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"Le Istituzioni politiche nel mondo romano" Poma, Sintesi del corso di Storia Romana

Riassunto del libro capitolo per capitolo

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica "Le Istituzioni politiche nel mondo romano" Poma e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! _Introduzione. La storia di Roma inizia nell'VIII secolo a.C. e finisce, per convenzione nostra, con la caduta dell'impero romano nel 476 d.C., ma la vicenda delle sue istituzioni prosegue ancora fino alla metà del VI secolo d.C con l'opera sistematrice di Giustiniano. Il territorio dall'iniziale insediamento sui colli tiberini, giunse, all'apogeo dell'impero, ad estendersi dalla Britannia settentrionale alle rive dell'Eufrate, dalla cosa atlantica della penisla iberica al Mar Nero, dall'oltre Danubio alle coste africane. Il Mediterraneo diventò un mare interno ad un impero che, per ampiezza di popolazione, capacità di assimilare ed integrare gli altri e lunga durata, non ha paragoni in campo occidentale. Roma è una città latina, sabina, etrusca, aperta ai contatti con la Grecia e il mondo punico. La città, vittoriosa, si adattò alle varie circostanze. Roma aveva come scopo del proprio strutturarsi ed operare come stato quello di assicurare ordine al proprio interno, di garantire la giustizia, di fissare i modi e i contenuti dell'azione politica individuale e collettiva. L'ordinamento politico istituzionale romano non poggiava su una costituzione scritta; la sua specificità stava in una dialettica intensa tra mos maiorum (le consuetudini) e le continue innovazioni. Il sistema politico romano fu in perpetua evoluzione, in un incessante adattamento alle esigenze dei tempi mutanti. I Romani, dopo la fase iniziale delle cosiddette leges regiae, ebbero un solo momento legislativo d'ispirazione greca, quello che portò alla metà del V secolo a.C alla redazione delle leggi delle XII Tavole. In seguito, il complesso delle leggi progredì secondo la necessità, in età repubblicana attraverso le proposte di un magistrato (console o tribuno della plebe), proposte che venivano discusse e approvate, di volta in volta, dall'assemblea popolare o, in età imperiale, attraverso le costituzioni (editti, decreti, mandati), il cui valore normativo, legato ai poteri del princeps, è riconosciuto ed affermato dai giureconsulti già nel II sec. d.C. Nella storia romana «costituzione» è più che leges; comprende anche mos maiorum, esempla, instituta, ossia l'insieme di quelle norme consuetudinarie che contenevano indicazioni sui comportamenti sociali e sul funzionamento delle strutture. Data la presenza di tali principi, i Romani non poterono non avere chiara la visione della «costituzione» quale sistema di norme regolanti i poteri essenziali dello stato. I mores e gli instituta maiorum potevano essere completati e sviluppati da leggi ordinarie o dall'attività di magistrati cui il popolo affidava il compito di rem publicam constituere. Tra il III e il II secolo a.C., con l'inizio della conquista di un grade impero, risultò sempre più difficile conciliare la centralità dell'urbs, sede dell'attività di governo della res publica, con l'amplificazione geografica e territoriale raggiunta; in diversa misura, riproposero a livello locale la realtà istituzionale dell'urbs. Le soluzioni si proposero secondo i ritmi diversi della conquista e le diverse aree geografiche in cui essa si applicava: in certi casi, si trattò di integrazione istituzionale, in altri, di avvio verso l'integrazione. Il fatto che la cittadinanza romana non fosse «esclusiva», ma che ci fosse la possibilità di accedere ad essa, per gli stranieri rappresentò lo strumento di integrazioni degli «altri» nello stato romano. Quando,per opera di Caracalla, l'evoluzione si compì, la cittadinanza romana fu concessa all'insieme degli abitanti liberi dell'impero. 1_L'età monarchica. La conoscenza della Roma delle origini è affidata alle pagine di Tito Livio, di Dionigi di Alicarnasso e di Diodoro Siculo, tutti autori della fine dell'età repubblicana. I primi due rappresentano un'ampia annalistica repubblicana che è andata perduta e che iniziò a svilupparsi tardivamente, solo nel III sec. a.C., quando Fabio Pittore e Cincio Alimento, uomini politici ed esponenti della nobilitas, redassero i primi «libri di storia romana», gli Annali, in cui la narrazione degli avvenimenti era scandita anno per anno. Scrissero entrambi in greco, rivolgendosi al pubblico del mondo Mediterraneo orientale, verso cui si stava orientando l'interesse politico di Roma, con l'intenzione di presentare un'interpretazione delle origini di Roma e della sua storia che correggesse l'impostazione, non favorevole, che alcuni autori greci, Filino d'Agrigento o Sosilo di Sparta, avevano dato alle loro narrazioni. Il problema storiografico, che ruota attorno all'attendibilità delle fonti letterarie relative alla storia di Roma monarchica e protorepubblicana, sta in questi cinque secoli che intercorrono tra la data canonica della fondazione di Roma, 753 a.C., e gli Annali, secoli in cui Roma divenne una potenza mediterranea. È un problema legittimo se si considera il numero esiguo di testi che erano riusciti a sopravvivere all'incendio di Roma del 390 a.C., secondo quanto afferma Livio. Noi non siamo in grado di stabilire i limiti né della distruzione gallica né della eventuale opera di ricostruzione dei documenti pubblici operata in tempi successivi. Le informazioni sul passato possono essere state attinte da antichi documenti, tra cui gli Annali dei pontefici (la cronaca degli avvenimenti più rilevanti redatta annualmente dal pontefice massimo), gli archivi pubblici e privati, tradizioni popolari e tradizioni familiari, trasmesse anche in forma orale attraverso i carmina convivalia (poemetti che celebravano i miti delle origini della città o le gesta delle famiglie nobili), le opere di storici greci e forse etruschi. Un'altra questione è rappresentata dalla valutazione della portata e della finalità dell'intervento che venne operato sulla formazione dei Fasti, gli elenchi annuali dei magistrati. Cicerone denuncia pesanti interventi di falsificazione nella narrazione delle vicende dei primi secoli dell'età repubblicana, attraverso l'invenzione di falsi consolati e trionfi o quant'altro servisse allo scopo di rendere maggiore il prestigio delle famiglie nobili. Il processo di formazione della tradizione antica sarebbe stato inquinato da gente legata alla gens Claudia o ai Valeri. La produzione annalistica antecedente al I secolo a.C., è fondamentalmente di età graccana (metà del II sec. a.C.) e sillana (primi decenni del I sec. a.C.); in questi momenti di forte tensione politica fiorì un gran numero di annalisti. Dei loro annali restano solo scarsi frammenti, quindi non riusciamo a coglierne i lineamenti originari. La prospettiva in cui l'annalistica colloca il processo di sviluppo delle istituzioni repubblicane, come una progressiva acquisizione di più libertas per il popolo romano, appare artificiosa: la formazione della res publica non ebbe un andamento lineare, conobbe soste, riprese, fallimenti e successi. 1.2 Le fonti archelogiche. È opportuno chiedersi se e in che misura i dati archeologici possano contribuire a formare un quadro più definito dell'antica storia di Roma, e quanto le nuove iscrizioni siano portatrici di informazioni preziose. Poichè i comizi curiati, in età repubblicana, erano divenuti un'assemblea con prerogative limitate, una tale procedura si può giustificare solo se si pone l'origne di essa nel momento storico in cui i comizi curiati erano una importante realtà politico-istituzionale. La storiografia moderna è propensa a negare un ruolo elettorale al popolo, per cui la lex curiata non esprimerebbe altro che l'atto di obbedienza al nuovo re da parte del popolo. C'è da considerare che alla morte di un re è il senato ad assumere il potere attraverso l'istituto dell'interregnum: dieci senatori patrizi, a turno ogni giorno, assumono le insegne del comando, fino al momento in cui i segni divini sono favorevoli all'elezione. C'è da chiedersi da quale di queste tre fasi (interregnum, la presa degli auspici, la legge curiata) derivi la pienezza dei poteri del re. 3.2 Tribù e curie. La tradizione attribuisce a Romolo la definizione delle principali strutture istituzionali e sociali della nuova comunità. Secondo Dionigi, divise in tre tribù l'intera popolazione, ogni tribù in dieci curie (per un totale di 30) ed infine ogni curia in dieci decurie (per un totale di 300). Una decuria costituiva un insieme di 10 uomini, ne risultava quindi un totale di 3000. In corrispondenza di questa ripartizione, Romolo avrebbe diviso l'agro romano in tre parti: una destinata agli dei, una destinata all'uso comune di tutti i cittadini, una ripartita in trenta lotti assegnati uno per curia. I nomi delle tre tribù, Ramnes, Tities, Luceres, avrebbero indicato le diverse componenti etniche che si erano aggregate a comporre la città: i Ramnes, associati a Romolo (i Latini), i Tities a Tazio (i Sabini) e i Luceres (gli etruschi) ad un mitico Lucumone che sarebbe intervenuto in aiuto di Romolo nella lotta contro i Sabini. L'organizzazione in tribù è antica e ha lasciato tracce molto marcate nell'organizzazione militare e religiosa romana. Ognuna di esse forniva ciascuna una centuria di cavalieri, i celeres, che prendevano il nome di Ramnes Tities Luceres, e un raggruppamento di fanti, i pedites. I comandanti dei contingenti dell'esercito, tre tribuni militum e tre tribuni celerum, derivano il loro nome dalle tribù, a conferma del loro ruolo di coordinamento militare delle stesse. Dall'insieme dei dati antichi, antiquari ed annalistici, emerge che l'elemento cardine di Roma arcaica erano le curie, in quanto sulla loro base si organizzavano l'assemblea popolare, che da esse prendeva il nome, e l'esercito. Erano certamente le strutture più importanti della Roma monarchica, ma per noi restano le più misteriose, anche perchè i romani dell'età repubblicana sapevano poco del loro carattere originario, dal momento che già in epoca monarchica vennero sostituite da altre ripartizioni. Il termine curia, indica la struttura che raccoglieva i Quirites che rappresentavano il corpo civico dei romani, su cui vegliava il dio Quirinus, di cui Romolo era l'incarnazione. Il termine indicava anche un luogo di riunione: la Curia Hostilia è, nel Foro, la sede del senato. Ogni curia aveva i suoi culti, il suo capo, il curio, un proprio sacerdote, il flamen, e un littore, un suo nome, derivato da quello di una gens o da una località o da un culto. Del carattere arcaico delle curie sono testimonianza le feste alle quali esse erano legate, i Fornacalia e i Fordicidia. Si tratta di riti agrari: il primo era la festa della torrefazione del farro; il secondo, celebrato il 15 aprile, prendeva il nome dalle fordes, le vacche pregne che venivano sgozzate sul Campidoglio. I Fornacalia erano qualcosa di più di un rozzo rito agrario: lo dimostra il fatto che la festa avveniva su convocazione del capo di tutte le curie, il curio maximus, che su manifesti pubblici fissava il giorno e il posto particolare del Foro in cui ciascuna curia doveva celebrare i sacrifici entro il 17 febbraio. Le funzioni delle curie erano rilevanti sia su piano militare sia politico. Erano le sezioni elettorali della più antica assemblea romana, i comizi curiati; fornivano i contingenti all'esercito romano. L'assemblea curiata era riunita dal re e doveva probabilmente limitarsi ad ascoltare ed approvare: il suo campo d'azione era rappresentato da tutte le decisioni che riguardavano l'assetto delle famiglie. Per quanto si risalga nella tradizione, non ci sono prove dell'esclusione della plebe dai comizi curiati. Il carattere egualitario delle curie è provato dal rito delle feriae stultorum, feste che permettevano a tutti quanti avessero dimenticato a quale curia appartenessero di partecipare egualmente alla festa finale, il 17 febbraio, che chiudeva i Fornacalia. 