Scarica Lavoro del lutto, melanconia e creazione artistica - Massimo Recalcati e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! Lavoro del lutto, melanconia e creazione artistica ——————————————————————————————————————— Massimo Recalcati Il paradosso della memoria consiste nel fatto che ciò che desidereremmo ricordare, non riusciamo mai a ricordare come vorremmo mentre, nonostante i nostri sforzi, ciò che invece vorremmo poter dimenticare non riusciamo mai a dimenticare veramente. Ciò ci insegna che noi non siamo proprietari della memoria, perché ciò che vorremmo trattenere ci sfugge e ciò che vorremmo allontanare ci assilla. Questo significa che il funzionamento della memoria non risponde mai a un criterio di volontarietà. L’esperienza melanconica è innanzitutto un’esperienza di alterazione del tempo, di congelamento, di ibernazione del tempo. Il tempo del melanconico è un tempo senza avvenire, tutto rivolto all’indietro, ripiegato, fissato all’indietro. La depressione melanconica è una malattia nella quale il soggetto si sente come finito, senza speranza, senza futuro. Il soggetto melanconico vive il tempo della sua vita come se si fosse già esaurito: tutto ciò che è vivo è già morto. La dimensione melanconica è una dimensione dove è assente l’amore, è una dimensione di disperazione radicale. Dunque la prima definizione che vi propongo della melanconia è proprio quella di considerarla come un’alterazione del tempo, nel senso che il tempo melanconico è un tempo rivolto al passato, immobile, bloccato, un tempo senza tempo, un tempo morto. “Sono morto senza la possibilità di morire”. Se ci pensate è una condizione di disperazione assoluta: è morto, e in quanto è già morto non può morire; vive in vita l’esperienza della morte senza alcuna possibilità di separarsi dalla morte perché ha la convinzione di non poter morire in quanto si sente già morto, dunque condannato per l’eternità a vivere la vita di un morto. La seconda definizione che vi propongo è un’esperienza radicale del vuoto: il mondo, l’esperienza del mondo, del proprio essere nel mondo, è un’esperienza svuotata di senso; il mondo è percepito come un evento senza senso, il soggetto non trova più un senso nel mondo. L’esperienza del vuoto è uno dei grandi sintomi della depressione. Il vuoto non è la mancanza. L’esperienza della mancanza è sempre in rapporto all’esperienza del desiderio: dove c’è mancanza c’è desiderio di ciò che manca. È questo uno dei principi fondamentali della riflessione di Jacques Lacan: il soggetto è un manque-à-etre, cioè una mancanza a essere, un soggetto diviso. Si definisce il soggetto umano come soggetto diviso, leso, lacerato, mancante costruttivamente d’essere, non mancante di questo o di quello o di quell’altro, ma mancante nel suo stesso essere. E in quanto manque-à-etre, un soggetto è anche desiderio di raggiungere ciò che gli consentirebbe d’essere. Dunque il soggetto è una mancanza a essere e, al tempo stesso, è desiderio di raggiungere ciò che gli darebbe consistenza, ciò che gli darebbe essere. Nondimeno questa ricerca del soggetto verso l’essere di cui manca è votata all’infinito in quanto non esiste, secondo Lacan, un oggetto di desiderio in grado di colmare il desiderio stesso. E, dunque, il desiderio in questo senso è una “metonimia della mancanza a essere”. Dunque non esiste una soluzione per la divisione soggettiva che affligge la realtà umana. Non possiamo togliere quella sbarra che divide il soggetto perché il soggetto è costruttivamente sbarrato, leso, separato da se stesso, desiderante. La depressione non è la melanconia perché la depressione sarebbe in qualche modo in rapporto alla mancanza; la depressione sarebbe il sentimento che sorge dall’esperienza del nostro essere Uno, del nostro non essere consistenti. In tal senso tutti gli essere umani sono depressi. Diversamente dalla mancanza, il vuoto non è in rapporto al desiderio. La mancanza genera il desiderio, cioè ciò che può colmarla. L’esperienza del vuoto invece, che è al centro della melanconia, è l’esperienza di un abisso, di un senza fondo, dell’assenza del desiderio; il melanconico vive nel vuoto, si sente vuoto, ma non anela in nessun modo a estinguere questo vuoto. Il vuoto non genera il desiderio. Il vuoto genere solo il vuoto; il vuoto genere l’annichilamento, la mortificazione, lo spegnimento del sentimento stesso della vita. Il vuoto è il luogo di Das Ding, è il luogo primordiale della Cosa. MANCANZA —— (DEPRESSIONE) ——> desiderio VUOTO ——— (MELANCONIA) ——> godimento mortifero Qui abbiamo il vuoto al posto della mancanza; non abbiamo il desiderio, ma abbiamo il godimento mortifero che si genera dal vuoto. Ebbene, che cosa c’entra tutto questo con l’arte? Un primo livello elementare consiste nel notare che tutti i grandi artisti, le personalità che hanno fatto la storia dell’arte, sono personalità frequentemente afflitte da stati depressivi o da sentimenti melanconici. Troviamo quindi un’affinità speciale tra la creatività artistica e la personalità depressivo- melanconica. Troviamo frequentemente questo nesso tra la personalità artistica e la personalità depressivo-melanconica. L’arte ha costruttivamente a che fare con il vuoto, al vuoto della tela bianca che è un vuoto che precede il gesto della creazione. Per questo Van Gogh a volte scrive di questo vuoto assimilandolo a un muro, a un vuoto compatto come un muro che l’azione dell’artista deve poter attraversare. Questo vuoto che la tela bianca incarna non è semplicemente il vuoto della tela, ma è il vuoto in quanto manifestazione del reale. Ogni artista non cerca di rappresentare il rappresentabile, non cerca di riprodurre il visibile, ma di rendere visibile l’invisibile (Paul Klee). Noi possiamo dire, con nostre parole, che non punta a rappresentare ciò che è già rappresentato, ma punta a rappresentare l’irrappresentabile Lacan definisce questo elemento che sfugge alla rappresentazione, l’elemento irrappresentabile della rappresentazione, il reale. La confidenza che l’artista ha col vuoto è dovuta al fatto che l’artista punta a cogliere il reale come irrappresentabile. Secondo elemento essenziale presente nel nesso che unisce la creazione artistica alla dimensione melanconico-depressiva: nell’opera d’arte c’è traccia di ciò che è quanto ha perduto l’oggetto primordiale del suo godimento. Potremmo dire anche che il desiderio del soggetto è il movimento che costeggia il vuoto della Cosa alla ricerca nell’Altro dell’oggetto perduto. Il desiderio è un movimento che ricerca nell’Altro l’oggetto perduto proprio a causa dell’Altro. L’essere della Cosa, a causa dell’azione del linguaggio come struttura di separazione, è da sempre perduto. La terza faccia è che, in quanto perduta, la Cosa si dà sempre come un’Altra Cosa. Provo a tradurre: nella misura in cui l’esperienza della Cosa è un’esperienza impossibile, noi potremmo ritrovare la Cosa sempre e necessariamente in Altra Cosa. La Cosa non si dà mai direttamente, ma sempre attraverso una mediazione simbolica e immaginaria. La Cosa è quel reale di cui possiamo fare esperienza solo indirettamente perché tra il soggetto e la Cosa c’è la struttura di separazione del linguaggio. È questa la terza faccia della Cosa. La quarta faccia mostra che la Cosa è una causa. La Cosa, in quanto perduta, causa infatti il desiderio come spinta al suo ritrovamento. La faccia della Cosa più importante per noi è la quinta. Si tratta della faccia già inquietante. La Cosa non solo è l’irrappresentabile, cioè non possiamo mai rappresentarla per ciò che è, ma solo come Autre Chose, solo come Altra Cosa, come aCosa; ma è anche un’incandescenza, afferma Lacan, una