambientale); il modello sociale (costruito a partire dalla figura “proletaria” dell’operaio comune, l’operaio senza qualità, da cui far scaturire la centralità del sindacalismo industriale); il modello della rappresentanza (la dinamica associazione/classe tipica del sindacato dei consigli). La famosa “marcia dei quarantamila” quadri e impiegati Fiat del 1980 ha smontato questa costruzione, mettendone in luce la fragilità e sanzionando la dimensione di sconfitta sindacale, morale e culturale ancor prima che politica. Lo scontro era già esploso nel 1979 a partire dai licenziamenti giustificati dal clima di violenze e intimidazioni diffuso in fabbrica di cui erano protagonisti anche delegati sindacali. L’esito negativo di quelle vicende segnarono una progressiva riduzione del ruolo del sindacato, non solo come presenza in fabbrica, ma anche come soggetto politico. Giovani anni Settanta: attori, modelli, movimenti (Catia Papa) Per oltre un secolo il soggetto “giovane” del discorso pubblico occidentale aveva avuto precisi connotati di sesso e di classe perché modellato sulla figura del cittadino in formazione, del maschio di origine borghese impegnato in un processo di educazione all’esercizio delle responsabilità politiche e pubbliche. La divaricazioni dei destini di vita tra ragazzi e ragazze si compiva già alle soglie dell’adolescenza, che nell’Italia del miracolo economico non aveva ancora lineamenti unitari: l’esperienza dell’immigrazione verso le città del Nord metteva in luce abitudini e culture tutt’altro che omogenee. La maggiore età sopraggiungeva a 21 anni, riflettendo però ulteriori differenze. La visita di leva costituiva il più tradizionale dei riti di passaggio maschili, ma i liceali, in larga parte figli dei ceti medio-alti, potevano permettersi di continuare gli studi e rimandava il servizio militare. Gli anni del miracolo economico avrebbero posto le basi di profondi mutamenti nell’esperienza della giovinezza, maggiormente omologata riguardo agli stili e ai progetti di vita. La richiesta di maggiore qualificazione professionale e la crescita della domanda di mobilità sociale, avevano infatti dilagato la scolarità secondaria, e più in generale la quota di popolazione giovanile impegnata negli studi e che decideva di immatricolarsi. Tra la schiera di nuovi immatricolati negli anni Settanta figuravano le donne. Nel dicembre nel 1969 l’accesso all’università venne definitivamente liberalizzato rispondendo alla domanda di una massa crescente di diplomati che sceglieva di investire sulla propria formazione piuttosto che riversarsi su un mondo del lavoro poco qualificato e già meno dinamico. Questo provvedimenti contribuiva a “proletarizzare” il corpo studentesco: l’abbigliamento giovanile prevedeva oramai indistintamente maglione, camicie, blue jeans. I cambiamenti nella rappresentazione dei ruoli maschili e femminili, nelle relazioni affettive tra i sessi aveva contraddistinto gli anni Settanta sino ad assediare il fortino conservatore della famiglia e nel 1970 il parlamento approvò la legge sul divorzio che milioni di italiani sottoscrissero con il referendum del 1974. Segno che la società italiana stava mutando nei suoi connotati più maschilisti e conservatori per indirizzarsi verso i valori delle società industriali avanzate. Inoltre, sui giovani maschi potevano allora appuntarsi le speranze del nuovo movimento femminista, esposto peraltro a qualche prevedibile delusione. La declinazione generazionale del ’68 rischiava infatti di oscurare la differente collocazione dei sessi, dissolta in un’identità collettiva che si prestava a mascherare la tradizionale narrazione maschile del conflitto politico. La figura della “rivolta generazionale” aveva infatti un connotato di genere, evocando sottotraccia il conflitto di autorità padre-figlio che aveva tenuto a battesimo la modernità politica. Da allora il paradigma generazionale sarebbe entrato a pieno titolo tra i modelli interpretativi dei processi storici e sociali, a indicare un naturale antagonismo giovanile rispetto ai padri, in una paradossale convergenza con le narrative della cultura di massa, portate a valorizzare e commercializzare le presunte qualità giovanili a beneficio però di una fascia di consumatori sempre più ampia. Gli anni Settanta furono caratterizzati in Italia da un’ampia mobilitazione politica che interessò le