Scarica La cultura dei media - Vilem Flusser e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Dei Media solo su Docsity! Flusser – La cultura dei media 1-Il mondo codificato Se confrontiamo il nostro mondo con quello antecedente alla seconda guerra mondiale, a colpirci è in primo luogo la relativa assenza di colore dell’anteguerra. Architettura, macchine, libri, abiti, prodotti alimentari, tutto era relativamente grigio. Oggi il nostro ambiente è saturo di colori, che giorno e notte, negli spazi pubblici e in quelli privati, esigono nostra attenzione. Calze e pigiami, barattoli e bottiglie, vetrine e manifesti, libri e cartine geografiche bevande, e gelati, film e televisione dove tutto è technicolor. L’esplosione dei colori significa qualcosa. Noi siamo totalmente immersi in colori carichi di significato e veniamo programmati con i colori. Essi costituiscono un aspetto del mondo codificato in cui dobbiamo vivere. I colori sono il modo con cui ci appaiono le superfici. Ciò vuol dire che se oggi una parte importante dei messaggi che ci programmano ci è veicolata a colori, significa che le superfici sono diventate importanti portatrici di messaggi. Pareti, schermi, superfici di carta, plastica, alluminio, vetro, tessuto ecc, sono diventate “media” importanti. La situazione d’anteguerra era relativamente grigia perché a quel tempo le superfici svolgevano un ruolo minore nella comunicazione. A prevalere allora erano le linee: lettere e numeri, ordinati in serie. Il significato di tali simboli è ampiamente indipendente dal colore: una A rossa e una A nera significano la stessa vocale e testo che si sta leggendo stampato in giallo, non acquisterebbe qualche altro significato. Per questo l’attuale esplosione di colori indica l’accresciuta importanza di un codice bidimensionale. Il dato di fatto che l’umanità sia programmata da superfici (immagini) non può comunque essere considerata una novità rivoluzionaria. Al contrario, pare trattarsi al ritorno di una condizione primitiva. Prima dell’invenzione della scrittura, le immagini costituivano i mezzi di comunicazione decisivi. Poiché la maggior parte dei codici (ad esempio il linguaggio parlato, i gesti, il canto) sono effimeri, noi siamo rinviati anzitutto a immagini per decifrare il significato che gli uomini, da Lascaux fino alle tavolette mesopotamiche, davano alle loro azioni e passioni. Solo dopo l’invenzione della stampa l’alfabeto cominciò effettivamente a dominare. Per questo il medioevo incluso il rinascimento ci appaiono variopinti, se raffrontato con l’epoca moderna. In questo senso la nostra situazione può essere interpretata come un ritorno al medioevo. Le immagini che oggi ci programmano non sono dello stesso genere di quelle che prevalevano prima dell’invenzione della stampa. I programmi televisivi sono un’altra cosa rispetto alle vetrate delle cattedrali, e le superfici di un barattolo di minestra sono un’altra cosa rispetto alla superficie di un quadro rinascimentale. In breve la differenza è questa: le immagini premoderne sono prodotti artigianali (opere d’arte), quelle postmoderne sono prodotti tecnologici. Dietro le immagini che ci programmano oggi si può riscontrare una teoria scientifica, mentre lo stesso non vale necessariamente per le immagini postmoderne. L’uomo premoderno viveva in un mondo di immagini che significavano il “mondo”. Noi invece viviamo in un mondo di immagini che tentano di spiegare le teorie relative al “mondo”. Questa è una situazione nuova e rivoluzionaria. Per afferrarla è opportuno spiegare il concetto di codice. Un codice è un sistema di simboli, il suo scopo è rendere possibile la comunicazione interumana. Gli uomini devono capirsi mediante codici, poiché hanno perduto il contatto immediato con il significato di simboli. L’uomo è un animale straniato, deve cercare di mediare, tentando di dare al mondo un significato. Di conseguenza ovunque si rintracciano dei codici, si può concludere che vi sono degli uomini. I cerchi costruiti con pietre e ossa di orsi che circondano gli scheletri di antropoidi africani morti 2 milioni di anni fa, consentono di considerare quegli antropoidi come degli esseri umani. I cerchi in questo caso sono i codici, mentre le ossa e le pietre sono simboli e l’antropoide era un essere umano perché era sufficientemente straniato, costretto quindi a dare al mondo un significato. Codici più recenti come le pitture parietali, consentono una decifrazione più agevole, poiché ancora oggi ci riserviamo di codici analoghi. Sappiamo ad esempio che i dipinti nelle grotte di Lascaux indicano scene di caccia. Il carattere scenico dei codici bidimensionali ha come conseguenza uno specifico modo di vita delle società che essi programmano. Che può essere chiamato “forma d’esistenza magica”. Un’immagine è una superficie, il cui significato si coglie con uno sguardo. Ma dopo lo sguardo l’occhio deve cogliere analiticamente l’immagine per coglierne effettivamente il significato. Il mondo codificato ha programmato e formato la forma d’esistenza dei nostri antenati per migliaia di anni, per essi il mondo era un insieme di scene, le quali esigono un comportamento magico. Solo più tardi si venne a creare una rottura: l’invenzione della scrittura. Essa non risiede tanto nell’invenzione di nuovi simboli bensì nello svolgere le immagini in linee. L’invenzione della scrittura secondo gli storici segnò la fine della preistoria. La riga all’interno di un testo intende la scena dell’immagine. I testi sono uno sviluppo delle immagini e i loro simboli non indicano immediatamente cose concrete bensì immagini. La storia dunque inizia con l’invenzione della scrittura non perché la scrittura conservi i processi bensì perché trasforma le scene in processi: produce la coscienza storica. Questa conoscenza però non ha trionfato direttamente su quella magica, che venne superata solo lentamente e a fatica. La filosofia greca e la profezia ebraica sono dichiarazioni di guerra dei testi contro le immagini: Patone per esempio disprezza le arti figurative e i profeti manifestano tutto il loro zelo contro l’idolatria. Solo nel corso dei secoli i testi (Omero e la Bibbia) cominciarono a programmare la società nel corso dell’antichità del medioevo. La massa continuò a mantenersi nella sua coscienza magica rimanendo per così dire pagana. Continuò ad essere programmata da immagini sebbene queste ultime venissero contaminate dai testi. L’invenzione della stampa, rendendo meno costosi i libri, permise alla borghesia di partecipare alla coscienza storica dell’élite. È la rivoluzione industriale che strappò la popolazione pagana dei villaggi alla sua esistenza magica per concentrarla in massa attorno alle macchine. Il mondo codificato in cui viviamo oggi non significa più processi, esso non racconta più storie, tutto ciò riceve il nome di crisi di valori. Ma la nuova generazione viene programmata da tecnoimmagini. Dopo l’invenzione della scrittura ci sono voluti interi secoli prima che gli scrittori imparassero che significa raccontare. A lungo essi hanno solo enumerato e descritto delle scene. La scrittura è un gesto che ci allontana dalle immagini in quanto permette di risolvere le immagini in concetti. Con questo gesto andò perduta la fede nelle immagini, vale a dire la magia e si raggiunse un livello di coscienza che condusse, molto più tardi, alla scienza e alla tecnica. Con il termine crisi di valori intendiamo che stiamo fuoriuscendo dal mondo lineare delle spiegazioni, per inoltrarci nel mondo tecnoimmaginario dei modelli. La vera rivoluzione non sta nel fatto che le tecnoimmagini si muovano, siano audiovisive, ma il fatto che sono un modello cioè significano concetti. La perdita della fede Della posizione dell’uomo nella società è possibile prospettare la seguente immagine: un tessuto che immagazzina e produce informazioni. In questo tessuto, che possiamo immaginarci come un composto di fili, circolano informazioni. Questi fili si possono chiamare canali o media. Ci si immagini inoltre che questi fili si intersechino in certi modi e che in questi punti d’intersezione, si accumulino e si ingorghino le informazioni. Si possono designare questi punti nodali con parole diverse a seconda del campo di interesse in cui si ha intenzione di applicare l’immagine. Se la rappresentazione di un tessuto pulsante di informazioni, in cui nei punti nodali nascono ingorghi di traffico, riesce, allora si è ottenuta un’immagine potenzialmente feconda per valutare una serie di questioni concernenti l’odierna crisi culturale. L’immagine ha il vantaggio di accantonare come prive di senso una serie di questioni. Un esempio in questo caso può essere la “dialettica” tra uomo e società: l’uomo è un prodotto della società o è la società ad essere un prodotto dell’uomo e sussiste tra i due una tensione? L’uno esiste per l’altro o viceversa? L’elemento concreto nell’immagine sono i fili (i media) e i nodi da essi costituiti sono astrazioni nell’immagine. L’uomo e la società appaiono qui modalità del funzionamento dei canali di informazione, non sono afferrabili come fossero cose. A essere afferrabili sono i fili. Tra le questioni che così vengono ad occupare un’insolita posizione centrale rientra per esempio la questione della memoria. Per la filosofia greca, dopo con Socrate, la memoria è il luogo in cui sono conservate le idee e in cui l’uomo può liberarsi dagli errori delle semplici apparenze. Per l’ebraismo la memoria è il luogo in cui ancora vivono i morti. Per gli psicologi è il luogo in cui le esperienze vissute vengono digerite o non digerite, dunque il luogo in cui si può intervenire se ci si vuole liberare dal peso del vissuto. Per la cibernetica la memoria è il luogo in cui sono immagazzinate le informazioni perché siano disponibili e c’è la possibilità non solo di simulare in memorie artificiali la memoria umana ma, addirittura grossolanamente possiamo distinguere tre strutture fondamentali di codici linguistici: i linguaggi agglutinanti, i linguaggi isolanti e quelli flessivi. L’alfabeto è stato introdotto nell’ambito dei linguaggi flessivi e fino a oggi è molto scomodo utilizzarlo per altri tipi di linguaggio. I linguaggi flessivi (dunque quelli camito- semitici) formano enunciati (proposizioni o frasi) in base allo schema soggetto-predicato-oggetto. Le parole “flettono” per formare proposizioni. I linguaggi agglutinati “connettono” fra loro le parole per mezzo di prefissi, suffissi e infissi per formare zolle di significato. I linguaggi isolanti pongono, spesso a due a due, delle sillabe in precisi contesti e questi mosaici sorreggono il significato. Il che significa: le lingue flessive cifrano le informazioni in processi, le lingue agglutinanti in figure, le isolanti in scene. Le lettere dell’alfabeto non si limitano a rendere visibili i fonemi, ma li ordinano anche in una successione (righe). La mano che scrive deve scorrere lungo le righe e l’occhio che legge a sua volta deve seguirle. Per questo scrivere significa originariamente “incidere” “scavare”. Ciò significa che il pensiero che scrive e il pensiero che legge sono costretti a procedere linearmente. Tutto si può sintetizzare con il nome complessivo “ortografia”, includendovi le regole della grammatica, della logica e della coerenza discorsiva. Perciò si può dire che l’alfabeto nasce per disciplinare il pensiero processuale, al fine di poter riuscire a parlare in modo corretto. Proprio grazie all’invenzione dell’alfabeto è diventata possibile in generale la storia in senso proprio, e non tanto perché l’alfabeto conservi gli accadimenti storici, quanto perché prima non erano pensabili fatti storici, ma solo eventi. All’inizio della storia e per la più gran parte del suo corso l’alfabeto rimase riservato ad un’élite. Costituiva un codice segreto, e solo quanti vi erano iniziati disponevano di una coscienza storica. La maggior parte della società continuava ad orientarsi sul mondo sulla base di oggetti materiali, sulla base soprattutto di immagini e grazie alla lingua parlata. Ciò significa che la maggior parte delle società viveva in una coscienza magica e mitica. Fra élite e massa infatti sorse un feedback, in virtù del quale il pensiero storico si caricò continuamente di elementi magici e mitici, e il pensiero magico e mitico divenne sempre più storico. Mentre i testi spiegavano le immagini, le immagini irrompevano di nuovo nei testi per illustrarli. Questo è ben riconoscibile alla fine di un’epoca storica, il Medioevo: l’élite alfabetizzata (la chiesa) si orientava senza dubbio in base ai testi