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La restanza - Vito Teti, Schemi e mappe concettuali di Pedagogia

La «restanza» è un fenomeno del presente che riguarda la necessità, il desiderio, la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi. E questo un tempo segnato dalle migrazioni, ma è anche il tempo, più silenzioso, di chi "resta" nel suo luogo di origine e lo vive, lo cammina, lo interpreta, in una vertigine continua di cambiamenti.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 22/11/2023

sabina-autelitano
sabina-autelitano 🇮🇹

5

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Anteprima parziale del testo

Scarica La restanza - Vito Teti e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Pedagogia solo su Docsity! LA RESTANZA Vito Teti – antropologo calabrese Capitolo 1: Rimanere in un futuro L’autore dice amo e odio sono una tensione dialettica (evidente distacco tra due opposti) che segna il suo essere nel mondo. Ama i suoi luoghi, e a volte odio restare e vorrebbe estendersi in tutti gli altri luoghi del mondo. Avverte spesso la delusione del restare per cambiare un mondo che non sembra voler cambiare, anzi sembra proprio scomparire giorno dopo giorno. Ed ecco che l’autore ci spiega e ci racconta il senso, il disagio, la bellezza di vivere nel luogo da dove lui guarda il mondo. Nella sua percezione prima del covid 19, il mondo era in movimento, egli almeno fino agli anni 90’, era in viaggio per esplorare gesti, eventi e rivoluzioni nei paesi. Sulle sponde della costa ionica, ricche di storia, ha visto i volti veri di quel fenomeno migratorio globale che spesso nei media è considerato solo statistica, o peggio, polemica politica d’accatto. Nel 2005 a Cavallerizzo, in provincia di Cosenza si verifica una frana che comporta la morte del paese e l’evacuazione dei suoi 300 abitanti. Molti di loro nonostante il pericolo non volevano andare via e intendevano ricostruire il luogo dove erano nati. Si tratta di situazioni che purtroppo hanno vissuto altri paesi come Marche, Lazio, Molise colpite da terremoti. Le persone si accorgono di amare il proprio luogo nel momento in cui l’allontanamento diventa espulsione. Nel periodo della pandemia, obbligatoriamente fermo nel suo luogo d’origine, San Nicola da Crissa, ha riflettuto a lungo sul sentimento che a lui sembra corrispondere ogni partenza o fuga ossia quello di “restanza”. Ha provato a capire il processo mentale di chi per scelta o per forza prende la sua strada e parte, ma la “restanza”, al contempo, è il sentimento di chi àncora il suo corpo ad un luogo e si disperde con la mente. Tuttavia, però, nel discorso collettivo, poco emerge la dimensione del restare intesa non solo come accettazione di un destino ma come volontà, come scelta, quasi sempre dolorosa. A tal proposito racconta che gli studenti e le studentesse dell’università della Calabria, in cui ha insegnato fino al 2020, gli hanno spesso rivelato il loro desiderio di restare nel “ventre” di una terra difficile, di viverla intensamente e di investire energie e progetti di lavoro e mentre li ascoltava argomentare la loro scelta in modo consapevole, pensava a quanto fossero distanti dalle generazioni precedenti, per le quali andare via era un’urgenza d’esistere. La sua piccola esperienza locale è ricca di padri che partivano e di madri che restavano, di faticosi legami tra chi andava in cerca di un lavoro e chi rimaneva in attesa di tracce. Il padre dell’autore partì per il Canada poco prima della sua nascita e resto lì per 8 anni senza mai tornare, e i suoi compagni vivevamo la medesima situazione. L'autore ha iniziato ad usare il termine “restanza” per raccontare le storie in “assenza” di qualcuno, ma soprattutto con riferimento a un aspetto apparentemente controintuitivo : il viaggio da fermo di chi resta, e contemporaneamente l’attaccamento al luogo di chi parte, cioè colui che non parte sogna il suo viaggio e colui che parte rimane legato al luogo in cui si trovava. Capitolo 2: erranze e permanenze L'etimologia del termine «migrare» rimanda al cambiare luogo, all'andare oltre. Due milioni di anni fa, e solo nel genere Homo, inizia una marcata crescita dell'encefalo, ed é uno dei risultati evolutivi che discendono dalla postura eretta. Il bipedismo ha consegnato all'uomo doni preziosi come la corsa di resistenza sulla distanza e l'uso libero delle mani. La capacità migratoria del sapiens pare debba essere immaginata come un lento camminare di gruppo. Calzolaio e Pievani parlano di faticosi spostamenti nel corso delle generazioni, verosimilmente di gruppi parentali o più ampi, tra i 25 e i 120 individui; il loro camminare era di fatto un lento superamento di barriere, mari, montagne, luoghi impervi, incertezze, paure. Era un andare determinato dalla necessità, era migrazione e non nomadismo. È un errore confondere il fenomeno migratorio con il nomadismo, l'erranza dei primati è abbandono e non gestione, è incertezza e non regola di comportamento, Essere migranti, in determinate condizioni, era il modo migliore, se non l'unico, di sopravvivere. Fino a quando la rivoluzione agricola non consenti una sistematica stanzialita, gli uomini erano in genere raccoglitori senza fissa dimora. I cacciatori-raccoglitori praticavano una forma di nomadismo sistematico in funzione di un “centro" di un rifugio dove altre figure della stessa specie attendevano il ritorno. Il viaggio di Ulisse non avrebbe senso senza l'attesa di Penelope. La modernità nasce con il mito dell'eroe che parte e ritorna e con il mito della donna che resta ferma e attende. L'attesa però non è da confondere con la passività, ma è sofferenza, speranza, pazienza, capacità di ripensare e di rinnovare l'esistenza. Gli emigranti in viaggio tra metà Ottocento e primi decenni del Novecento non pensavano di partire per sempre, ma in genere immaginavano di poter realizzare i guadagni necessari a tornare nel mondo di origine che, in questa prospettiva, diventava nuovo. Ogni deroga a questo percorso circolare è vissuta come minaccia. Quando le persone partono, durante il viaggio, quando approdano nella terra nuova, compiono anche un lungo tragitto interiore e avvertono che la nuova vita non consentirà loro un ritorno a ciò che hanno lasciato ma ad un mondo che si è trasformato. Superata, però, una certa soglia nel flusso delle partenze, si patologizzano le "sparizioni", l'abitato rischia di svuotarsi e di morire del tutto. Con l'emigrazione di fine Ottocento sono intere comunità a spostarsi, paesi si spostano, si dimezzano, si sdoppiano. A volte questi abitati muoiono e rinascono in terre lontane così nelle Americhe nascono i paesi doppi, i sosia dei paesi d'origine. L'emigrante lascia nel luogo della sua casa una parte del suo io, la sua ombra, il paese lasciato diventa per l'emigrante un'ombra perduta e lui stesso si reduplica per essere, diventa un doppio. Il corpo-paese perde per sempre l'antica identità e l’emigrante che lascia la propria ombra in paese, diventa lentamente un'altra persona. L’emigrante continua a sentirsi parte del paese uno, ma non ritroverà mai l'antica ombra, né potrà mai ricongiungersi con il suo doppio. Il paese due diventa luogo reale e orizzonte mitico al quale sono rivolti sogni, desideri, speranze, paure, pensieri di coloro che non sono partiti. Con l'emigrazione gli abitanti del paese uno e quelli del paese due riscrivono la loro anima, e talvolta, accade di ritrovarsi stranieri a se stessi. .La nostalgia degli emigrati si configura come visione sincronica di inappartenenza e radicamento; sentimento delle origini e sentimento del nuovo mondo si mescolano. Gli «americani» che tornano a inizio Novecento acquistano la terra, costruiscono