zona di incandescenza. La Cosa è il luogo non solo di un appagamento del godimento originario, ma è anche luogo di incontro terribile col Terrificante. La Cosa è una presenza, un’incombenza da cui dobbiamo difenderci. Il reale della Cosa può opprimere l’esistenza; la Cosa è un’oppressione, una violenza traumatica. La Cosa è un vortice che aspira e rispetto al quale gli esseri umani erigono delle barriere protettive. Sono necessarie per noi barriere protettive per sopportare e distanziare questa presenza inquietante della Cosa, del reale della Cosa. Dunque dobbiamo pensare che l’ultimo carattere della Cosa afferma la Cosa come il luogo di un vortice, un luogo di incandescenza, turbolento, caotico, rispetto al quale gli esseri umani costruiscono delle barriere protettive. Lacan isola in particolare quelle del pudore, del bene e del bello. Si tratta di tre barriere protettive fondamentali: una più esterna, una mediana, una più prossima alla Cosa. La barriera più esterna è la barriera del pudore. Gli esseri umani in quanto esseri del linguaggio sono animati dal pudore o, almeno, dovrebbero essere animati dal pudore. La cultura contemporanea è una cultura dove ci si vergogna sempre di meno, dove si è perduto il senso del pudore. Un esempio: il corpo umano non si dà mai come nudo, il corpo umano è, come tale, sempre abbigliato, è sempre rivestito dall’abito. L’incontro con il corpo nudo poteva essere l’incontro traumatico col reale di das Ding, col reale della Cosa. Il corpo nudo deve essere sempre velato, abbigliato, vestito. La sua nudità deve essere nascosta alla vista. Nella misura in cui il corpo è vestito, è abbigliato, il corpo, nudo è come oscurato dall’abito, nel senso che l’abito vela la Cosa reale del corpo. La nudità, la ricerca della nudità, del corpo nudo, della Cosa del corpo, delle viscere senza abito, è una ricerca propriamente psicotica, cioè propriamente folle. I folli, in effetti, hanno delle difficoltà con gli abiti, non riescono a vestire il loro corpo. Il pudore è quell’esperienza che mette a distanza il reale della Cosa, introducendo un velo, velando il reale della Cosa, rivestendo il corpo nudo. La prima barriera è dunque quella del pudore, del pudore come difesa del reale della Cosa. La seconda barriera è invece la barriera del bene. Questa barriera ci protegge dallo scandalo della Cosa, dallo scandalo del reale, attraverso il culto ideale per una certa versione del cristianesimo, attraverso il culto ideale dell’amore per il prossimo. I buoni sentimenti, gli ideali, i valori morali universali hanno una funzione di copertura del carattere spigoloso di questo reale che ci abita e che abita la realtà umana e che è il reale terrificante della Cosa. Gli esseri umani parlano del bene per occultare il carattere terrificante della Cosa. In realtà, l’essere non è il bene, non coincide affatto con il bene, né, sempre secondo Lacan, progredisce verso il bene naturalmente. L’essere umano in quanto essere di godimento non persegue il proprio bene. Al contrario: lo scandalo che Freud solleva con la nozione di pulsione di morte e che Lacan riprende nel suo concetto di godimento mostra che la meta ultima della realtà umana contraddice il bene. Volere il proprio bene è agire in modo temperato, moderato, evitare gli eccessi. Il principio del bene è un principio che esclude l’eccesso, esclude l’esperienza dell’eccesso, è un principio di temperamento degli eccessi. Gli esseri umani non vogliono il proprio bene, non evitano il dolore e non perseguono il proprio piacere, vogliono godere e il godimento è al di là dell’equilibrio, porta con sé necessariamente l’esperienza dell’eccesso, della perturbazione dell’equilibrio. Questa tendenza al godimento, come esperienza dell’eccesso che scardina l’equilibrio del principio del bene, è qualcosa che Lacan riprende da Freud e che Freud aveva teorizzato come “pulsione di morte”: gli esseri umani sono tutti animati da una pulsione di morte, che è la tendenza a raggiungere un godimento che compromette la conservazione della vita. Il godimento non si confonde col piacere perché persegue l’al di là del principio di piacere. La pulsione di morte è la tendenza a ripetere esperienze che ci fanno soffrire, che ci fanno più male, perché in quelle esperienze, paradossalmente, il soggetto gode. E il vero problema per Freud è che la soggettività umana tende a ripetere ciò che le fa più male, non ciò che le fa bene. Il principio del bene, abbiamo visto, è il principio di piacere, cioè evitare tutte quelle perturbazioni che potrebbero alterare l’equilibrio. Fino alle soglie della Prima guerra mondiale, non a caso, Freud pensava che gli esseri umani fossero orientati dal principio di piacere, che si comportassero naturalmente. Freud pensava che il comportamento umano e quello animale, almeno da questo punto di vista, fossero simili: evitare il dispiacere, evitare le esperienze spiacevoli e ricercare quelle piacevoli, gratificanti, soddisfacenti. Il fenomeno della guerra, della distruzione, della morte di massa porta Freud a pensare che il principio di piacere, che sarebbe il principio del bene, risulta del tutto insufficiente per spiegare i comportamenti umani. I comportamenti umani sono più complessi, l’agire umano è più complesso, non si può spiegare col principio di piacere. Qual è uno dei fenomeni sui quali Freud si sofferma? È, per esempio, la tendenza dei suoi pazienti a ripetere, nonostante gli insegnamenti tratti dall’esperienza, gli stessi errori. Dunque siamo di fronte, nella “coazione a ripetere”, a una spinta maledetta alla rovina, a una vera e propria pulsione di perdita. È questo il pensiero più radicale di Freud, c’è negli esseri umani una spinta alla propria rovina, che Freud chiama Todestrieb, pulsione di morte. Lacan chiama questa spinta alla rovina col termine francese jouissance, godimento. Il godimento non è il piacere, perché il piacere si soddisfa in modo armonioso, equilibrato. Ma l’essere umano vuole l’eccesso, vuole il punto dove l’equilibrio si rompe e gode di questa frattura dell’equilibrio, non gode dell’equilibrio in sé. Come si tratta questa spinta a perdersi, a rovinarsi? Si risolve canalizzando questa spinta in direzioni feconde, creative, imprimendo alla spinta della pulsione di morte una nuova direzione. Dunque il principio del bene è il principio che occulta il reale della pulsione di morte. Il principio di piacere è il principio che cerca di coprire l’al di là del principio di piacere. La terza barriera, l’ultima, è quella del bello. La bellezza è la barriera già vicina alla Cosa. Il bello deve mostrare, alludere, rinviare allo spaventoso, all’assoluto scabroso di das Ding. Il bello non copre il reale, ma allude al reale. Non sono belle nel senso in cui l’estetica idealista definisce il bello, ma palpitano di reale… in altre parole il bello può scaturire dalla stessa esperienza dell’informe, o del deforme; il bello è ciò che allude a una forma decisamente eccedente quella classica della “bella forma” che nasconde e ci protegge dall’informe. Il bello lacaniano non è uno schermo del reale ma un suo indice enigmatico. Che cosa vuol dire che l’arte sia un’organizzazione del vuoto? Vuol dire che la pratica dell’arte sa organizzare il vuoto della Cosa. Un’opera d’arte punta a organizzare in modo simbolico e immaginario, attraverso cioè il linguaggio e le immagini, dunque attraverso una forma, il reale scabroso della Cosa. Il termine “organizzazione” è qui molto importante perché, affinché vi sia opera d’arte, ci deve essere organizzazione linguistica, organizzazione simbolica, organizzazione formale. Se non c’è organizzazione non c’è arte, anche