lineari (anzitutto la Bibbia e Aristotele) ma le immagini e i miti irrompevano costantemente nella sua coscienza e dovevano essere incorporati nel pensiero vincolato ai testi. E la massa degli analfabeti si orientava sulla base di immagini, miti e rituali magici (per esempio feste e danze) ma la storia della salvezza penetrava con profondità sempre maggiore nelle coscienze, così che immagini, miti e feste divennero sempre più storici concettuali “cristiani”. L’alfabeto non è comunque un codice puro, porta con sé anche degli ideogrammi. In altri termini, la nostra società non è codificata in modo puramente alfabetico ma in modo alfanumerico. I primi frammenti di scrittura che ci sono stati conservati (tavolette d’argilla) mostrano forme atte a raffigurare pensieri, e non suoni. Erano immagini di concetti (ideogrammi) e i concetti si riferivano a fenomeni “possibili” non ancora realizzati. Le persone che hanno disegnato sull’argilla questi progetti pensavano in modo formale, furono i primi intellettuali. Questo pensiero formale, codificato in figure quali rette, triangoli, cerchi, procedette sempre con il pensiero discorsivo, codificato in processi, dell’élite alfabetizzata. Questi ideogrammi si possono chiamare numeri perché essi si riferiscono a concetti grazie ai quali i fenomeni diventano misurabili e si può parlare perciò di un codice alfanumerico. La coscienza storica benché fosse stata chiamata in vita con l’invenzione dell’alfabeto non è mai stata una coscienza puramente processuale. Al suo interno ha da sempre contenuto anche numeri. È ciò che si può vedere nella lettura di testi alfanumerici: nel leggere le figure geometriche o le espressioni aritmetiche l’occhio percorre circolarmente la figura. Le figure geometriche e gli algoritmi costituiscono isole nella corrente delle lettere alfabetiche: sono interruzioni del discorso. Con l’invenzione della stampa, l’alfabeto si diffuse tra i borghesi e più tardi, con l’introduzione dell’obbligo scolastico, divenne un codice disponibile universalmente, presente ovunque nella società. Oggi noi affondiamo in un mare crescente di carta stampata, sempre meno cara e sempre più spregevole. La coscienza storica è divenuta un bene universale, chiunque sa leggere le lettere dell’alfabeto. Con ciò la coscienza magico-mitica non è stata liquidata, ma solo rimossa, e minacciata tuttora costantemente di erompere in modo sfrenato. La totalità degli oggetti può essere chiamata “natura”, così che da questi teorici ci si attende una scienza della natura. Risulta tuttavia che la natura più che essere ben descrivibile sia ben calcolabile, e che sia scritta in numeri e non in lettere. Per questo i teorici devono abbandonare scrittura e lettura delle lettere, a favore di scrittura e lettura di numeri. Mentre dunque, la società nel suo complesso legge sempre di più lettere alfabetiche, gli intellettuali si concentrano più sui numeri che diventano così nuovamente un’élite dominante in possesso di un codice segreto. Già dall’inizio del rinascimento diventano chiari i vantaggi del pensiero matematico rispetto al pensiero storico. Ma la problematicità di questo problema viene colta effettivamente solo con Cartesio. Il pensare numerico è più chiaro e distinto del pensare in base a lettere alfabetiche perché, mentre le lettere trascorrono l’una nell’altra, ogni numero è separato da ogni altro numero da un intervallo chiaro e distinto. La natura in questo contesto di oggetti, è invece una rex extensa, una cosa estesa, senza intervalli. Emancipati dalle lettere i numeri divengono codici sempre più raffinati. All’inizio del novecento era diffusa l’impressione che ben presto la scienza avrebbe conseguito onniscienza e onnipotenza. Tutto era formulabile, in equazioni differenziali, e le equazioni potevano essere applicate come modelli di lavoro. Ma è anche evidente che nel caso di equazioni molto complesse, il tempo necessario è molto lungo (più lungo di una vita umana) poiché la maggiori parte delle equazioni più interessanti sono straordinariamente complesse, risulta che esse non hanno più alcuna utilità pratica. I computer furono inventati per accelerare i calcoli delle equazioni differenziali. D'altra parte, insieme con i computer sono emersi dati di fatto completamente inattesi e che siamo ben lontani dal padroneggiare. Basta operare in modo del tutto primitivo con due numeri fondamentali (1 e 0). Così il livello di coscienza calcolatorio matematico è divenuto meccanizzabile ed è stato trasferito dall’uomo alle macchine. È emerso in secondo luogo che i computer non si limitano a calcolare ma sorprendentemente informatizzano. Essi non scompongono solamente gli algoritmi in numeri, ma raccolgono anche questi bit in figure, per esempio in linee, superfici e anche in suoni. Queste figure possono essere combinate le une alle altre e formare dei corpi sonori, colorati e in movimento. L’elemento decisivo è il fatto che questi nuovi codici computeristici sono “ideografici”, dunque hanno spezzato il nesso tra il pensare e il parlare. Diventa un pensiero sempre meno discorsivo e sempre più sintetico. La lettura delle lettere alfabetiche in futuro varrà come un sinonimo di arretratezza, così come in epoca moderna lo era un comportamento mitico-magico. Da questo angolo visuale la situazione attuale può essere così illustrata: un’élite la cui tendenza è in via di progressivo rafforzamento, progetta modelli di esperienza e di comportamento con l’audio delle cosiddette “intelligenze artificiali” programmati da questa stessa élite e la società si orienta sulla base di questi modelli che essa è in grado di seguire ma non di leggere. Noi tutti nella prima infanzia abbiamo imparato una lingua. Siamo biologicamente pre-programmati per parlare, non però per parlare una specifica lingua. Si tratta di un processo ambivalente, mentre ci innalza al di sopra del nostro significato biologico, ci separa però anche dalla maggior parte dell’altra umanità parlante. Nonostante questo potente svantaggio del parlare, il linguaggio ci immette in una corrente per noi sterminata di informazioni, conoscenze, vissuti e valori che innumerevoli generazioni hanno appreso e affidato ad esso. Un po’ più tardi verso i 6 anni, impariamo a leggere e scrivere. Anche questa attività, apparentemente in tutto e per tutto culturale, risulta in qualche modo pre-programmata nel cervello. In questa fase di apprendimento non si tratta di rendere visibile il linguaggio, ma anche di acquistarne una comprensione più profonda. Leggendo e scrivendo, noi acquistiamo distanza rispetto al linguaggio: non è solo un medium tramite cui esprimiamo qualcosa. Ma diventa un oggetto in cui imprimiamo lettere alfabetiche. Nella lettura di testi siamo sollecitati a un doppio movimento: in primo luogo dobbiamo seguire le righe per immagazzinare le parole nella nostra memoria e li rielaborarle, ma poi bisogna percorrere le righe a ritroso per afferrare la dinamica sottesa all’informazione, l’intenzione dello scrivente, ed entrare in dialogo con essa. Oggi solo di rado si legge applicando questo metodo, al testo viene data per lo più solamente una scorsa. A differenza degli algoritmi o delle immagini, non si tratta di informazioni che devono prima essere ricevute e poi analizzate, bensì di informazioni che devono essere analizzate, anzitutto per poter essere ricevute. A differenza dei testi alfabetici i nuovi media sono completamente superficiali, sono comodamente ricevibili, ma in cambio, non sono trasparenti per chi non sa leggere il loro codice. Con la perdita delle lettere alfabetiche in sostanza la nostra cultura diventerebbe diversa da cima a fondo. Vecchia carta, addio! Per cominciare, una parola sul concetto di creatività: liberato dai suoi veli mitici e ideologici questo concetto diventa accessibile a una considerazione scientifica e può diventare anche quantificabile. Significa, infatti, la produzione di informazioni prima inesistenti. Ne risulta che tutte le nuove informazioni si basano su informazioni precedenti. Diventa quanto meno pensabile che in futuro potremmo creare non più in modo empirico (grazie all’intuizione, ispirazione ecc) ma sulla base di una teoria. Non si creerà più in modo artigianale, ma tecnologicamente. In questo caso dovremmo fare i conti con un’esplosione della creatività umana. Nella scrittura di testi alfabetici creativi sono in gioco almeno due livelli di informazione: il livello dei pensieri e quello della lingua. Sul piano dei pensieri, nella memoria dello scrivente vengono processati i pensieri immagazzinati, perché ne scaturisca un pensiero nuovo. Sul piano della lingua, si prospettano gli aspetti fonetici, ritmici, semantici del linguaggio, per ricavarne nuovi enunciati. Su entrambi i piani si possono incorporare dei rumori: nel caso del piano dei pensieri, per esempio, elementi dell’inconscio, nel caso del piano della lingua parole di una nuova lingua diversa. Entrambi i piani vengono così a intrecciarsi e a condizionarsi reciprocamente. Se si scrive sulla carta, allora il test creativo formerà una serie di righe che scorrono tutte verso il punto fermo finale. Il testo sarà discorsivo. Tuttavia il suo carattere discorsivo, il suo univoco mirare ad un punto finale, farà apparire il testo scritto su carta come opera chiusa e conclusa in sé. Se si scrive su un supporto cartaceo, allora si è costretti a porre dei limiti alla propria creatività. E certo, non solo perché le righe, per la loro struttura, scorrono verso un punto fermo finale, ma anche perché il supporto materiale impone dei limiti. Se invece si scrive nel campo elettromagnetico, il testo creativo allora continuerà a formare righe su righe, ma queste non scorreranno più in modo univoco. Esse diventano flessibili, plastiche e manipolabili. Un testo scritto così sarà dialogico. Il testo non è più come sulla carta, il risultato di un processo creativo, ma è esso stesso questo processo, è un processare informazioni in vista di nuove informazioni. il testo iscritto nel campo elettromagnetico non è più rivolto a destinatari che lo immagazzinano nella loro memoria, lo criticano, (lo scompongono) o lo commentano (lo sviluppano). Piuttosto è rivolto a destinatari che lo processano (manipolano, rovesciano, cambiano). È rivolto a destinatari che, dalla sua informazione, devono creare una nuova informazione. Lo scrivente non è mosso più dall’intento di una nuova informazione in sé compiuta, ma si sforza di ristrutturare le informazioni già presenti e di arricchirle con rumori in modo tale che altri possano anche essi continuare creativamente il gioco. Per questo lo scrivente fa precedere il testo da un menù, ovvero da una serie di proposte su come il testo ricevuto, per esempio secondo il parere dello scrivente, potrebbe essere manipolato. L’elaborazione del menù esige che lo scrivente collochi nella posizione del destinatario, il che significa guardare il proprio testo dal punto di vista del destinatario, analizzarlo criticamente. Il destinatario rielabora la nuova informazione proposta dallo scrivente, aggiungendo ulteriori informazioni e rumori. Egli non fa questo solo per produrre una nuova informazione, ma anche per rimandare questa informazione allo scrivente e per entrare in un dialogo creativo con altri destinatari del medesimo testo. Con ciò muta radicalmente la funzione dell’editore. Nella scrittura elettromagnetica, l’editore diventa una sorta di banca dati che viene alimentata sempre da nuove informazioni, da cui queste vengono irradiate e confrontate, o comparate l’una con l’altra. Lo scopo non è più produrre qualcosa, bensì far spazio al gesto stesso del produrre. Le conseguenze di una simile liberazione della forza creativa nell’ambito della scrittura, come anche in molti altri ambiti, non sono per il momento prevedibili. Ciò avvantaggia conservatori e reazionari nell’avanzare le loro obiezioni. Queste obiezioni si possono ordinare in tre gruppi. Il primo quello mitico-magico, obietta che la creatività è un processo misterioso, di cui solo pochissimi uomini, i geni sono capaci e di conseguenza è possibile creare solo in solitudine. Il secondo gruppo sentimental-romantico, obietta che la creatività è l’esplosione gravida di un sentimento di una tensione interna e che ogni distanziamento critico inibisce questa esplosione. Il terzo gruppo, ovvero quello formato dalle persone di “buon senso” obietta che in fondo, nel processo della scrittura dialogica descritto non vi è nulla di nuovo. È indubbio che lo scrivere tramite computer muta radicalmente la posizione dello