nuove abitazioni, introducono prodotti, oggetti, tecniche, mentalità, cultura, modi di fare nuovi, si affermano come una «nuova classe». Le case degli «americani» nascono come imitazione degli antichi palazzi nobiliari, la casa, il balcone esterno, le logge, il portone, l'uso del cemento e del ferro: sono i segni di un nuovo status sociale, di una nuova cultura e tecnica edilizie, di nuovi bisogni d'igiene e pulizia. Agli «uomini senza donne» (come lo storico Harney, in un saggio del 1979, chiama i protagonisti dell'emigrazione), che hanno popolato le mille città del mondo, hanno dato senso le «donne senza uomini» rimaste nei paesi e nelle campagne, con i figli con gli anziani. Ma l'attesa delle donne degli «americani» si è tradotta in capacità organizzativa, in assunzione di un nuovo ruolo, in costruzione di una nuova figura capace di svolgere le tradizionali attività maschili, di prendere decisioni importanti, di allevare da sola i figli. Chi resta fermo in qualche modo si sente in viaggio, chi parte in qualche modo si sente rimasto. Non si resta del tutto, non si parte mai del tutto. Rimasti e partiti si comportano dunque come doppi che hanno tatto una scelta diversa e che hanno elaborato modi diversi di rapportarsi alla loro terra, di considerarla, di viverla. Non è facile per rimasti e partiti percepirsi nelle loro somiglianze e nelle loro diversità. ricerca probabilmente più importante d'Italia sulle abitudini, i consumi, le patologie e i disturbi riconducibili ai cibi. nella seconda metà degli anni Novanta dello scorso secolo, alcuni gruppi familiari sono stati monitorati sistematicamente con metodologie complesse, ed è stato possibile verificare i molti mutamenti positivi intervenuti, ma anche quelli negativi, in seguito all'abbandono di un regime alimentare insufficiente. La prima indagine coordinata da Massimo Cresta è stata raccontata in un eccezionale filmato Inchiesta alimentare a Rofrano, Dal filmato emerge icasticamente un mondo segna- to dalla fatica e dalla miseria, dove la gente abitava in tuguri per lo piú senza servizi igienici, con un approvvigionamento idrico sempre difficile. Cresta e i suoi collaboratori, ricostruiscono le dinamiche evolutive della cultura alimentare e sottolineano come, nelle regioni meridionali dagli anni Sessanta in poi, aumenti significativamente il consumo di carne, pesce, grassi, zuccheri, mentre diminuisca quello di pane, pasta, cereali, verdure, olio. Una realtà lontana dalle immagini retoriche della «dieta mediterranea» Nel 2010 l'Unesco riconosceva la «dieta mediterranea» patrimonio immateriale culturale dell'umanità: viene proposto come modello o traguardo da perseguire in tutto l'Occidente industrializzato per stare bene mangiando bene. Per uno dei tanti paradossi storici, il modello di «dieta mediterranea» si afferma proprio nei decenni in cui le popolazioni cominciano ad abbandonare le antiche abitudini alimentari, che erano alquanto diverse da quelle idealizzate e individuate come modello. Mentre è a tavola, in un momento di pausa, Carlo, gli porge con rispetto un pane realizzato con diverse farine e mi dice:"Ti ho portato il pane della restanza»e continua si chiamava «pane della rispensa», dal luogo in cui veniva conservato in un sacco. Era un pane duro, fatto anche una settimana prima, e si consumava cotto, con acqua e sale, spesso insieme a polenta, peperoncino, olio, o ammorbidito come base per la minestra, le verdure, il brodo. Altre persone del luogo lo chiamano «pane della rispenza», o «della ristenza» o anche «della restanza», con riferimento ad un pane che durava, restava, si consumava duro. Nei miei paesi le donne povere dopo la raccolta delle olive passavano per raccogliere quelle rimaste sulle piante o cadute tra la terra con le quali riuscivano a ottenere uno o due litri di olio. In realtà gli avanzi, i resti, gli scarti sono alimenti che hanno concorso al soddisfacimento del bisogno alimentare delle famiglie, ma sono stati anche una pedagogia, l'insegnamento che tutto è necessario, che tutto è cura, che tutto è rispetto. Nel sud dell'Italia la preparazione e il consumo del pane conservavano ancora oggi tracce e memorie di gesti e riti sacrali. In Calabria il pane non può essere poggiato sulla tavola dalla parte tonda poiché raffigura il volto del Signore, occorre prestare attenzione a non far cadere per terra neanche una mollica di pane. Gli incauti che lo facessero una volta defunti non troverebbero pace dovrebbero tornare nel mondo per raccogliere tutte le molliche sprecate. Nel mediterraneo la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade contigue. Chi già da bambino mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell'essere umano verso la felicità, da adulti invece ci si impegna a guadagnarlo con gli altri. La parola «compagno» racconta una vicinanza necessaria, affettiva, tra persone che, attraverso pane, condividevano il proprio destino, desideravano la felicità, sognavano un mondo migliore. Per «cercare pane» si sono spostati e si spostano milioni di persone in terre lontane. La casa in cui abitava il padre dell’autore in Canada era chiamata la «casa dei trentatré pani»: il panettiere lasciava davanti alle porte di un'abitazione, in cui vivevano trentatré paesani, un pane per ognuno dei suoi compaesani. Si partiva per il pane e si restava per il pane. Dagli anni 50 quando i paesi della fame si stavano svuotando le persone grazie al boom economico cominciano a mangiare bene e si lasciano alle spalle antiche privazioni, si passa dunque dal troppo poco all'assai. Forme di ritorno e la scelta di restare legate alla produzione del pane sono presenti in molti luoghi. Tempo fa i giornali riportarono la notizia di un pane eccellente prodotto a Borgo Santa Rita paese abbandonato vicino a Caltanissetta, dove l'unico abitante è il panettiere, il quale, tra i ruderi delle vecchie abitazioni, produce circa 150 chili di pane biologico al giorno. La regista Alessandra Coppola ha girato con riprese e interviste nell’arco di sei anni il film documentario” la restanza” nel quale racconta l’esperienza di un gruppo di trentenni in Salento che rifiutano l’idea della fuga come unica soluzione ai problemi di una lunga durata che condizionano la vita in molte zone del sud dell'Italia. I protagonisti del film propongono ai possessori di terreni incolti di mettere in comune le loro proprietà e di avviare progetti di riqualificazione. Questo paese si trasforma così nel paese della restanza. Nel corso delle sue peregrinazioni etnografiche l’autore ha sperimentato personalmente il valore della condivisione del cibo, del pane soprattutto, in alcuni particolari momenti cerimoniali. Le esperienze che gli stanno piú a cuore sono le feste celebrate tra i ruderi dei paesi abbandonati, un trionfo fatto di salumi, formaggi, olive, paste al forno, melanzane ripiene, braciole, vino, ovviamente di produzione domestica. I banchetti costituivano l'itinerario per una ricerca del mondo perduto, conserva la sacralità conferita al cibo e al mangiare insieme degli antichi pellegrinaggi. Il pane, dunque, un tempo metafora di un universo in cui ogni bene era necessario oggi ancora simbolo di una possibile rigenerazione. Capitolo 5: Equilibri e disequilibri: l'antropologia dei paesi Significherà pure qualcosa che la parola «restanza» venga associata al paese, al piccolo luogo, al villaggio? Lo stesso termine «paese», negli ultimi tempi, è stato adoperato come se fosse un'invenzione o una creazione recente. In realtà, ancora prima della pandemia, la parola «paese» (accompagnata da aggettivi come «abbandonato», «spopolato», «spolpato», «incantevole», «vuoto», o da verbi come «abbandonare», «restare», «tornare», «restaurare», «recuperare») occupava