3.3 Il Senato. Al fianco del re, a collaborare nel governo della città, c'è il senato (dal latino senex, vecchio); è il consiglio formato da cento senatori (patres), che viene fatto risalire ad un atto di Romolo. Divenuti poi duecento ed infine trecento per opera di Tarquinio Prisco, i senatori perderanno il loro carattere di anziani e, in quanto tali, di portatori di saggezza e di capacità politica, per acquisire quello di rappresentanti della parte della società più significativa sul piano polito e sociale: l'aristocrazia. Al re è necessario il sostegno del senato, poiché in esso seggono i capi dei gruppi parentali che rappresentavano l'asse portante della società romana arcaica. Un'altra prerogativa del senato repubblicano era l'auctoritas patrum, ossia la facoltà del senato di ratificare le delibere comiziali. 3.4 Genti e clienti. Si è nell'impossibilità di definire con sicurezza la natura originaria del fenomeno delle genti, che non è caratteristico del solo mondo latino. Secondo alcuni studiosi, esse avrebbero costituito un raggruppo anteriore alla civitas, configurandosi com un clan che raccoglieva l'insieme di quanti erano legati da antenati e da culti domestici e sepolture comuni; i una fase successiva, ogni gente si sarebbe frazionata in diverse famiglie. Per altri, invece, le genti si sarebbero sviluppate nell'interno dello stato romano, già dotate di un'organizzazione politica. Tra l'VIII e il VI sec. a.C., in tutta l'Italia centrale emergono differenziazioni sociali e si costituiscono aristocrazie, forti dei loro poteri religiosi e politici, capaci di mobilitare gruppi armati. Delle genti romani si conosce bene la fisionomia in età storica, poiché con l'instaurazione della repubblica esse dominarono le vicende dei primi secoli di storia repubblicana. Si presentano come un'unità, formata dalla familia, contornata da un cerchio di parenti, con una fortissima identità e una solidarietà interna tra gli appartenenti. Ogni gens aveva i suoi culti, di tipo privato; aveva costumi particolari e un nome che li distingueva. Possedevano vaste terre e bestiame, che, in caso di successione, passavano ai figli, solo in loro mancanza, passavano ai fratelli e ai figli dei fratelli. A queste genti si aggregavano dei clienti, che accrescevano il prestigio e la forza del gruppo. Anche di questo istituto la tradizione attribuisce l'origine a Romolo, affermando che i clienti sono plebei assegnati in origine alla clientela delle genti patrizie. Il cliens (da cluo= ascolto qualcuno) era legato da un rapporto di fedeltà (fides) al patrono, un nobile ricco e potente, che assumeva la sua protezione personale ed aveva l'obbligo di assicurargli assistenza giudiziaria, poiché il cliente non aveva capacità giuridica e doveva essere rappresentato dal patrono in giudizio. I clienti in cambio garantivano fedeltà, obbedienza ed amicizia ai loro patroni, aiutavano a coltivare le terre e, se necessario, davano il loro sostegno in guerra. In Roma, la clientela divenne una vera e propria istituzione che restò salda nel tempo. Le leggi delle XII Tavole, alla metà del V sec. a.C., sancirono l'obbligo del patrono di tutelare il cliente e comminarono la sacertas (pena terribile che abbandonaa chi ne era colpito alla mercè di chi volesse ucciderlo) contro il patrono che avesse ingannato il cliente. In età storica, divenne un rapporto di fedeltà politica, tra privati o tra stati e re, protetti da Roma. 3.5 Patrizi e plebei. I non patrizi erano i plebei (da plebs, moltitudine), che erano coloro che «non avevano genti». L'origine del dualismo patrizio-plebeo, secondo la tradizione, risale all'azione fondante di Romolo, che avrebbe diviso i patrizi (pochi) dai plebei, ed avrenne attribuito questi ultimi come clienti ai patrizi. Da varie ipotesi formulate in tempi moderni, quella più fondata vede l'origine della plebe come frutto del lungo processo di accrescimento e di diversificazione della popolazione romana, processo che ebbe il sui apice durante il periodo etrusco, quando la movimentazione economica e l'incremento delle attività artigianali e commerciali, fecero aumentare la consistenza degli strati inferiori della popolazione, in gran parte artigiani, commercianti, schiavi affrancati. I plebei erano collocati in una condizione inferiore rispetto ai patrizi proprio perchè non erano organizzati in genti ed erano estranei al sistema dei vincoli che collegavano tutti i componenti della classe sociale aristocratica. 3.6 La religione romana. La città era uno spazio sacro riservato agli dei. Roma era sentita dai romani come un vasto ed immenso tempo che raccoglieva le dimore degli dei e degli uomini, il focolare pubblico di Vesta (il fuoco perpetuo simbolo della città, di cui erano garanti le Vestali) e i focolari domestici. A roma erano assicurati grandezza e successi, finchè la pax deorum fosse mantenuta. La fides non era altro che la fiducia riposta in un contratto, rispettato tra le due parti che lo contraevano, e le pratiche di culto erano lo strumento con cui si comunicava con gli dei. L'atto religioso interveniva in ogni momento della vita della repubblica, in pace o in guerra. La sola esperienza del divino che i romani rivelarono, nei loro scritti, fu quella di una scrupolosa attenzione ai segni nei quali pensavano di poter cogliere l'espressione di una volontà superiore e di un continuo rispetto delle azioni rituali attraverso le quali si garantivano l'appoggio divino. Quando la fede negli dei cominciò ad attenuarsi, si continuò a ritenere che la cerimonia e il sacrificio, avrebbero messo Roma al riparo da ogni rischio di rovina. Nella primitiva età monarchica, il diritto è strettamente connesso alla religione. La repressione penale rimaneva all'interno dei gruppi gentilizi, attraverso atti di vendetta privata. La civitas gradatamente intervenne ponendo dei limiti all'autodifesa e, attraverso il re, avocava a sé la punizione dei colpevoli di reati. Ciò avviene attraverso la consecratio, ossia il sacrificio del reo ad una divinità: in tal modo si purificava l'intera collettività e si recuperava la pax deorum. 2_L'età repubblicana. L'età repubblicana va dal 509 a.C sino alla fine del I sec. a.C. Superata la fase del conflitto tra patrizi e plebei alla fine del IV sec. a.C., il processo di creazione delle magistrature e di definizione dei poteri del senato e delle assemblee venne completato nel III sec. a.C. Le lotte interne, che dalla metà del II sec. a.C e per tutto il secolo successivo travagliarono la repubblica romana, misero in crisi gli equilibri politici e istituzionali. 1_La nascita della repubblica. La nascita della libera res publica viene identifica nell'istituzione della magistratura del consolato, che assunse i poteri del re. La res publica che nasce ha caretteri aristocratici e vede sorgere il conflitto tra patriziato e plebe. 1.1 La libera res publica. Il termine res publica non designa una forma costituzionale particolare né la forma «repubblicana». Cicerone, nel de republica, riflette sul processo di formazione dello stato romano. Usa il termine anche per indicare il regnum, ma coerentemente con la sua definizione di res publica come res populi (la cosa pubblica è cosa del popolo), rifiuta la qualifica di res publica alla tirannide; egli afferma che viene a mancare il consenso del popolo ad un ordinamento giuridico. A partire dal IV sec. a.C maturò un'ideologia repubblicana, di cui uno dei più saldi fondamenti fu l'odium regni, una forte avversione verso tutto ciò che richiamava un regime monarchico. L'ideologia repubblicana si sviluppò sull'antitesi libertas-regnum, che andava al servizio di diversi interessi: quelli dell'oligarchia dominante contro i populares, quelli del senato contro i poteri degli imperatores, quelli dei nostalgici del vecchio regime contro i principes. L'elemento discriminante tra il regnum e la res publica, caratterizzata dalla magistratura consolare, sia la libertas. Il momento storico in cui divente forte il senso di res publica come organizzazione politica è il momento della proclamata restaurazione augustea della «costituzione repubblicana». In apertura delle Res Gestae, il suo testamento politico, Augusto rivendica il merito di aver recuperato la res publica, oppressa dal dominio di una factio; egli si presenta come vindex libertatis, il riconquistatore della libertà. Roma è tornata ad essere una libera res publica. 1.2 Dalla monarchia alla repubblica. La tradizione annalistica presenta il passaggio dalla monarchia alla repubblica come un evento istituzionale semplice. Si ricava, dal testo di Livio, che la sostituzione dei magistrati al re non sarebbe stata accompagnata da alcun conflitto, come se tutto fosse già previsto nei «commentari» serviani, per cui il mutamento sarebbe avvenuto in continuità e nel quadro delle istituzioni precedenti. Formulando delle ipotesi, si potrebbe supporre che i commentari serviani contenessero istruzioni per la tenuta dei comizi. La tradizione indica la forma di governo consolare come tipica del regime repubblicano sin dal secondo anno della repubblica. Nel primo, i consoli sono cinque e questo è dovuto alla morte o all'esiliazione dei consoli. Valerio ed Orazio dedicarono nel 509 a.C il tempio alla triade capitolina che consacrò l'inizio del nuovo regime repubblicano. Alcuni indizi fanno pensare che il cambiamento di regime non sia stato né così rapido né coìsì semplice come ce lo presenta l'annalistica; uno dei più discussi è rappresentato dal ricordo di un pretore massimo e non di un console, come sommo magistrato. Alcuni studiosi ritengono che il titolo indichi colui dei due consoli che detiene i fasci, quindi l'autorità massima; altri invece, lo identificano come un dittatore. Il titolo del dittatore, chiamato «magister populi» (=capo del popolo), da dato vita ad un'ipotesi dittatoriale del primitivo assetto della repubblica, e che si sarebbe giunti al consolato dopo una fase di transizione. Per altri, il collegio in origine sarebbe stato a tre e il pretore massimo sarebbe stato un primus inter pares. Queste due ultime ipotesi presuppongono che i Fasti, che registrano due nomi di consoli fin dall'inizio, siano stati falsificati, cosa non dimostrabile. La probabile presenza già in età monarchica dei due quaestores parricidii e dei duumviri perduellionis sta a dimostrare che la collegialità a due è principio antico. Alla fine del VI sec. a.C., in una vasta area ai re si sostituirono magistrati eletti e temporanei, in forza di un processo di allargamento del potere degli esponenti aristocratici. Il re sopravvisse in una carica, il rex sacrorum, ridotta a sole funzioni religiose. 1.3 Il patriziato e il conflitto patrizi-plebei. I parametri che identificano il patriziato sono la proprietà delle terre, l'accesso al consolato e ai secerdozi, il monopolio degli auspici (quindi la pretesa di essere per diritto di nascita gli unici legittimati a comunicare con gli dei), e la gestione dell'interregno, segnato dalla formula «auspicia ad patres redeunt» (=gli auspici ritornano ai patres). La tradizione afferma che, dopo la cacciata dei re, i patrizi assunsero nelle loro mani tutto il potere, politico e religioso, e lo mantennero fino al 367 a.C., quando i plebei riuscirono ad accedere al consolato. Nei Fasti consolari sono presenti, a varie riprese, personaggi che portano nomi non patrizi; la soluzione più semplice è stata quella di dichiarare introdotti tali nomi, in seguito all'azione falsificatrice di annalisti che avrebbero cercato di creare illustri antenati ai consoli plebei dei IV e III sec. a.C.; un'altra ipotesi non esclude la possibilità che i plebei non fossero esclusi dal potere e che il monopolio patrizio sia iniziato intorno al 486 a.C. In età arcaica il Lazio era caratterizzato da una grande mobilità territoriale dell'aristocrazia, con processi di aggregazione di comunità che vedono riconsciuti all'interno della nuova realtà l'originario status nobiliare. In età regia, l'aristocrazia gentilizia era stata in grado di accogliere al suo interno i nobili provenienti dalle altre città. Il definirsi della civitas repubblicana portarono alla fine sia dell'assimilazione dei patriziati locali nella comunità romana sia del trasferimento di intere gentes da un territorio all'altro; si passò a trasferimenti individuali che finirono nel gruppo dei plebei. I conscripti (=registrati) entrano in senato per scelta del consolato, dettata da opportunità politica, ossia di consolidare il nuovo regime con gruppi esterni al patriziato che al prestigio della nobiltà ereditaria oppongono quello della forza della ricchezza. In età classica il termine patres conscripti passa ad indicare i membri del senato in quanto tali. 2_La repubblica divisa: gli organismi plebei. Il problema economico dei debiti, le rivendicazioni agrarie, il rifiuto della leva e la richiesta di equiparazione politica rappresentano le questioni che il movimento plebeo pone con forza, fino a giungere, grazie alle secessioni, a strutturare propri organismi, a darsi magistrati e fondare un centro religioso autonomo. 