giovani generazioni e che conobbe un nuovo apice nel’77. Questa radicalizzazione politica è stata ricondotto ai ritardi della modernizzazione italiana, nella misura in cui le speranze di scenari di emancipazione personale e tecnologica innescati dalla straordinaria crescita economica furono disattese con la conseguenza che le parole d’ordine dell’autoformazione, della ricomposizione del lavoro manuale e intellettuale e dell’esperienza soggettiva si tradussero in pratiche di movimento anche fuori i centri universitari, disseminando le città di nuovi spazi di partecipazione e conflitto sui temi della casa, della salute e degli ambienti di vita. Le pratiche di autogestione e riappropriazione caratterizzavano anche il movimento femminista, da parte sua portato a rigettare l’identificazione tra conflitto sociale e lotta di classe. Nel nome della lotta contro un sistema formativo repressivo e selettivo gli studenti secondari di molte città italiane erano entrati in agitazione già nel ’68, ottenendo anche in questo caso una qualche risposta dal legislatore: si ebbero infatti la riforma dell’esame di maturità e la circola del ministero della Pubblica istruzione che ammetteva le assemblee studentesche di istituto nel corso dell’orario scolastico. Frattanto la vita della scuola veniva punteggiata da occupazioni e autogestioni, da assemblee, scioperi e cortei, un repertorio di azioni che aveva la duplice valenza di ritualizzare l’appartenenza al soggetto studentesco inscenato dal ’68 e di premere sul governo per ottenere riforme in merito ai programmi e agli sbocchi occupazionali. Nel 1975 giovani studenti avevano inaugurato l’esperienza dei Circoli del proletariato giovanile, una sorta di anticipazione del movimento del ’77. Il fenomeno era iniziato con l’occupazione di alcuni stabili a Milano, poi a Torino, Bologna Firenze e Roma. Le occupazione derivavano dal desiderio di riappropriarsi direttamente dei tempi e degli spazi della vita: feste, concerti, esperienze sessuali, consumo di droghe leggere, ecc. L’anno dopo i circoli si erano dati appuntamento all’Università statale di Milano per il loro primo incontro nazionale. Negli stessi anni ad animare il movimento erano state anche le studentesse, che al pari dei loro coetanei maschi alternavano registi differenti, lottando sia per il diritto al lavoro e per l’abolizione delle scuole femminili, sia per l’autogestione dell’educazione sessuale nelle scuole e dei consultori femminili in alternativa a quelli pubblici, istituiti nel 1975 per garantire un’ assistenza familiare e alla maternità che sembrava tradursi in un rinnovato controllo istituzionale del corpo delle donne. Le iniziative di riforma del ministro dell’istruzione Franco Maria Malfatti, che in dicembre emanò una circolare di riordino dei piani di studio nel quadro di un progetto complessivo che tra l’altro prevedeva l’introduzione di due livelli di laurea e l’aumento delle tasse universitarie, fecero scoppiare le contestazioni: gli studenti nell’inverno del 1977 presero a occupare le Università, mentre le strade cittadini si riempivano di manifestazioni contro la riforma che presto si tradusse in una più vasta contestazione dell’ordine esistente. La memoria del ’77 è stata colonizzata di immagini: le manifestazioni femministe per la depenalizzazione dell’aborto; gli scontri alla Sapienza in occasione del comizio del leader della Cgil Luciano Lama. Nel corso degli anni Settanta l’attivismo militante era espressione solo di una parte di un più composito universo giovanile che praticava la propria alterità in gruppi nati a scuola o nelle palestre, anche se puntellate dal mondo dell’industria della moda e dei mass media: stampa, radio, cinema, musica, con il largo consumo della musica d’autore: da Francesco de Gregori a Fabrizio de André. Fare storia del neofemminismo italiano: origini, ipotesi, risultati e prospettive (Paola Stelliferi) Al centro della riflessione sul neofemminismo italiano c’è un fenomeno sociale che si è sviluppato sulla base di contraddizioni continue; un movimento collettivo diversificato al suo interno con evidenti peculiarità nazionali, in bilico tra pratica politica, produzione culturale e riflessione teorica: un oggetto della ricerca storica, dunque, complesso e difficile da esplorare, sfuggente persino ai tentativi di periodizzazioni. politicizzazione di nuovi modelli di