scrivente e del destinatario rispetto al testo. dell’estraniazione. E le nuove immagini sintetiche in cui diventa visibile e udibile un pensiero astratto e che sono prodotte nel corso del nuovo dialogo creativo, non sono solamente estetiche, ma anche ontologiche ed epistemologiche, non comparabili né con le vecchie buone immagini né con quelle che attualmente ci sommergono. Immagini quiete Ma dallo spaventoso diluvio odierno di immagini non ci è aperta solo questa fuga in avanti nel nuovo millennio. Esiste anche un’altra via d’uscita, ovvero la produzione di immagini “quiete” che subdolamente devono beffare gli apparati sputa-immagini . Per poter comprendere questa deviazione dal diluvio di immagini alla quiete contemplativa, dobbiamo prendere in considerazione il concetto di “apparato” e poi il concetto di “astuzia”. Gli apparati sono dispositivi tecnologici, e la tecnologia è l’applicazione delle conoscenze scientifiche ai fenomeni. Per questo gli apparati sono dispositivi in cui la distanza scientifica dai fenomeni viene capovolta tecnologicamente. Detto altrimenti, sono dispositivi in cui l’astratto si converte nel concreto, per esempio equazioni matematiche divengono immagini, come nel caso delle macchine fotografiche. Da questa descrizione diventa chiaro che le immagini allestite dagli apparati tecnologici, come le fotografie, rispetto alle vecchie immagini si pongono in modo rovesciato. Le vecchie immagini sono astrazione soggettive dei fenomeni, le immagini tecniche sono concrezioni di astrazioni oggettive. Foto, film, video e tutte le immagini in generale sono prodotte da apparati programmati per codificare una conoscenza oggettiva. E solo chi conosce questo codice può decifrare le immagini. Lo spettatore televisivo non sa pressoché nulla delle leggi elettromagnetiche su cui si basa il televisore e perciò non decifra le immagini, ma anzi le reputa oggettivamente corrette. Gli apparati sono dei dispositivi astuti . Sono macchine, funzionano meccanicamente, in breve: sono artificiali. Ogni immagine quieta prodotta oggi è un tentativo di abbindolare gli apparati. Chi produce queste immagini nel bel mezzo di questo diluvio delle immagini, non volendo avere nulla a che spartire con esso, meritano il nome di artisti, ovvero di astuti manipolatori e ribaltatori degli apparati. Strategie e fotografia La maggior parte delle fotografie non fa che attestare l’intenzione pre-programmata nella macchina fotografica. Si tratta di immagini prodotte astutamente-tecnicamente affinchè suscitino nel destinatario l’apparenza dell’oggettività. Foto del genere, in realtà avrebbero potuto essere realizzate senza l’intervento di un fotografo, grazie all’otturatore automatico. Chi scatta la foto non fa nulla di diverso dall’otturatore automatico. Segue le istruzioni per l’uso. Ma anche la maggior parte di fotografie così dette “artistiche” rientra nello stesso genere di immagine. Il fotografo artistico cerca di estrarre dal programma della macchina fotografica qualcosa che non è mai ancora stato ricavato. Tenta di riprodurre immagini originali. Ma se gli si lascia il tempo sufficiente, anche un otturatore automatico fa altrettanto, anzi scatta con una rapidità molto maggiore dei fotografi artistici. Esiste tuttavia un numero molto esiguo di fotografie in cui è possibile vedere l’esatto capovolgimento di questa intenzione. In esse ciò che conta è precisamente sorprendere con astuzia l’astuzia del programma della macchina fotografica e costringere l’apparato a fare qualcosa per cui non era stato costruito. L’intenzione dei produttori di tali fotografie è di creare delle immagini che si mettano di traverso rispetto al diluvio delle immagini, immagini che costringono gli apparati a funzionare contro il loro peculiare progresso apparatico. La macchina fotografica a differenza della cinepresa che cela ancora dietro se delle soprese per i propri utenti, va ormai considerata come del tutto trasparente, e molti fotografi infatti parlano ormai della fine ormai incombente del fotografare. Ma esiste anche un’altra spiegazione del fatto che proprio le fotografie sono ciò che ci vuole per beffare con astuzia la tecnologia. Le macchine fotografiche sono apparati che producono immagini e le foto sono immagini moltiplicabili e diffondibili come tutte le immagini tecniche. Ma le foto sono ferme e silenziose e aderiscono a una superficie, mentre tutte le altre immagini tecniche si muovono o emettono suoni, o fanno tutte e due le cose. Se perciò si inganna con astuzia la macchina fotografica, la si convince in modo strano a produrre contro il programma in essa incorporato, qualcosa come una vecchia immagine. Immagini transapparatiche È grande la tentazione di estendere questo modo di vedere anche a quelle immagini che oggi vengono prodotte senza apparati, con un metodo non molto mutato dai tempi di Lascaux. Dalla prospettiva qui assunta, che concepisce lo scenario delle immagini contemporanee come una marea prodotta apparaticamente, simili immagini appaiono come tentativi di evasione che sembrano muoversi nella stessa direzione dei lavori fotografici. Ma bisogna cercare di contrastare questa interpretazione. Non perché la critica ufficiale sostiene che la storia delle immagini dal tempo di Lascaux, nonostante l’invenzione degli apparati, non sia affatto giunta alla sua fine. Per la critica corrente, gli apparati possono avere un influsso sulla produzione delle immagini, ma in linea di principio la produzione di immagini prosegue per il 19 e 20 secolo quella storia dell’arte che la critica corrente aveva progettato. In essa si distinguono tendenze e stili, e i quadri contemporanei vengono giudicati con criteri estetici analoghi, per esempio quelli barocchi. Questa critica deve spiegare sia il fatto che una volta avvenuta l’invenzione degli apparati le immagini autentiche vengono sempre più rimosse dalla quotidianità, divengono sempre più elitarie, sia il fatto che per la società diventa sempre più difficile decifrarle. È evidente che le immagini realizzate attualmente senza apparati tecnologici no sono per nulla come le vecchie immagini. Esse non costituiscono una semplice prosecuzione della storia. Sono state realizzate, infatti nella consapevolezza che le immagini tecniche si siano ormai impadronite di gran parte delle funzioni che le vecchie immagini dovevano svolgere. I produttori di immagini senza apparati cercano le lacune che gli apparati finora hanno lasciato allo scoperto. Questa catena è stata spezzata dall’invenzione della macchina fotografica. Gli inventori degli apparati avevano l’intenzione di spostare dagli uomini alle macchine l’immaginazione e in ciò perseguivano due scopi: in primo luogo volevano ottenere un’immaginazione più efficace, e in secondo luogo, volevano condurre gli uomini a un’altra e nuova immaginazione. L’immaginazione operante nelle immagini tecniche è così potente che non solo noi scambiamo le immagini con la realtà, ma viviamo anche in loro funzione. E la nuova immaginazione incomincia oggi a permetterci di vedere delle conoscenze come delle immagini, dunque a esperire esteticamente. Non si tratta di fungere da tappabuchi e di surrogare gli apparati. Ma al contrario si tratta di mostrare i limiti dell’apparatico, perché per raggiungere questo prima bisogna aver riconosciuto pienamente ciò che gli apparati rendono possibile. Si può dire che queste immagini, al pari dei lavori fotografici, vengono prodotte per abbindolare gli apparati. Tuttavia si tratta di due strategie diverse. I lavori fotografici sono fatti per costringere gli apparati a realizzare qualcosa per cui sono programmati. E le immagini senza gli apparati, per mostrare i limiti degli apparati e trascenderli. Le immagini di entrambi i generi sono quiete, immobili e silenziose: si tratta della quiete prima e dopo la tempesta. Immagini dei nuovi media Un’immagine è fra l’altro un messaggio: ha un emittente e cerca un ricevente, un destinatario. Le immagini sono superfici, quindi come si possono trasportare le superfici? La faccenda dipende dai corpi sulle cui superfici sono state applicate le immagini. Se questi corpi sono pareti di caverna (come a Lascaux) allora sono inamovibili. Ma esistono corpi latori di immagini più agevolmente trasportabili, per esempio tavole lignee e tele incorniciate. In tal caso si può adottare un metodo di trasporto misto: si trasportano le immagini in uno spazio per riunioni, per esempio una chiesa, o in una esposizione e poi si trasportano in quel luogo i destinatari. Certo casi del genere consentono anche altri metodi: un individuo può ereditare un corpo latore di immagini trasportabili e diventare così il destinatario esclusivo del messaggio. Ma da poco è accaduto qualcosa di nuovo. Si sono inventate le immagini incorporee, pure superfici e tutte le immagini precedenti sono traducibili e ricodificabili in esse. I destinatari così non hanno più bisogno di essere trasportati: le immagini incorporee sono moltiplicabili a piacere e vengono irradiate a ogni singolo destinatario, dovunque possa trovarsi. Le fotografie e i film per esempio, sono fenomeni di transizione tra le tele incorniciate e le immagini incorporee. La tendenza è comunque univoca: le immagini divengono sempre più trasportabili e i destinatari sempre più immobili. Per l’attuale rivoluzione culturale questa tendenza è assolutamente caratteristica: tutti i messaggi possono essere moltiplicati e irradiati a destinatari immobili. Si tratta di una rivoluzione culturale e non solo di una nuova tecnologia. Le immagini sono modelli di comportamento. Esse hanno il vantaggio supplementare di funzionare anche come modelli di vissuto e di conoscenza. L’autorità amministrativa impiega dunque un certo numero di specialisti affinché producano immagini simili . A questi specialisti ne vengono affiancati altri, che trasportano le immagini nella società, oppure misurano il grado di efficacia delle immagini. Questi specialisti sono le vere e proprie emittenti, bensì i funzionari della trasmissione. Possiamo pervenire al seguente giudizio: così come sono trasportate attualmente le immagini devono assolvere esattamente alla funzione di programmi di comportamento. Trasformando i loro destinatari in oggetti. I media potrebbero essere distribuiti altrimenti: non come fasci monodirezionali che connettono un mittente a innumerevoli destinatari, bensì reti che connettono gli uni agli altri i singoli mediante cavi reversibili. Se questa trasformazione riuscisse il concetto di immagine acquisterebbe un nuovo significato, rispetto ai tre indicati in precedenza. Si tratterebbe di una superficie incorporea, su cui potrebbero essere progettati dei significati mediante la cooperazione di molti partecipanti interessati. L’immagine resterebbe universalmente accessibile. Quanto è stato detto è significativo non solo per le immagini, bensì per l’esistenza futura in generale. I nuovi media trasformano le immagini in modelli di comportamento e gli uomini in oggetti. Ma potrebbero essere distribuiti secondo diverse modalità di collegamento e trasformare le immagini in vettori di significato, e gli uomini in cooperanti progettatori di significato. PRODUZIONE E CONSUMO DI FILM Si chiama tecno-immaginazione la capacità di cifrare e decifrare tecno-immagini, ovvero immagini prodotte mediante apparati. La lettura e la scrittura delle tecnoimmagini (fotografie, film, programmi tv) pongono esigenze completamente diverse da quelle poste dalle immagini classiche (pitture parietali, mosaici). Attualmente nel mondo codificato che ci circonda a veicolare maggior parte dei messaggi sono le tecnoimmagini, e non più i testi. Se per un istante si accetta questa diagnosi allora la tecnoimmaginazione, diventa assolutamente indispensabile per la vita, anzi per la sopravvivenza. Ma tutto sembra indicare che noi non siamo capaci di trasmettere nel modo corretto i messaggi che riguardano il nostro mondo, ovvero non siamo programmati in modo giusto per il presente. Una delle possibili spiegazioni della nostra crisi è che noi non sappiamo orientarci nel mondo in cui siamo gettati a causa di una carente tecnoimmaginazione. In un mondo fatto di tecnoimmagini, continuiamo dalla scuola in poi ad essere programmati per un’esistenza storica, per questo le categorie delle nostre esperienze vissute, dei nostri pensieri e dei nostri valori non funzionano più. Produzione di film Se si parla di filmare è inevitabile fare un paragone con il confrontare. Il confronto mette sotto gli occhi una serie di differenze. Per esempio le immagini