2.1 La condizione sociale della plebe. Il termine plebs ricopre una realtà non identificabile in toto con la massa dei piccoli proprietari in crisi, degli artigiani e dei commercianti finiti in miseria dopo la contrazione degli scambi commerciali, che devono difendere la propria libertà dal nexum, ossia dalla caduta in possesso dei creditori. Se la composizione della plebe fosse questa non si giustificherebbe la costante richiesta di accesso al consolato e ai sacerdozi né avrebbe senso la protesta contro il divieto di connubio tra patrizi e plebei sancito dalle XII Tavole. Queste rivendicazioni presuppongono la presenza di famiglie in grado di sostenere un'attività politica. La plebe fece del rifiuto della leva uno degli strumenti del conflitto. Essi venivano censiti come pedites (fanti) all'interno dell'esercito. La sola forza dei patrizi non poteva bastare a sostenere il peso delle continue guerre di Roma. La tradizione ci fa capire come, con lo scorrere delle vicende del movimento plebeo, ci siano gruppi economicamente forti che si fanno portavoce delle richieste di distribuzione di terre e di cancellazione di debiti a favore degli strati sociali più deboli. Questo tema è il motore della prima secessione plebea del 495-94 a.C. Le XII Tavole prevedevano la vendita come schiavo al di là del Tevere o l'esecuzione del debitore insolvente. Una crisi economica colpì la Roma del V sec. a.C., pressata dalle minacce dei popoli vicini ed uscita dall'orbita etrusca. Lo indicano le continue difficoltà alimentari, il cessare delle importazioni di ceramica greca, il blocco dell'erezione dei templi. L'unica concessione agraria che la plebe ottenne fu la destinazione ad edificazione plebea del colle Aventino nel 456 a.C. Ci sono dubbi sull'accettabilità della tradizione quando pone al V sec. a.C l'avvio della contesa sull'ager publicus quando il primo incremento di territorio si ebbe con la presa di Veio nel 396 a.C. Nel V sec. a.C si ipotizza che esistessero due modalità di possesso delle terre: quella dei gentiles, grandi proprietari di terre sostenuti dai loro clienti, e quella dei piccoli e medi agricoltori indipendenti. 2.2 Secessioni e tribunato della plebe. I plebei partecipavano ai comizi centuriati e militavano nei ranghi della fanteria, ma, pur essendo numericamente supeiori, non avevano alcuna forza di imporre le loro chieste a causa del meccanismo di voto che privilegiava le prime classi di censo. Nel 494 a.C., dopo la conquista di Crustumerio, i plebei in armi uscirono fuori di Roma e si accamparono a sette miglia dalla città, sul Monte Sacro, dichiarando che sarebbero rientrati solo se le loro richieste fossero state accolte. È la prima «secessione» della plebe che si accompagno al rifiuto del servizio militare. La plebe mise in crisi i patrizi, poiché privava Roma della difesa della fanteria oplitica. L'accordo raggiunto prevedi che la plebe avesse suoi magistrati, i tribuni della plebe e gli edili plebei, suoi concili, in cui prendere dei provvedimenti legislativi (i plebisciti), un proprio centro religioso, il tempio di Cerere, Libero e Libera. I tribuni non erano magistrati e non avevano imperium; i loro poteri superavano quelli dei magistrati poiché avevano il diritto di veto (intercessio) su ogni atto magistratuale, grazie al quale potevano sia opporsi preventivamente alle decisioni dei magistrati sia bloccarle. Avevo un potere di coercizione (coercitio) che li autorizzava ad arrestare ogni cittadino e giudicarlo davanti alla plebe. I loro poteri 4_Le assemblee popolari. Roma ebbe diverse assemblee diverse tra loro per origine e competenze: i comizi curiati, i comizi centuriati, i comizi tributi e i concilia plebis tributa. 4.1 I comizi curiati. I comizi curiati, la cui origine risale all'età monarchica, continuarono ad esistere, pur avendo perduto ogni reale ruolo politico. Alla fine della repubblica, la maggior parte dei romani ignorava a quale curia appartenesse; la cosa aveva poca importanza perchè i cittadini venivano rappresentati in assemblea dai trenta littori, uno per curia. Questi comizi, attraverso la lex curiata de impero, attribuiscono ai magistrati eletti dai comizi centuriati l'imperium: senza questo atto i consoli non potevano esercitare il comando militare. Probabilmente la lex curiata aveva il compito di fissare, ad ogni elezione, compiti e ruoli dei singoli magistrati. In età repubblicana, restano alle curie le competenze in materia di diritto privato. 4.2 I comizi centuriati. L'origine probabilmente deve essere collegata alle trasformazioni dell'esercito e del modo di combattero che avvennero nell'età monarchica. Questi comizi si riunivano al di fuori del pomerio, dove i cittadini si presentavano in armi. L'assemblea centuriata aveva competenze elettorali, legislative e giudiziarie. Eleggeva i magistrati superiori, titolari di imperium: consoli, pretori, tribuni militari a potestà consolare. Votava le leggi, ma non aveva diritto di iniziativa né di emendamento. In concorrenza col senato, partecipava alle decisioni in materia di guerra e pace. Esercitava un ruolo giudiziario intervenendo nei casi di provocatio ad populum. La provocatio ad populum (l'appello al popolo) era la maggiore garanzia costituzionale di cui godevano i soli cittadini romani. Grazie ad essa ogni cittadino minacciato di essere condannato a morte, di essere sferzato con le verghe da un magistrato, d'essere sottoposto a forti multe, aveva il diritto di invocare il popolo e di essere sottoposto al giudizio dei comizi. Sebbene il diritto dei tribuni di intervenire a tutela della plebe la provocatio ad populum abbiano il fine comune di offrire tutela ai cittadini contro l'esercizio arbitrario dell'imperium magistratuale, le due istituzioni sono di natura giuridica diversa. La prima aveva una natura «rivoluzionaria» plebea che dava ai tribuni il potere di opporsi all'azione dei magistrati; la provocatio era un diritto che apparteneva al cittadino, patrizio o plebeo, e di cui poteva avvalersi in qualsiasi luogo, contro la coercizione dei magistrati. In età difficile da precisare, è avvenuta una modificazione del sistema centuriato tale da incidere sulla ripartizione delle centurie nelle classi, sul rapporto delle centurie con le tribù, sull'ordine di voto. I meccanismi di voto nei comizi centuriati sono tali da garantire la preponderanza dei più ricchi rispetto ai più numerosi e poveri. Si votava per centuria per ordine gerarchico, iniziando dalle centurie degli equites, poi le centurie della prima classe e via via, le altre. Le operazioni di voto si interrompevano appena raggiunta la maggioranza, su un totale di 193 centurie, la maggioranza è 97. Fino all'introduzione del voto scritto su scheda (per tabellam), che avvenne alla fine del II sec. a.C., il voto era orale: un si o un no per i comizi con compiti legislativi e giudiziari. Per la scelta dei magistrati il sistema di votazione si prestava ad ogni sorta di pressioni e di brogli: finchè il voto fu palese, ogni componenta la centuria dichiarava il suo voto ad un rogator, che lo interrogava e segnava i risultati su un registro e poteva esercitare una notevole influenza sul votante. A partire dal 139 a.C i comizi elettorali si svolsero per voto segreto su scheda. Questa nuova procedura non evitò che continuassero le frodi. Un'estrazione a sorte determinava la centuria che avrebbe dovuto votare per prima: era un atto di valenza religiosa che attribuiva un valore di omen (presagio) a tale voto. La prima centuria chiamata a votare era detta praerogativa. Il suo voto era considerato determinante. 4.3 I comizi tributi. Nei comizi tributi si riunivano i cittadini ripartiti per tribù. Neanche in essi valeva il voto individuale, ma il voto finale di ogni tribù. Le competenze erano elettorali, eleggevano i magistrati minori (questori, edili e tribuni militari), ma anche i tribuni e gli edili plebei, i magistrati straordinari, come i triumviri o i decmviri agrari; erano giudiziarie, esaminavano reati che prevedevano multe, su iniziativa dei tribuni e degli edili; dalla fine del III sec. a.C., assunsero funzioni legislative. Nel 471 a.C., per la prima volta, i tribuni vennero eletti per tribù nei concilia plebis. L'inquadramento nelle tribù era fondamentale per lo status di cittadino romano: ogni cittadino era iscritto in una tribù, secondo il luogo di residenza e di attività, per cui la menzione della tribù entrava nell'onomastica ufficiale del cittadino romano, accanto ai tria nomina e al patronimico. Le tribù territoriali crebbero di numero, accompagnando lo sviluppo del territorio. Nel 241 a.C si raggiunse la cifra di 35 tribù, che non sarà più superata, per cui i territori conquistati dopo tale decisione furono inquadrati in tribù già esistenti, senza collegamento territoriale. La ripartizione dei cittadini nelle tribù dipendeva dal censore, che godeva di ampi poteri. 4.4 I limiti dei poteri comiziali. Le assemblee non avevano potere di iniziativa; potevano solo votare, approvando o respingendo, ma non discutere le proposte o i nomi presentati dal magistrato né potevano proporre emendamenti. Anche quando si affermò il principio che ogni cittadino potesse fare autonomamente la professio nominis, ossia avanzare la propria candidatura, questa doveva essere fatta davanti al magistrato che aveva convocato i comizi, che poteva accettare o rifiutare i nomi proposti e, a votazione conclusa, rifiutare di riconoscere un'elezione non gradita o interrompere le procedure di voto adducendo presagi infausti o far ripetere il voto. Al magistrato spettava il ruolo di convocare i comizi e di condurli, con ampia facoltà di incidere sulla decisione finale. Il confronto politico poteva svolgersi in altre sedi preliminari alla riunione assembleare: la contio, ossio la riunione in massa, di cittadini e non cittadini, convocata da un magistrato o da un sacerdote, che si svelgeva in maniera informale con il solo scopo di discutere dettagliatamente di vantaggi o svantaggi di una legge proposta o di una candidatura o di misurarsi direttamente col popolo sulle questioni politiche del momento. Il voto non era egualitario nei comizi centuriati: se le classi sociali più elevate erano ripartite in centurie di cento componenti, man mano che si scendeva nelle classi di ceto inferiori, le centurie raggruppavano un numero maggiore di cittadini; pertanto il voto singolo delle centurie rappresentava entità diverse. Le classi dominanti disponevano di un numero di voti superiore a quello che avrebbero avuto in un sistema non censitario e gerarchizzato. Dal momento che la votazione veniva sospesa al raggiungimento della maggioranza, non c'era alcuna possibilità di «rovesciare» la situazione attraverso i comizi tributi, perchè una delle preoccupazioni del ceto di governo era quello di avere un vantaggio per sé. Ogni anno andava rinnovato il personale politico e l'attività legislativa era intensa. Il popolo veniva convocato a Roma almeno sette volte all'anno per elezioni che potevano durare più di una giornata, per le riunioni preparatorie e assembleari. Un cittadino doveva mettere in conto di venire almeno venti volte all'anno a Roma per adempiere ai suoi doveri ed esercitare i suoi diritti. La centralità della vita politica nell'urbs divenne un impedimento tale da svuotare di sostanza il diritto elettorale e da determinare forti assenteismi. Interessava ai candidati e ai proponenti le leggi di cercare di garantirsi appoggi consistenti, anche se il sistema di voto «per unità» limitava la ricerca del consenso: non era necessario avvicinare l'intero corpo elettorale, era sufficiente avere la certezza del voto favorevole in un certo numero di tribù e nelle centurie della prima classe e degli equites. È facile ipotesi che i comizi fossero più frequentati dalla popolazione urbana rispetto a quella rurale, disincentivata dalle lunghe distanze e dagli impegni di lavoro. A roma non è la res publica, ma il populus che legifera; sta nel populus la volontà e la potestà di agire; i magistrati operano voluntate e iussu populi, anche se ci fu un trasferimento di potestà al senato, o meglio al binomio senato-consoli. 