abbigliamento e consumi, un’ idea del corpo della donna più simile a quello dell’uomo. Sul piano politico l’esperienza delle rivolte studentesche rappresentò, invece, lo stimolo per una inedita ondata di attivismo che attraverso una rete di relazioni informali e intellettuali, tra gruppi neofemministi e movimenti omosessuali di liberazione, contribuì a porre al centro dell’agenda politica nazionale questioni come la struttura della famiglia, i rapporti tra i sessi e il diritto alla libertà sessuale, rimaste sospese fin dal dopoguerra. Così il 1° dicembre 1970 il parlamentò approvò la legge per l’introduzione del divorzio, sanzionata dal referendum del 1974; nel 971 un’altra sentenza della Corte costituzionale poneva su un piano di legalità la diffusione delle pratiche contraccettive; e nel 1978 il Parlamento approvava la legge sull’aborto. Parlamento il decennio in esame vide la nascita del Fuori!, il primo nucleo di movimento per i diritti omosessuali, ispirato al movimento coming out americano e al fronte di liberazione omosessuale francese. A partire dalla seconda metà del decennio anche la componente minoritaria delle donne omosessuali avrebbe cominciato a esprimersi in modo autonomo, tramite pubblicazioni, manifestazioni separate e gruppi di autocoscienza lesbica femminista. Nei primi anni Settanta il sesso era diventato tema di dibattito corrente al cinema, nella letteratura e sulla stampa di vario genere e si era trasformato in modo massivo in veicolo di messaggi pubblicitari e commerciali attraverso immagini e linguaggi più o meno espliciti e allusivi. Sessualità, corpi e nude look iniziavano ad attirare l’attenzione anche nei luoghi canonici del divertimento, come il teatro e la tv: nel 1971 a Canzonissima Raffaella Carrà esibiva l’ombelico nel ballo Tuca Tuca. Parallelamente si affermava un nuovo modello di donna, libera per scelta, che alla ricerca del successo professionale abbinava una sessualità libera da vincoli biologici e legali. Alla fine del decennio il pop italiano veniva rappresentato da nuove star che, come Anna Oxa, Renato Zero, facevano dell’ambiguità sessuale una virtù da sfruttare per la propria popolarità. Rispetto al decennio precedente il comune senso del pudore era ulteriormente cambiato: dalla polarizzazione del sesso veicolata da riviste e consumi si era passati alla spettacolarizzazione e allo sfruttamento commerciale promosso da nuovi media che così ne legittimavano la volgarizzazione proiettata verso nuove identità e culture sessuali. Oggetto di interesse dei media e dei consumi era di riflesso anche la sessualità maschile. Un processo di svirilizzazione era portato avanti dalle pubblicità: l’uomo e il suo corpo venivano messi a nudo, ridicolizzati, divenendo oggetto del desiderio sessuale femminile e maschile. Un ultima considerazione merita la questione dell’educazione sessuale che rivelava l’esistenza di un gap generazionale in fatto di educazione e comportamenti sessuali. L’educazione sessuale ha prodotto degli effetti anche sulla nascita del porno di massa, che anche in Italia, dalla fine degli anni Settanta, passava dal consumo clandestino del porno su carta stampata, alla diffusione di materiale cinematografico. Questo fenomeno era l’effetto della “rivoluzione sessuale” e mediatica degli anni Settanta che aveva portato alla volgarizzazione dei progetti di educazione sessuali promossi nel decennio. Crisi e trasformazione della società dei consumi negli anni Settanta (Paola Capuzzo) Con gli anni Settanta si interrompe una lunga fase di straordinaria crescita dei consumi, tuttavia ciò non si tradusse in una vera e propria diminuzione, ma in un’alternanza di ristagno e debole crescita che si protrasse fino alla metà degli anni Ottanta, quando i consumi ricominciarono a crescere in modo marcato. Le voci di spesa restituiscono un quadro vivace degli anni Settanta: la diminuzione dei prezzi relativi di molti beni grazie alla definitiva industrializzazione di alcuni settori, come quello alimentare, consentirono di investire una cospicua parte dei redditi familiari in altri consumi, come quello automobilistico – ora non era inusuale che in un solo nucleo familiare ci fosse più di un’automobile. La massiccia diffusione delle automobili consentiva una dispersione degli insediamenti abitativi che approfittava di costi del suolo notevolmente inferiori a quelli