fotografiche sono immobili e mute, mentre quelle cinematografiche sono dinamiche ed emettono suoni. Filmare significa infatti trattare eventi , mentre fotografare significa trattare scene. Se questa affermazione è esatta, se è vero che l’universo di significato del filmare è un contesto di processi, l’universo di significato del fotografare è un contesto di situazioni o stati di cose. Nell’osservazione del fotografare, uno deve concentrarsi sui movimenti del fotografo munito di una macchina fotografica, o della macchina fotografica provvista di un fotografo. Si tratta di movimenti che possono essere interpretati come una ricerca a saltelli di punti di vista rispetto a una scena. Questa ricerca è condizionata in modo complesso, dalla costruzione della macchina fotografica e dall’intenzione del fotografo. Se con il termine ideologia intendiamo l’insistenza da un punto di vista specifico, allora il fotografare è un movimento post-ideologico. Il fotografo possiede dei criteri che gli permettono di scegliere tra i possibili punti di vista. Nel filmare la quantizzazione fotografica si trasforma in un flusso. Diventano possibili movimenti come il travelling, lo scanning ecc. ma il confronto del cineoperatore con il fotografo trascura l’essenziale del filmare, perché il fotografo e il suo apparecchio producono la fotografia, mentre il cineoperatore con la sua macchina da presa fornisce solo la materia grezza per la successiva produzione del film. Dal punto di vista cutter il film è bidimensionale perché è una pellicola composta da tecnoimmagini. Di nascondono sempre dei modelli di comportamento. Tutti i programmi in fondo sono pubblicità. Il fatto che la pubblicità spesso resti nascosta al destinatario, rafforza la sua efficacia, essa agisce subliminalmente . Attraverso la televisione il mondo appare al destinatario come una serie di imperativi di cui in parte non ha coscienza. Solo che questi imperativi risiedono nell’interesse dei proprietari del sistema televisivo. Prescindendo dal fatto che la libertà delle scelte non è una libertà esistenziale, l’apparecchio non offre alcuna autentica libertà di scelta. Nel contesto attuale la televisione ha assunto, la funzione di molti mezzi di comunicazione tradizionali, per esempio la funzione della famiglia. Spegnere l’apparecchio significa quindi rinunciare a un importante mezzo di comunicazione. Ma i modelli fondamentali di comportamento sono comuni a tutti i canali. Per questo la libertà che offre l’apparecchio è illusoria. Al contrario esso condiziona il destinatario proprio simulando la libertà. In termini politici il messaggio mira ad una spolicizzazione del destinatario. Non rende pubblico il privato bensì privatizza il pubblico. In termini estetici il messaggio mira a una serie vorticosa di modelli di esperienze vissute che si superano l’un l’altro, mentre i modelli subliminali di comportamento restano costantemente gli stessi. Questa estetica sensazionalistica induce nel destinatario un’insaziabile bramosia di sempre nuovi vissuti fittizi. Il modello di comportamento fondamentale resta il modello di comportamento consumistico, la televisione diventa così un modello efficace dei suoi proprietari. Alla base di tutti questi scopi del messaggio televisivo sta tuttavia il fatto che l’apparecchio certamente riceve messaggi ma non ne invia e con ciò condanna il destinatario a una vita passiva. Attorno all’apparecchio televisivo sta sorgendo una nuova forma di vita contemplativa, come se fosse una sorta di nuova religione. Televisione come finestra per guardare il mondo Oggi l’uomo non può vivere senza le pareti, porte o finestre. Esse sono strumenti di importanza vitale. Le pareti sono precondizioni per la finestra, ma fra le due esiste un feedback. Le pareti sono nude e possono essere dipinte, le pitture murali sono finestre artificiali. I film sono pitture murali perfezionate, perché in essi le immagini si muovono e parlano. Le finestre sono lo strumento per guardare il mondo, ma sono strumenti difettosi per due ragioni. In primo luogo attraverso la finestra sono visibili fenomeni che non sono ne troppo grandi ne troppo piccoli e che non si muovano troppo rapidamente. In secondo luogo la finestra ha una cornice rigida e offre solo una veduta specifica e limitata. La televisione è stata progettata per superare questi difetti, per ampliare il parametro dei fenomeni che si mostrano attraverso la finestra e per rendere più flessibili e con ciò più ricche, le categorie della percezione dei fenomeni. La televisione è stata quindi progettata come una finestra perfezionata e se deve corrispondere a questa sua essenza deve inventare una forma di percezione che ci liberi dal modello tradizionale di finestra , offrendo alla percezione possibilità finora neppure immaginate. Perciò il codice televisivo rende possibile una percezione immaginativa e concettuale. Una situazione mai esistita prima d’ora. In essa divengono rappresentabili tutti i processi mentre diventano processabili tutte le rappresentazioni. Se la percezione rappresentativa è la forma di percezione preistorica e la percezione processuale concettuale è quella storica con la televisione si può parlare della possibilità di una forma di percezione post-storica. Le immagini televisive sono bidimensionali, ma non sono composte da linee bensì da punti. Tuttavia i suoni aprono una terza dimensione, essi riempiono lo spazio e noi siamo immersi in essi mentre siamo seduti davanti alle immagini. La televisione viene utilizzata come una sorta di cinema, ovvero come una sorta di rappresentazione, non come forma di esposizione come arte e non come percezione. Esposizione e rappresentazione, arte e conoscenza della realtà ovviamente non devono essere separate in modo assoluto. L’arte è un metodo potente per conoscere la realtà. In pratica le immagini sono un modo per percepire la realtà. In questo caso anche il film può servire alla percezione ad esempio un film documentario e la televisione può servire anche all’arte, per esempio sotto forma di drammi televisivi, ma si tratta di possibilità marginali. In atre parole se la televisione funzionasse come una finestra, allora lo spettatore cercherebbe una porta per impegnarsi nel mondo e nel caso una simile porta mancasse si darebbe da fare per aprire delle porte nelle pareti che lo circondano. Nel caso in cui la televisione fosse impegnata in questo senso come forma di percezione, resterebbe sempre il fatto che l’apparecchio, così come lo conosciamo oggi, certamente riceve ma non trasmette. I fenomeni manipolati al fine della percezione vengono manipolati da altri e non dal destinatario. Il destinatario dunque resterebbe in misura notevole, anche se in modo diverso condannato all’osservazione passiva. In questo modo l’essenza-finestra della televisione non è esaurita. A tal fine sarebbe necessario un mutamento supplementare del suo impiego. Televisione come finestra per parlare agli altri L’apparecchio televisivo assomiglia ad una radio che trasmette anche immagini, ma il suo nome fa pensare che nell’intenzione del suo progetto si cercava di produrre non un perfezionamento della radio bensì un telefono perfezionato. In altri termini, l’apparecchio non ha l’aspetto che dovrebbe avere in base all’intenzione del progetto in cui è nato. Fondamentalmente esistono due sistemi di comunicazione: la rete e la radio. Nel sistema radiofonico un’emittente centrale è collegata in forma radiale e monodirezionale con un certo numero di destinatari periferici. Nel sistema a rete vi è invece un certo numero di partecipanti collegati fra loro in modo biunivoco, così che tutti gli interessati possano trasmettere e ricevere. In un tale sistema il processo di comunicazione si chiama dialogo. A ognuno dei due sistemi corrisponde una disposizione d’animo, una tonalità peculiare. Al sistema della rete corrisponde la possibilità di risposta e l’elaborazione delle informazioni. Al sistema radiofonico, corrisponde la disposizione dell’autorità, del conservatorismo e del consumo. Un modello di sistema radiofonico è la chiesa. Mentre un modello di rete è il liberalismo. Tuttavia dal punto di vista della teoria dei giochi vi è una differenza tra sistemi aperti e chiusi . I sistemi sono aperti quando un mutamento del loro repertorio non richiede nessun mutamento alla loro struttura . Ad esempio: la lingua italiana è un gioco aperto, si può modificare il lessico, senza modificare necessariamente la sua grammatica e quindi cambiarne la struttura. Il gioco degli scacchi invece ha un sistema chiuso perché ogni mutamento del repertorio comporta un mutamento alla struttura. Allo stesso modo i sistemi radiofonico sono aperti e le reti invece sono giochi chiusi. Questo perché nei sistemi radiofonici si possono aggiungere quanti destinatari si vuole, ma non emittenti, senza che si debba mutare la loro struttura. Se si prende sul serio il nome di televisione, allora la televisione proprio come il telefono è stata progettata per un sistema a rete. La rivoluzione industriale ha praticamente annientato la finestra tradizionale come strumento per parlare con gli altri. La conseguenza da un lato è l’isolamento e dall’altro il predominio del discorso. La comunicazione occidentale si serve tradizionalmente di due tipi di codici: il codice immaginativo bidimensionale e quello concettuale unidimensionale. I codici bidimensionali trasmettono immagini e li trasformano in processi. Nei dialoghi, attraverso le finestre, entrambi i tipi di codice sono per così dire parallelamente in azione mediante la decodificazione del codice unidimensionale i partecipanti al dialogo possono capire di volta in volta il messaggio concettuale, mediante la decodificazione del codice bidimensionale possono conoscersi reciprocamente, la compresenza di entrambi i tipi di codice nel tradizionale dialogo delle finestre supera in parte la solitudine dei partner. Mentre come accade per le lettere e i colloqui telefonici, se manca il codice immaginativo, la solitudine dei partner permane intatta. Il dialogo si limita allo scambio di un messaggio unidimensionale concettuale. L’attuale sovraccarico delle reti postali e telefoniche, da parte di tentativi disperati di spezzare la solitudine, dimostra proprio questo . Ma la televisione in futuro che aspetto potrebbe avere? Alcune risposte a questa domanda esistono già. Essa potrebbe avere l’aspetto di un telefono munito di schermo. Se dovesse riuscire la rivoluzione che portasse la televisione a rete aperta, a cui partecipassero altrettanti partner quanti sono oggi i fruitori della radiotelevisione o gli odierni fruitori delle reti postali o telefoniche, allora la struttura della società muterebbe in modo fondamentale. QUBE E LA QUESTIONE DELLA LIBERTÀ Nella televisione, si celano anche tendenze del tutto diverse, che si orientano ad una presa di coscienza da parte degli interessati. Il 1 Dicembre 1977 nasce QUBE, la prima rete televisiva commerciale, gli abbonati attualmente sono circa 25.000 dunque le persone coinvolte sono circa 100000. Esse dispongono di un ricevitore comune e di una tastiera con cui possono scegliere i programmi desiderati. Tuttavia è chiaro che ci troviamo di fronte a una tendenza gravida di futuro. Non si approfondiranno qui le innumerevoli possibilità di questo sistema nell’ambito della politica, dell’istruzione universitaria, dell’arte, della giustizia, della pedagogia ecc… tuttavia un punto particolare va rilevato. I tasti collocati sulla destra permettono la scelta fra quattro opzioni e il rifiuto di tutte e quattro. L’analisi esistenziale distingue tra forme di esistenza, quella attiva e quella passiva, la produttiva e la consumatrice, la pratica e la teorica, la pubblica e la privata. La maggior parte delle culture occidentali del passato apprezzavano maggiormente la vita privata contemplativa rispetto alla vita pubblica attiva. La morale del lavoro protestante ha rovesciato questi valori, per cui nella modernità il consumo serve alla produzione, la teoria della prassi e il privato costituisce solo un punto di partenza per un impegno nella vita pubblica. Pertanto ci troveremmo sulla soglia di una cultura del consumo, del tempo libero, della spoliticizzazione, in breve della cultura delle masse. Lo schermo televisivo è l’esempio di una simile tesi: l’uomo di massa intento a guardare lo schermo nella sua stanza. Ma se si prende in considerazione QUBE si può pervenire ad una valutazione diversa delle tendenze presenti. Perché si vede allora un apparato che produce un livello di esistenza in cui