un posto di rilievo nei media, nel discorso pubblico e politico, negli studi e nelle riflessioni di varie discipline. Il paese, nelle sue diverse declinazioni, è un luogo spaziale-temporale-mentale presente in ogni parte del mondo. Antropologi ed etnologi hanno elaborato le loro teorie e interpretazioni delle culture umane relative all'organizzazione familiare e sociale, alla sfera magica e rituale, alla violenza e al sacro, alla festa e alle concezioni della morte proprio grazie a etnografie, osservazioni, descrizioni e comparazioni di gruppi, clan, villaggi di poche centinaia di abitanti. Hanno registrato e custodito un patrimonio culturale di fiabe, racconti, miti e leggende osservando sistematicamente paesi e comunità. L'immagine topica del «paese presepe» è una delle piú ricorrenti nella narrativa e nella letteratura meridionalistica. Il paese, nelle sue diverse determinazioni, è al centro delle narrazioni e delle interpretazioni di scrittori di diverse regioni d'Italia (Verga, Silone, Iovine). La contrapposizione tra città e campagna ad inizio 900 con la nascita della modernità diventa contrapposizione ruralità- urbanesimo; paese-metropoli. Per i primi decenni del 900 molti studiosi segnalano i mutamenti, la progressiva erosione delle aree interne e della montagna, a seguito prima dell’emigrazione, poi degli spostamenti interni durante il ventennio fascista. La “sindrome antipaesana” diventa una causa- effetto dei fenomeni di abbandono di queste zone del territorio. La prima grande ondata emigratoria, non comporta solo lo spopolamento dei paesi, sia perché i ritorni sono consistenti nel numero, sia perché le donne si inventano un novo ruolo. Nel lungo termine, però, in varie aree d'Italia l'emigrazione si traduce anche nell'abbandono di luoghi interni e nella disgregazione dell'antico equilibrio produttivo, demografico, culturale e sociale, soprattutto della montagna. Non si tratta, come ricorda Piero Bevilacqua (2018), di un tenomeno uniforme e costante nelle sue dinamiche attuative: alcune are interne, infatti, sono interessate da una crescita demografica, in particolare i centri montani piú grandi e anche i numerosi «paesi presepe», almeno fino ai primi anni Cinquanta del secolo scorso. E negli anni successivi che la mobilità umana determina uno spopolamento sistemico e il desiderio di abbandonare una montagna in crisi diventa sempre piú diffuso. Dagli anni Cinquanta il graduale e costante abbandono dei paesi produce la situazione attuale di quasi totale desertificazione delle colline e delle montagne nelle aree interne del Nord e del Sud. Oggi il fenomeno assume dimensioni vistose, drammatiche e non si tratta tanto di volgere l’attenzione ai numerosi paesi e borghi abbandonati nel corso dello scorso secolo, ma quello da osservare è lo svuotamento progressivo di interi paesi con il conseguente rischio di estinzione. In questo contesto di svuotamento che coinvolge città e campagne, il paese torna a essere baricentro di un interesse culturale, civile, politico. Paesi, villaggi, periferie, che hanno sedimentato nel tempo storie di spopolamento, durante la pandemia sono diventati per qualcuno il contraltare perfetto alla confusione, alla folla, all'anomía della metropoli. Il ritorno al paese viene oggi spesso evocato nell’ambito di una visione raffinata delle rovine; invece, il richiamo al paese dovrebbe essere visto come luogo da custodire nella sua sacralità. Ancora oggi provare a salvare i paesi viene da molti considerato un accanimento terapeutico e qualcuno sui giornali e sui media arriva a studiare piani per svuotarli. L'autore afferma che trova ingeneroso l’invito ad accelerare la chiusura dei paesi dove ancora abitano persone che esprimono il loro sentimento della restanza, si sentono vive, desiderano morire nel loro letto e nella loro casa, come un cerchio che chiude una storia di appartenenza e di radicamento. Ci vorrebbe una più accorta antropologia dei paesi per creare un progetto capace di oggettivare bellezza e valori. Non si evoca la restaurazione di un mondo perduto, non si vuole portare in vita ciò che è morto per sempre, si vuole solo affermare oltre che il diritto alla memoria la necessità di un diverso modello di sviluppo. Esiste un movimento diffuso spesso non coordinato che però comincia a collegare l’italia dell’abbandono, si tratta di pratiche e scelte di vita tese a costruire una nuova polis, un nuovo modo di abitare spazi, economie e relazioni. Non sono più i contadini ad abitare i paesi ma nuovi soggetti: si assiste al proliferare di piccole comunità di neoruralisti che affiancano la produzione e la riscoperta del valore sociale dell'agricoltura, che introducono elementi di retro- innovazione e reinterpretazione in chiave di innovazione sociale e tecnologica di saperi tradizionali e locali nei processi produttivi e di tutela attiva del territorio, dopo anni di sfruttamento intensivo. I paesi non si rigenerano con gli slogan, non basta ristrutturare qualche casa. Le soluzioni facili aiutano poco ed oscurano la complessità del riabitare possibile dei paesi. Riabitare significa ricostruire comunità, creare delle condizioni essenziali per consentire di rimanere a chi vuole restare, per accogliere chi ha maturato la scelta della vita da paese. A volte in pochi casi diventa possibile ma occorre distinguere la nascita di una nuova comunità da quella di un villaggio turistico aperto solo d'estate. Senza un'offerta adeguata di servizi di cittadinanza essenziali (la farmacia, la scuola, i trasporti locali e la connessione ad Internet) il ritorno in vita di qualche casa non sarà sufficiente per consentire un'esistenza dignitosa ai residenti e per contrastare il declino. Ogni paese anche quello con un solo abitante ha il diritto all'esistenza, ad essere curato, tutelato in quanto presidio culturale, geografico, mentale delle popolazioni. E’ necessaria una visione unitaria del territorio, un'opera di restauro e risanamento, una progettualità innovativa, aperta e mirata. Capitolo 6: piogge gialle Almeno negli ultimi diecimila anni la stragrande maggioranza delle persone è stata «restante», legata al luogo in cui nasceva, viveva, moriva, a volte senza mai spostarsi dal villaggio o dal centro in cui abitava. Ancora negli anni Cinquanta, nelle regioni meridionali d'Italia, pur con le tante mobilità interne e le emigrazioni oltreoceano, rare volte i contadini si allontanavano dal loro borgo. I miei paesani erano e si sentivano appartenenti ad un luogo, ad una campagna, ad una confraternita del paese e scoprivano di essere calabresi, e poi italiani, soltanto in Canada, anche L'autore racconta della casa in cui è nato, l'unica che possiede grazie a suo padre, dorme nella stanza in cui è nato e dove è sempre tornato in cui sentivo arrivare da fuori le voci dei bambini che giocavano e i passi delle donne e degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Il balcone si affaccia sulla ruga dentro il paese, sul pieno di un tempo e sul vuoto di oggi. Anche se tutto è cambiato, tutto è riconoscibile. Le strade sono vacanti, assenti i rumor della campagna, le voci delle persone che si chiamavano a distanza, quelle delle fontane, delle fiumare che parlavano ma tutto ciò non ha fatto finire il mondo. Il sole e le albe, le ombre e le notti, sono tornate in questi giorni e torneranno quando le non guarderà più dal suo balcone. Molto, ancora, è cambiato durante il lockdown, una trasfigurazione repentina quanto epocale. Nel mondo da cui proviene e a cui è rimasto fedele, ha imparato il valore della fatica, della solidarietà, delle piccole cose che più tardi ha scoperto, sui libri, essere il valore della polis, della comunità. In