urbani, oltre che a controlli molto blandi del rispetto dei regolamenti edilizi. La spesa per l’abbigliamento non ebbe significative variazioni, tuttavia vi furono mutamenti molto importanti nelle abitudini vestimentarie e nelle norme sociali che regolavano la prestazione del sé in pubblico. L’abbigliamento casual e informale si diffuse un po' in tutti gli ambienti sociali e un capo come i jeans divenne un pantalone di uso quotidiano e finanche oggetto di competizione tra le griffe a fine decennio. Nonostante questo quadro di innovazione nella dimensione materiale e simbolica del consumo, la narrazione politica del decennio ruotava intorno all’immagine dell’austerità e della crisi. Lo shock petrolifero del 1973 sembrava dare ragione a coloro che reputavano che il modello di sviluppo fondato sull’individualismo consumista fosse entrato definitivamente in crisi e che si rendesse necessaria la fissazione di un quadro condiviso di “bisogni collettivi” da anteporre ai consumi privati. Le misure di austerirty varate nel dicembre del ’73 segnarono una frattura nell’immaginario consumista: le domenica senza auto, la chiusura anticipata delle trasmissioni televisive e dei cinema sembravano far calare il sipario su una stagione di dissennata febbre consumistica. A interpretare nel modo più compito questo approccio fu il leader del Pci, Enrico Berlinguer, il quale guardò alla crisi come a un’opportunità per ridefinire il modello di sviluppo e di consumi in direzione socialista. Sulle matrici culturali della riflessione di Berlinguer sui consumi, le interpretazioni degli storici sono divisi. Flores e Gallerano hanno individuato un forte nesso ideologico tra l’austerità e il compromesso storico, nel quale confluivano elementi dell’etica cattolica della parsimonia e di quella consumista. Barbagallo ha invece criticato la visione di un Berlinguer moralista e antimoderno, e ricondotto le sue posizioni a una matrice azionista. La tesi di Berlinguer sull’austerità muovevano da una ampia analisi che riportava la crisi degli anni Settanta al contesto internazionale determinato dal processo di decolonizzazione: i paesi del Terzo Mondo non erano più disposti ad accettare quelle condizioni di sfruttamento che avevano caratterizzato la loro storia coloniale. L’austerità rimanda così alla ricerca di un modello di sviluppo alternativo a quello basato sullo sfruttamento dei paesi del Terzo Mondo, tuttavia rimaneva piuttosto oscuro Berlinguer su ciò che volesse intendere con questo termine: vi era un qualche riferimento ai tagli degli sprechi della spesa pubblica, alla necessità di limitare le tendenze individualistiche a vantaggio dell’utilità collettiva; mentre rimandavano assenti riferimenti all’impatto ambientale dei consumi. Fu in opposizione al tema dell’austerità avanzato da Berlinguer che Craxi ebbe modo di elaborare una nuova prospettiva della sinistra italiana che valorizzava la dimensione del consumo in un quadro ideologico che recuperava la dimensione libertaria del socialismo. La società dei consumi era uno dei principali obiettivi della contestazione giovanile di quegli anni che vedeva nel consumatore una figura alienata, incapace di riconoscere i propri desideri perché sedotto dalle immagini create dalle strategie di marketing che allontanava dagli autentici valori della vita. Questa radicale opposizione ebbe un ruolo fondamentale nel riconfigurare la sfera dei consumi. Se pensiamo alla subcultura hippy, possiamo vedere come persino per essa la connessione con la sfera commerciale fosse importante, sebbene declinata in un modo molto specifico. La subcultura hippy coinvolse fasce giovanili sempre più ampie raggiungendo l’apice a cavallo del 1970: il mezzo milione di giovani convenuti a Woodstock nel 1969 ne rappresenta tutt’oggi il simbolo. Le comunità hippy professavano l’aspirazione per una società governata dai messaggi di amore, pace e libertà, sperimentando pratiche di vita che esploravano nuove configurazioni della cultura materiale. Gli abiti colorati, la musica, le droghe psichedeliche, la passione per il viaggio e l’amore per la natura, un regime alimentare vegetariano erano alcuni degli ingredienti di uno stile di vita che cercava di ridurre al minimo la necessità di denaro e l’accesso al mercato. Tutto ciò che concretizzò in esperimenti sociali come quelli delle comuni rurali che si moltiplicarono