se è certo che vi possono essere modi, stili diversi di organizzazione. L’espressionismo astratto attenta un concetto classico di organizzazione, non in nome della disorganizzazione, ma producendo un nuovo concetto di organizzazione. Ma che cosa organizza, che cosa si organizza nell’organizzazione del testo d’arte? Lacan è preciso: si organizza la Cosa, il vuoto della Cosa, si organizza ciò che in realtà non si può organizzare, ovvero il reale, il vuoto della Cosa come ciò che resiste a ogni forma di organizzazione. In ogni opera d’arte c’è un rapporto di tensione tra l’organizzazione e una forza caotica, che resiste a questa messa in forma. In altre parole, in ogni opera d’arte c’è tensione tra l’articolazione e l’inarticolabile, tra l’esprimibile e l’inesprimibile. Quando Lacan costruisce questa teoria dell’arte come organizzazione del vuoto lo fa contrapponendo il lavoro dell’arte a due altri modi di trattare il vuoto: il modo della scienza e il modo della religione. Nel Seminario VII trovate una tripartizione precisa proposta da Lacan che distingue arte, scienza e religione. Lacan afferma che tutte e tre hanno un rapporto sublimatorio fondamentale con la Cosa. Ma anche che questi discorsi incarnano tre rapporti differenti con la Cosa. La scienza chiude il vuoto della Cosa; la scienza opera una “saldatura” del vuoto, ovvero usa il sapere matematico come suo fondamento, il sapere come un cemento che serve a chiudere ogni vuoto. La scienza usa il sapere come cemento per esorcizzare il vuoto spaventoso della Cosa. Lo strumento che usa per suturare il vuoto della Cosa è lo strumento del sapere matematico, cioè un sapere che esclude il soggetto, che esclude la soggettività. per lo sballo fine a se stesso, la cocaina serve per potenziare le prestazioni, non è un amplificatore di conoscenze; dunque può essere che l’uso culturale della droga avvicini la droga alla sublimazione, questo è il paradosso. Dobbiamo dunque distinguere. Le dipendenze come quella che Jackson Pollock ebbe nei suoi anni di New York sono dipendenze che devastano la possibilità del lavoro artistico; ci sono invece rapporti soggettivi con la sostanza che possono amplificare l’esperienza estetico-artistica. Fissiamo almeno questo punto: dove c’è sublimazione è ridotto il potere della fissazione pulsionale, viceversa dove c’è la fissazione pulsione è ridotto il potere plastico della sublimazione. Questo è il punto; l’opera d’arte scaturisce dal potere plastico della sublimazione. Quando uno è ubriaco o è “fatto” non può lavorare, lavora male. Perché ci sia produzione di opera è necessaria la sublimazione senza una quota eccessiva di fissazione. La sublimazione indica sempre, da questo punto di vista, un differimento dalla soddisfazione, un rinvio della soddisfazione; viceversa la fissazione indicherebbe un soddisfacimento immediato, diretto della pulsione. Veniamo ora alla seconda caratteristica della pulsione secondo Freud: la sublimazione non è una rimozione. Che cos’è la rimozione? La rimozione è un processo difensivo all’origine dell’inconscio, la rimozione è il processo costituente dell’inconscio: c’è inconscio perché c’è rimozione, l’inconscio è un prodotto della rimozione, e la rimozione è un processo difensivo che consiste nell’allontanare pulsioni, rappresentazioni, desideri che risultano inconciliabili o incompatibili con la coscienza del soggetto, e cioè con la rappresentazione immaginaria, narcisistica, che il soggetto ha di se stesso. Dunque attraverso la rimozione il soggetto separa dalla coscienza elementi scabrosi che appartengono al suo essere e che la coscienza non vuole riconoscere. In questo senso la rimozione è un processo difensivo, è un processo di occultamento degli aspetti più scabrosi del nostro essere pulsionale. La rimozione è prodotta, è attivata dalla rappresentazione ideale che abbiamo di noi stessi. Per esempio, io che sono un padre di famiglia premuroso, un uomo probo, come posso tollerare che in me vi sia una spinta aggressiva, omicida verso un mio collega di cui invidio la luminosa carriera? Questa spinta feroce, paradossale, assurda, viene rimossa, separata, allontanata dalla coscienza perché incompatibile con la mia immagine narcisistica. Secondo Freud i due elementi, le due spinte che subiscono la rimozione sono soprattutto la spinta aggressiva e la spinta sessuale. Potremmo dire che il soggetto attraverso la rimozione si divide in due, l’io e ciò che è rimosso del nostro essere. Tutto ciò che è rimosso, è questo lo straordinario pensiero di Freud, non è annullato, non è abolito, non è semplicemente soppresso, ma tende a ritornare. Dobbiamo pensare allora che la rimozione implica sempre il ritorno del rimosso. Ciò che la rimozione respinge fuori dalla sfera di dominio dell’io non è abolito, ma tende a ripresentarsi all’io, sconcertandolo, spiazzandolo, spaventandolo. E in quali forme il rimosso ritorna? In tutte quelle forme che Lacan chiama formazioni dell’inconscio e che attraversano la nostra vita: innanzitutto il sogno, i sintomi di cui soffriamo, ma anche i lapsus, le sbadataggini, gli atti mancati, tutte queste sono formazioni dell’inconscio che segnalano che tutto ciò che è stato rimosso tende a ritornare. La sublimazione, si chiede Freud, è una rimozione? Nella sublimazione la pulsione viene rimossa? La risposta di Freud che dà Freud è: no. La sublimazione non è una rimozione, la sublimazione implica una soddisfazione della pulsione senza rimozione. Ogni volta che c’è realizzazione sublimatoria della pulsione, c’è soddisfazione piena. Lacan chiama questa soddisfazione piena altra soddisfazione per distinguerla dalla soddisfazione sessuale di tipo fallico. Terza definizione freudiana della sublimazione: la sublimazione non è una idealizzazione. Che cos’è l’idealizzazione? Per Freud l’idealizzazione è un processo attraverso il quale si eleva un oggetto - può essere un professore, un compagno, un’amica, un padre, una madre - alla dignità dell’ideale dell’io. L’idealizzazione trasfigura l’oggetto eliminando qualunque imperfezione, facendo dell’oggetto un’immagine ideale. Secondo Freud, questo processo di idealizzazione accompagna i primi movimenti dell’innamoramento. Ogni innamoramento è, infatti, almeno inizialmente una idealizzazione, ovvero una sovraestimazione dell’oggetto. Freud parla di una cecità logica dell’innamorato, che consiste, appunto, nell’idealizzazione del suo oggetto. È molto importante questo elemento per capire la melanconia. Perché l’oggetto perduto del melanconico è sempre un oggetto investito narcisisticamente, è un oggetto fortemente idealizzato. L’idealizzazione ha in comune con la rimozione il fatto di essere un processo difensivo. Da cosa si difende il soggetto attraverso l’idealizzazione? Si difende dall’incontro con il reale. L’idealizzazione immaginaria l’oggetto per spogliarlo dei suoi difetti reali, delle sue imperfezioni reali. Secondo Lacan, l’origine della idealizzazione è lo stadio dello specchio. Fino a quel momento gli stadi della psicologia infantile che Freud aveva teorizzato erano i tre stadi: lo stadio orale, lo stadio anale, lo stadio fallico. Lacan introduce lo “stadio dello specchio” a partire dall’osservazione dei bambini e dall’interesse che essi mostrano nei confronti della superficie speculare, dell’oggetto-specchio. Dai sei mesi ai diciotto mesi i bambini sviluppano un interesse particolare verso lo specchio, giocano con lo specchio. Giocano, per Lacan, al gioco umano fondamentale che è il gioco del riconoscimento: un bambino di sei mesi non sa com’è la sua immagine; c’è stato un momento in cui ci siamo visti per la prima volta. Lacan definisce lo