poco più di un trentennio ho vissuto diecimila anni, dalla nascita delle società agropastorali al loro inesorabile sparire. Un tempo immaginavo che sarei vissuto in un mondo nuovo, nella modernità, invece lo studio appassionato, il vortice delle letture e i viaggi gli hanno insegnato che il mondo antico dei padri non veniva davvero sostituito dal mondo nuovo dei figli, anche se tutto quel che resta del passato, dei ricordi, della vita è sempre piú essenziale per orientarmi in questo universo fragile, insicuro, attraversato da un'idea di futuro sempre meno definita con l'aumentare delle mie consapevolezze. Restando fermo ha camminato migliaia di giorni. Ogni desiderio di fuga mi ha riportato a casa da dove non sono mai andato via. Trascinato dal flusso di queste pagine, su quel margine che non divide il restare e il migrare, ha riflettuto su come sia proprio la casa il luogo, mentale prim' ancora che fisico, che accomuna restanti e migranti, stanziali e viandanti. Che la si lasci o la si desideri, è la casa (per chi cerca riparo, rifugio, protezione, accoglienza, amore) l'elemento minimo di un linguaggio che accomuna tutti. Lo slogan del tempo della pandemia è stato «Io resto a casa». Questa immagine della «casa» in cui «si resta» o «si torna» per necessità, per responsabilità, per scelta civile e morale, questa casa rideterminata nel suo valore ancestrale a cui abbiamo ancorato l'isolamento dovuto al Covid-I9, è certo una di quelle che porteremo per sempre con noi e che sarà costitutiva delle nostre memorie. Nelle mie prime etnografie, moltissimi anni fa, la casa si configurava come il «centro» di quel «centro del mondo» che era il paese. Punto di partenza da cui cominciava il viaggio nel mondo e quasi sempre della sua fine. C'era continuità tra la casa e la terra il paese e le campagne, le abitazioni insistevano prevalentemente in prossimità delle piccole proprietà contadine. Ancora oggi nei paesi nonostante i grandi cambiamenti e il loro svuotamento gli abitanti di una ruga, vicini di casa continuano a essere vicini di proprietà di terre. Le persone che partivano dai paesi negli anni 50 del 900 provavano il dolore più lancinante ma confidavano nel futuro del luogo. Sentivano di certo che non sarebbe stato come prima ma pensavano che il paese non si sarebbe svuotato, che non avrebbe mai visto la propria fine e che sarebbe rimasto la ad attendere il loro ritorno. Ma quello che vivevano come un evento drammatico era il momento dell'uscita da casa che spesso restava chiusa. La cultura tradizionale plasmata da un immaginario che sapeva il dolore di una lunga storia di catastrofi esprimeva in varie forme il timore che la casa potesse scomparire. Se non sia presente questo senso religioso con cui ci si rapportava alla propria abitazione si fa fatica a capire la grande cura che gli emigrati hanno dispiegato nel tempo per l'allestimento della nuova casa nell'altrove. Ma la casa lasciata restava edificata nella memoria, restava come desiderio del ritorno anche quando diventava chiaro che nessun ritorno sarebbe stato più possibile. L’autore racconta di aver visto spesso persone che tornavano e che non volevano più entrare nella casa vuota chiusa, poiché la soglia segna la cesura tra un io che è partito è un io che torna e che però non può tornare del tutto e per sempre. La casa vuota era la fine di tutto. Una tradizione che risale al mondo antico vuole che, subito dopo la morte l'anima del defunto parta per un viaggio mitico per attraversare il ponte di San Giacomo, un ponte che non può essere oltrepassato se si è gravati di peccati. Non poter iniziare questo viaggio dal proprio letto, tra gli affetti dei propri cari, tra le preghiere che agevolano il cammino, veniva considerato un esito disordinato del proprio progetto di vita. Il lutto si elabora nella propria casa. Le case di paese quasi mai sono costruzioni banali, ogni casa ha una sua personalità, un carattere distintivo, una somiglianza con il contesto e con il suo proprietario. Spesso nel passato le abitazioni povere erano insicure, a volte erano solo baracche nelle quali vivevano molte persone e lo facevano con gli animali domestici. La perdita della propria casa poteva configurarsi come la fine del mondo. Chi lasciava la casa lo faceva solo per un tempo limitato alla sua ristrutturazione, o a volte per costruirne una migliore. Per chi restava la casa era l'ancoraggio della propria presenza, per chi partiva era pegno di memoria. È per tutto questo che l’autore trova insensati e irrispettosi alcuni inviti retorici a ripopolare i paesi, a riabilitare le case vuote di chi è andato via quasi come se fossero edifici senza memorie e senza storie. Nella speranza di attrarre i residenti è stata proposta più volte la vendita a 1 € delle case abbandonate dai proprietari. Si tratta dello slogan di una presunta azione di salvaguardia che però è volta alla vita degli immobili e non a quella delle persone, che punta ad attivare microcircuiti edilizi, che incoraggia le fughe singhiozzo delle città invivibili ma che in nessun modo si configura come un progetto organico teso alla costruzione di nuovi legami comunitari. Questo progetto restituisce l'idea che la casa venduta al prezzo di 1 € valga esattamente 1 €, che valga 1 € la fatica di averla pensata e costruita, l'averla abitata, l'avervi fondato le vite nascenti. Sotto un profilo simbolico e come svendere la memoria comunitaria, sotto un profilo economico è depotenziare i costrutti familiari e sociali incorporati in ogni singola casa. Dovremmo pensare a una rinnovata dimensione dell'idea di casa che sia inclusiva e dialogica. Capitolo 8: la metafisica distrazione dell’oltre Il termine «nostalgia» nasce nella seconda metà del XVII secolo per categorizzare nella sua dimensione psichica il desiderio di ritorno alla patria; quindi, il desiderio di restare là dove si è nati. Questo termine viene adoperato per la prima volta nella Disseratio medica de nostalgia da Hofer un giovane studente alsaziano di medicina. Hofer crea il nuovo termine attraverso la composizione di due costituenti: nostos (che nell’Odissea indicava il ritorno degli achei) e algos (dolore, tristezza). Questo termine fin dal 500 indicava i malanni fisici e psichici dei mercenari svizzeri lontani dal luogo d’origine. I giovani militari refrattari ad ogni forma di adattamento agli usi e ai modi di vivere stranieri pensavano ossessivamente al ritorno in patria fino a patologizzarne la mancanza, la distanza e la negazione. All'ammalato di nostalgia bastava prospettare la possibilità di ritorno nelle sue vallate alpine per rigenerarsi. La parola nostalgia è stata spesso adoperata per definire contesti di inferiorità, di alterità, di lontananza dell'altro. È stata liquidata inoltre come figura dell'esclusione, della distinzione, della diversità. Qui a correggere con ment sana il furor del fraintendimento, si innesta un paradosso: il nostalgico, che per addizione etimologica sta ferma e non riesce ad andare avanti, non è chi resta, ma chi si mette in viaggio, il migrante. La nostalgia degli emigrati, dei partiti e dei rimasti svela che il desiderio che nutre il sentimento del nostalgico non è ritorno al luogo lasciato ma la riappropriazione del sé inveratosi nel tempo passato. È allora che la nostalgia diventa un sentimento bifronte da cui non è possibile guarire e non riguarda soltanto chi è partito, ma anche chi è rimasto e sopravvissuto all'esplosione di un mondo e dei suoi disattesi orizzonti ancestrali. Kant nella sua antropologia dal punto di vista pragmatico aveva già notato che gli svizzeri che non facevano altro che pensare al ritorno, immaginando i luoghi della spensieratezza, quando però “fanno il ritorno” in