la distinzione tra pubblico e privato, tra azione e passione, tra prassi e teoria perde ogni senso . La tastiera QUBE permette di scomporre le decisioni esistenziali in decisioni puntiformi. La decisione di guardare un film porno o di votare il signor x come dirigente di un club sportivo, non ha il peso esistenziale che hanno decisioni a favore del terrorismo o della ricerca pura. Tuttavia l’effetto cumulativo di decisioni simili, non solo ha lo stesso valore delle decisioni esistenziali, ma addirittura le oltrepassa. Ma se si riflette sull’effetto cumulativo delle decisioni del secondo tipo, bisogna sostenere il contrario: il suicida si decide tra l’alternativa di essere oggetto o soggetto, mentre l’abbonato di QUBE quotidianamente decide costantemente si essere oggetto e al contempo soggetto. L’efficacia immediata delle decisioni atomizzate si mostra anche in altri modi. Le decisioni vitali prima e al di fuori di QUBE, hanno un effetto solo quando sono seguite da una serie di azioni e quindi da una serie di reazione da parte della realtà. Nel sistema QUBE invece la decisione è l’azione stessa. Essa consiste nella pressione sui tasti. Le azioni susseguenti a questa pressione sono realizzate dall’apparato e dunque sono autonome. L’autonomia e l’automatismo delle azioni messe in moto nell’apparato dalla decisiva pressione sui tasti meriterebbero di essere chiarite sulla base di esempi concreti. La polverizzazione delle decisioni nel sistema QUBE non comporta nessun restringimento dell’orizzonte degli interessati. Il mondo vitale di chi partecipa a QUBE non è per niente più povero di quello dei destinatari dei mass media. Se si lascia libero corso alla fantasia e ci si immagina un sistema QUBE straordinariamente perfezionato a cui partecipi gran parte dell’umanità allora diventa possibile proiettare le decisioni polverizzate su un piano capace di integrarle. L’apparato delle profezie correnti funziona nel clima dell’irresponsabilità. L’apparato dal punto di vista QUBE produce una consapevolezza, carica di responsabilità, dei limiti di ognuno. Questa seconda visione dell’apparato futuro è sintetizzabile in questi termini: oggi l’uomo vive su due piani di esistenza, quello tra vita attiva e quello della vita contemplativa. Egli deve decidersi fra i due piani di linea di principio, ma anche quotidianamente. L’uomo futuro dovrà prendere le sue decisioni in questo spazio vitale tridimensionale che sta sorgendo, in cui sia lo spazio privato che quello pubblico sono aboliti e insieme conservati. Che questo sia giusto o no, il mondo della vita è sul punto di acquisire una nuova dimensione. IL POLITICO NELL’EPOCA DELLE IMMAGINI TECNICHE Le immagini sono un codice antichissimo, ma quelle preistoriche servivano a dotare i loro destinatari di una sorta di introduzione a come comportarsi, per esempio le pitture parietali di Lascaux dovevano mostrare come si cacciano i cavalli. È importante notare che queste immagini rivelano una struttura magica: significavano scene, non accadimenti. Insomma, la storia e la politica ancora non erano necessarie perché gli uomini conducessero una vita buona. Tuttavia queste a un certo punto divennero inutili, perché nascondevano il mondo che significavano, anziché mostrarlo. Per contrastare la funzione magico- estraniante delle immagini fu inventata la scrittura lineare, che spiegava le immagini, permettendo di riscoprire la realtà. Le righe trasformavano le scene in un accadere lineare, si generò così il tempo lineare, il tempo storico. Il clima esistenziale fu modificato radicalmente; la vita non era più un ciclo entro l’eterno ritorno, ma divenne una serie di istanti irrevocabili che esigevano decisioni drammatiche. Era nata la coscienza politica, ostile all’immagine e quindi antimagica. Ora, la coscienza politica, benché strutturalmente fondata su testi lineari, dipende anche da una specifica struttura della comunicazione, il “discorso”. I testi sono informazioni elaborate privatamente, e poi pubblicate. Queste informazioni diventano accessibili al destinatario nello spazio pubblico (la “repubblica”). Tale specifica struttura della comunicazione stabilisce degli spazi privati, in cui viene prodotta informazione e degli spazi pubblici in cui questa informazione viene ricevuta. Questa stabilisce un determinato ritmo: gli uomini lasciano la propria sfera privata, calcano lo spazio pubblico e quando ritornano a casa immagazzinano e rielaborano le informazioni dello spazio pubblico. Ma la coscienza politica non rimase mai completamente al riparo dalla provocazione esercitata dalle immagini e dalla magia. informazioni vengono elaborate in ambito privato e inviate negli spazi privati tramite cavi/canali. Questa trasformazione antipolitica ha prodotto due piani di distribuzione contrapposti. Uno è quello a fascio monodirezionale, grazie a cui singole emittenti trasmettono a singoli destinatari, che non hanno a loro volta canali che li colleghino con le emittenti. Questo conduce a una società di massa omologata, totalitaria. L’altro è quello a rete. Se dovesse prevalere la distribuzione a fascio monodirezionale allora andremmo incontro a una forma di vita irresponsabile, istupidente, brutalizzata. Ma se la rete dovesse permeare i mass media e affermarsi tramite loro riuscendo a lacerare la monodirezionalità della distribuzione, allora l’utopica società dell’informazione in cui potremmo realizzarci reciprocamente sarebbe avanzata tecnicamente ed esistenzialmente, nell’ambito del fattibile. RIFLESSIONI NOMADICHE Già dalla scuola media si divide: età della pietra più antica (Paleolitico- fino alla scoperta dell’agricoltura), media (Mesolitico) e recente (Neolitico- fino al 1990, anche se non sappiamo se possiamo già definirla finita). La tripartizione del tempo dell’umanità in età della pietra più antica, più recente e immediato futuro, scaturisce dal fatto che siamo in grado di constatare che ci sono state tre catastrofi nel corso del nostro esser-qui-sulla Terra. La prima possiamo chiamarla “ominazione” e si manifesta come impiego di strumenti di pietra. La seconda catastrofe può essere chiamata “nascita delle civiltà” e si manifesta nello stabilirsi a vivere in villaggi. La terza non ha ancora un nome preciso e si manifesta nel fatto che il mondo perde i suoi connotati abituali e rassicuranti, e diventa inabitabile. Il genere umano in tutte le sue specie è un genere di mammifero nomadizzante, dedito alla caccia e alla raccolta, che si distingue dagli altri generi per l’uso di utensili. Circa diecimila anni fa avvenne una crisi ecologica: la temperatura aumentò e le steppe si trasformarono in foreste. Anziché morire in quanto specie che viveva di caccia e raccolta, come sarebbe dovuto accadere, l’homo sapiens sapiens trasformò di nuovo le foreste in steppe artificiali e, anziché cacciare e raccogliere cominciò a mangiar erba e a far pascolare sull’erba artificiale animali erbivori. Cacciatori si trasformarono in agricoltori e allevatori, diventando sedentari. Ma l’età della pietra più recente costituisce un’interruzione del nomadismo durata diecimila anni. I sedentari possono essere localizzati (hanno degli indirizzi), mentre i nomadi possono essere definiti solo nel contuum spazio-temporale. Anche i sedentari hanno una dimensione temporale, perché vivono e perciò devono morire. Anch’essi sono fenomeni fuggevoli, passeggeri, per questo motivo anche agli indirizzi dei sedentari bisogna aggiungere una data. D’altra parte, anche i nomadi occasionalmente fanno tappa, perché i loro corpi sono pesanti e le loro tombe sono geograficamente localizzabili. Insomma, certamente i sedentari stanno seduti e nomadi viaggiano, ma entrambi sono provvisori in quanto entrambi sono esseri umani. Se dunque si guarda al fenomeno della sedentarietà allora si vedono, case, un villaggio: si vede politicamente. Ma la considerazione da fare è che il possesso (di case, proprietà, ecc) è molto più recente dell’esperienza legata al viaggiare nomadico. il possesso è più facile da afferrare rispetto all’esperienza. Il villaggio ideale, della perfetta repubblica, è pensato con case attorno a una piazza, con collina alle spalle e fiume nei pressi. I sedentari non sono poi davvero sedentari perché si muovono tra casa e piazza (e gli altri spazi detti). Il traffico descritto e la polizia che lo regola costituiscono la cosiddetta “vita civilizzata”, dove “civilizzata” significa proprio l’abitare il villaggio. E questo traffico che poteva essere definito anche un pendolarsi, un girare nel vuoto, si aveva perché finora restando in casa non ci si poteva informare. Finora, se qualcuno restava a casa era “idiota”, nel senso che non sapeva nulla del mondo. Grazie alla rivoluzione dell’informazione questa situazione è mutata: ora le informazioni sono diffuse nelle case private e attualmente l’idiota è chi esce dalla porta di casa per andare in uno spazio pubblico. Ma questo è un errore perché le informazioni fornite a domicilio corrono lungo canali materiali, o immateriali, che aprono dei buchi nei muri e nei tetti delle case. La casa è diventata inabitabile, non si può pos-sedere più nulla, perché tutto ciò che è mobile e tutto ciò che è immobile è coinvolto in un vortice che toglie senso alla separazione tra privato e pubblico. 1) Ciò che rende possibile il potere non è più il possesso ma l’informazione 2) L’infrastruttura del villaggio non è più l’economia, ma la comunicazione Entrambe le formule, a modo proprio, proclamano che la forma di vita sedentaria, quindi la casa, la stalla, il campo, ecc., non sono più funzionali e che noi cominciamo a nomadizzare. Nomadi sono gente che si muove dietro a qualcosa, che insegue qualcosa e il viaggiare non finisce una volta raggiunto lo scopo, ce n’è sempre un altro. In modo completamente diverso dal moto pendolare del sedentario tra privato e politico, il viaggio del nomade è un vagare all’aperto. A noi sedentari il vento dà fastidio perché è inafferrabile, può solo essere percepito. Il vento è per il nomade quello che la terra è per il sedentario. Il fatto che per noi il vento è inafferrabile gli conferisce quell’aura che chiamiamo il “sacro”. Il vento ha questa spettrale inafferrabilità che sospinge in avanti i nomadi, al cui richiamo alcuni ubbidiscono e il vento diventa esperienza, che per noi sedentari è rappresentabile come calcolo e computazione. Noi cominciamo a nomadizzare non solo perché il vento soffia attraverso le pareti bucate delle nostre case ma anche perché è entrato in noi stessi. Chi possiede non fa esperienza di nulla e chi fa esperienza non possiede nulla. L’età della pietra più recente (dall’8000 a.C. fino a oggi), si è svolta con una prevalenza quantitativa di sedentarietà. Ma a dare il tono è stata la minoranza nomadica. L’età della pietra più recente è finita perché noi cominciamo a nomadizzare. COSTRUIRE CASE Siamo animali che abitano, perché senza un posto abituale, non potremmo fare nessuna esperienza. Per capire, basta fare del turismo. Non possono esistere turisti senza casa, non farebbero nessuna esperienza. Nel medioevo siamo considerati proprio come turisti senza casa. Homines viatores, “caoti” che si aggiravano nella valle di lacrime. Si stanno moltiplicando i segni di un nuovo modo di essere senza casa. - L’elemento decisivo è il tetto: “essere senza casa” ed “essere senza tetto” sono sinonimi. I tetti sono strumenti per sudditi: al loro riparo ci si può rannicchiare e nascondere di fronte al signore e padrone (che si tratti di un dio o della natura). La parola tedesca Dach (tetto) proviene dalla stessa radice del termine greco téchne: i conciatetti sono gli autentici artisti, essi tracciano il confine tra il regno sovrano delle leggi e lo spazio privato del suddito. Noi non crediamo più a leggi imposte dall’alto, crediamo piuttosto di essere noi stessi a proiettare le leggi. Non abbiamo più bisogno dei tetti. - I muri sono dispositivi di difesa contro il fuori, non contro l’alto. La parola proviene da munire (difendersi), sono munizioni. I muri hanno due pareti, la parete esterna contro stranieri pericolosi e la parete interna si volge ai detenuti della casa per garantire la loro sicurezza. Il muro deve difendere il segreto dallo spaesante. Chi è contro la segretezza deve abbattere i muri. - Finestre e porte: per poter vedere e uscire e avere uno sguardo da dentro a fuori, di cui la finestra è lo strumento e a cui i greci danno il nome di theorìa. Un conoscere senza pericoli e senza esperienza. Ora è possibile allungare fuori dalla finestra degli strumenti e acquisire