4.5 Corruzione e brogli elettorali. Diffusa e testimoniata da ripetuti interventi legislativi è la pratica della corruzione elettorale (il reato di ambitus). Era consuetudine per i «candidati» di indossare vesti candide, così come lo era di andare per mercati e per villaggi a cercare voti, anche se una legge del 358 a.C lo aveva vietato. L'istituzione di una prima corte fissa per i reati di corruzione risale solo a Silla che con una legge stabilì che i colpevoli fossero interdetti dalle cariche pubbliche per un periodo di dieci anni. Un compito importante spettava ai comizi tributi e al ruolo dei divisores, personaggi quasi ufficiali, di rango sociale elevato, che dovevano ripartire le distribuzioni di denaro legale e che dovevano servire anche da tramite per la corruzione. Secondo le leggi sui brogli erano illegali tutti quegli strumenti di campagna elettorale quali banchetti offerti al popolo e alle tribù, corte di accompagnamento del candidato al foro che segnalavano, con il numero dei personaggi di peso politico e dei clienti, la potenza del personaggio, accordi tra candidati e favori concessi. A questo potevano aggiungersi le frodi elettorali, operate attraverso la distribuzione di schede già scritte, o un manipolato calcolo dei voti o il voto di persone non regolarmente iscritte nelle liste. consoli erano accolti come membri del senato. L'accesso al consolato faceva entrare in un altro mondo. La ricchezza aveva il suo peso nel favorire la carriera politica ma non era l'elemento decisivo. Quello che contava era la dignitas, che era basata sulla fama e sul ruolo degli antenati. Se era un nobile, la sua forza e la sua posizione sociale derivavano dal passato della sua casa, dall'appoggio di amici e clienti. 5.6 Pretori, questori, edili. L'etimologia del termine pretura (da prae-ire= andare davanti) ha fatto supporre che il ruolo originario fosse quello poi assunto dai consoli. Nel 367 a.C la magistratura assunse poteri giudiziari. Nel 242 a.C l'accrescersi degli scambi commerciali e del movimento degli stranieri portò all'istituzione di un pretore peregrino, incaricato di occuparsi di tutte le questioni giudiziarie che coinvolgevano i non romani. Anche il pretore poteva avere comandi militari, convocare e presiedere i comizi e il senato, ma il suo imperium era inferiore a quello dei consoli. I questori si occupavano di finanze, sorvegliando il tesoro conservato nel tempio di Saturno. Non doveva essere il loro compito originario in quanto il nome (da quaerere) indica una funzione giudiziaria. Il loro numero accompagnò le multiple necessità di avere questori al fianco dei consoli, in guerra, per gestire la cassa militare e provvedere alle spese, e, in pace, per controllare il regolare versamento delle imposte e la fornitura di truppo da parte delle comunità italiche. Edilità curule ed edilità plebea avevano compiti amministrativi e giurisdizionali di notevole rilevaza, la cura urbis, la cura annonae (l'approvvigionamento alimentare di Roma); la cura ludorum sollemnium (l'organizzazione dei giochi). Avevano come compito il controllo delle strade e delle norme sul traffico, dell'ordine pubblico in occasione di cerimonie religiose, dei mercati, della regolarità dei pesi e delle misure, delle fontane ed acquedotti. Custodivano anche gli archivi del senatoconsulti nel tempio di Saturno. L'edilità divenne il trampolino di lancio per la carriera politica dal momento che spettava a loro l'organizzazione dei giochi. I censori avevano il compito di «classificare» i cittadini, attribuendo loro lo status di cittadini romani, determinando la loro collocazione patrimoniale e stabilire il loro grade di partecipazione all'attività militare e politica. Di regola erano eletti ogni cinque anni; i due censori convocavano al Campo Marzio, i cittadini e, aiutati da scribi, araldi, nomenclatores, iuratores, inquisitores, ne registravano le dichiarazioni sotto giuramento. Ognuno dichiarava il suo nome e i suoi beni, sulla base della stima del patrimonio il cittadino riceveva l'inquadramento in una classe, in una centuria e in una tribù. In occasione del censimento, i censori potevano infliggere una nota censoria dopo un controllo dei costumi, sia civici (per violazioni della disciplina militare, per abuso di potere) sia privati (per eccesso di lusso, di divorzi, cattiva amministrazione dei beni). Il controllo era rigoroso nei confronti dei cittadini di rango più elevato perchè dovevano essere al di sopra di ogni sospetto; se colpiti dalla sanzione censoria, i cittadini erano esclusi dall'ordine di appartenenza e venivano retrocessi in una centuria o tribù dove il loro voto contava di meno. 5.7 Le magistrature straordinarie: la dittatura. In casi eccezionali, sia per minacce esterne sia per conflitti interni, Roma faceva ricordo ad una magistratura straordinaria: la dittatura. Il dittatore era creato dai consoli, su indicazione del senato. Il dittatore, che poteva durare in carica solo sei mesi, era investito di tutti i poteri. A lui spettava la designazione di un suo ausiliare, il magister equitum, il comandante della cavalleria. Assumeva il potere militare anche all'interno del pomerio, non doveva rendere conto ad alcun collega, tutti i magistrati erano a lui subordinati; solo i tribuni della plebe conservavano i loro poteri di veto e di intervento. 6_Il senato. Il senato romano e la boulé ateniese non sono paragonabili, in quanto le funzioni della boulé rimasero limitate rispetto alla posizione del senato romano, vero centro di potere. 6.1 Le funzioni del senato. Durante il III e la prima metà del II sec. a.C., il senato fu l'istituzione determinante per la politica di Roma: il suo primato pose i magistrati in un ruolo di «esecutori» dei deliberati del consiglio. A quell'epoca, il senato ha prima di tutto il potere amministrativo e sorveglia tutte le entrate e le uscite. Tale compito si traduceva nel controllo dell'attività dei questori, che non potevano ordinare spese senza l'approvazione del senato, a meno che non le avessero richieste i consoli. Il senato controllava anche gli stanziamenti deliberati dai censori ogni cinque anni per la costruzione o il rifacimento delle opere pubbliche. In realtà, il compito del senato era più ampio: amministrava l'ager publicus e disponeva delle assegnazioni delle terre e delle deduzioni delle colonie; fino al 167 a.C. fissava l'imposta straordinaria di guerra, dovuta a seconda dei beni, che i cittadini mobilitabili versavano per lo stipendium dei soldati; fino al 123 a.C. i contratti per lo sfruttamento dei beni statali dati in appalto erano sotto la sorveglianza senatoriale. Ancora più rilevante era il controllo sulle uscite: ogni somma destinata ai magistrati e ai governatori delle province veniva fissata dal senato. Sono i senatori i giudici dei più importanti processi pubblici e privati che riguardano cittadini e stranieri in Italia e nelle province; esercitano arbitrati per conflitti di natura finanziaria e agraria; si occupano di criminalità quando essa costituisce un pericolo per lo stato. A parte la dichiarazione di guerra e la stipula dei trattati, l'amministrazione ordinaria dei rapporti con l'«estero» (potenze straniere, alleati, sudditi) era affidata al senato. Sempre al senato spettava la designazione di un interrex, per indire i comizi elettorali, se non era disponibile nessun magistrato. Le deliberazioni comiziali furono a lungo soggette all'auctoritas patrum, ossia alla ratifica da parte del senato. In origine, doveva essere data ad una legge o ad una elezione di un magistrato dopo il voto; nel 339 a.C. una legge Publilia, nel quadro del conflitto tra patrizi e plebei, la trasformò in un'autorizzazione data in via preliminare ad ogni proposta sottoposta al voto assembleare. In seguito ad una legge Maenia, venne spostata a prima del voto anche per le elezioni. Silla tentò di ripristinare l'autorità senatoria reintroducendo l'obbligo del consenso preliminare del senato ai plebisciti, provvedimento che fu abolito nel 70 a.C. I senatori furono designati inizialmente dai re e poi dai magistrati superiori; dalla fine del IV sec. a.C., dai censori che davano la precedenza nella scelta a coloro che avessero ricoperto una magistratura: il senato era un consesso di ex magistrati. Ogni cinque anni l'albo senatorio era revisionato: i non meritevoli erano espulsi, i morti rimpiazzati. Il numero di senatori, con Silla, mutò: venne innalzato a 600, introducendo in senato uomini nuovi, cavalieri, ex ufficiali. In una res publica molto attenta sulla dignitas, i senatori si distinguevano dai comuni cittadini perchè portavano il laticlavio, una striscia larga di porpora cucita sull'orlo della toga (l'angustus clavus era una striscia stretta e verticale che indicava l'ordine equestre) e speciali calzature di pelle rossa; sedevano in posti riservati negli spettacoli e nelle cerimonie. 6.2 L'attività del senato. Le sedute del senato dovevano necessariamente tener conto sia dell'attività assembleare sia dell'attività giudiziaria sia degli impegni militari a cui i senatori, come cittadini, erano chiamati. Al contrario dei giorni determinati in cui i magistrati erano obbligati a convocare le riunioni assembleari, il senato poteva riunirsi nei fiorni fasti o nefasti ed anche nei giorni comiziali. Questo conferma la centralità del senato come consiglio permanente della res publica, che deve essere e tenersi sempre disponibile. Il senato doveva essere riunito in un luogo inaugurato, ossia un luogo delimitato dagli auguri: solo in questo caso i deliberati avevano pieno potere giudiziario. Ogni atto assunto dalla comunità deve essere in accordo con la divinità, per cui anche i luoghi di riunione del populus, i rostri sono dei templa. La sala delle riunioni per il senato per eccellenza era la Curia Hostilia, contigua al comitium e preceduta da un vestibolo; fu distrutta nel 44 a.C sostituita dalla Curia Iulia. Il senato non può riunirsi di sua iniziativa, né fissare il suo ordine del giorno: è necessaria l'iniziativa di un magistrato, che convoca la seduta e che, in virtù del suo ius relationis, presenta gli argomenti da dibattere e da mettere al voto. Normalmente una seduta si apriva con la relatio (ossia la formulazione dei temi da dibattere) del magistrato, un console o un pretore, e proseguiva con l'interrogazione dei senatori da parte del presidente perchè esprimessero il loro parere. Lo ius sententiae spettava a tutti i senatori, ma era diverso il peso dei pareri. Il voto avveniva sia individualmente, su interrogazione di ognuno dei senatori in ordine di grado, sia per discessionem, nel qual caso i senatori si disponevano da una parte o dall'altra della Curia subito dopo la relatio. L'antico costume era quello di iniziare ad interrogare colui, tra i senatori consolari, che fosse stato iscritto dai censori in testa alla lista del senato, ossia il princeps senatus. All'epoca di Varrone, invece, era in uso iniziare da uno qualsiasi dei consolari. Questa modificazione della prassi rispondeva ad esigenze politiche ben precise: il primo voto pronunciato era carico di una grande forza di orientamento del senato, per cui i consoli avevano tutto l'interesse ad interrogare per primo il senatore con cui ci fosse consonanza di posizioni politiche o legami di amicizia. Il risultato finale è il senatoconsulto (SC). Il senato poteva proclamare una sorta di stato di emergenza, che autorizzava i magistrati ad adoperare ogni mezzo fosse ritenuto necessario per la tutela dello stato, senza il vincolo della provocatio e dell'intercessior: era il senatusconsultum ultimum. 