quel luoghi restano delusi e quindi non guariti: credono che ciò dipenda dal fatto che in quel luoghi tutto è cambiato ma in realtà è perché non vi ritrovano più la loro giovinezza. La nostalgia rappresenta nella visione kantiana una condizione esistenziale, ineliminabile e non una malattia da cui guarire. Un'esperienza nota nell'antichità è la storia di Ulisse che incarna il giro di ogni uomo che parte e che torna. Musil introduce il viaggio rettilineo, un viaggio che procede sempre avanti verso un cattivo infinito. Questo viaggio verso il nulla ha un'antica sedimentazione e trova un’antecedente nell’Ulisse dantesco che va nel mare aperto, al di là delle colonne d’ercole e non ha paura di perdersi e supera i limiti. La sua nostalgia è stata indagata nella sua duplice valenza e connotazione. Da un lato si spiega come sentimento e come immaginazione che lo salvano dal rischio sempre immanente di smarrirsi e di perdersi, dall'altro appare una costruzione mentale ed emozionale per non tornare. Ulisse è stato descritto come l'eroe che attua una strategia per non tornare. Il suo è un viaggio che elude la possibilità del ritorno: pura passione per il navigare e l'errare. Ulisse, ricorda ancora Magris, torna a Itaca ma Itaca non sarebbe tale se egli non l'avesse abbandonata per andare in guerra, se non avesse spezzato i legami viscerali, per poterla ritrovare con maggiore autenticità. Bisogna viaggiare, abbandonare i posti, rischiare di perdersi, superare molte prove per riconoscere se stessi e dare un senso più profondo e più vero a quello che si è lasciato. Ma quando si dà un nuovo senso subentrano anche la delusione e la disillusione. Ulisse, allora eroe del ritorno, non smette mai di tornare, ma in un certo senso, non smette mai di arrivare. Il mondo che ritrovò Ulisse non è più quello di prima, è lo stesso Ulisse è dentro il flusso di un irriducibile alterità. E’ invecchiato non viene riconosciuto e non si riconosce. Egli non “torna” nemmeno quando arriva a Itaca. Il vero nostos di Ulisse non è Itaca, ma l'avventura dell'estremo. Per questo, una volta giunto a Itaca deve ripartire secondo la predizione di Tiresia. Non si torna. Ogni ritorno di esuli, erranti, emigranti si trasforma in delusione, in lenta consapevolezza che è impossibile tornare in un mondo deflagrato in cui nulla è rimasto come prima. Basta rileggere La luna e i falò di Pavese e accompagnare il protagonista – lo chiamano l'Americano, l'Anguilla - nel suo nostos, che gli provoca ricordi ed emozioni piacevoli, ma anche i infiniti dolore. Anguilla, un trovatello affidato ad una famiglia del paese, torna dopo vent'anni di vita avventurosa, dopo essere fuggito per abbandonare la miseria, per riscattarsi, per non essere ingiuriato. Scende sulla piazza del paese per restare 15 giorni e ritrova l'amico d'infanzia Nuto, il suo doppio rimasto, un musicante amato dalle donne che suona nelle feste. Il mondo di Anguilla non c'è più, è irriconoscibile: «questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi molto. Un paese ci vuole, se non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Da un anno che lo tengo d'occhio e quando posso ci scappo da Genova. Queste cose si capiscono col tempo e l'esperienza. Possibile che a quarant'anni e con tutto il mondo che ho visto non sappia cos'è il mio paese? Mi accorsi allora che tutto era cambiato, infine qualcuno mi dava anche del voi e io rispondevo sono Anguilla. Mi accorsi che non erano cambiati granché, io ero cambiato». Anguilla esprime la delusione nel vedere che le ragioni e le persone per cui era partito sono venute meno. Pur desiderando un paese capisce di esservi lontano che non è possibile tornare al mondo di prima anche perché quel mondo non era poi così pacificato. Riemerge il termine-concetto memoria ad indicare la possibilità di trovare domesticità nel mondo in cui si è finiti lasciando l'universo di origine: lo usano Pavese e De Martino. Pavese propone una scelta sul significato della nostalgia e del senso dei luoghi. Un paese ci vuole certo, ma il paese non si torna. Perfino chi resta non resta fino in fondo e fatica a comprenderlo. Se, invece, la nostalgia diventa una strategia per inventare il paese, se lo stesso ritorno è il paese da inventare, allora quel che resta è un universo mobile, dinamico che può essere descritto nella sua feconda inquietudine “mitica”. Serve ascoltarlo, riguardarlo e prendersene cura, nominarlo. In fondo dalla nostalgia, dall’inquietudine, memoria di migliaia di lettori. Nel breve articolo Merton ricorda una credenza popolare riportata dai Grimm: un canto che nella mitologia popolare assume un carattere profetico. La credenza aveva molti varianti nelle diverse contrade l’Europa, e la sua versione più semplice vuole che, ponendo la domanda al cuculo sui tempi di realizzazione di un evento, ad ogni il suo verso corrispondesse a un anno: si può immaginare la gioia lo sconforto quando le domande riguardavano il matrimonio o la morte. Non c'è folklorista o studioso di culture popolari che non la riporti. Questo complesso mitico-rituale in realtà stabiliva una relazione tra uomo, stagioni, piante, animali, morte e vita e al cuculo venivano attribuite doti da farlo diventare un uccello temuto. Nei primi decenni del 900 le credenze, i documenti, i materiali raccolti sono stati spesso interpretati come delle tracce di un Atlantide ancestrale che la modernità avrebbe espulso via come un corpo estraneo. Gramsci considerava i saperi popolari non come un groviglio di superstizioni, ma come la <<filosofia di vita>>> alle quali la tradizione non attribuiva una compiuta umanità. Dal carcere scriveva lettere a sua madre chiedendole, con nostalgia, di ricordargli alcune preghiere in latino che le donne del popolo recitavano storpiando nelle parole e iscrivendole in una tradizione locale. Nel solco della tradizione di Gramsci, Ernesto De Martino, l'antropologo più prestigioso della nostra tradizione, lesse i complessi rituali del popolo e riteneva che tramite il rito si potesse rispondere al bisogno di protezione contro i grandi dolori, le grandi paure, contro tutto ciò che può farci perdere il nostro orientamento nel mondo. Tra i fattori che compromettono la presenza dell'uomo nel mondo, l'etnologo elenca anche gli spostamenti dai luoghi conosciuti, l'abbandono della propria patria culturale, la perdita dei propri luoghi. Se l'antropologia italiana contemporanea deve molto a Gramsci e a De Martino per lo spessore critico che hanno conferito al termine <<folklore>> si deve osservare, tuttavia, che la loro posizione ideologica prevedeva il riscatto delle classi contadine in un futuro segnato dall'affermazione della fabbrica, e sosteneva, che i ceti popolari dovessero abbandonare al più presto i fantasmi del passato e la residuale cultura folklorica. Il folklorista classico, nelle sue elaborazioni più raffinate, rilegge in chiave ermeneutica e storicistica il contesto sociale. La situazione odierna è differente: spesso ottengono spazio cantori moderni e tardivi di un mondo perduto per i quali vale quella che l’autore chiamerebbe la <<sindrome del cuculo>>: distruggere i mondi quando sono in vita per poi ricostruire la retorica del pianto e del rimpianto quando sono ormai in decomposizione. Per fortuna esiste anche una nuova generazione di scrittori, studiosi e artisti che guarda al sud come ad un luogo reale e non mitico, e che hanno dimostrato capacità resistenza culturale per l’elaborazione di soluzione e di progetti di ritorno inediti e di percorsi di innovazione. Al flâneur Ottocentesco e Novecentesco che visita villaggi campagne e che spesso rivela un atteggiamento antimoderno e nostalgico Che si traduce nell’etnicizzazione di conflitti, si oppone il flâneur che visita la propria città, la scopre, la interroga e la racconta. Certo i due modi di guardare, di accostarsi ai luoghi e alle persone cambiano e così cambia la scrittura e la narrazione. Il problema di fondo è se la distanza geografica corrisponde alla distanza interiore. Bisogna sempre porsi la domanda <<lontano da dove? lontano da chi?