esperienza senza pericoli. Le porte sono buchi nei muri per entrare e uscire, per fare esperienza nel mondo, uscendo, perdendosi e ritrovarsi quando si torna a casa. Hegel chiama questo moto pendolare attraverso la porta “coscienza infelice”. Inoltre tornando a casa può accadere di trovare la porta chiusa. Si ha, certo, un mazzo di chiavi in tasca, per decifrare il codice segreto, ma nel frattempo il codice può essere stato ricodificato. Così si resta senzatetto. Le porte non sono strumenti felici e affidabili, come le finestre. A finestre e porte si può anche obiettare altro: da fuori ci si può arrampicare e guardare dentro le finestre, e attraverso la porta la forza pubblica può fare irruzione nella casa privata. Si possono trovare rimedi per spioni, ladri e polizia, ma vivendo in angoscia tra quattro pareti. Tetto, muro, finestra, porta, attualmente non sono più funzionali e ciò spiega come mai iniziamo a sentirci senza casa. Dobbiamo progettare nuovi tipi di case. La casa ideale con gli elementi detti ormai esistono solo nelle fiabe. Cavi materiali e immateriali hanno bucherellato tutta la casa. La casa ideale è diventata una rovina, attraverso le cui crepe spira il vento della comunicazione. La casa non va più pensata come una caverna artificiale ma come curvatura del campo delle relazioni interumane entro la quale siano “attratte” delle relazioni. Una casa così attraente dovrebbe raccogliere queste relazioni, processarle in informazioni, immagazzinarle e trasmetterle oltre. Una simile costruzione di case è piena di pericoli. I cavi potrebbero essere distribuiti infatti a fascio monodirezionale, anziché a rete, quindi “fascisticamente” anziché “dialogicamente”. Come la televisione, non come il telefono. Gli architetti devono provvedere all’installazione di una rete di cavi reversibili. Una simile architettura senza tetti e muri, aperta a tutto il mondo, trasformerebbe l’esistenza. Le persone non potrebbero più rannicchiarsi da nessuna parte, non avrebbero più suolo né sostegno, se non tra di loro. LA FABBRICA Il nome Homo sapiens sapiens, esprime l’opinione che noi ci distinguiamo dalle specie umane precedenti per una sapienza nientemeno che doppia. È meno ideologica comunque la denominazione di Homo faber, che intende evidenziare la nostra appartenenza a quelle specie di antropoidi che fabbricano qualcosa. Se troviamo da qualche parte qualcosa di simile all’uomo, nelle cui vicinanze ci sia una fabbrica e, se è chiaro, che questa fabbrica viene fatta funzionare da questo essere simile all’uomo, allora questo va chiamato Homo faber, quindi “uomo”. Con ciò “fabbrica” è il tratto umano caratteristico, ciò che una volta si chiamava “dignità” umana. Per esempio, per scoprire come hanno vissuto, pensato, sentito, agito gli uomini del Neolitico, non si può fare di meglio che studiare le fabbriche di ceramiche. Tutto (scienza, politica, arte, religione) è ricavabile dall’organizzazione di fabbrica e dai fabbricati delle ceramiche. Così, come per capire gli uomini del passato, chi si vuole interrogare sul nostro presente può innanzitutto criticare le fabbriche odierne, e chi solleva problemi sul futuro pone la questione della fabbrica del futuro. Se consideriamo la storia dell’umanità come storia della fabbricazione e tutto il resto come un commento supplementare, allora, possono essere distinti i seguenti passaggi: mani, strumenti, macchine, apparati. Fabbricare significa strappare qualcosa dal mondo dato, trasformarlo in qualcosa di fatto, applicarlo e utilizzarlo. Questi movimenti trasformatori sono dapprima compiuti con le mani, poi con strumenti, con macchine e infine con apparati. Strumenti, macchine e apparati possono essere considerati come simulazioni che prolungano le mani come protesi. Le fabbriche sono quindi luoghi in cui il dato viene mutato in qualcosa di fatto e in cui conta sempre meno l’informazione ereditata e sempre di più quella appresa, acquisita. Sono quei luoghi dove gli uomini diventano sempre meno naturali e più artificiali, producono nuove forme di uomini: dapprima l’uomo della mano, poi quello dello strumento, poi l’uomo delle macchine e infine l’uomo degli apparati. La prima rivoluzione industriale è stata quella dalla mano allo strumento. Un uomo circondato da strumenti non è più di casa nel mondo della vita quanto l’uomo originario che si serviva solo delle sue mani. La cultura lo protegge ed è il suo carcere. La seconda rivoluzione industriale è quella in cui si è passati dallo strumento alle macchine, progettate da teorie scientifiche, sono più efficienti, veloci e, per questo, costose. Nel caso dello strumento l’uomo è la costante e lo strumento la variabile (se si rompe si sostituisce con uno strumento nuovo). Nel caso della macchina, questa è la costante e l’uomo la variabile (l’uomo invecchia o si ammala e il proprietario lo rimpiazza con un altro). Ma per esempio, anche tra macchina e proprietario della macchina la costante è la macchina (anche il proprietario potrebbe invecchiare e morire o vendere la macchina). La seconda rivoluzione industriale ha rimosso l’uomo dalla sua cultura, come la prima l’aveva staccato dalla natura e la fabbrica di macchine va considerata come una sorta di manicomio. Qui si discute della terza rivoluzione industriale, quella dalle macchine agli apparati. È tuttora in corso e perciò ci chiediamo: quale aspetto avrà la fabbrica del futuro? E cosa significa esattamente la parola “apparato”? Ecco una possibile risposta: mentre le macchine erano costruite in base a teorie scientifiche, gli apparati possono anche applicare teorie e ipotesi neurofisiologiche e biologiche. In altre parole, mentre gli strumenti sono simulazioni empiriche delle mani e del corpo, le macchine ne sono simulazioni meccaniche e gli apparati simulazioni neurofisiologiche. Si tratta di simulazioni ingannevoli dell’informazione. La fabbrica del futuro riformulerà di certo il rapporto uomo-strumento in modo completamente nuovo. Non sarà più come un manicomio, ma piuttosto un luogo in cui si realizzeranno le possibilità dell’Homo faber. Non appena entrano in gioco strumenti, possono e devono essere ritagliate dal mondo specifiche zone adibite a fabbrica. Queste zone adibite a fabbrica sono cerchie al cui centro sta l’uomo e in cerchi eccentrici stanno gli strumenti, a loro volta circoscritti dalla natura. Non appena sono inventate le macchine l’umanità deve trasformarsi dato che ora è la macchina a dover stare al centro perché nel processo di fabbricazione la macchina è più duratura e preziosa dell’uomo, l’architettura umana quindi deve essere subordinata a quella delle macchine. I fili della rete all’interno delle macchine possono essere ordinati in centripeti e centrifughi: lungo i fili centripeti vengono risucchiati nelle macchine gli oggetti naturali e gli uomini, per esservi trasformati e impiegati. Lungo i fili centrifughi defluiscono dalle macchine le cose e gli uomini trasformati. In questo vortice di macchine è concentricamente coinvolta l’intera natura. interumane divengono “più attuali”. I ventri d’onda agiscono sul campo circostante “attraendo”, ed essi attraggono sempre nuove relazioni interumane. Ogni onda è un punto focale per l’attualizzazione di virtualità interumane. Tali ventri d’onda vanno chiamati “città”. Con ciò tuttavia la nuova immagine di città come luogo attrattivo per la realizzazione delle possibilità umane non è ancora progettata. La speranza di ridurre tutti questi campi di relazione a un unico campo, la speranza di proporre una teoria generale dei campi, provvisoriamente va messa da parte. La nuova immagine di città (la nuova urbanità) non è un modello chiarissimo, l’elemento che colpisce se si osserva questa immagine di città è la sua immaterialità. In essa non sono riconoscibili case, né piazze, né tempio, ma solo un intreccio di fili. Un esempio lo abbiamo a Colonia (una città della Germania). Prima cosa estremamente evidente sono gli insediamenti commerciali in cui si offrono maschere per l’identificazione e sono ciò che costituisce l’intera città di Colonia. Colonia si rivela come il ventre d’onda nel campo delle relazioni interumane, in cui queste relazioni sono raccolte in maschere. Una “nuova urbanità” è il tentativo di un “piano urbanistico” in cui le maschere sorgano dialogicamente dalle relazioni interumane, per essere poi di nuovo assorbite in esse. Un luogo in cui “noi” ci identifichiamo reciprocamente, in quanto “io” e “tu”, un luogo in cui “identità” e “differenza” si condizionerebbero reciprocamente. Gli “altri” devono diventare “prossimo”, “vicini”. E questo presuppone che i cavi delle relazioni interumane siano distribuiti in modo da essere reversibili, non lungo fasci monodirezionali, ma lungo autentiche reti, per conferire possibilità di risposta come avviene nella rete telefonica. Come ogni rivoluzione anche quella urbanistica è condizionata tecnicamente, ma essa presuppone che noi dobbiamo trasformarci esistenzialmente e uscire dalla capsula del Sé. Tutto ciò suona utopico e lo è davvero, perché la nuova città non è più localizzabile geograficamente ma è ovunque esistano uomini che si aprano gli uni agli altri vicendevolmente. Inoltre tutto ciò è realistico proprio perché suona come utopico, perché l’idea relazionale del mondo e l’antropologia che ne segue esigono un pensiero utopico. Si è parlato di immagine della città, del mondo, dell’uomo, di maschera. Ciò è inevitabile, noi non possiamo più descrivere il mondo e noi stessi al suo interno. Il linguaggio discorsivo e la scrittura non sono più adeguati: tutto è calcolato e gli sciami di bit puntiformi non sono descrivibili, ma possono essere contati e gli algoritmi possono essere ricodificati in immagini. Dunque il mondo è calcolabile e perciò è diventato nuovamente rappresentabile. Per rappresentarcelo dobbiamo mobilitare una nuova immaginazione che si basi sul calcolo, con gli apparati adatti allo scopo. Le attuali relazioni interumane saranno sempre più codificate in immagini del genere. Le nostre percezioni, rappresentazioni, intenzioni, conoscenze, sentimenti, dovranno sempre più assumere la forma di tali immagini. In questo modo, tutte le discipline creative diverranno forme artistiche (e così potrebbe divenire anche la politica). IN CAMMINO VERSO LA NON-COSA Astrarre significa detrarre. Le cose erano il “concreto” grazie al quale l’uomo poteva mantenersi in vita. “Astrarre” era allora un movimento grazie a cui l’uomo poteva distanziarsi dalla sua situazione concreta. Era un movimento di allontanamento dalle cose, per dirigersi verso non-cose. Queste non-cose, ricercate dall’astrazione, erano chiamate “forme”: concetti, modelli, simboli. Questo permetteva di graduare l’astrazione: più una forma era lontana dalle cose, tanto più era astratta, “teorica”. Le astrazioni supreme erano le più vuote ad es. i simboli logici. La risposta alla domanda posta dal processo dell’astrazione “da dove e verso dove” era: “dalle cose verso le informazioni”. Oggi questa risposta non è più così ovvia, perché sta nascendo qualcosa di nuovo. La durezza delle cose comincia a essere rimossa da non-cose impalpabili. Nella nostra vita non possiamo e non vogliamo più attenerci alle cose: esse non sono più il “concreto” perciò “astrarre” non può significare “via dalle cose”. Le cose interessano sempre meno, la maggior parte della società è occupata non più a produrre cose, ma a manipolare informazioni. Il proletariato, produttore di cose, diventa minoranza e i produttori di non-cose diventano maggioranza. Non è più un paio di scarpe o un mobile ciò che si esige, ma ferie più lunghe e scuole migliori per i figli: non sempre più cose, ma sempre più informazioni. Il valore si sposta dalla cosa all’informazione: trasvalutazione di tutti i valori. Le cose diventano tutte quante gadget. Questo è anche il nuovo significato del concetto di imperialismo: l’umanità è dominata da quei gruppi che dispongono di informazioni riguardo alla costruzione di armi atomiche e di centrali atomiche, riguardo alle operazioni genetiche e agli apparati amministrativi. Chi dispone soltanto di cose, di materie prime o di prodotti alimentari, si vede costretto a sottostare a queste informazioni sempre più costose. Non la cosa, ma l’informazione costituisce ciò che è economicamente, socialmente e politicamente concreto. Le informazioni non-cose sono “inafferrabili” nel senso letterale del termine. Certo, la parola “informazione” dice “formazione in” cose. Le informazioni hanno bisogno di supporti cosali, di tubi catodici, di