stadio dello specchio quello stadio in cui il bambino incontra per la prima volta la propria immagine. Dunque c’è stato per ciascuno di noi un tempo in cui abbiamo visto la nostra immagine e abbiamo potuto riconoscere nell’immagine speculare qualcosa che ci restituiva il nostro stesso essere. Nello stadio dello specchio accadono due fenomeni fondamentali. Il primo fenomeno è che il bambino si percepisce per la prima volta come un’immagine unitaria; mentre prima il bambino si perdeva nello sguardo della madre, ora si percepisce come una forma indipendente. Dunque lo stadio dello specchio è uno stadio di soggettivazione, di individuazione, di differenziazione. Il bambino è, in questo tempo della sua vita, in quella che Jacques Lacan chiama “discordanza primordiale”. Che cosa significa discordanza primordiale? Che il bambino non ha la parola, non ha il coordinamento motorio, non ha soprattutto nessun autonomia vitale. Il bambino dipende in tutto e per tutto dall’altro. Il bambino in queste condizioni, che Lacan chiama, appunto, di discordanza primordiale, vive il suo corpo come un corpo morcelé, cioè come un corpo spezzettato, frammentato. Questo corpo frammentato trova nell’immagine verticale dello specchio una sua ricomposizione ideale. Lo specchio è il luogo dove il bambino situa la sua immagine ideale. Il bambino eccitato di fronte alla sua statua ideale di se stesso produce una agitazione euforica. Reagisce in maniera esaltata di fronte all’immagine compiuta della sua identità narcisistica: “Io sono questo!” Ma lo stadio dello specchio ha anche una dimensione tragica. Ebbene questa immagine speculare di me stesso non mi consente solo di specchiarmi in essa, ma aliena me stesso in un altro, mi sdoppia, mi spezza in due, mi riflette in un’immagine che non posseggo più. In questo senso nello specchio il bambino ritrovandosi si perde; egli perde il suo essere perché ciò che lo fa essere uno è l’altro, perché ciò che lo fa consistere come se stesso è l’altro da sé. Il soggetto si costituisce come un io solo attraverso l’altro, attraverso l’immagine straniera dell’altro. La potenza problematica del mito di Narciso è tutta in questa domanda: come posso ricongiungermi alla mia immagine, all’immagine ideale di me stesso se questa immagine in realtà non mi appartiene, se questa immagine mi sfugge da sempre? Il paradosso su cui voglio insistere è che nel tentativo di raggiungere l’immagine, il soggetto muore. Narciso si tuffa, nel mito, per raggiungere l’immagine che vede riflessa nelle acque, ma in questo estremo tentativo di raggiungere la propria immagine, Narciso muore. Il paradosso della realtà umana è che quello che Freud chiama l’Io ideale, Ideal-Ich, è l’io che sorge allo specchio e a cui il soggetto punta senza mai poterlo raggiungerlo. Ma l’Io ideale, in quanto gli dà l’illusione di essere ciò che non è ancora, viene prima del soggetto aspirandolo, catturandolo, affascinandolo, seducendolo. Noi siamo sempre catturati dal nostro io ideale, che a volte proiettiamo negli altri, soprattutto in chi amiamo, cioè in chi idealizziamo, perché Freud dice che si ama precisamente nell’altro il nostro Io ideale, ovvero ciò che io vorrei essere. In questo senso l’Altro dell’innamoramento è sempre l’Altro che è al mio posto, nel luogo della mia immagine ideale. Ecco perché quando i legami amorosi si spezzano, si rompono, si esauriscono, il soggetto abbandonato si sente senza senso. Perdendo il partner ha perso la sua stessa immagine. DI qui alcuni fenomeni che ritroviamo come tipici nella depressione, come quelli di non curare più il proprio corpo, l’immagine del proprio corpo. L’abbandono del proprio corpo significa che il corpo non è già rivestito dall’immagine, che il corpo si è staccato dall’immagine perché ha perduto la sua immagine ideale che era situata nell’altro in quanto partner narcisistico. Ciascuno di noi ha bisogno di ricoprire la muffa, la polvere che siamo. C’è bisogno di una quota di idealizzazione, c’è bisogno che tutto questo inferno reale sia rivestito dall’immagine ideale. È necessario il rivestimento immaginario del corpo perché il corpo non faccia orrore. Allora possiamo distinguere il livello reale del corpo - che, come vedremo, emergerà nella depressione e nella melanconia in primo piano squartando traumaticamente il velo dell’immagine e il corpo immaginario che riveste il corpo reale che lo abbiglia, dando al corpo reale una immagine più o meno ideale. Questo è un principio di idealizzazione necessario alla vita. L’idealizzazione diventa però patologica, e quindi diventa un processo difensivo simile alla rimozione, quando il soggetto usa l’idealizzazione per non incontrare mai il reale dell’Altro, l’imperfezione dell’Altro. Lacan dice che l’amore è amore dell’imperfezione dell’Altro, della sua mancanza. Gli amori che durano sono gli amori che si fondano sul legame con l’imperfezione, con la mancanza, con il difetto dell’Altro. Gli amori che si fondano sull’idealizzazione sono invece come nuvole che necessità del riconoscimento sociale. La sublimazione è cioè per Freud un concetto che ha ad un capo la plasticità della pulsione e al suo altro capo il riconoscimento sociale. Il paradosso ipermoderno è che è proprio il sistema dell’arte a distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è. Il sistema dell’arte è un sistema che tende a incorporare costantemente l’invenzione, la creazione, facendola diventare un cliché, uno stereotipo; il sistema dell’arte è un discorso che tende a trasformare l’invenzione in stereotipo. E qui troviamo un paradosso molto importante: un artista, un vero artista è qualcuno che inventa uno stile, dunque che non si limita a ripetere ciò che è già consolidato nella tradizione, non si limita a replicare ciò che il sistema dell’arte ha già integrato nel suo seno, ma sfida il sistema dell’arte producendo qualcosa che non è già stato visto, che non è già stato pensato. Come quando diciamo di fronte a un’opera d’arte: sono capace anch’io di fare il taglio di Fontana! Ma dovevi farlo prima! La magia dell’arte è l’invenzione dello stile. Pensiamo a Jackson Pollock che opera attraverso il dripping sulla tela. Il sistema dell’arte come ha reagito di fronte a Pollock? Inizialmente ha reagito come ogni sistema, in un modo conservatore perché ogni sistema è conservatore. Ha reagito con diffidenza, ha reagito considerando che quelli non erano veramente dei quadri. Ma la potenza dell’invenzione di Pollock è stata tale da imporre al sisttema dell’arte una estensione del concetto di quadro. Quando il sistema dell’arte integra qualcosa nel suo seno, integra l’innovazione nella tradizione, il rischio è che l’innovazione scada nella maniera, che l’innovazione scada nello stereotipo. E le ultime opere di Pollock sono opere stereotipate, senza più vita, senza più potenza…è quello che ripeteva Roland Barthes: lo stereotipo è ciò che minaccia lo stile. Ma lo stile tende a diventare uno stereotipo. La difficoltà è nel preservare lo stile dalla tendenza a diventare maniera. Il trovare novità a tutti i costi fa parte della pratica dell’arte. Trattiamo ora la definizione di Lacan di sublimazione: la sublimazione consiste nell’elevare un oggetto alla dignità della Cosa. Questa è la definizione. La sublimazione artistica è una elevazione. La sublimazione non è una idealizzazione. Dobbiamo distinguere l’elevazione dalla idealizzazione. Che cosa si eleva in un’opera? Si eleva un oggetto. Dunque, la sublimazione artistica eleva un oggetto alla dignità della Cosa. La potenza dell’opera d’arte consiste nell’organizzare il vuoto, cioè nell’elevare un oggetto alla dignità della Cosa. Vi sono, secondo