>> Osservare il proprio mondo comporta responsabilità e rischi. Marc Augé ha parlato di una sorta di sdoppiamento: quando ha scritto un Etnologo nel metrò la sua intenzione non era certamente quella di fare un’etnologia del metrò. Osservava, da etnologo, l'etnologo che ero, ossia l'etnologo di ritorno dall'Africa. Lo osservava nel metrò e gli rivolgeva delle domande a cui lui rispondeva come poteva, con riferimenti e termini da etnologo. Cercava insomma di mettersi nei panni di un indigeno ma questo indigeno ero lui, e questo non comportava un grande sforzo di immaginazione. La difficoltà consisteva piuttosto nel cercare di trovare le domande da poter rivolgere a questa indigeno, mettendosi a interrogarlo da etnologo. Negli anni 70 e 80 del 900 si è parlato di <<rimpatrio>>, cioè di un <<ritorno a casa>> dell'antropologia dai suoi mondi esotici. L'esercizio di una nuova critica culturale consente, in un mondo globale, di declinare lo sguardo sulla propria cultura di appartenenza e di osservarla anche dall'esterno. L'antropologo che resta incontra i rimasti e sperimenta le nuove dinamiche culturali: vede gente partire e analizza le nuove modalità del distacco; vede gente arrivare con un nuovo carico di informazioni e problematicità, e interpreta, di volta in volta, conflitti, nuove dimensioni identitarie. L'antropologo che resta studia le situazioni della post-migrazione interpreta il disagio, la sofferenza, lo shock culturale di chi si sente appartenere a una tradizione immutabile mentre, a tutti gli effetti, è preso nelle dinamiche della globalizzazione; studia il fenomeno dell'abbandono dei paesi e contemporaneamente racconta questi luoghi vuoti che si riempiono di nuove figure. Muoversi nelle città, attraversare paesi e campagne, guardare e conoscere quelli che arrivano richiede una pratica un'arte del camminare lento, silenzioso, a volte solitario. L’autore ci dice di conoscere persone che hanno viaggiato molte e non hanno visto nulla e persone rimaste ferme che non si sono mai spostate dal luogo natio e che pure hanno contezza del mondo, e non solo di quello di appartenenza ma anche della vita che arriva da fuori attraverso le persone che partono, ritornano e arrivano. L'antropologia non può essere più percepita come la disciplina che si occupa di mondi estinti o in estinzione, si è assunta il compito di interpretare il presente e si pone come <<pratica sociale>> capace di accogliere quel che resta. Capitolo 11: Tracciare il solco durante il viaggio “Camminare” anche per coloro che sono rimasti (e che spesso vivono da fermi) è un esercizio di verità così come in passato lo era stato per coloro che avevano scelto come sito in cui abitare luoghi lontani e avevano visto nello spostamento, nella migrazione, la scoperta, la terapia. La concezione salvifica del viaggiare e del camminare è presente in tutte le religioni. Per restare in un preciso orizzonte geografico e culturale, le Madonne e i santi più venerati in tutto il sud Italia sono venuti da fuori e da <<tanto lontano>> come recitano moltissimi miti di fondazione, leggende, canti popolari. Questi assumono il patronato delle diverse comunità, le difendono dalle calamità, sono visti come gli aiutanti delle persone che si mettono in mare, degli emigrati. L’emigrazione è stata anche un esodo di tipo religioso, ricerca di un mondo nuovo e una vita nuova. Il Cristo folkoristico, come hanno documentato diversi demologi, quello delle leggende e dei racconti popolari di molte regioni italiane che viaggia per il mondo (da solo o insieme a Pietro o ad altri discepoli) e sconfigge la fame, denuncia le menzogne e le oppressioni, afferma la verità e la giustizia tra gli uomini, rivela talvolta una religiosità caratterizzata da una vena di umorismo popolare, da una dimensione gioiosa. “Cammina cammina” recitano diversi racconti popolari nei quali i protagonisti si affrancano o tentano di liberarsi da miseria, fame, ingiustizie. Camminare significa conoscere, capire, cambiare e migliorare le proprie condizioni. Il vecchio camminante di cui parla il folklore è l'uomo di esperienza, intesa come capacità di interpretare e conoscere meglio il proprio luogo. Santuari, chiese e grotte hanno costituito un punto d'incontro e di convergenza per persone provenienti da posti lontani. Il viaggio religioso, che coinvolgeva le popolazioni nelle diverse aree interne dell'Italia, era elusione della vita monotona, spazio di libertà, ricerca di salvezza e di guarigione. Camminare però comporta anche il rischio di perdersi, e perdersi può essere causa o esito di una maledizione. Nelle fiabe ritorna il motivo dell'andare spersi per il mondo che nelle diverse versioni di queste narrazioni, appare legato a una maledizione, a una fuga da una condizione oppressiva, da un destino avverso alla ricerca, di qualcuno o di una diversa fortuna. In tutt'altro contesto, il pellegrino (secondo l'etimologia latina peregrinus) l'eterno straniero è colui che trova alla fine un punto di arrivo e una patria eterna al di fuori del mondo delle cose materiali. L'eterno straniero è un'anima nostalgica, insoddisfatta, che perennemente insegue qualcosa, alla ricerca della patria perduta, dell’anima tanto amata quanto impossibile da trovare, una patria utopica che può essere anche la morte. Uno scrittore Bruce Chatwin, pur essendo forse il viaggiatore più famoso e inquieto dai nostri tempi, non dimenticava anche la dimensione stanziale dell'uomo. Sulla collina nera, il suo romanzo d'esordio racconta la storia di due gemelli legati da un fortissimo rapporto di amore e odio. Le loro vicende, che si svolgono prevalentemente in una fattoria, sembrano risentire poco dei grandi eventi della storia che attraversano, ma in realtà questa storia plasma i loro destini. La dimensione delle loro esistenze, racchiusa nelle mura domestiche, viene appena scalfita dalla Prima guerra mondiale e dall'arruolamento di uno dei fratelli. La loro esistenza scorre con uno sguardo al passato, in cui ritrovano i loro sogni e le aspirazioni non realizzate. I loro insuccessi non sono per loro motivo di rimpianto, quanto piuttosto un termine di paragone tra l'alternativa di un'esistenza inquieta ed incerta e la solidità della vita, monotona e rassicurante di ogni giorno. Chatwin si concede la rievocazione nostalgica di un'epoca e di una terra attraverso depositi di memoria involontaria. Egli conosceva le ragioni e le scelte di chi restava e anche nei suoi viaggi è sempre stato attratto da viandanti ed erranti, camminatori, nomadi che tuttavia anche a dispetto della loro mobilità, sono depositari di un riferimento anche mentale che li aiuta a non perdersi. Dalle memorie di Darwin, Chatwin desume che la vita è cammino, viaggio, che <<camminando si risolve>>, e di questo fa una pratica di vita. Ma è tra gli aborigeni australiani che Chatwin trova una conferma dell'istinto migratorio dell'uomo. Essi camminano e si spostano, ma non in maniera casuale, senza punti di riferimento: al contrario conoscono a memoria luoghi, strade, canti, e la loro nostalgia è nel cammino, la loro casa è nella via. I bianchi, scrive Chatwin commettono l’errore di pensare che gli aborigeni, non essendo stanziali, non avessero nessun sistema che regolasse il possesso della terra. In realtà essi non potevano immaginare un pezzo di terra circondato da frontiere: lo immaginavano come un reticolato di vie o percorso. Vengono le vertigini a pensare che questi aborigeni australiani sono i discendenti del sapiens che, impiegando decine di migliaia di anni, dall'africa hanno raggiunto per terra e per mare l'Australia dove hanno distrutto centinaia di specie di animali, boschi e foreste. La <<via>> di cui parla Chatwin ricorda abbastanza il <<campanile di Marcellinara>> di cui parla De Martino con riferimento al contadino calabrese che teme e ha paura di perdere il suo punto di riferimento. In fondo restare e partire rivelano entrambi un bisogno di casa. Di recente, Elizabeth, la moglie di Chatwin ha ricordato che Bruce si sentiva un nomade, in esilio in qualsiasi posto, tranne che nella terra di confine del Galles da dove partiva e dove tornava. Considerava questa terra <<uno dei centri emotivi>> della sua vita, amato e conosciuto fin dall’infanzia. Forse come ci ricordano gli aborigeni australiani e i calabresi del passato, come migrare é restare sono inseparabili, così quella che noi chiamiamo nostalgia non è legata necessariamente all'esperienza del viaggio. Dalla nostalgia come patologia si passa alla nostalgia struggente che fonda nuove identità, senso di appartenenza, richiamo delle origini capace di creare arte e musica; si approda alla percezione che la nostalgia sa trasformare il dolore e la pena del mondo di origine in forza e grazia salvifica. Forse la nostalgia è davvero la natura dell'uomo che è condannato ad essa sia quando parte sia quando il resta, e forse il cammino, esteriore e interiore, si presenta come una via per cercare altre forme di abitare e di guardare il pianeta. Wenders si ritroverà poi (per documentare le esperienze dell'accoglienza a Badolato e a Riace, dove realizza un documentario in cui il protagonista è Mimmo Lucano) proprio in quella Calabria la cui storia la cui antropologia sono segnate da fughe, ritorni nostalgia e cammini. San Cosma e San Damiano , prima ancora, i bronzi poi i profughi possono arrivare perché c'è qualcuno che accoglie e che resta. Questi camminamenti solitari, veri e propri pellegrinaggi lenti e pazienti, vedono come protagoniste figure insieme stanziali ed erranti ferme ed inclini ad un cammino eversivo. Eppure noi abbiamo perso l'abitudine al quid metafisico e alla malfa fisica del cammino. Camminiamo con la rete, con Internet con le macchine. Soltanto negli ultimi anni, da più parti e composizioni diverse si riprende e si riscopre la vocazione religiosa del cammino. Non è il cammino distratto di flâneurs frettolosi, distratti che devono muoversi senza guardare, correre senza fermarsi, accumulare oggetti e fotografie da mostrare agli le prime sommosse e dolenti voci dei superstiti ai terremoti, l'intenzione è quasi sempre quella di restare nei luoghi in cui sono nati e vissuti anche se ridotti in macerie, di non spostarsi altrove nemmeno in posti più vicini. La vicenda dell'Aquila e della dispersione della città ha dimostrato una resistenza tenace a qualsiasi proposta di ricostruire altrove. Ma certamente in questa scelta di restanza gioca un ruolo importante la nuova abitudine a convivere con i <<disastri>>. Hanry Levi ha visto nel sisma che ha colpito L’Aquila e l'Abruzzo nel 2009 la conferma delle considerazioni di Benjamin sulla rovina come presente. Il pensatore tedesco mette in scena l'Angelo della storia, che avanza verso il futuro a ritroso con gli occhi rivolti al passato, le ali gonfiate da un terribile evento che lo risucchia all'indietro. Egli vede ammucchiarsi ai propri piedi un gigantesco ammasso di rovine che salgono verso il cielo: sono ciò in cui si trasforma costantemente il presente. Il presente si accumula soltanto nella forma della rovina. A rendere attuali e familiari le rovine ci pensano quotidianamente la cronaca, la vita, le guerre e i bombardamenti. La fine del mondo disegna ogni giorno scenari del nulla e delle sparizioni. E il ricordo della malìa dell'antico si congela nel dovere della memoria. La memoria Un sentimento di perdita ha favorito, da un lato, la museificazione della memoria, dall'altro, il recupero della dimensione della ruralità. Negli ultimi tempi la nostalgia non viene più pensata come uno spettro, un fantasma del passato: finalmente ci si è potuti interrogare sulla storia di un sentimento, sulle origini e gli sviluppi di un concetto che accompagna la moderna civiltà occidentale. L'arrivo della pandemia di COVID-19 sembra inoltre conferire un nuovo senso alla nostalgia. Questa rideterminazione è stata messa a fuoco da Gospodinov in un'intervista rilasciata a Demetrio Paolin:<<ritengo che questo virus sia una macchina del tempo. Guardiamo vecchi film e vecchie partite di calcio, leggiamo vecchi romanzi e sentiamo nostalgia di un mondo che solo tre mesi fa odiavamo>>. Il suo Cronorifugio è costruito sull'uso della memoria e sul rischio che questa possa diventare un punto di fuga verso il passatissimo. L'uomo che assiste alla fine di un mondo possiede soltanto ciò che ha perso. Colui che pensa di essere immune dal proprio passato, resta spesso ancorato all'universo scomparso, incapace di trovare e percorrere nuove strade. Chi invece ha un punto di partenza, a cui torna con la memoria sa mettersi in viaggio per cercare nuove direzioni. Si potrebbe supporre che dalle infermità della memoria di cui parla Emil Cioran si guarisca con l'esercizio della dimenticanza. Memoria e oblio non sono evocabili a nostro piacimento e forse non bisogna avere paura di scoprire che il paradiso dell'infanzia è spesso l'esito degli inganni della memoria: chi ha bisogno di inventare un paradiso “all'indietro” è alla ricerca di un nuovo paradiso, perché il sentimento delle origini è inseparabile dal sentimento che abbiamo del nostro presente. Il passato, nonostante le istanze del rimorso non può essere allontanato dall'oggi: non possiamo fuggire dalle origini che ci inseguono, saremo sempre anche quello che un tempo siamo stati. La memoria del passato può diventare la nostra casa ma non deve trasformarsi nella nostra prigione. Il dialogo con i defunti La memoria buona potrebbe suscitare in noi la nostalgia costruttiva, e oggi persino la rivoluzionaria, delle sette opere di misericordia corporale: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati e seppellire i morti. Per Canetti il primo comandamento è <<non morire>>. La posizione di Canetti contro la morte è, esplicitamente, un atto di accusa nei confronti di quanti non hanno cura dei vivi, di un'umanità che, nel corso di una lunga storia ha commesso stragi guerre e eccidi. Canetti, mentre dichiara la sua guerra alla morte, non la rimuove e riconosce in maniera esemplare il carattere sociale, culturale e psicologico del lutto. Lo scrittore consapevole che, nonostante il tentativo di rimozione, la modernità non sa alinearsi dall'intimità narrativa col dolore è ricerca per sé una qualche forma di cordoglio e di lutto, auspica che il lamento funebre ritrovi l'antica forza evocativa, in grado di far risorgere i morti dagli avelli. I tradizionali modi di elaborare lutti individuali e collettivi, le antiche forme di pietas e di passione per i morti non sono destituiti di senso. Il lamento funebre nelle società tradizionali si iscriveva nell'ambito del lavoro di oggettivazione messa in forma del dolore. Dobbiamo a Mariangela e a Vinicio Caposella la recente riproposizione teatrale di un lamento che si pone come antidoto alla morte. Durante lo Sponz Fest del 2019, l'intensa performance collettiva Trenodia ha toccato molti comuni calabresi e ha visto attrici e attori interagire con i territori nell'esecuzione delle lamentazioni rituali. All’autore gli è capitato di vedere in alcuni paesi, durante le