chip. Questo carattere spettrale del nostro ambiente, questa sua nebulosità inafferrabile è il clima emotivo in cui dobbiamo vivere. È in questa situazione che si pone la domanda sul “da dove e verso dove” dell’astrazione. L’intenzione di ogni astrazione è cogliere da una certa distanza l’ambiente concreto. Adesso l’ambiente da cui dobbiamo distanziarci è il mondo nebuloso delle informazioni che ci programmano. Ed è evidente verso dove dobbiamo orientarci in questo astrarre: noi dobbiamo, per usare le parole di Husserl, tornare alla res* (per il significato di res vai a pag. 204 e leggi la parte sotto la riga… io non ci ho capito una mazza) Astrarre deve significare oggi ritrovare la strada verso la res. Dobbiamo tentare di immaginarci quale aspetto avrà la vita concreta all’interno di un ambiente non-cosale, perché è da questa concretezza che vale la pena di astrarre. In questa nuova vita, è degna di nota l’atrofia delle mani. L’uomo futuro, disinteressato alle cose, non avrà più bisogno delle mani, perché non dovrà più maneggiare nulla. Gli apparati da lui programmati eseguiranno ogni futura manipolazione. Delle mani resteranno le punte delle dita. Con esse, l’uomo futuro pigerà dei tasti per giocare con simboli e per reclamare informazioni audiovisive dagli apparati. Non agirà più. Non sarà lavoratore, Homo faber, ma giocatore con forme, Homo ludens: lui è l’uomo del futuro non cosale. Se vogliamo orientarci nell’ambiente spettrale delle non-cose, allora dobbiamo cercare di ritrovare la strada verso i fenomeni. “Astrazione deve significare astrarre dalle non-cose la res. Le res, non le cose. Questi oggetti duri si sono definitivamente dissolti in campi, in rapporti. Se la cosa si presenta come se esistesse oggettivamente, la res fa capire di essere un luogo in cui convergono intenzioni umane. In quanto cosa, un tavolo, è un problema in cui io urto (essendo materia), in quanto res è parte di una convenzione generale. Alla materialità del tavolo non posso più credere, ma certo posso credere di partecipare a una convenzione in cui si presentano res come i tavoli. Il tavolo rientra nella convenzione e in essa rientro io. La strada della nuova astrazione conduce via dall’informazione e verso gli altri. CAMBIAMENTO DI PARADIGMA Qualcosa è sul punto di mutare radicalmente. Ci troviamo di fronte a un cambiamento di paradigma. Ciò che sta mutando si avverte ovunque, ma non per questo è incondizionatamente afferrabile. Nel nostro cammino verso la morte ci capita di urtare contro ostacoli, che dobbiamo in qualche modo superare, per pervenire alla morte. Questi ostacoli in tedesco si chiamano Gegenstande, in latino oggetti, in greco problemi, e nel loro complesso possono essere chiamati il “mondo oggettivo” che è problematico. Prima, la banale esperienza dell’urtare contro un tavolo era intesa diversamente e si trattava perciò di un’altra esperienza. Se questo è vero, significa che cominciamo a vivere il mondo in maniera diversa rispetto a prima. Che il consenso moderno su cosa significhi urtare contro un tavolo di legno non sia una cosa ovvia, lo si può osservare in qualunque bambino piccolo. Se il bambino urta contro il tavolo, comincia a tempestarlo di pugni. Il tavolo non viene vissuto come un Gegenstand, un oggetto, un problema, ma come un nemico ostile. Non esiste perciò nessun mondo oggettivo con problemi da risolvere, bensì tutto è animato e pieno di intenzioni (per lo più cattive). Questo consenso magico è antico. Si radica profondamente in noi e quello moderno lo ricopre, senza però riuscire a eliminarlo del tutto. Ma ovviamente il consenso moderno non è emerso da quello magico, bensì tra magia e modernità si interpone un’intera serie di cambiamenti di paradigma. Nei testi dei filosofi greci classici noi urtiamo contro del legno in forma di tavolo. Noi non urtiamo contro il tavolo quindi, ma contro lo spigolo del tavolo e questo è un aspetto della forma del tavolo. Il legno è solo la materia (il riempitivo con cui la forma è riempita), mentre ciò contro cui noi in “realtà” urtiamo è la forma. Il legno è solo un’”apparenza” in cui e attraverso cui la forma del tavolo viene vissuta come la realtà vera e propria. Questa peculiare concezione dell’esperienza dell’urto contro il tavolo di legno può essere chiamata “realismo delle forme, delle idee” e può essere confrontata con un’altra concezione (chiamata “realismo della materia” o “materialismo”), ovvero con quella secondo cui noi non urtiamo nella forma del tavolo, bensì nel legno. La concezione in base alla quale un tavolo di legno è una forma-tavolo riempita di legno, o in base alla quale è un pezzo di legno su cui è stata impressa la forma di tavolo è conseguenza di un modo di vedere specifico, che nella civiltà occidentale si chiama “teoria”. Si tratta di un modo di vedere, noi scrutiamo il tavolo ancora prima di avere urtato contro di esso e dietro a esso vediamo la forma-tavolo. Tuttavia, da sola, una simile teoria non può illuminare in modo soddisfacente la prassi dell’urto. Questa prassi suscita cioè, spontaneamente, la cosiddetta “questione metafisica” circa il rapporto tra legno e forma. In altre parole che cosa ha fatto il falegname quando ha prodotto il tavolo di legno? Il consenso moderno intorno alla domanda fornisce questa risposta: egli ha dato forma di tavolo al legno amorfo. “Da dove ha tratto la forma del tavolo?” Il design del tavolo pare essere risultato di diversi fattori che dipendono dalla natura del legno, dallo scopo del tavolo, e anche dall’estetica. Dal punto di vista del realismo delle forme, il falegname ha avuto davanti agli occhi una forma di tavolo e ha riempito di legno questa forma vista teoricamente, per renderla visibile agli occhi sensibili. Questo non può mai riuscirgli in modo perfetto, perché nel riempire di legno la forma, non soltanto il legno viene “informato”, ma viene anche “deformata” la forma. Il falegname è un traditore della forma-tavolo; ovvero è impossibile fabbricare un tavolo ideale. La forma-tavolo è evidente solo teoricamente. La scelta del tavolo di legno come esempio era un trucchetto, perché, in primo luogo, la parola greca per “legno” è tradotta in latino con “materia” e in tedesco con “stoff”, in secondo luogo, perché essa pone la questione del design nel contesto in cui essa diventa particolarmente significativa. Cosa fa il falegname: sceglie un design per una materia, o una materia per una forma concepita anticipatamente? E in terzo luogo perché un tavolo in legno è un prodotto culturale (opera d’arte) e pone pertanto la questione della tecnica come teoria applicata delle scienze naturali. Lo sguardo teorico si è formato in Asia Minore all’incirca nel VI secolo a.C. e si è differenziato sempre più chiaramente da altri modi di vedere comparabili. L’interessante in ciò non fu solo che vennero distinte teoreticamente apparenza e realtà (es. le stelle sono apparenza, le orbite sono reali), bensì che nella descrizione delle orbite reali è necessario salvare anche l’apparenza fenomenica. Le orbite vanno descritte in modo tale da poter prevedere il fenomeno (per esempio un’eclissi solare) e proprio in questa previsione risiedeva una dimostrazione della realtà delle orbite. Questo tentativo degli astronomi di salvare l’apparenza condusse a forme orbitali straordinariamente complicate, il che rendeva molto laboriose le previsioni. Un aspetto importante del cambiamento di paradigma, a cui la modernità deve il suo sorgere, consiste nel fatto che si rinunciò a salvare l’apparenza. A dispetto di ogni apparenza, si pose al centro del cielo il Sole anziché la Terra, ottenendo con ciò orbite più semplici e previsioni più comode. Ma si credeva veramente che la Terra paia soltanto essere al centro, mentre in realtà ruota intorno al Sole. Per questo il conflitto fra l’astronomia e la Chiesa (“la Terra è realmente al centro e sotto la Luna, o è realmente in cielo?”) fu un conflitto metafisico e spesso finì con l’essere mortale. La natura complicata del sistema tolemaico mostrava che, da qualche parte, esso doveva essere sbagliato. La realtà non può essere complicata, bensì dietro l’apparenza complicata si deve nascondere una realtà semplice. Così contro ogni apparenza si pose il Sole al centro, cercando di vedere nei complessi movimenti degli astri semplici orbite circolari. Ciò non riuscì e i cerchi vennero sostituiti da ellissi. Il cambiamento di paradigma consistette dunque nel fatto che, da quel momento in poi, l’apparenza non era più da salvare, ma da comprimere sperimentalmente in diverse forme, fino a che si adattasse a una di esse. Per scoprire la forma reale si trattava di imporre all’apparenza riluttante la forma scoperta: di applicare la teoria. come stanno le cose in realtà lo si scopre comprimendo l’apparenza di una forma dopo l’altra, sino a che vi si adatta. Si scopre dunque la formula della caduta dei gravi e dell’attrito e risulta che, in realtà, sulla Terra tutti i corpi cadono (siano essi pietre o piume). In base a queste formule si costruirono macchine, si svilupparono la rivoluzione industriale e la società moderna. La dimostrazione della verità delle forme reali non era più, come nel Medioevo, il fatto che si potessero prevedere fenomeni, bensì che funzionassero le macchine, la tecnica, il progresso. I moderni credevano che il mondo fosse stato costruito sulla base di un piano matematico di costruzione, che esistesse un falegname cosmico che aveva riempito di legno le forme concepite in precedenza, ma che ora questo falegname fosse morto e che essi ne avevano preso il posto. Questa storia evidenzia come noi non partecipiamo più al consenso moderno e perciò comprendiamo e viviamo tutto quanto in modo ogni singolo numero è separato da ogni altro da un intervallo. L’abbandono di questo pensiero (che abbandona le lettere alfabetiche per legarsi ai numeri) consiste nel fatto che le prime non sono sufficientemente chiare, distinte e disciplinate per condurre alla conoscenza. La cosa che pensa – la res cogitans – è chiara e distinta, ciò significa che è piena di “buchi” tra un numero e l’altro. Ma il mondo è una cosa estesa – res extensa – in cui tutto converge senza intervalli. Se dunque applico la res cogitans alla res extensa per riflettere su di essa, la res extensa allora mi sfugge attraverso gli intervalli. Per questa ragione nel corso dell’età moderna il problema della conoscenza diventa quello di tappare i “buchi” fra i numeri. Cartesio cercò di risolverlo in modo semplice, credeva che ogni punto del mondo si lasciasse contare con i numeri e che quindi la geometria fosse il metodo della conoscenza. Si introdussero numeri nuovi per riempire gli intervalli. Così, con il metodo matematico è come se fossimo diventati onniscienti e onnipotenti. Tutto ciò è del tutto insufficiente per comprendere davvero l’attuale nascita di mondi alternativi dai computer. Anzitutto, non tutti gli uomini hanno compiuto il salto dalla coscienza lineare alla coscienza a-dimensionale, calcolatoria. La loro coscienza continua a essere quindi lineare, letteraria e alfabetica. Ma a produrre i modelli, in base a cui si orienta la maggioranza, in realtà sono i pochi uomini che si sono lasciati alle spalle quella coscienza. Sono loro per esempio che programmano pubblicità, film e programmi politici senza che coloro che ne sono manipolati riescano a rendersene conto. Tuttavia, la scissione della società tra pochi programmatori che pensano formalmente e numericamente e molti programmati che pensano alfabeticamente, non è ancora il nucleo della problematica odierna. Il nucleo sta nella pretesa di onniscienza e onnipotenza del pensiero formale. Sul piano teorico, il pensiero calcolatorio è penetrato sempre più profondamente nei fenomeni. Li ha analizzati (disaggregati) e in tal modo i fenomeni hanno cominciato ad avere sempre più la struttura del pensiero calcolatorio (es. in fisica i fenomeni si scompongono in particelle). Non si parla più dell’originaria res extensa, ma di sciami di particelle strutturati in base a campi (tante delle volte in cui scrivo “ma” è per non riscrivere “bensì”). La maggior parte degli sforzi teorico-conoscitivi fu dedicata a rendere adeguato al mondo il codice numerico, a produrre metodi matematici sempre più raffinati ed eleganti. Queste macchine calcolatrici veloci resero superfluo un simile lavoro. Esse calcolavano a una velocità tale che si accontentavano dell’addizione di 1 e 0 e del comando “digitalizzare”, potendo così permettersi di rinunciare a tutte le sottigliezze matematiche. Contavano con una