6.3 Società e politica. La vita politica e l'esercizio dei diritti civili e politici erano strettamente determinati da una struttura articolata e gerarchizzata del corpo civico, in cui tutti vivevano il politico e il sociale a seconda del posto che occupavano in un gruppo. In relazione all'ordine cui apparteneva, ciascuno era incluso in un sistema di diritti completi, di diritti minori o si trovava in rapporto di dipendenza o di totale esclusione dal corpo civico. Tutti i cittadini erano elettori, ma non tutti erano eleggibili, non avevano né gli stessi diritti né le stesse opportunità di accedere alle magistrature, poiché era necessario un censo minimo per accedere già alla prima carica, la questura. Le funzioni dirigenti appartenevano ad una classe politica composta di due ordini dominanti: senatorio ed equestre. Il primo coincide in età repubblicana col senato, aveva come base di ricchezza la terra e svolgeva importanti funzioni pubbliche; il secondo dominava il mondo dei negotia, dei commerci, della riscossione delle imposte, degli appalti. All'interno del senato si distingueva un gruppo ristretto ed esclusivo di una ventina di famiglie patrizie, che consideravano il consolato come loro privilegio e si accaparravano le magistrature principali. Era la cosiddetta nobilitas, che monopolizzava gran parte delle attività politiche, militari, religiose e finanziarie. La res publica era cosa sua. L'uomo aristocratico è tale per eredità, ma essa non bastava, doveva essere sostenuta dal voto popolare. Il cursus prevedeva una gradazione di cariche, la cui somma portava esperienza e competenza, e il candidato, per essere eletto, doveva conquistarsi il suffragio. Chi invece si presentava, per la prima volta in una famiglia, alle cariche era considerato con disdegno homo novus, privo di quella dignitas e di quella auctoritas che venivano dal riconoscimento dei meriti acquisiti in passato da tutta la famiglia: la nobilitas era patrimonio privato. Soprattutto dopo la guerra sociale, la composizione delle classi dirigenti si trasform in profondità: i patrizi avevano ceduto il passo ai plebei. Al di fuori di senatori e cavalieri, i ceti inferiori erano tutti compresi nel termine plebs, che 8_Lo statuto delle persone. A roma e in Italia, accanto ai cittadini romani esistevano persone di condizione giuridica diversa, che andava dalla totale estraneità al mondo romano all'appartenenza parziale. 8.1 I cittadini romani. Era cittadino chi nasceva da giuste nozze (iustum matrimonium), ossia un matrimonio che rispondesse alle norme fissate dal diritto, tra padre o madre entrambi romani o tra padre romano e madre latina o peregrina, a patto che essa avesse il diritto di connubio. Se il figlio non era nato da nozze legittime, seguiva la condizione della madre: era dunque cittadino anche il nato da una filiazione naturale di una donna romana. Alla fine dell'età repubblicana, una legge fissò dei limiti: se il padre era latino o peregrino, il figlio seguiva la sua condizione. Se un figlio nasceva posteriormente all'acquisizione della cittadinanza da parte dei genitori, era cittadino altrimenti restava peregrino e non veniva sottoposto alla patria potestà del padre. La qualità di civis si traduceva nell'uso dei tria nomina: un praenomen, un nomen, un cognomen. Una peculiarità dell'ordinamento romano era il fatto che tutti gli schiavi affrancati, i liberti, ricevessero autonomamente, con l'atto della manomissione, la cittadinanza romana. La libertà da consistenza dei diritti politici «libertas id est civitas». Uno degli aspetti più sorprendenti della schiavitù romana fu l'alta frequenza con cui gli schiavi venivano liberati, al punto che l'imperatore Augusto farà approvare una legge che proibiva al padrone di schiavi di liberarne più di cento nel suo testamento. La prima generazione di ex schiavi non godeva di tutti i diritti politici del cittadino; non poteva accedere alle magistrature e il suo voto non aveva lo stesso peso del voto del normale cittadino. Le concessioni della cittadinanza ai peregrini furono piuttosto limitate in età repubblicana e furono date a titolo individuale o collettivo. Le prime erano strettamente personali e non si estendevano ad altri membri della famiglia; le altre riguardavano gruppi o intere comunità civiche. 8.2 I contenuti della cittadinanza romana. La cittadinanza romana è un insieme di diritti civili e politici, cui corrispondono doveri. Nel mondo romano non fu mai redatto un elenco di questi diritti e doveri né leggi o altre deliberazioni fissarono lo satus di civis. Solo il cittadino ha la facoltà di compiere gli atti del diritto civile. I diritti politici comportao il diritto di votare in assemblea, di essere eletto magistrato, di essere tutelato dalla provocatio ad populum, di invocare l'intercessio di un tribuno o di un magistrato. Di contro, il cittadino doveva servire nelle legioni e pagare il tributo. A partire dal 167 a.C., nessun cittadino fu più gravato di imposte e il servizio militare fu assicurato dai volontari stipendiati. Un cittadino romano poteva cessare d'essere tale se subiva una capitis deminutio, ossia un cambiamento di condizione giuridica. 8.3 Civitas sine suffragio. La civitas sine suffragio è una cittadinanza concessa a popoli conquistati o annessi, ma senza il diritto di voto. Tale cittadinanza «ridotta» negava il voto, la partecipazione politica e l'accesso alle magistrature, prevedeva gli obblighi militari e finanziari dei cittadini, obblighi gravosi compensati dalle garanzie giuridiche connesse con lo status di cittadini. Se in origine tale civitas sine suffragio poteva apparire un privilegio, essa venne a rappresentare una situazione di costrizione, che in genere portava all'integrazione completa. 8.4 I Latini. Fanno parte del nomen Latinum i Prisci Latini (le città della lega latina restate indipendenti), gli Ernici e i Latini coloniarii. Essi hanno uno status particolare: godono di loro proprie leggi, devono contribuire con denaro e contingenti di uomini alle campagne militari romane, ma in cambio fruiscono di ius connubii e ius commercii e di ius migrandi. In base a quest'ultimo, chi si trasferiva a Roma poteva richiedere ed ottenere individualmente la cittadinanza all'atto delle operazioni di censimento, facendosi iscrivere in una tribù romana. Questa migrazione creò dei problemi alle città di provenienza, che si videro aggravate di oneri, perchè a loro popolazione calava ma i contingenti militari e i contributi restavano immutati. A partire dalla fine del II sec. a.C., venne concessa la piena cittadinanza romana a chi rivestiva una magistratura nella propria citt o come ricompensa in caso di vittoria in una causa di malversazione intentata contro un magistrato romano. 8.5 I peregrini. I peregrini non sono cittadini romani, ma appartengono a comunità straniere. Nel 242 a.C., venne creato il pretore peregrino, col compito di risolvere il contenzioso giudiziario tra romani e stranieri. Tale istituzione era una conseguenza del fatto che il dominio del Mediterraneo proiettava Roma in una dimensione di scambi commerciali vasti. Inevitabilmente si cominciarono a porre problemi, sul piano del diritto, relativi alle operazioni commerciali e alla stessa presenza di stranieri. Tra il III e il II sec. a.C., il pretore peregrino cominciò a redigere il suo editto, che rappresentava il programma giudiziario per il suo anno in carica. 9_Lo statuto delle comunità. 9.1 I municipi. A lungo si è sostenuto, sulla base dell'etimologia del termine (da munia capere= assumere gli oneri del cittadino), che la condizione di municipes si identificasse con quella di cives sine suffragio, il che però non trova sicura conferma nelle fonti. Sono attestati municipi a piena cittadinanza e municipi di cittadini senza suffragio. Conviene accogliere i risultati delle ricerche di Humbert, che, nel termine municipio, vede definita una piccola comunità locale, che ha un'amministrazione civica autonoma e che tale amministrazione conserva, sia che essa venga integrata completamente nella cittadinanza romana, sia che goda solo della civitas sine suffragio. La fisionomia originale del municipio sta nella coesistenza dell'integrazione nella civitas romana con il mantenimento dell'appartenenza ad una res publica distinta ed autonoma: la res publica locale è dentro la civitas romana. 9.2 Le colonie romane e latine. Roma si servì anche di un altro mezzo per accrescere il proprio controllo sul territorio dell'Italia: si trattò della deduzione di colonie, sia romane sia latine. La distribuzione di terre ai coloni (o a singoli cittadini) avveniva attraverso il sistema della centuriazione. I terreni veniva disboscati e prosciugati, se erano paludosi e coperti di alberi, per renderli coltivabili. In seguito veniva misurati e ripartiti dagli agrimensori. Le colonie di cittadini romani erano delle «piccole riproduzioni» di Roma: il loro territorio era considerato parte del territorio cittadino, non avevano leggi proprie, ma fruivano di quelle romane, e i coloni potevano esercitare, ma solo recandosi a Roma, il loro diritto di voto. Man mano che Roma avanzava, si lasciava dietro una linea di presidi, destinati ad essere a loro volta sostituiti da altri più avanzati. Così, per due secoli, si venne strutturando la rete delle colonie latine. Per costruire queste nuove e popolose collettività, Roma perdette dei propri cittadini, dal momento che sin dall'inizio, Roma concesse ai suoi cittadini di andare a stabilirvisi, purchè rinunciassero alla cittadinanza romana per acquisire uno status giuridico particolare, la latinitas: la rinuncia alla civitas si accompagnava all'allettante assegnazione di lotti di terra di considerevoli dimensioni. Le colonie latine erano città autonome con proprie leggi ed ordinamenti, con magistrature ed assemblee, sul modello di quelle centrali; avevano l'obbligo di fornire a Roma contributi in denaro e in uomini, secondo gli accordi fissati nella legge di fondazione. Mentre i coloni romani, essendo cittadini, conservavano il diritto di votare nelle assemblee di Roma e la colonia romana era una porzione ramificata di Roma, i coloni latini avevano solo alcuni privilegi: quello di sposare donne romane e di commerciare coi romani; se si trasferivano a Roma avevano il diritto di entrare a far parte della cittadinanza romana. Nell'ager romanus (il territorio romano) vennero inviati dei praefecti iure dicundo, che erano nominati annualmente dal pretore. Si vennero così a creare dei distretti territoriali che comprendevano municipi, colonie e altri agglomerati minori. 9.3 Le province. Il termine privincia è romano ed indicava la sfera di competenza di una magistrato fornito d'imperium. Il termine passò a designare un distretto territoriale che, dopo la conquista, era affidato all'amministrazione di un magistrato. Lo statuto della provincia era fissato da una legge data dal generale vittorioso o dal magistrato incaricato dal governo, poiché territorio e abitanti erano passati sotto il dominio di Roma, che ne poteva disporre liberamente; tuttavia un governatore poteva farvi ricorso o meno, per dare una sistemazione organica al territorio di sua competenza. Alcune province ricevettero la lex provinciae soltanto molto tempo dopo la loro costruzione. La 11_La crisi della Repubblica romana. L'allargamento delle conquiste aveva reso inadeguate le istituzioni romane. Era impossibile governare un impero, che trapassava largamente l'Italia e il Mediterraneo occidentale, partendo da un consiglio, come il senato, troppo ristretto. 