Lacan, due modi fondamentali di elevazione dell’oggetto alla dignità della Cosa. Questi due modi si producono attraverso la dialettica assenza-presenza. La prima tradizione ha come riferimenti Van Gogh e Cézanne, ma noi possiamo aggiungere: Van Gogh-Cèzanne-Morandi. La seconda linea è una linea che per Lacan fa riferimento a Jacques Prévert e Marcel Duchamp. E posso aggiungere anche Kounellis. Allora cominciamo dalla prima linea, i cui riferimenti sono Van Gogh-Cèzanne-Morandi. Questa via è la via della figurazione, nel senso che Van Gogh-Cèzanne-Morandi sono pittori figurativi. Ma dobbiamo distinguere la figurazione dalla illustrazione. La figurazione non è un’illustrazione, nel senso che la figurazione non è la semplice riproduzione, la semplice replica di ciò che esiste in natura. È una frase di Lacan a proposito di Cèzanne: la presentificazione dell’oggetto comporta un rinnovamento della sua dignità. Che cosa vuol dire un rinnovamento della sua dignità? Che noi abbiamo gli occhi chiusi sugli oggetti, che siamo addormentati di fronte agli oggetti, che non vediamo più gli oggetti, che non vediamo più la mela, non vediamo più Saint Victoire, che ciò che non vediamo è annientato dalla ripetizione del già visto; che ciò che vediamo è sempre già visto. Ecco allora che l’operazione di Cèzanne consiste nel mostrarci la mela come non l’abbiamo mai vista, rinnovata nella sua dignità di oggetto. Van Gogh ci fa vedere il sole come non l’abbiamo mai visto, il campo di grano come non l’abbiamo mai visto, i narcisi, i fiori di pesco come non li vediamo più perché li abbiamo già visti. In sostanza, questo movimento consiste nel presentificare l’oggetto e questa presentificazione evoca l’assenza della Cosa. La presenza dell’oggetto rinvia all’assenza della Cosa. Quindi presentificare l’oggetto per evocare l’assenza della Cosa. È la prima via. La via Van Gogh-Cèzanne-Morandi. La seconda via è la via analitica, la via teoretica scelta da Duchamp. L’oggetto non è più un oggetto, ma è più Cosa che oggetto, cioè è una organizzazione del vuoto. Duchampo non fa l’opera, non la produce, non la costruisce, non la fabbrica. Il gesto di Duchamp è un gesto filosofico, non è un gesto pittorico. Possiamo scomporre questo gesto in due tempi. Primo tempo: sottrarre l’oggetto dal circuito abitudinario, canonico, in cui si trova inscritto, cioè sottrarre l’oggetto dalla sua destinazione d’uso canonica. “Primo tempo”, epoche, cioè sospensione dei significati ovvi. Husserl diceva che lo scopo della filosofia è fare diventare l’ovvio un problema. L’opera di Duchamp fa diventare il significato naturale dell’oggetto un problema, sospendendone l’uso abituale. Secondo tempo: è il tempo della “significazione”. Secondo tempo: risignificazione dell’oggetto che a questo punto viene messo in valore in quanto puro segno, sganciato da ogni significato stabilito, ossia presentificazione di Das Ding. È questa la linea Prevért- Duchamp. Nella prima linea, quella Van Gogh-Cézanne, Das Ding viene evocata attraverso la presentificazione dell’oggetto. Nel secondo caso, nella linea Prevért-Duchamp, Das Ding viene evocata attraverso l’assentificazione dell’oggetto. L’assentificazione dell’oggetto produce la presentificazione della Cosa, mentre per Cézanne la presentificazione dell’oggetto evoca l’assenza della Cosa. Sono questi i due movimenti fondamentali che, secondo Lacan, definiscono molto in sintesi il movimento creativo dell’opera d’arte. Non c’è sublimazione senza vuoto. Il troppo-pieno invece mortifica la creatività: ecco perché ai bambini bisogna dare degli oggetti neutri, cioè oggetti che non hanno già un significato, ma che si prestano a ricevere significati dall’attività sublimatoria del gioco. Tutta la fantasia è mobilitata per dare senso ad un oggetto in sé indeterminato. Quindi l’impeto creativo si mobilita a partire dal vuoto. Abbiamo commentato finora il concetto dell’opera d’arte come organizzazione del vuoto e abbiamo potuto notare come questa tesi sia connessa a una messa in valore della sublimazione che per Freud era il fondamento del processo creativo in generale. Nel Seminario XI Lacan si affaccia sull’idea dell’opera d’arte che non è più riducibile all’arte come organizzazione del vuoto. La tesi che Lacan sostiene nel Seminario XI è che l’esperienza estetica, l’opera d’arte sia un incontro con il reale. Sia una tyche, che in greco significa incontro. La tyche è una categoria di Aristotele, che la contrappone ad una seconda categoria che è quella dell’automaton, La tyche è un’alternativa all’automaton. L’automaton è il tempo come ripetizione monotona, automatica, identica a se stessa. L’automaton, potremmo dire, è il tempo delle abitudini, è il tempo ordinario, è il tempo della quotidianità, è il tempo dove nulla accade, è il tempo che esclude la sorpresa. La tyche, al contrario, indica il tempo della sorpresa, il tempo dell’incontro. L’automaton è il fondamento del nostro rapporto ordinario con la realtà, mentre la tyche è il tempo della rottura del nostro rapporto ordinario con la realtà. È molto importante mettere in connessione tyche e automaton: l’automaton è fondamento della realtà, la tyche è fondamento del reale. In che senso l’automaton è il fondamento della realtà? Che cos’è la realtà, secondo Lacan? La realtà è una rappresentazione statica del mondo. Una delle caratteristiche e delle proprietà della realtà è la costanza. Nella realtà, dice Lacan, tutti noi siamo addormentati. Al contrario, la tyche, è un’esperienza di risveglio; l’incontro col reale è ciò che ci sveglia dal sonno della realtà. Qual è, per Freud, l’esperienza che ciascuno di noi ha fatto del reale? È l’incubo. L’incubo è ciò che ci sveglia dal sonno Quando c’è incubo, secondo Freud? Che cos’è un incubo? Sono interrogativi che circolano ne L’interpretazione dei sogni. L’incubo, secondo Freud, si produce quando il sognatore si avvicina troppo ai contenuti del suo desiderio inconscio. Questa eccessiva prossimità all’inconscio determina il risveglio, produce l’incubo. L’incubo è un sogno fallito perché è mi sogno che si è spinto troppo vicino alla verità, ad una verità che noi non potremmo sopportare. E dunque il risveglio resta la nostra sola possibilità di fuga. Lo stesso, potremmo dire, per un altro modello fondamentale freudiano di incontro con il reale, cioè il trauma. L’incubo e il trauma sono due esperienze di incontro col reale. Il trauma ci sveglia e ci mostra che ciò che pensavamo riparato, costante, continuo nel tempo, non è in realtà tale. A questo punto possiamo dire che l’incontro col reale ci sveglia dal sonno della realtà. L’opera d’arte è un’opera capace di produrre tyche, capace di produrre incontro. L’opera ha il potere di rompere lo schermo della realtà e di far emergere il reale. C’è un esempio fondamentale che Lacan propone nel Seminario XI, un’opera di Holbein, Gli Ambasciatori. In quest’opera ci sono in primo piano due ambasciatori; appena di lato alle due figure umane, appaiono degli oggetti, che sono gli oggetti del sapere: un mappamondo, un cannocchiale, uno strumento geometrico, libri… Un piccolo corpo di Cristo crocifisso al lato. Si potrebbe pensare che qui c’è un contrasto tra la Passione di Cristo e la messa in scena del potere e del sapere. Tuttavia c’è un secondo oggetto marginale che è il vero protagonista del quadro e quest’oggetto è ai piedi dei due ambasciatori. L’anamorfosi si costruisce su due tempi: deformazione dell’oggetto che diventa dapprima irriconoscibile (l’oggetto anamorfico è un oggetto irriconoscibile, una specie di macchia nel quadro), e che diventa riconoscibile solo attraverso un cambiamento della prospettiva