rapidità tale da poter contare meglio dei più grandi matematici. La conseguenza fu sconvolgente perché il pensiero matematico che fino ad allora era stato considerato come una delle supreme capacità umane, rivelò di essere “meccanizzabile” e quindi una forma di lavoro indegna degli uomini. E si era davanti a un nuovo lavoro: programmare le macchine calcolatrici, anziché contare. La seconda qualità da evidenziare nelle macchine calcolatrici veloci è il fatto che sorprendentemente possono, non solo calcolare, ma anche computare, ovvero sono in grado di analizzare equazioni in numeri, ma anche di sintetizzare questi numeri in figure. Il mondo ha così assunto la struttura dell’universo numerico, il che pone problemi gnoseologici sconcertanti, allorché i computer mostrano che il pensiero calcolatorio può non solo scomporre (analizzare) il mondo in particelle, ma anche ricomporre (sintetizzare) nuovamente queste ultime. Non solo la cosiddetta “vita” è analizzabile in particelle, in geni, ma grazie alla tecnologia genetica, i geni possono essere anche sintetizzati a loro volta in nuove informazioni, così da produrre “esseri viventi artificiali”. O, i computer possono sintetizzare mondi alternativi, proiettati a partire dai simboli del pensiero calcolatorio. In questi mondi proiettati tutto ciò che pensabile matematicamente è anche effettivamente fattibile, anche ciò che nell’ambiente è “impossibile”. Infine, i computer mostrano oggi che possiamo proiettare e riguadagnare non solo questo universo ma quanti ne vogliamo. In breve il nostro problema gnoseologico, e con ciò anche il nostro problema esistenziale, è se si debba o no intendere assolutamente tutto, noi stessi inclusi, come apparenza digitale. Se tutto inganna, tutto è un’apparenza digitale. Ciò che resta è che tutto è digitale, che dunque tutto deve essere visto come una diffusione più o meno densa di elementi puntiformi, di bit. In tal modo diventa possibile relativizzare il concetto di reale, nel senso che qualcosa è tanto più reale quanto più la diffusione è densa. In tal modo noi docciamo concepire noi stessi – il nostro Sé – come la realizzazione di possibilità grazie alla densità della diffusione. E non basta solo capire il nostro Sé, dobbiamo anche agire di conseguenza. I mondi alternativi, emergenti dai computer, sono la trasposizione in atto di ciò che si è compreso. Che cosa fanno, propriamente, colori che si siedono davanti ai computer? Realizzano delle possibilità. Ciò che realizzano è qualcosa sia di esterno sia di interno: realizzano mondi alternativi con ciò che realizzano sé stessi. A partire da possibilità, “progettano” realtà tanto più effettive quanto più esse sono afferrate densamente. Grazie a un pensiero esattamente calcolatorio, i computer sono apparati per realizzare possibilità intraumane, interumane ed extraumane. Non siamo più infatti soggetti di un mondo oggettivo dato, bensì progetti di mondi alternativi. E non siamo più soggetti, ma progetti, in quanto non esistono più soggetti di cui potremmo essere i soggetti (manca da quello che ho capito la dimensione spirituale, l’anima, pag.236). L’apparenza digitale qui tematizzata è questa: attraverso la digitalizzazione tutte le forme d’arte (anche la scienza viene considerata tale), si trasformano in discipline scientifiche esatte e non possono essere più distinte dalla scienza. In più d’ora in poi concepiremo la bellezza come unico criterio di verità accettabile: “l’arte è meglio della verità”. Lo si può vedere già nell’”arte computerizzata”: più è bella l’apparenza digitale tanto più reali sono i mondi alternativi proiettati. Siamo partiti con il fatto che guardiamo con diffidenza i mondi alternativi oggi emergenti perché sono mondi artificiali e perché li abbiamo progettati noi stessi. Questa diffidenza può essere ora collocata nel suo contesto adeguato. È la diffidenza del vecchio uomo soggettivo, che pensa in modo lineare e ha consapevolezza storica, di fronte all’uomo nuovo, che si esprime nei mondi alternativi, con una coscienza formale, calcolatoria, strutturale, per il quale il “reale” è tutto ciò che è vissuto concretamente. In quanto i mondi alternativi sono sentiti come belli, essi sono anche realtà, entro le quali noi viviamo. Noi stessi siamo gli Scheinwerfer, i proiettori e progettatori di apparenza che progettano i mondi alternativi contro il nulla e dentro il nulla. L’APPARENZA DEL MATERIALE Il termine “materia” è il risultato del tentativo di tradurre in latino il concetto greco di hyle. Hyle originariamente significa legno. Ma quando i filosofi greci ricorsero alla parola hyle non pensavano al legno in generale, ma al legno che uno trova nelle botteghe dei falegnami. Essi infatti erano interessati a trovare una parola in cui si potesse esprimere un’antitesi al concetto di forma. Hyle dunque significa qualcosa di amorfo. Qui la concezione di fondo è la seguente: il mondo fenomenico, percepito dai nostri sensi, è una pappa informe e, dietro di esso, si celano forme immutabili che noi possiamo percepire, grazie allo sguardo sovrasensibile della teoria. La pappa amorfa dei fenomeni, il “mondo materiale”, è un inganno, mentre la realtà effettiva è costituita dalle forme, dal mondo formale. Il mondo materiale è l’imbottitura delle forme (da Stoff, termine tedesco che significa materia, sostanza, contenuto, stoffa, e che è il sostantivo del verbo stopfen che significa imbottire, riempire, tappare). La parola francese per imbottitura è farce, e consente di affermare che ogni realtà materiale rappresenta una farsa. All’opposizione materia-forma si è sviluppata materia-spirito. Qui la concezione di fondo è che i corpi solidi possono essere fluidificati e i corpi fluidi possono essere gassificati e perciò sparire dal campo visivo. Così per esempio, il respiro, può essere considerato una gassificazione del corpo umano solido. Nella scienza moderna, dalla rappresentazione degli stati di aggregazione (solido-fluido-aeriforme e viceversa) è scaturita un’altra immagine del mondo. Secondo questa immagine tale cambiamento interviene fra due orizzonti. Su uno, il punto zero assoluto, ogni cosa è solida (materiale), mentre sull’altro orizzonte, alla velocità della luce, tutto ha la forma di un gas (energetico). (si ricordi che gas e caos sono la stessa parola). L’opposizione materia-energia, ricorda lo spiritismo: si può trasformare materia in energia (fissione) ed energia in materia (fusione). Da qui nasce la scempiaggine parlando di “cultura immateriale”. Una cultura nella quale le informazioni sono introdotte nel campo elettromagnetico e da lì vengono trasmesse. La scempiaggine sta nell’abuso del concetto di immateriale, al posto di energetico, e nel fraintendimento del concetto di informare. I corpi pesanti intorno a noi, paiono ruzzolare senza nessuna regola, ma in realtà ubbidiscono alla formula della caduta dei gravi. Questa formula è aspaziale e atemporale, eterna, immutabile. L’informazione “caduta dei gravi” ha un contenuto (corpo) e una forma (una formula matematica). Parlando ora, dell’apparenza del sistema solare e della posizione del sole per esempio rispetto alla terra, emerge che ai fenomeni non si possono semplicemente imporre forme comode (ad es. che un pianeta gira intorno al sole seguendo un cerchio, m il cerchio è una forma comoda. In realtà i pianeti girano seguendo percorsi ellittici, quindi la forma è l’ellissi). Le forme non sono scoperte, né invenzioni, né idee platoniche o finzioni, ma sono contenitori messi insieme per i fenomeni (modelli). La scienza teorica non è vera, né fittizia, bensì formale (progetta modelli). Come ogni articolazione culturale anche la pittura mostra che la materia non appare (è inapparente), a meno che non la si informi e che essa una volta informata, incominci ad apparire. Nella pittura, come ovunque nella cultura, la materia è la specie in cui appaiono le forme. Effettivamente esistono due modi di vedere e di pensare: quello contenutistico e quello formale. Il modo di vedere e pensare barocco era contenutistico, perciò non materialistico. Il nostro modo di vedere e di pensare è invece più formale, e proprio perciò non immaterialistico. Questi due modi di vedere e di pensare conducono a due diversi modi di dipingere. Il contenutistico conduce a rappresentazioni, per esempio a raffigurazioni di animali sulle pareti delle caverne. Il formale conduce a modelli, per esempio i progetti di canalizzazione delle tavolette mesopotamiche. Il primo modo di vedere accentua nella forma ciò che appare, il secondo accentua la forma nel fenomeno. Un importante passo sulla strada della formalizzazione è l’introduzione della prospettiva. Per la prima volta ci si interessa, consapevolmente, di riempire di materia forme già approntate, di far comparire i fenomeni in forme specifiche. Un passo ulteriore lo si rintraccia in Cezanne, che riesce a far assumere a un contenuto due o tre forme contemporaneamente (es. “mostra” da diverse prospettive). Lo stesso accade nel cubismo che mostra forme geometriche predeterminate (che si intersecano tra loro), in cui il contenuto serve soltanto a far apparire le forme. Questa pittura si muove quindi tra contenuto e contenitore, tra contenuto e forma, tra aspetto materiale e aspetto formale dei fenomeni in direzione di ciò che, sbagliando, viene detto l’immateriale. Solo le immagini sintetiche rendono oggi “bruciante” la questione del rapporto tra contenuto e forma. Si tratta di apparati che consentono di far brillare su schermi come immagini colorate degli algoritmi (formule matematiche), possibilmente anche in movimento. Le equazioni frattali che compaiono sugli schermi come l’omino-mela di Mandelbrot, sono senza contenuto. Tali immagini sintetiche possono (falsamente) essere dette “immateriali” e non certo perché esse brillino nel campo elettromagnetico, ma perché mostrano forme prive di contenuto, forme vuote. Se si dipingessero a olio queste immagini, resterebbero anche allora “immateriali” nel senso detto, pur comparendo su una tela materiale. A partire da Platone o anche prima, si trattava di formare una materia già presente per portarla ad apparire, ora si tratta piuttosto di riempire il contenuto, di “materializzare” il fiume di forme che scaturisce dai nostri apparati. Il concetto dell’informare è in gioco. A partire dalla rivoluzione industriale diventa chiaro che il suo significato è: imprimere forza ai contenuti. Uno stampo di acciaio in una pressa è una forma, ed essa informa in bottiglie, posacenere, il flusso di vetro o di plastica che gli scorre davanti. Prima si doveva inoltre distinguere le informazioni vere dalle false. Erano vere quelle in cui le forme erano scoperte, false quelle in cui erano finzioni. Non consideriamo più le forme come scoperte, ma come modelli. Il problema non è dunque se le immagini siano superfici di elementi materiali o contenuti di campi elettromagnetici; bensì in quale misura sorgano dal vedere e dal pensare materiale, e dal vedere e dal pensare formale. Qualunque possa significare “materiale”, non può essere il contrario di “immaterialità”, perché solo l’immaterialità, o meglio, la forma, è ciò che in generale fa apparire il materiale. L’apparenza del materiale è la forma. Questa però, è un’affermazione postmateriale. RETROSCENA La concezione moderna del mondo è grossomodo questa: in quanto cosiddetti “soggetti” (ricorda per tutto il paragrafo), noi stiamo di fronte a un palcoscenico chiamato “mondo”. Di fronte a noi, stanno i fenomeni, che proprio perché ci stanno davanti, noi li chiamiamo “oggetti”. Ciò che si muove sul fondo, verso il buio, nel retroscena deve essere prima scovato, sembra non esserci niente di buono. È laggiù che dobbiamo inoltrarci se vogliamo prendere il potere ed essere noi a guidare i fenomeni. Questo nostro inoltrarci nel retroscena è ciò che chiamiamo “progresso”. La concezione moderna del mondo, nel corso della modernità, si è raffinata da quella barocca. Per fare un esempio: il palcoscenico è diventato un anfiteatro, le luci della ribalta, che fanno apparire gli oggetti, sono state incorporate nei soggetti e adesso possono illuminare il palcoscenico… e così via. Ma, paradossalmente, attraverso questi e altri aggiustamenti, la cosa “Mondo” è divenuta ancor più barocca. Non la si può più osservare bene nel suo complesso. Ma la struttura originaria “soggetto-oggetto-retroscena” ha continuato a restare in vigore. Teoricamente è diventata insensata la distinzione tra soggetto e oggetto. E praticamente, che senso ha mai parlare di soggetto e/o oggetto in