11.1 I nuovi poteri. Il modello istituzionale si disgregò e la ricerca di diversi equilibri passò attraverso lo scontro di potenti personalità, Mario, Silla, Pompeo, Cesare, attorno cui si coagulavano gruppi di pressione politica e forze militari. Mario, che riuscì ad ottenere il consolato per ben sette volte, aprì l'arruolamento delle legioni anche ai nullatenenti. Non si trattò di un atto «rivoluzionario», ma la risonanza politica fu enorme, perchè l'esercitp cambio di natura. Da esercito di cittadini, che militavano finchè la patria avesse bisogno, divenne un esercito di mestiere, retribuito con paga regolare e con un impegno più o meno redditizio. Questra trasformazione aggravò la crisi della repubblica, perchè creò forti legami personali tra soldati e comandanti, uniti in un interesse comune. Nell'ultimo secolo della repubblica il conferimento di imperia extraordinaria rese ancor più stretto il legame tra il comandante militare e i soldati che militavano al suo fianco, al punto che si creò una «clientela militare». Le ambizioni personali dei capi e l'uso dei soldati come forza di dissuasione violenta, aprirono la strada verso le guerre civili. Intere province erano divenute oggetto della protezione di qualche notabile. I personaggi più in vista avevano ampi corteggi di clienti, funzionali alle esigenze politiche della loro carriera. Tale fenomeno, una volta che iniziò ad operare in ambito militare, favorì la creazione di centri militari di potere, autonomi, che sfuggivano al controllo degli organismi della res publica e che misero in crisi le istituzioni repubblicane. Silla agì in forza di una dittatura costituente. Le riforme sillane miravano ad una riscrittura della res publica. I perni erano il rafforzamento del ruolo del senato e il parallelo ridimensionamento del potere dei tribuni. Il suo tentativo di ridare a Roma l'antica fisionomia dello stato repubblicano si rivelò un fallimento: il senato aveva esaurito la sua funzione; il futuro era dei comandanti militari, che potevano cumulare nelle loro mani i poteri militari e politici. 11.2 La proposta ciceroniana. Era possibile per la res publica romana trovare un nuovo equilibrio, ma dovevano essere superati i conflitti tra gli ordini. Cicerone tentò di individuare i rimedi istituzionali per superare la crisi e riportare lo stato romano all'antica saldezza. Roma deve ritrovare la concordia, nel superamento dei conflitti tra senatori e equites, il senato deve recuperare il suo ruolo di guida con l'appoggio degli optimates; i populares, che inseguono l'appoggio delle masse per il proprio interesse personale, vanno bloccati. Col ritorno del senato e delle magistrature ai loro tradizionali poteri, il tribunato può essere messo a freno e ricondotto a strumento per limitare la tracotanza della plebe. Le leggi tabellarie, che avevano istituito il voto segreto, vanno eliminate, perchè hanno annullato l'influenza degli ottimati. Questo programma richiede un rector, un uomo politico di grandi qualità, capace di guidare lo stato e di ispirarne la politica, di ristabilire l'ordine. 11.3 I progetti di Cesare. Cesare, rientrato a Roma, dopo aver battuto Pompeo a Farsalo nel 48 a.C., ottenne poteri eccezionali: la potestà tribunicia a vita, il potere consolare per cinque anni, il potere di designare i candidati alle magistrature, di decidere della guerra e della pace. Nel 47 a.C ottenne quella dittatura con poteri costituenti che era già stata di Silla e, all'inizio del 44 a.C., si fece nominare dittatore perpetuo. Utilizzando i poteri delle magistrature tradizionali, Cesare si era assicurato un potere assoluto. Padrone di Roma, padrone delle province e degli eserciti, a Cesare mancava solo la corona di re che gli era stata offerta, ma che aveva rifiutato. C'erano tutti i segni tipici di una monarchia ellenistica: il battere monete con la sua effige, l'erezione di sue statue nei templi, il giuramento in suo nome, l'attribuzione di Iulius ad un mese, il portare sempre la corona d'alloro e la veste dell'imperator trionfante. Tutti gli organi tradizionali erano piegati ai suoi voleri. Le assemblee popolari erano svuotate di valore. Da tempo la corruzione era dilagata. I magistrati erano di fatti designati da Cesare, che ne diminuiva il prestigio e il ruolo moltiplicandone i titolari; il senato, già portato a 600 membri da Silla, venne allargato a 900, con nuovi senatori scelti da Cesare anche tra extraitalici; ad esso fu sottratto il controllo delle province, affidato a governatori nominato dal dittatore. A quest'opera di rafforzamento del potere personale s'accompagnarono interventi sul piano sociale. Estese alla Gallia Cisalpina la cittadinanza romana, unificando l'Italia; riformò il calendario aggiungendo l'anno bisestile. Fu assassinato alle Idi di Marzo, il 15 marzo del 44 a.C., nella Curia. Espansione di Roma nella penisola (406-88 a.C.). 3_L'età imperiale. Ottaviano Augusto, pur affermando la volontà di restaurare le istituzioni repubblicane, diede l'avvio ad un nuovo ordinamento, il principato, fondato sul potere politico del princeps. Il sistema delle province fu ridisegnato, l'esercito riformato; le funzioni amministrative e militari furono spartite tra senatori e cavalieri. Per due secoli, il nuovo modello di organizzazione statale fu in grado di reggere il peso dell'impero e di garantire un'opera di romanizzazione. Nel III sec la crisi economica, sociale, militare portò all'instabilità politica e alla disgregazione dell'assetto istituzionale. 1_Il Principato d'Augusto: le innovazioni istituzionali. Con Augusto il sistema istituzionale romano si trasformò. Alcuni poteri che durante l'età repubblicana erano stati distribuiti tra più titolari si accumularono nelle mani del princeps. 1.1 La svolta augustea. Non ci fu una carta fondante l'impero, al di fuori dell'imperium stesso, ossia al di fuori dell'esercizio del potere. C'è la costruzione della struttura dell'impero, dinamica e continua. Nessuna organica riflessione teorica accompagnò l'affermarsi del potere imperiale e la sua evoluzione verso forme sempre più marcate di assolutismo, se non uno scritto di Cassio Dione, storico greco di Bitinia. Nel mettere in scena un dibattito tra Ottaviano e i più fidati collaboratori, Agrippa e Mecenate, sulla forma di governo da adottare dopo la fine delle guerre civili, Cassio Dione in realtà, ponendo a confronto la costituzione democratica, sostenuta da Agrippa, e quella monarchica, illustrata da Mecenate, intente marcare con forza la cesura di tipo istituzionale che segna il trapasso al principato augusteo: tutto il potere del popolo e del senato passò ad Augusto e si stabilì una vera monarchia. A partire dall'assasinio di Tiberio Gracco nel 133 a.C., Roma era stata teatro di un secolo di lotte fratricide, che avevano avuto origine dalle rivalità tra i grandi uomini che pretendevano di avere il controllo dello stato. La vittoria di Ottaviano ad Azio nel 31 a.C., segnò la fine di questi drammi e rappresentò il punto di svolta. Nel lungo periodo di governo di Augusto, il sistema istituzionale romano gradatamente mutò. Il risultato fu la formazione di un nuovo ordine politico, il principato. Ottaviano non volle che il mutamento fosse visto come una rottura del precedente assetto repubblicano, anzi tentò di rappresentarsi come restitutor rei publicae, colui che stava restaurando la repubblica. Augusto non prese la corona di re né la dittatura a vita, ma dal 31 al 23 a.C., rivestì ininterrottamente il consolato con colleghi a lui fedeli e si fece attribuire il titolo di imperator, lo stesso che aveva assunto Cesare, ad indicare che la sua forza stava nel controllo. Imperator è il titolare dell'imperium, ma anche il trionfatore, il generale vittorioso, acclamato come tale dai suoi soldati; il titolo entrò nell'onomastica imperiale come prenome e diventò l'espressione della sovranità. 1.2 Potestas e auctoritas. Il 23 gennaio del 27 a.C è il giorno che segna l'inizio del principato. Ottaviano andò in senato e dichiarò che, vendicato suo padre Cesare e ristabilita la pace, egli rimetteva tutto il suo potere nelle mani dei senatori e del popolo di Roma. Il senato, invece, gli attribuì onori eccezionali e l'appellativo di Augustus. Da quel momento, auctoritate omnibus praestiti (=fui superiore a tutti per auctoritas). Quanto a potestas non ne ricevette più degli altri magistrati. Con auctoritas si incontra una nozione che appartiene alla storia repubblicana (auctoritas patrum), ma che trova una sua ridefinizione nel regime augusteo. Un chiarimento si trova nell'idea di auctoritas con il titolo di Augustus. Il sacrificato fu Romolo, cui pur andavano le simpatie augustee, perchè, se da un lato il titolo di «novello Romolo» avrebbe ben 1.7 La pax Romana e il processo di integrazione. Dalla seconda metà del I sec. a.C. alla fine del II sec. d.C., la pax Romana fu assicurata e divenne condizione essenziale perchè l'impero potesse sviluppare l'esperienza di civiltà amalgamatrice. Si trattò di un profondo processo di acculturazione che portò ad una riduzione ad unità politica e omogeneità culturale di un complesso di popoli e stati vinti con la forza militare, ma associati in vari modi alle funzioni di governo. Roma aveva rinunciato all'egemonia sull'impero: vincitori e vinti erano nella stessa condizione di soggetti dell'imperatore; è una trasformazione che si colloca tra l'età augustea e gli Antonini. Fu un processo di integrazione flessibile: non ci fu mai un tentativo brutale di imporre la lingua latina. Si assiste ad una integrazione progressiva. È illusorio pensare che tutti i vinti abbiano accettato la sconfitta e il dominio romano senza opporre resistenze o manifestare ostilità, né tutti si lasciarono attrarre dai «benefici della pace romana». La pace romana, secondo Tacito, diventa deserto umano ed economico: Roma non può far altro che attingere ai patrimoni economici dei territori sottomessi ed imporre i propri modelli politici e sociali, per fronteggiare la forza maggiore e la sanità morale dei barbari che la circondano. Libertà e consenso di tutti, poveri e ricchi, assicurano all'impero una grande unità, come di un solo territorio continuo e di un solo popolo. L'impero romano alla morte di Augusto (14 d.C.). 2_Dal principato al dominato. Nel III sec., si ha il passaggio dal principato al dominato. Il dominato segna il graduale declino del potere senatorio all'ascensione dell'ordine equestre e del ceto militare. 2.1 Il graduale prevalere dell'elemento militare. Dominato è un termine moderno foggiato sulle parole dominus, dominatio, dominare. Il mutare delle strategie militari e dei metodi di reclutamento portà ad una provincializzazione delle legioni stanziate ai confini e ad una immissione in esse di elementi locali; l'esercito divenne un organismo senza più identità ed interessi d'ordine generale. Dal 193 furono sempre più i soldati ad imporre gli imperatori. L'ascesa al trono di Massimino il Trace, successore di Alessandro Severo, passò alla storia come il primo caso di un semplice soldato, non senatore, che diventa imperatore senza chiedere l'approvazione del senato. Il prevalere dell'elemento militare era già da tempo evidente. Questa è la naturale conseguenza della funzione che l'esercito aveva avuto nella conquista del potere già a partire dai disordini seguiti alla caduta di Nerone, quando generali rivali come Vitellio e Vespasiano erano stati acclamati dai loro eserciti e riconosciuti come imperatores prima che potessero ottenere dal senato e dal popolo il riconoscimento dei poteri costituzionali. Poiché il senato, solitamente inerme, si trovava nella necessità di riconoscere il candidato voluto da un gruppo di potenti legioni, avvenne sempre più frequente che gli eserciti si ritenessero competeni ad attribuire il diritto di assumere il titolo di imperator e quello connesso di Augustus. 2.2 Nuove forme di legittimazione del potere imperiale. Nel momento in cui si attribuisce al Sole una funione di governo del cosmo, ad immagine del sovrano terrestre, quest'ultimo diviene il protetto dell'astro maggiore, «dispensatore di vita, garante della perennità della creazione, compagno dell'imperatore». Con Aureliano si ebbe il secondo tentativo di introdurre il culto pubblico del Sole, posto al di sopra degli altri culti pagani; si giunse ad una aperta proclamazione del carattere divino dell'imperatore. 3_Lo sviluppo delle istituzioni in età imperiale: i poteri tradizionali. L'ambiguità istituzionale fece si che gli organi politici tradizionali permanessero. Il loro potere inevitabilmente andò scemando nel tempo. 