percettiva. Cosa succede di fronte agli Ambasciatori? Osservando centralmente a distanza il quadro si vede questa macchia anamorfica che acquista sorprendentemente volume e fisionomia quando ci si sposta verso destra, cioè osservando il quadro dall’estrema destra: solo allora quella che prima era una macchia irriconoscibile assume la sua identità, l’identità di un teschio, di una testa di morto! Un primo ragionamento è che evidentemente questa testa di morto rappresenta la vanitas della realtà umana, del potere e del sapere che di fronte alla morte perdono ogni consistenza. E dunque qui abbiamo un contrasto tra la tyche della testa di morto e l’automaton degli oggetti sembianti del potere-sapere degli ambasciatori. impressione attuale, un’occasione offerta dal presente. In seguito, l’impressione attuale risveglia un’impressione più antica, risveglia desideri antichi del soggetto, si ricollega a un’esperienza anteriore in cui quel desiderio, provocato dall’impressione attuale, veniva esaudito. Il terzo movimento è, infine, l’apertura su un avvenire: la fantasia crea un avvenire nel quale il desiderio potrà esaudirsi. L’idea di passato, presente e futuro che Lacan definisce come après-coup, sono rappresentati nello schema della retroazione (o del “a posteriori”). (Pag. 80). Cosa notiamo in questo schema? Che il passato, le tracce del passato non sono mai morte, il passato non è mai passato, il passato non passa. La memoria freudiana è una memoria spettrale perché è soggetta ad essere riattivata costantemente, ad interferire nella vita presente. È rimosso e il rimosso tende a ritornare. Per Freud, i poeti e gli artisti hanno uno sguardo più profondo di quello degli psicoanalisti. Freud pensa che i poeti vedano più in profondità della psicoanalisi, che l’arte anticipi la psicoanalisi. Il pensiero di Freud è che l’ars poetica sia una tecnica per superare la nostra ripugnanza nei confronti del reale. La vita in sé ha qualcosa di ripugnante. Questo ripugnante Lacan lo chiama “reale”. Il reale è coperto dalla bella immagine. L’arte poetica non si ferma alla bella immagine, l’arte attraversa la bella immagine, toglie il velo e ci permette di incontrare il reale, ma al tempo stesso fa sì che il nostro rapporto col reale sia schermato, filtrato, mediato dal linguaggio. L’opera d’arte è una velatura dell’inconscio, mentre il sogno ad occhi aperti è una manifestazione dell’inconscio. Prendiamo Winnicott in Gioco e realtà. Winnicott dà uno sviluppo potente a questa teoria freudiana del gioco. Freud dedica alcune pagine a commentare il gioco del suo nipotino, Ernst, diventato famoso come gioco del rocchetto. Il piccolo Ernst quando viene lasciato solo dalla sua mamma che esce di casa, instaura questo gioco che è diventato poi celebre come il gioco del Fort-Da, che in tedesco significa “via e qui”. Il gioco ha come oggetto un rocchetto avvolto con del filo e si compone di due tempi: nel primo tempo, il tempo del Fort, il piccolo Ernst prende la bobina con attaccato il filo e lancia la bobina sotto il letto, la fa scomparire dalla sua vita, accompagnando questo primo tempo, che è il tempo della sparizione dell’oggetto, con l’esclamazione “Fort, Fort!”. Il secondo tempo è il tempo in cui, tirando la corda, fa riapparire l’oggetto accompagnando con “Da! Da! Da!”. Il movimento del gioco è un movimento ripetitivo in cui il bambino inscena questi due tempi. Qual è la lettura di Freud che interessa a Winnicott? In questo gioco cosa si mette in scena? Si mette in scena la separazione dalla madre. La bobina sarebbe la madre. Attraverso il potere del gioco il bambino può capovolgere i rapporti di attività e passività rispetto all’Altro materno perché se nella realtà il bambino è abbandonato dalla madre, il potere fantastico del gioco consiste nel ribaltare le parti e nel porre il bambino come l’artefice che governa i tempi della separazione: lui è il soggetto, la madre-rocchetto è l’oggetto. È lui che abbandona la madre e che la fa magicamente riapparire quando lo desidera. Il gioco trasforma un’esperienza spiacevole, dolorosa in un’esperienza creativa, di godimento, di piacere. Il gioco evidenzia che c’è una soddisfazione che presuppone l’assenza, non la presenza, della Cosa materna. Se la madre rimanesse costantemente appiccicata al piccolo Ernst, non vi sarebbe quello spazio sufficiente tra il bambino e la madre che Winnicott chiama “spazio potenziale” e dunque la creatività sarebbe amputata. È solo attraverso il vuoto che l’arte può organizzare il vuoto stesso. Il vuoto che la madre lascia tra sé e il bambino, quello spazio potenziale rende possibile la creazione. Senza perdita della Cosa non c’è parola, non c’è linguaggio, non c’è creazione. La madre sufficientemente buona è invece la madre che sa oscillare tra l’assenza e la presenza. Nondimeno il simbolo, il rocchetto nel caso del piccolo Ernst, si manifesta con l’oscillazione tra l’assenza e la presenza. Nella misura in cui il rocchetto presentifica l’assenza della madre, è anche una assentificazione della sua presenza. Il potere del rocchetto è il potere di presentificare l’assenza, ma è anche ciò che rende possibile l’assentificazione della presenza della madre. L’area del gioco è un’area intermedia tra il soggetto e la realtà. Questa area, che per Winnicott diventa l’area della creazione artistica e delle sublimazioni culturali, è lo spazio potenziale della creatività, l’origine di quest’area, che è un’area tradizionale di scambio tra il soggetto e l’Altro, è nell’oggetto transizionale. L’oggetto tradizionale è un oggetto speciale che il bambino inventa nei primi anni della sua vita e che ha lo statuto paradossale di non essere il soggetto, ma di non essere nemmeno l’Altro, e dunque di essere una parte del soggetto e una parte dell’Altro. È quell’oggetto che il bambino porta sempre con sé, soprattutto nei momenti in cui si separa dall’Altro: in particolare quando si va a dormire. Il momento dell’andare a nanna è un momento di separazione in cui il bambino evoca l’oggetto tradizionale e talvolta esige di andare a dormire con il suo oggetto transizionale. L’oggetto tradizionale, dunque, è qualcosa di intermedio tra il bambino e la madre, è qualcosa che consente al bambino di separarsi dalla madre non separandosi completamente perché nell’oggetto è preservato un frammento della madre. L’oggetto è in questo caso reale, ma la sua funzione è simbolica. Il pollice è un precursore dell’oggetto transizionale. Altre parti del corpo possono essere oggetti precursori. Il bambino deve svezzarsi anche dall’oggetto transizionale. Tutte le forme di dipendenza patologica in cui c’è un oggetto da cui il soggetto è fortemente dipendente (lo psicofarmaco nella depressione, la droga nella tossicomania, la bottiglia nell’alcolismo), questi sono oggetti che rivelano il fallimento dell’area transizionale perché l’oggetto transizionale deve svolgere la sua funzione solo transitoriamente. L’oggetto transizionale realizza la sua funzione compiutamente solo quando sarà abbandonato, mentre l’oggetto- droga, al contrario, è l’oggetto impossibile da abbandonare. Alcuni teorici hanno teorizzato l’area della dipendenza patologica come area del fallimento dell’oggetto transizionale. Perché ci interessa questo fallimento? Perché parlare di un’area del fallimento dell’oggetto transizionale significa dire che c’è un fallimento della sublimazione e che la sublimazione è il fondamento della creazione artistica; al contrario, la dipendenza patologica è l’anti- sublimazione. Di cosa ha bisogno il bambino per separarsi? Ha bisogno innanzitutto dell’“illusione”. La madre sufficientemente buona è la madre che