negli Stati Uniti di fine anni Sessanta e si diffusero in altri paesi, Italia inclusa, nel corso degli anni Settanta. Sull’Italia non disponiamo ancora di lavori che abbiano esplorato l’onda lunga della trasformazione della sfera dei consumi legata alle controculture che si sono affermate negli anni Settanta, eppure alcuni fili sono visibili. Si pensi a come si sia sviluppata una duplice faglia critica rispetto alle culture alimentari degli anni del boom: la ricerca della genuinità e dei cibi autoprodotti, che avrebbe alimentato il consumo alimentare vegetariano, biologico e favorito la riscoperta delle proprietà terapeutiche dell’erba. Entrambe queste tendenze erano radicate nelle controculture degli anni Settanta, ed esse sono riconoscibili nella filosofia dello slow food: la riscoperta della varietà dei prodotti locali, delle tradizioni alimentari e una ridefinizione del processo produttivo che contempla il rispetto per la sostenibilità ambientale e sociale. Tra vecchio e nuovo: la televisione nel decennio del cambiamento (Giulia Guazzaloca) Nei paesi dell’Europa occidentale gli anni Settanta rappresentarono uno spartiacque decisivo per l’assetto e il funzionamento del sistema dei media. A differenza del modello statunitense di broadcasting commerciale, nell’Europa del dopoguerra la radiotelevisione aveva assunto quasi ovunque la forma del monopolio pubblico con il compito di informare, educare e intrattenere il pubblico. Tanto i sociologi dei media quanto gli storici concordano nel dire che nel corso degli anni Settanta si chiuse definitivamente la fase di ancien regime delle televisioni europee. Complici i fermenti culturali e sociali prodotti dal movimento sessantottino, i progressi tecnologici che rendevano più agevole e meno costosa la produzione dei programmi, la presenza di nuovi soggetti interessati all’industria dei media per scopi commerciali, si assistette alla esplosione delle nuove emittenti radiofoniche e televisive private che misero fine ai regimi di monopolio. Il 20 aprile del 1974 Telebiella fu la prima televisione privata via cavo attiva in Italia. Con quest’ultima e l’esplosione delle “radio libere”, che si rivolgevano ad un pubblico fatto interprete della volontà delle riforme, dall’inizio degli anni Settanta apparve preoccupato delle contestazioni all’interno della Chiesa e dalla crisi che stava attraversando il clero e l’associazionismo religioso. Anche per questo il biennio 1974-1975 risulta essere uno snodo periodizzante nella vicenda del decennio, La fine della breve fase della distensione internazionale, il riaccendersi dello scontro bipolare, le violente proteste sociali, il “movimentismo” giovanile e femminista e la crisi economica stavano cambiando gli scenari, di fronte ai quali crebbero anche i timori delle componenti moderate del cattolicesimo rispetto alla tenuta interna della Chiesa. Il referendum sul divorzio del 1974 contribuì in modo rilevante a mutare la percezione della “nazione cattolica, mostrando che la società italiana era cambiata, che il ruolo della donna non poteva essere più confinato nella difesa della famiglia, che il peso della Chiesa come ispiratrice dell’individuo era ridimensionato. L’elezione al soglio pontificio del polacco Karol Wojtyla, con il suo diverso approccio alla politica italiana e al governo del cattolicesimo, con un orientamento al tempo stesso gerarchico e carismatico, contribuì ad articolare ulteriormente un quadro, quello religioso, che aveva mutato la sua funzione nello spazio pubblico e nella percezione degli stessi credenti. Soltanto da un ventennio i fenomeni religiosi del decennio sono oggetto di ricerche sistematiche, anche se concentrate con assoluta preminenza sul cattolicesimo. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta ad attirare l’attenzione degli storici e delle storiche sono sia le tensioni tra movimenti religiosi e partiti manifestatesi dopo il 1968, sia lo studio dell’”ecclissi del sacro”. L’evidente crisi della società italiana, il deciso accento posto dalla storiografia sulla dimensione politica dei fenomeni e le tensioni prodotte dal protagonismo dei nuovi movimenti cattolici hanno prodotto interpretazioni molto diverse del decennio successivo al ’68. Da un lato, vi sono giudizi essenzialmente negativi circa le ricadute provocate dalla “cultura radicale” nel cattolicesimo e sulla religiosità degli italiani; da un altro lato, le interpretazioni storiche influenzate dalla variegata galassia del neo-marxismo considerano che la Chiesa di Roma abbia manifestato una sostanziale continuità tradizionalista e reazionaria, confermata dall’immutato appoggio al blocco clerico-moderato rappresentato politicamente dalla Dc. Nell’ultimo quindicennio la ricerca storiografica ha esteso il suo campo di indagine alla dimensione transnazionale dei fenomeni religiosi e agli scambi interconfessionali. Oltre Pasolini: storicizzare la cultura e gli intellettuali italiani negli anni Settanta (Cesare Panizza) Quando si applica alla cultura italiana degli anni Settanti la memoria torna inesorabilmente a fissarsi l’immagine di Pier Paolo Pasolini rinvenuto cadavere il 2 novembre del 1975. Storicizzare gli anni Settanta vuol dire preliminarmente “dimenticare Pasolini”, nel senso di rimuovere metaforicamente dal nostro sguardo l’immagine di quel cadavere martoriato, se non si vuole leggere l’intera cultura italiana di quegli anni nel cono d’ombra di quella morte violenta. Questa è un’operazione che è stata avviata da una generazione di studiosi più giovani, non condizionati dal proprio vissuto, ma che forse è destinata a incontrare più resistenze di quanto non capiti quando ci si applichi ad altre decadi della nostra storia. Che le cose stiano così lo suggerisce il fatto che uno dei tanti significati allegorici di cui la figura di Pasolini si sarebbe caricata è quello di premonizione circa la crisi irreversibile se non l’estinzione degli intellettuali nella loro funzione di “sacerdoti” della cultura in una società, quella consumistica, che comprimeva, complici i moderni mezzi di informazione e comunicazione di massa, ogni residuo spazio critico. Gli anni Settanta inauguravano una nuova immagine dell’intellettuale come “tecnico” della cultura attivo in spazi tradizionalmente lontani ad essa dedicati, nei luoghi di lavoro e di vita quotidiana o in luoghi abbandonati e marginali che ben si prestavano alla sperimentazione di nuove forme espressive. L’esempio più celebre è forse quello della compagnia itinerante di Dario Fo e Franca Rame che fra il 1968 e il 1972 con il suo teatro politico di rinnovamento di un’antichissima tradizione italiana batté attraverso il circuito ARCI i borghi e i paesi d’Italia, portandovi spettacoli di indubbio valore artistico quali Mister Buffo o Morte accidentale di un anarchico. Alla fine del decennio era la narrativa a produrre a restituire in maniera più evidente questo smottamento tra cultura “alta” e “bassa”: si pensi alla parabola di Italo Calvino passato dal realismo dei primi romanzi alla sperimentazione di una originale metanarrazione nel Castello dei destini incrociati e in Se una notte d’inverno un viaggiatore, e al successo del romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa. Cambiamenti strutturali investirono anche l’editoria e l’informazione giornalistica che contribuirono a una “moltiplicazione delle voci dal basso”. Dalla metà del decennio si assistette all’esplosione del fenomeno delle “radio libere” che portarono a compimento nel giro di poco tempo una vera e propria rivoluzione nella programmazione radiofonica e nell’intrattenimento leggero, dando voce a istanze locali dimenticate dai grandi mezzi di comunicazione di massa e permettendo a una nuova generazione di operatori culturali della comunicazione e dell’informazione di sperimentare nuovi linguaggi. Un discorso analogo può essere condotto sul piano della produzione cinematografica: gli anni Settanta furono quelli della commedia erotica italiana, in cui protagonista è un uomo maturo fornito di tutti gli stereotipi del “maschio” italiano all’inseguimento del proprio oggetto dei desideri, una giovane donna emancipata. Nonostante ciò il cinema conobbe una generale contrazione del pubblico e che poteva essere letto come una conseguenza del fatto che ora erano la musica la canzone d’autore a fungere da luogo di socializzazione generazionale. Gli interpreti della canzone d’autore italiana andarono assumendo agli occhi delle nuove generazioni il ruolo di veri e propri opinion leaders in competizione con gli intellettuali tradizionali, in grado innanzitutto di suggerire valori, stili di vita, scelte estetiche e di gusto e poi di farsi portatori delle istanze radicali della stagione dei movimenti.