3.1 Magistrati e assemblee. Il potere legislativo non rispecchiava più una sovranità del popolo: le leggi erano ispirate dall'imperatore, che le presentava direttamente ai comizi o poteva farle presentare dai magistrati. Ben presto i comizi si videro limitare il loro ruolo alla semplice conferma per acclamazione delle proposte. Lo stesso processo avvenne per le funzioni delle assemblee, che continuavano ad eleggere i magistrati, ma su proposta dell'imperatore. Egli poteva intervenire in due modi, attraverso la commendatio (la raccomandazione), che veniva utilizzata solo per i pretori, non per i consoli, e che era garanzia di sicura elezione, poiché il candidato era raccomandato dall'imperatore; oppure attraverso l'utilizzo della destinatio (la designazione). Si ha l'intervento di un organismo, formato da senatori e cavalieri, che è incaricato di scegliere i candidati da presentare ai comizi per l'elezione a console e a pretore, che, godendo dell'appoggio imperiale, sono certi vincitori. La procedura della destinatio durò per un breve periodo; la scelta passò al senato e all'imperatore: il ruolo dei comizi divenne di semplice ratifica. Anche le funzioni giudiziarie furono assunte dal senato e dall'imperatore. Nelle pubbliche cerimonie, l'imperatore si presentava con accanto i consoli, per testimoniare che questa magistratura conservava il suo ruolo al vertice dello stato. I consoli continuavano a convocare senato e comizi, ma non avevano più poteri politici. I pretori conservarono le loro funzioni giudiziarie. La questura fu privata delle sue funzioni finanziarie e divenneuna magistratura di fiancheggiamento dei consoli o dei governatori provinciali. L'edilità conservava il controllo dei mercati, ma perdette il compito dell'approvvigionamento alimentare e di polizia. Le funzioni di censore e di tribuno furono assunte dall'imperatore. 3.2 Senato e ordine senatorio. Il senato conservò certe sue prerogative. Tenuto sotto controllo dall'imperatore, che ne governava la composizione, lo presiedeva o lo faceva presiedere dai magistrati a lui legati. Dalla metà del I sec. fino all'età dei Severi, crebbero le sue competenze giudiziarie: giudicava questioni di interesse politico e tutte quelle cause in cui un suo membro era implicato o che l'imperatore trasferiva al suo giudizio. I membri dell'ordine senatorio (clarissimi) continuarono a ricoprire le posizioni più importanti nei sacerdozi, nell'amministrazione civile, nei tribunali, nell'esercito e a governare le province loro affidate, anche se le cariche si svuotarono di reale potere e il servizio allo stato divenne sempre più servizio all'imperatore. Il senato divenne un'assemblea rappresentativa dell'impero, acquisendo quel ruolo di rappresentanza «universale» che i comizi non erano stati in grado di assumere. 3.3 I cavalieri e le cariche equestri. I cavalieri divennero uno dei perni dell'amministrazione. La loro carriera si venne a definire negli incarichi civili e nelle funzioni militari, sul modello di quella senatoria, con la differenza che i cavalieri non rivestivano magistrature. Quelli particolarmente capaci furono impiegati nell'amministrazione finanziaria e del patrimonio imperiale (procuratores Augusti), nei grandi servizi pubblici e anche nel governo di province minori. I più abili tra coloro che erano entrati nel servizio statale potevano accedere alle cariche più importanti: le prefetture dei vigili, dell'annona, 5_L'organizzazione del territorio. Augusto intervenne a ridisegnare il sistema provinciale romano, operando al suo interno una frattura tra province senatorie e imperiali. 5.1 Il sistema provinciale. Da Augusto venne attribuita al senato l'amministrazione delle province completamente pacificate e in cui non era più necessario lasciare legioni di presidio. Qui vennero mandati governatori scelti tra ex magistrati, rimanevano in carica per uno o due anni, e potevano ricevere istruzioni direttamente dall'imperatore e a lui si potevano rivolgere per i problemi amministrativi; al loro fianco, vi erano altri magistrati con competenze finanziarie, legati e quaestores. Augusto riservò a sé il governo delle province in cui erano stanziate legioni, in virtù del suo imperium proconsolare che gli conferiva il comando degli eserciti. In esse inviò propri legati, senatori di rango consolare o pretorio, assistiti da procuratori, che si occupavano dell'amministrazione finanziaria, dal momento che i provinciali dovevano pagare due imposte, una uguale per tutti, il tributum capitis, l'altra era dovuta in maniera diversa dai possessori di terre, il tributum soli. Le province venivano amministrate in forma monocratica dai governatori, che riunivano nelle loro mani i poteri militari, giudiziari, amministrativi, salvo che l'ultima parola spettava all'imperatore. I territori dell'impero vennero inseriti in un sistema di uomini e di comunità che era classificato sulla base di gerarchie. L'eccezione fu l'Egitto: Ottaviano pose il territorio sotto le sue dipendenze, amministrato da un prefetto di rango equestre. I senatori non vi potevano andare senza autorizzazione. 5.2 La latinizzazione. L'inclusione di un territorio nel quadro romano non avveniva in una volta sola, ma rappresentava una fase dinamica e continua. Il latino è la lingua del potere, chiamata a radunare a colloquio i linguaggi diversi e barbari di tanti popoli. I linguaggi dell'impero erano tanti, e per molti il confronto con la lingua di Roma risultò fatale. La lingua era uno strumento di comunicazione che in sé aveva infinite potenzialità di unificazioni culturali. I Galli si latinizzarono mentre i Britanni restarono fedeli alla loro lingua senza conseguenze. Molto spesso il bilinguismo non bastò e l'intreccio delle lingue seguì l'intreccio dei popoli e delle loro storie. 5.3 L'Italia. L'Italia ritrovò rapidamente la prosperità, poiché le conquiste augstee aprirono mercati nuovi ove esportare vino ed olio, ceramiche, vasellame e bronzi. I capitali abbondavano, frutto dei bottini in Oriente e delle rendite delle grandi proprietà terriere. Durante l'età imperiale, la situazione dell'Italia fu caratterizzata dall'esenzione dalle tasse e dall'autonomia delle comunità locali. Fin dal 167 a.C., gli abitanti dell'Italia ernao stati esentati dal tributum, una tassa diretta sulle persone e sul patrimonio. Grazie all'unificazione della struttura politica determinata dagli esiti della guerra sociale del 90 a.C., l'Italia era divenuta una realtà omogenea: le guerre avevano mescolato le genti, le lingue locali (l'osco, l'umbro, l'etrusco, il greco) erano sparite e il latino si era imposto come lingua ufficiale. L'unificazione fu favorita dal ripristino delle strade. L'Italia non era una provincia, la divisione in undici regioni, che Augusto attuò per svolgere meglio certe attività, non comportò la creazione di nuove unità amministrative. Le città conservarono le loro antiche magistrature, anche se l'imperatore e il senato potevano intervenire nelle questioni interne, e difesero la quasi totale autonomia. Alcune competenze passarono a funzionari imperiali, mentre la giurisdizione penale passò a funzionari dell'urbs, il prefetto della città e il prefetto del pretorio. Dall'inizio del II sec. d.C., il cattivo stato delle finanze cittadine determinò la creazione dei curatores rei publicae, che ebbero il compito di intervenire nella gestione finanziaria, nell'amministrazione dei beni pubblici. Erano un intervento eccezionale, imposto da una crisi locale e limitato nel tempo. Adriano divise l'Italia in cinque distretti giudiziari, a cui capo mise dei consolari, che divennero iuridici di rango pretorio, incaricati di rendere giustizia e autorizzati ad inserirsi negli affari interni delle città. La situazione dell'Italia è ormai vicina a quella delle province. 6_Il mondo delle città e le loro condizioni giuridiche. La città dell'epoca imperiale era uno snodo obbligato tra il potere centrale e gli abitanti dell'impero e rappresentava il quadro di vita cui la cultura antica faceva riferimento. 6.1 Le città e l'impero. Per il suo ruolo di mediazione tra il vertice e le realtà locali, la città doveva essere stabile e garantire quello che il govern imperiale richiedeva, doveva mantenere quella armonia sociale che permetteva di controllare un immenso impero con mezzi amministrativi e militari. Le élite locali, superate le resistenze iniziali, furono indotte a valutare i vantaggi dell'ingresso nel sistema romano e furono portate all'adesione premiata dall'ingresso nella cittadinanza romana e dall'integrazione nel ceto dirigente. In questo modo l'impero riuscì a foggiarsi come insieme di comunità con forme amministrative abbastanza omogenee, con i loro consigli, le loro magistrature, le loro istituzioni, la propria religione e il proprio diritto che regolamentava la vita pubblica. La città divenne sempre di meno la sede della partecipazione alla gestione degli affari comuni, dal momento che la direzione politica e militare era avocata a Roma: restò luogo della decisione politica solo ai livelli locali. È possibile parlate di limitata libertà locale grazie alle tracce intraviste nei decreti dei decurioni che provvedevano a tutelare i culti cittadini, a fissare gli accordi di buon vicinato o a gestire le litigiosità intercittadine ma a difendere di fronte all'imperatre i privilegi cittadini. L'urbanizzazione modellò con moduli costruttivi unitari tutte le città, in una sorta di trasposizione dell'urbs lontana, in modo che tutte avevano un tempio capitolino, un foro, un teatro, e che riproponevano un'identità unitaria del vivere cittadino; erano città costruite e abbellite secondo il modello romano. L'incremento del numero delle città fu spettacolare durante i primi tre secoli dell'impero. Dove le strutture urbane mancavano o erano deboli e inadeguate, lo stato romano svolse un'operazione di urbanizzazione intensa, creando centri nuovi o rifondando quelli esistenti. A parte alcune metropoli, Roma, Cartagine, Alessandria, Antiochia, le città avevano una popolazione scarsa, di un migliaio di persone, anche perchè i mezzi di sussistenza erano più limitati che nelle campagne. 6.2 Le città peregrine. Le città peregrine rappresentavano la gran parte delle comunità cittadine nelle province; i loro cittadini erano, rispetto a Roma, stranieri, in quanto non avevano la cittadinanza romana, ma vivevano secondo i loro propri diritti. Si possono distinguere diversi tipi di città peregrine: liberae, liberae et immunes, liberae et foederatae, stipendiariae. Le citta liberae avevano una condizione non garantita da un trattato, ma da un atto di concessione unilaterale di Roma. Si riconosceva un rapporto particolare a città di territori non annessi ma soggetti a controllo. Dopo Augusto, non fu più concessa libertà alle nuove città e i privilegi vennero ridotti. Se le città libere avevano tra i loro privilegi l'essere esentate dal pagare tasse, erano dette immunes. Le citta liberae et foederatae avevano assicurata questa loro condizione da un foedus, un trattato, in cui erano fissati i loro diritti. Il trattato veniva a perpetuare una condizione preesistente di città alleata, garantendo il più alto grado di autonomia amministrativa alla città. Le stipendiariae erano in gran parte città soggette a tributo, che dipendevano dall'autorità del governatore della provincia ed erano obbligate al rispetto della legge provinciale, limitando la loro autonomia. Anche queste città godevano di una loro autonomia di fatto, poiché Roma concedeva che continuassero a vivere con le loro istituzioni, il proprio diritto, che riscuotessero imposte. Il sistema dell'evergetismo era complesso e tutt'altro che disinteressanto, in quanto mirava a raccogliere i suoi frutti sul piano politico. Si dà al popolo perchè il popolo è il corpo politico che vota, che sostiene i propri patroni in ogni circostanza, che conferisce magistrature municipali, premiando i concittadini più generosi. Ricchezza e ambizione politica dei singoli diventano generosità municipale. Le città cercavano di mettersi sotto la protezione di un patrono, che poteva essere il governatore della provincia, un legato di legione, un funzionario imperiale, un personaggio ricco ed influente della città che era giunto al culmine delle magistrature o che aveva fatto carriera lontano dalla sua terra di origine. Eletto dai decurioni, il patrono doveva garantire interventi politici ed amministrativi a favore della città ed intervenire con sostanziosi contributi finanziari. In cambio, ricavava prestigio e onori; la carica era ereditaria. Man mano che le élite cittadine si fecero più ristrette e chiuse, e più cresceva il divario tra i molti poveri e i pochi ricchi nelle città, l'evergetismo municipale si attenuò e divenne più richiesto l'intervento dell'imperatore, che spesso era sollecitato dalle amministrazioni cittadine a concedere condoni fiscali, a sovvenzionare l'edilizia pubblica, a fare elargizioni annonarie alle singole città. 