sa far trovare l’oggetto illudendo il bambino che sia lui a crearlo, che dà l’illusione al bambino di essere lui a creare l’oggetto facendoglielo trovare quando il bambino lo domanda. Se non c’è questo spazio di illusione, non c’è fantasia, non c’è creatività. Dopo aver alimentato l’illusione il secondo movimento della madre sufficientemente buona è quello di provocare la disillusione. La disillusione consiste nel fare esperienza dell’assenza dell’oggetto. Questo secondo passaggio è un passaggio che implica una depressione del bambino, una delusione. Questo è lo schema generale del ragionamento di Winnicott. Il primo punto l’abbiamo già visto: il soggetto entra originariamente in rapporto con l’oggetto attraverso l’illusione di averlo creato. Mi illudo che l’oggetto sia quello che ho creato perché ogni volta che piango e penso al seno arriva il seno, dunque deduco che è il mio pensiero a creare il seno: questo significa alimentare l’illusione che è il bambino che crea l’oggetto. Il secondo tempo è il tempo della disillusione. In questo secondo tempo il soggetto esperisce l’oggetto come indipendente dalla sua volontà, come un essere altro. Il terzo tempo è il cuore della riflessione di Winnicott: nella misura in cui l’oggetto mi rivela una sua alterata irriducibile al mio pensiero e alla mia fantasia, nella misura in cui l’oggetto si rivela come consistente in se stesso, l’oggetto di cui ho bisogno e che desidero si rivela autonomo e, di conseguenza, io lo odio. Questo stesso oggetto che amo, che desidero, lo odio. Lo amo spietatamente, dice Winnicott, cioè lo voglio distruggere, proprio perché non è mio. Nella misura in cui ti amo, ti sbrano, cioè ti distruggo perché non sopporto che tu sia Altro da me, dice Winnicott. Ti amo in quanto sei Altro da me, ma poiché non sopporto che tu sia Altro da me, ti odio, cioè ti voglio distruggere, ma ti distruggo solo perché ti amo. Ogni amore spietato finisce sull’odio. Che cosa succede quando il bambino ama spietatamente? Vuole che l’Altro sia tutto suo. L’oggetto ha un solo compito, quello di sopravvivere alla distruzione. Se l’oggetto sa sopravvivere alla distruzione, allora e solo allora il soggetto potrà usare l’oggetto, cioè potrà entrare in un rapporto creativo con l’oggetto. Entriamo nel merito del testo Lutto e melanconia di Freud del 1915. Il testo dà una differenziazione tra il lutto e la melanconia. Distinguere l’esperienza della melanconia dall’affetto comune del lutto. Di che cosa si tratta a proposito dell’affetto del lutto? Si tratta, dice Freud, di una reazione; l’affetto del lutto sarebbe una reazione normale alla perdita di una persona amata, un’esperienza che riflette l’incontro con una perdita. Dove c’è incontro con un oggetto perduto c’è affetto del lutto. L’oggetto perduto può avere nature differenti: può avere la natura di un oggetto umano, di un partner, il proprio amico. L’affetto del lutto può essere provocato dalla perdita di un ideale dalla caduta di un ideale collettivo. E dunque, in questo senso, il fenomeno del lutto può essere anche un fenomeno sociale, di gruppo, non solo soggettivo. Quando il lutto non è uno stato patologico? Non è uno stato patologico se l’affetto luttuoso è un affetto transitorio, nel senso che prima o poi verrà superato. Dunque l’affetto luttuoso non è patologico se lo consideriamo come una esperienza di transizione, di passaggio. Al contrario, la melanconia consisterebbe nella cronicizzazione patologica dell’affetto transitorio del lutto: mentre il lutto normale sarebbe un affetto di transizione, la melanconia indicherebbe una sorta di cristallizzazione dell’affetto luttuoso. Lo stato melanconico non è più uno stato transitorio, ma produce quello che gli psichiatri fenomenologia hanno definito una pietrificazione del soggetto, una mineralizzazione del soggetto. Definiamo melanconia quella forma di psicosi caratterizzata dalla pietrificazione del soggetto, cioè del soggetto che diventa un oggetto morto, un soggetto mortificato. Il soggetto melanconico è un soggetto mortificato, pietrificato, che non è in grado di attraversare l’esperienza della perdita, ma resta congelato nel rimpianto nostalgico dell’oggetto. Dunque, se scriviamo l’affetto del lutto, esso può prendere due direzioni: la la mania. L’affetto luttuoso, a sua volta, si biforca in due possibilità: la prima è la melanconia, la seconda è la trasformazione dell’affetto in lavoro, quindi è il lavoro del lutto. Possiamo dire che il lavoro melanconico è in opposizione al lavoro del lutto o, se preferite, il lavoro melanconico è ciò che fa fallire il lavoro del lutto. Al contrario, la mania, la reazione maniacale, è un negazionismo: la mania rifiuta, rigetta la perdita; in sostanza nega il trauma della perdita. Il lavoro del lutto è in grado di elaborare simbolicamente la perdita, il lavoro melanconico è invece un modo per eterizzare, per prolungare infinitamente il tempo della perdita. La prima caratteristica è che il lavoro del lutto implica il dolore psichico. È importante questo elemento della gravità, del peso del dolore psichico se lo rapportiamo alla mania che invece è una reazione euforica che respinge l’esperienza del peso del dolore. Il soggetto maniacale non ha esperienza della gravità del dolore, in questo senso il soggetto maniacale è in costante fuga. Potremmo dire che la mania è la negazione dell’esperienza perché il soggetto non si sofferma su nulla, non lascia il tempo affinché qualcosa si sedimenti e produca esperienza. La seconda caratteristica è quella dell’energia. Freud dice che perché vi sia lavoro del lutto è necessaria energia. La terza caratteristica è il tempo; il lavoro del lutto esige tempo; non esiste lavoro del lutto rapido perché la rapidità è piuttosto una caratteristica della maniacali. Il lavoro del lutto esige piuttosto una sospensione del tempo. E, infine, l’ultima caratteristica è la messa in movimento della memoria: il lavoro del lutto è un lavoro di memoria. Di che genere di memoria? La memoria del lutto è una memoria volontaria ma, al tempo stesso, nel lutto interferisce anche una memoria involontaria, nel senso che l’oggetto assedia il soggetto, non si lascia dimenticare, insiste. In che cosa consiste precisamente il lavoro della memoria? Il lavoro della memoria è innanzitutto un lavoro che passa attraverso il ricordo: si ricorda l’oggetto che non c’è più, si ricorda la presenza assente dell’oggetto. Ci vuole tempo. Il lavoro della memoria esige un supplemento di tempo. Ma qual è la finalità di questo lavoro che rende compiuto il lavoro del lutto? Freud mostra come la finalità ultima del lavoro del lutto come lavoro della memoria consista nell’accedere ad un punto di dimenticanza ad un punto di oblio; un lavoro compiuto del lutto sarebbe un lavoro della memoria che produrrebbe come suo effetto uno stato di oblio. Se il lavoro del lutto si compie effettivamente, l’oggetto perduto finalmente sarà dimenticato, finalmente potremo separarci dall’oggetto, finalmente sarà davvero perduto. Dobbiamo pertanto, se seguiamo Freud, distinguere due forme di oblio: l’oblio maniacale che consiste nel negazionismo, nel negare l’esperienza traumatica della perdita; e poi un secondo genere di oblio che viene raggiunto non per negazione della memoria, ma attraverso il lavoro della memoria; solo nella misura in cui “esaurisco” i miei ricordi dell’oggetto, posso dimenticarmi dell’oggetto…ma dimenticarmi dell’oggetto significa che posso riordinare il mondo, il senso del mondo, includendo nel mondo l’oggetto in quanto finalmente assente. Allora potremmo dire che mentre nel primo tempo l’assenza dell’oggetto genera la caduta del senso del