sue ricerche, lapidi sulle quali era stata incisa la data di nascita di un uomo ancora in vita mentre quella della morte sarebbe stata posta nel futuro. Altre lastre sepolcrali vengono costruite in memoria di emigrati sepolti negli “altrove” del nuovo mondo. Si stabilisce così un legame non solo tra vivi e defunti ma tra comunità separate e frantumate, tra paesi in abbandono e nuovi luoghi fondati dagli emigrati. Secondo Hillman, nel Libro rosso la morte è un modo per mettersi in contatto con i defunti, un’aprire loro la porta. Si tratta di una <<cura rivoluzionaria>> per trattare un sintomo collettivo, per guarire dalla malattia della nostra cultura: il rifugio della morte inteso come rimozione, evasione fuga. I defunti vivranno fino a quando resteranno nella memoria di coloro che li hanno conosciuti e amati. Capitolo 13: Un’etica del restare Il COVID-19 ha riguardato il mondo e ogni singolo luogo, e ha segnato una cesura tra il <<prima>> e il <<tempo presente>>. Una delle eredità della pandemia credo si concretizzi nell'impossibilità per molti di immaginare il futuro. Il lockdown ci ha sorpreso senza che avessimo parole, immagini, idee per raccontare quello che ci siamo trovati a vivere. Mark O'Connell parla dell'impossibilità dell'uomo di elaborare un paradigma culturale capace di concepire queste nuove, lente, quotidiane forme di catastrofe. E se l'apocalisse è sempre stata considerata un evento singolare, improvviso, oggi apocalittico è il cambiamento climatico mentre la fine dei tempi appare una lenta dissoluzione. Fenomeni di lungo periodo, come riscaldamento globale e le sue conseguenze, in realtà hanno già condannato il nostro mondo a causa di processi che l'umanità non è più in grado di arrestare. La lotta contro il riscaldamento globale è ormai troppo tardi, la catastrofe climatica nonostante l'ammirevole impegno è inevitabile. Azioni anche piccole, un insieme significante di gesti e atti quotidiani. Per opporsi alla degenerazione delle condizioni economiche ambientali e ad un mondo indifferente, chiuso nel suo cinismo, possono costruire utopie minimaliste. Utopie in grado di cambiare il mondo o almeno i luoghi in cui abitiamo e a cui dobbiamo assegnare, quotidianamente, un nuovo senso. Il virus e la crisi ecologica ci mettono davanti a dilemmi di non facile soluzione. Di certo assisteremo a nuove, grandi, migrazioni di uomini che si sposteranno per necessità, spinti dalle crisi climatiche, ed è abbastanza prevedibile che bisognerà rimodulare le nostre forme del restare. Forse assisteremo sempre più al fenomeno dei <<tornanti>>, per necessità o per scelta, per convenienza o per nostalgia. Il sapiens si porta nella mente e nell'anima oltre alla necessità del movimento, anche quella della stanzialità, la nostalgia per la terra di origine, la difesa o la cura del territorio in cui è nato e vive. Sono molti ormai a domandarsi se restare stia diventando non solo una necessità ma addirittura una delle poche opportunità di vita e di salvezza offerta all'umanità. Glenn Albrecht ci parla di <<solastalgia>> un’insieme fra il termine inglese solace (consolazione) e nostalgia. Albrecht definisce questo stato come dolore causato dalla continua perdita di conforto e dal senso di desolazione dovuta allo stato attuale della propria casa e del proprio paesaggio. Il paesaggio familiare è ancora lì, davanti a noi, ma a causa dei mutamenti subiti non è più fonte di conforto e genera invece un senso di desolazione e di smarrimento. Albrecht sostiene di aver osservato e descritto la <<solastalgia>> presso varie popolazioni in zone diverse del mondo, tra cui Australia, Ghana, Stati Uniti e Canada. Le riparazioni e le ricostruzioni continue a cui molte persone di queste popolazioni erano costrette dopo terremoti, alluvioni possono essere visti come forme di resistenza e di resilienza alle negatività sperimentate quotidianamente. Ciò che resta è dunque la terra che chiede un'altra cura, un'altro rispetto. Nel riabitare quei luoghi abbandonati in favore delle sempre crescenti concentrazioni urbane, qualcuno intravede possibilità per scongiurare una possibile fine. Tanti <<vuoti>> potrebbero diventare <<pieni>> e gli ultimi abitanti diventare i primi di nuove comunità rifondate o da rifondare, in grado di imparare anche dagli errori passati. In questo libro ci siamo interrogati sulla fatica, sulla necessità, sulla bellezza del restare. Spetta forse a chi resta per scelta e per necessità assumere il compito di diventare gli esploratori dei propri luoghi. E certo che abbiamo bisogno di un nuovo senso della presenza e dell'abitare che ci consenta di esserci ancora. Tra questi estremi temporali si colloca una ricchissima tradizione culturale che pone più attenzione al paesaggio, nella quale trova fondamento un'etica del restare intesa come un nuovo modo di guardare il mondo: ri-guardare, nel duplice senso di <<posare ancora su di essi lo sguardo>> e <<averne cura>>. <<Cura>> è una parola densa di significato, è premura, attenzione, premura, riguardo. La cura ha un senso vivo anche nella sfera pratica, accoglie in sé tutta l'attenzione necessaria nel rapporto tra l'uomo e le piante, tra l'uomo e gli animali, nel mondo che dividono. La cura è amore che accetta, perché possiamo amare in modo maturo solo ciò che conosciamo nella sua verità e nudità. I luoghi richiedono amore vero, cura dei luoghi significa anche avere carico delle verità drammatiche, quelle che tutti vorremmo tacere, nascondere in ogni modo. Cura è inoltre saper fare i conti con il dolore. L'alternativa fuggire-restare è raccontata da tutti i grandi autori meridionali e spesso costituisce un dilemma che segna la loro esistenza e le loro opere. Il luogo da cui si fugge spesso è un inferno segnato da miseria e violenze, invidia e pettegolezzi ma l'approdo non è un paradiso, anzi spesso diventa il posto del disincanto. Restare in nessun caso può essere accostato all'immobilità, alla scelta di non fare i conti con la propria ombra, il proprio doppio. Ma restare è anche un'arte, un'invenzione. L’autore racconta che da bambino sua madre gli ripeteva <<non hai ricetto>> (non hai pace). Eraera irrequieto e instancabile. Questo tratto del suo carattere è durato una vita e dura. Ricorda un proverbio: “la pietra che non ha un buon appiglio se la porta via la Fiumara”. Anche questa necessità di sosta, di radicamento ha fatto parte della sua esistenza. Radicamento e fuga sono sempre le parti di un intero. È ancora così anche in questo libro. Dice:<<Racconto del lungo viaggio nella mia restanza, nella mia patria culturale. Abito nella casa in cui sono nato, dormo nella stanza in cui mia madre mi mise alla luce. Posso dire che pur con tutti i miei viaggi sono rimasto. Il paese che ho visto pieno adesso è vuoto, i compagni che partivano pensando al ritorno poi non sono più tornati, le strade e le case sono vuote. Il luogo che volevo cambiare mi ha cambiato. Assisto alla morte del mio paese è struggente. Da bambino aspettavo il ritorno di mio padre adesso assisto alla partenza dei miei figli. È pure qui che devo dare un senso a quel che resta del mio giorno.>> Siamo responsabili del tempo che viviamo, siamo responsabili dei luoghi che abitiamo. Non possiamo limitarci solo a contare i morti, non possiamo farci inghiottire dalle ombre e dai fantasmi del passato, con i quali tuttavia continuiamo ad avere un turbolento e sofferto dialogo. Ilnostro compito è anche accogliere la vita che arriva, ricevere quelli che tornano, provare a sostenere quanti non vorrebbero partire. Il nostro compito è camminare, cercare, scrivere sperando che anche questo possa servire a costruire nuova comunità.
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