mondo, la perdita di senso della mia vita, con il lavoro del lutto ricostruisco un senso che implica adesso l’assenza dell’oggetto. Alla fine del lavoro del lutto uno si sveglia la mattina e dice: non c’è più! Non che non è mai esistito, questa sarebbe la negazione maniacale. Ma finalmente posso sentire la sua assenza come un’assenza e non come una presenza ingombrante, assillante, asfissiante…un lavoro compiuto del lutto rende possibile l’esperienza dell’assenza dell’oggetto perduto. Dunque possiamo dimenticare l’oggetto, ma dimenticandolo possiamo dargli un posto nella ristrutturazione che facciamo del mondo; l’oggetto perduto e assente ritrova un posto nel mondo, non è escluso dal mondo, ritrova un posto nella mia storia, nella mia biografia, nella mia memoria. Freud si fa l’idea che portare a compimento il lavoro del lutto significhi rendere l’oggetto dimenticato, significa separarsi effettivamente e irreversibilmente dall’oggetto. Secondo me questo è un idealismo di Freud: rendere l’oggetto dimenticato e, di conseguenza, rendere la libido integralmente disponibile a investirsi su nuovi oggetti. In che cosa consiste l’idealismo di Freud? Consiste nel fatto che si può rendere l’oggetto perduto un oggetto per sempre dimenticato. Consiste nel pensare al lavoro del lutto come un’operazione di liberazione del soggetto dall’oggetto perduto, come una liberazione che non lascia resti, una liberazione assoluta. Al contrario non solo l’esperienza della melanconia ci insegna che l’oggetto risulta come tale indimenticabile, ma che anche in un lavoro del lutto riuscito qualcosa dell’oggetto perduto residua, non si lascia annullare, persiste come un reale che non si può addomesticare col simbolico. Scriveremo perciò l’oggetto perduto come contenente una parte strutturalmente indimenticabile. La melanconia ci insegna che esiste una quota di oggetto, se posso esprimermi così, una parte di oggetto, un frammento di oggetto che risulta indimenticabile, che non si può dimenticare. Allora si potrebbe dire che in tutti noi c’è un tratto melanconico. Potremmo dire che il lavoro del lutto consiste nel dimenticare l’oggetto, ma che poi una parte, una quota dell’oggetto, risulta indimenticabile. Allora possiamo dire che un lavoro del lutto può procedere fino a lasciare un frammento minimo dell’oggetto, ma c’è una parte dell’oggetto che resta indimenticabile; che l’esperienza della perdita non può essere integralmente metabolizzata dal lavoro simbolico della memoria. Cosa succede invece nella melanconia? Possiamo entrare così nel campo della melanconia, affermando che la melanconia è un anti-lutto, che il soggetto melanconico si oppone radicalmente al lavoro del lutto. E perché si oppone al lavoro del lutto? Perché il soggetto melanconico non è disposto a perdere l’oggetto, rifiuta la perdita e oppone al lavoro del lutto, che è un lavoro di organizzazione della perdita, un lavoro di adesione massiva all’oggetto perduto. Di cosa soffre il melanconico? Freud ci dà innanzitutto un ritratto clinico dei sintomi. Il sintomo maggiore è la perdita del sentimento della vita, la pietrificazione del soggetto, la mortificazione reale del soggetto. Più precisamente, per Freud l’elemento centrale della melanconia è una sorta di delirio morale. È un termine molto importante clinicamente, il termine di delirio morale. Perché è così importante? Perché possiamo distinguere la grande famiglia clinica della psicosi secondo tre forme fondamentali di delirio: il delirio schizofrenico è un delirio che investe il corpo, è un delirio somatico; il delirio paranoico è un delirio che investe il senso, è un delirio semantico. Il paranoico trova senso ovunque, trasforma il mondo in un senso. Il soggetto melanconico non dà luogo ad un delirio somatico né ad un delirio semiotico. Il soggetto melanconico delira moralmente, ci dice Freud. Il suo delirio è di ordine morale. L’espressione “delirio morale” allude all’esperienza melanconica dell’autoaccusa. Il soggetto melanconico si sente “indegno”. L’indegnità è il termine più rilevante della melanconia. L’assioma di indegnità è l’assioma clinico fondamentale della melanconia: sentirsi indegno. L’autoaccusa sarebbe: “Sono una merda, sono indegno di esistere, sono uno sputo del mondo, sono un rifiuto del mondo”. Nella melanconia abbiamo uno sprofondamento del soggetto che perde l’involucro della bella immagine ed evidenzia l’essere del soggetto, quello che Lacan chiama più precisamente l’esistenza del soggetto, come un puro scarto, un puro detrito. Questo sprofondamento dalla bella immagine all’essere un detrito è al centro del delirio morale del melanconico. L’autoaccusa melanconica è: “Ecco cosa sono! Sono lo scarto del mondo!” Tuttavia, Freud scrive che l’autoaccusa si annoda a un secondo movimento tipicamente melanconico che è la spinta a denunciare il proprio essere scarto pubblicamente, di fronte all’Altro. Il soggetto melanconico dichiara di non vale nulla e si autoaccusa di tutti i mali del mondo. Il colpo di scena nell’interpretazione freudiana consiste nel dire che nell’autoaccusa il soggetto accusa l’oggetto e cioè dice a sé, rivolge a se stesso tutti quei rimproveri che avrebbe voluto rivolgere all’oggetto perduto, all’oggetto che se ne è andato, all’oggetto che lo ha abbandonato. Una verità che non prende una forma discorsiva e si ritorce sul soggetto. Nell’attacco autoaccusatorio c’è un’accusa rivolta all’oggetto. Qual è il fondamento di questa interpretazione inaudita? Il fondamento dell’interpretazione freudiana è che il soggetto melanconico entra, tendenzialmente, in un rapporto di tipo narcisistico con l’oggetto. L’oggetto è amato, è investito libidicamente. Ti amo in quanto tu incarni l’ideale che vorrei essere o in quanto tu sei quell’essere che sostiene la mia esistenza. L’amore per Freud è sempre narcisistico. L’amore è, in questo senso, un riempimento lipidico del soggetto; non è un dare, non è un dono, ma è un riempimento lipidico del soggetto: amare significa voler essere amati. Dall’altra parte, però, amare significa anche idealizzare l’oggetto, sopravvalutare l’oggetto. “Nelle due situazioni opposte dell’innamoramento più intenso e del suicidio, il soggetto è sempre sopraffatto dall’oggetto”. Perché Freud accosta l’innamoramento e il suicidio? Cos’hanno in comune l’innamoramento e il suicidio? Hanno in comune, secondo Freud, una sopravvalutazione dell’oggetto e, più precisamente, sono esperienze nelle quali il soggetto è “sopraffatto dall’oggetto”. Nell’innamoramento la sopraffazione avviene attraverso l’idealizzazione. L’innamorato esalta l’oggetto a tal punto che senza l’oggetto il monda si svuota di senso. L’innamorato è sopraffatto dall’immagine ideale dell’oggetto. Nel suicida il trionfo dell’oggetto è ancora più eclatante perché l’oggetto è addirittura il soggetto, nel senso che suicidandosi, il soggetto uccide l’oggetto. Questo mostra che nella melanconia il soggetto è letteralmente invaso, ingombrato, sopraffatto dall’oggetto, Freud scrive che nel melanconico “l’ombra dell’oggetto cade sull’io”. L’oggetto non c’è più, è perduto, ma in realtà, nella misura in cui il melanconico non affronta il lavoro del lutto, l’oggetto è sempre presente, assedia il soggetto. Dunque è un’assenza che si rivela, in realtà, una presenza assoluta. Nella melanconia non c’è perdita dell’oggetto perché l’oggetto continua a parassitare il soggetto. Questo si vede bene in certe forme gravi di melanconia, nelle quali il soggetto assume i modi, i tratti, l’abbigliamento dell’oggetto perduto. Freud scrive che la differenza fondamentale tra il lutto, l’affetto luttuoso e la melanconia consiste nel fatto che