7_La struttura dell'esercito. Nell'organizzazione dell'esercito vennero apportati profondi cambiamenti col duplice scopo di avere un'armata permanente che garantisse la sicurezza dei confini e che fosse sostegno al potere imperiale. 7.1 Le innovazioni augustee. Dopo Azio, Ottaviano si era ritrovato alla testa di più di sessanta legioni, poiché si erano unite alle sue gran parte delle truppe che avevano combattuto con Antonio. Fu necessario affrontare un difficile problema di smobilitazione, dal momento che tanti eserciti erano inutili e pericolosi. Per dare una sistemazione definitiva ai soldati congedati, vennero fondate nuove colonie in tutte le principali regioni dell'impero. Il principio che ogni cittadino era chiamato al servizio obbligatorio non fu abolito. Ma nella pratica solo due volte, in circostanze eccezionali, vennero fatte delle leve. Normalmente tutti i soldati erano volontari, destinati a militare per un lungo periodo, e sempre più professionisti: ad essi era proibito il matrimonio, finchè fossero in servizio. Il nucleo dell'armata imperiale era costituito dalle venticinque legioni di fanti, reclutate esclusivamente tra i cittadini romani. Ad esse si affiancavano i corpi ausiliari, quasi tutti reclutati tra i peregrini. La novità fu rappresentata dai corpi speciali: le nove coorti pretoriane incaricate di vigilare sulla sicurezza dell'imperatore; le tre coorti urbane e le sette coorti dei vigili, che avevano il compito di mantenere la sicurezza a Roma. Tra i vari corpi c'erano differenze di dignità e di importanza, che si rispecchiavano nel soldo e nella durata del servizio. Solo le coorti pretoriane, urbane e dei vigili potevano entrare a Roma, mentre le truppe legionarie vivevano nelle province, negli accampamenti, come se fossero sempre in campagna militare. Il sistema di protezione alle frontiere concepito da Augusto e rafforzato da Adriano era fondato sulla creazione di accampamenti permanenti alle frontiere stesse o nelle loro immediate vicinanze. 7.2 Le riforme del III secolo. Fino al regno di Marco Aurelio, questo sitema fu in grado di assicurare la pace alle frontiere. Settimio Severo, abile soldato, operò una serie di riforme che toccarono l'organizzazone dell'esercito, la strategia alle frontiere e la vita dei soldati. La prima misura fu lo stanziamento per la prima volta in Italia di una nuova legione: la II Partica, costituita da provinciali traci, illirici, orientali. Fu posta alle porte di Roma, col fine non solo di proteggere la penisola, ma di creare una riserva di uomini e una forza mobile in gradi di intervenire in sostegno agli eserciti delle frontiere. Il reclutamento degli ufficiali si aprì sempre di più ai provinciali e i centurioni delle legioni poterono accedere ai comandi di rango equestre, godendo di un grande avanzamento sul piano del presigio sociale. Settimio Severo prese una serie di provvedimenti al fine di evitare di dovere indebolire un settore a scapito di un altro, in caso di gravi attacchi, così come finora era avvenuto. In Africa, sul Reno e sul Danubio furono rafforzate le fortificazioni, con la costruzione di nuovi castella. Venne favorita la costituzione di un nuovo tipo di soldati lavoratori, i castellani, che avevano in assegnazione terre e pascoli da sfruttare nella stessa zona in cui erano stanziati. La condizione dei soldati migliorò profondamente: furono aumentati gli stipendi, che erano fermi dall'età dei Flavi; venne concesso ai soldati di contrarre matrimoni legali e di vivere con le mogli e i figli nelle canabae, i quartieri civili che sorgevano accanto agli accampamenti militari; fu assicurata la carriera ai soldati più valorosi, che potevano diventare centurioni o pretoriani a Roma; ai veterani fu concessa l'esenzione dei munera, gli obblighi finanziari verso le loro città. L'esercito fu un grande fattore di romanizzazione per le regioni di confine in cui era stanziato: coloro che, non romani, venivano reclutati nelle truppe ausiliarie rapidamente erano forgiati alla lingua e al costume romano. 4_L'età tardoantica. A partire da Diocleziano e da Costantino venne disegnato un nuovo sistema politico-istituzionale. L'unica autorità diventò quella dell'imperatore; il popolo non ebbe più un ruolo istituzionale, i magistrati ed il senato si ridussero ad ombre. 1_L'aspetto politico: ideologia e realtà. 1.1 L'ideologia dioclezianea. Dopo cinquant'anni di crisi, l'impero si avviò di nuovo ad una rinascita grazie all'azione di Diocleziano, che intervenne sia sulla struttura amministrativa dell'impero sia sul sistema fiscale. Egli non portò come Aureliano il titolo di dominus né tantomento quello di dominus et deus, a Diocleziano bastava l'ideologia iovia per esprimere la sua sovranità (il potere è trasmesso da Giove). Né il senato né l'esrcito sono all'origine del potere imperiale. Ogni sovranità viene da Giove attraverso la mediazione di Diocleziano. Il fondamento divino del potere è ormai proclamato apertamente nei panegirici, nelle teorie politiche e filosofiche, confondendosi spesso con l'idea della divinità dell'imperatore, e non solo a livello di concezioni popolari. L'imperatore vive lontano dagli occhi comuni, all'interno del suo sacro palazzo, dove regna il silenzio; l'omaggio assume la forma dell'adoratio, l'inginocchiarsi a baciare l'orlo della vesta. La rossa clamide, il costume militare del trionfatore, fu sostituita da un mantello di porpora intessuto d'oro e di pietre preziose, che diventò l'insegna più visibile dell'autorità monarchica. Il cerimoniale di corte segnava la distanza incommensurabile fra l'imperatore e l'ordinaria umanità. 1.2 Impero cristiano e assolutismo. L'opera di Diocleziano e quella di Costantino rappresentano storicamente tappe progressive dell'affermazione della monarchia assoluta. L'indirizzo assolutistico dell'impero si coglie nella tendenza alla centralizzazione che ispira la maggior parte dei provvedimenti diocleziani, i quali miravano a creare una rigida gerarchia di funzioni, ad introdurre un'uniformità di amministrazione che rendesse più facile la direzione da parte del potere centrale, a sfruttare tutte le attività economiche dell'impero a vantaggio della finanza imperiale. Il programma imperiale di Costantino riprendeva e sviluppava quello assolutistico di Diocleziano. Le sue riforme tesero a rafforzare il potere centrale e ad accrescere il prestigio dell'imperatore con l'aumento del fasto della corte. Creò una netta separazione tra le funzioni civili e quelle militari, trasferì la sede imperiale a Costantinopoli: nel 324 vennero iniziati i lavori di trasformazione della città greca di Bisanzio. Era maggiormente difendibile per terra e per mare, rispetto a Roma, e permetteva di controllare le due zone minacciate dai Goti e dai Persiani. La novità costantiniana è rappresentata dalla conversione e dalla concessione di piena libertà di culti ai cristiani. L'imperatore cristiano rappresenta Dio sulla terra; e come esiste un solo Dio che domina il mondo, così deve esistere un solo imperatore che per mandato divino comanda sulla terra. Il monoteismo è il fondamento teologico della monarchia di Costantino; la sua missione è quella di riunire tutti i popoli in un regno della pace. L'universalismo dell'impero, diviene il segno del suo carattere divino e l'immagine di un potere imperiale esemplato su quello di Cristo è destinata ad avere un lungo futuro. 1.3 Trasformazioni e permanenze. Una trentina d'anni dopo la morte di Costantino, l'impero era diviso in due parti, l'Oriente e l'Occidente. Il mondo romano tardo, tra IV e VII sec., si trova in una situazione contraddittoria: Da lui dipendevano i cubiculari, donne o eunuchi (i domestici privati dell'imperatore, castrati), guidati da un primicerius. Gli altri servizi del palazzo erano affidati a ministeriades e castrenses, necessariamente eunuchi: il capo del guardaroba, il responsabile del vettovagliamento e dei vini. L'ordine nel palazzo era mantenuto da trenta silentiarii, comandati da tre decurioni, tutti sotto il controllo del castrensis Sacri Palatii, che era una sorta di «ministro del ventre» che sovraintendeva alla tavola e governava i paggi. La guardia del corpo imperiale era costituita dalle scholae palatinae, di 500 uomini l'una che dipendevano dal magister officiorum e garantivano la sicurezza dell'imperatore. 2.3 Gli uffici palatini. L'amministrazione centrale fu profondamente riorganizza da Costantino: la prefettura del pretorio è trasformata in amministrazione provinciale, gli ufficili palatini sono ristrutturati e ridotti. Alla testa dei grandi servizi sono quattro «ministri». Il quaestor sacri palatii ha ai suoi ordini la cancelleria, partecipa alla redazione degli atti ufficiali e legislativi e sovraintende all'archivio centrale. I questori, uomini di cultura scelti preferibilmente tra i giuristi, essendo a stretto contatto con l'imperatore, di cui sono il portavoce, parlano a suo nome e scrivono i suoi atti, godono di altissima influenza. In Oriente hanno l'incarico della tenuta del registro degli ufficiali dei corpi di frontiera, dei prefetti d'ala e, dal 440, furono giudici d'appello, col prefetto del pretorio d'Oriente. Il magister officiorum è una sorta di ministro degli interni. È il vero capo della cancelleria, dirige tutti gli uffici e il personale di corte; si occupa di politica estera e riceve gli ambasciatori. Da lui dipendono gli agentes in rebus ossia gli incaricati d'affari. Erano dei portatori di ordini ufficiali, facevano inchieste nelle province, si interessavano di tutto e compivano funzioni di polizia. Una delle attività più rilevanti era rappresentata dalla sorveglianza della posta pubblica, ossia il servizio di cavalli, carri, stazioni di riposo che funzionari o altri beneficiari potevano utilizzare dietro autorizzazione. Erano aiutati da curiosi da arcani, dislocati nelle amministrazioni dei governatori delle province. La fama degli agentes in rebus era pessima: accusati di arresti, torture, giudizi sommari. I due comites di competenza finanziaria sono il comes rei private, che era responsabile delle confische, della gestione del fisco e che amministrava i beni privati del sovrano, riscuoteva il canone delle terre imperiali affittate; e il comes sacrarum largitionum, che era il responsabile del tesoro imperiale che doveva accrescere con le attività delle miniere e delle fabbriche statali. Tutti questi «ministri» avevano a loro disposizione numerosi uffici e dipendenti che erano a capo di uffici e personale dislocati nel territorio dell'imperio. 2.4 Gli scrinia. Esistevano dei grandi uffici, posti sotto l'autorità del magister officiorum e che presero il nome di scrinia: lo scrinium memoriae, che gestiva i rescritti imperiali, le risposte e le osservazioni degli imperatori; lo scrinium libellorum, che si occupava delle suppliche rivolte all'imperatore; lo scrinium epistolarum, che curava la corrispondenza con le amministrazioni provinciali; lo scrinium epistolarum graecarum, in Oriente, per la corrispondenza il lingua greca. I loro capi erano reclutati tra i retori o gli avvocati e avevano ai loro ordini impiegati subordinati e segretari. L'imperatore chiama chi vuole al suo consiglio, secondo le necessità del momento, per averne pareri o informazioni, ma, normalmente, di esso fanno parte di diritto i quattro ministri palatini, i notai che svolgono la funzione di segretari e i comites consistorii, quei «compagni» dell'imperatore che fungono da consiglieri permanenti. 3_I poteri locali. 3.1 Le prefetture e le diocesi. Probabilmente risale a Costantino la divisione dell'impero in prefetture, a loro volta suddivise in diocesi e le diocesi in un numero di province variabili. Nasce una nuova carta amministrativa dell'impero romano, il Laterculus veronensis, che registra i nomi delle province e delle diocesi. Al vertice, dopo l'imperatore, vi erano i prefetti; sotto di loro, a capo delle diocesi, i vicari; alla base, vi erano i governatori delle province. Una delle prime conseguenze della riforma fu il mutamento nella posizione e nella funzione del prefetto del pretorio. Ancora con Diocleziano, egli è al fianco dell'imperatore e con lui si muove, comanda le trutte di Roma e dell'Italia, nonché le dieci coorti pretorie, in genere ferme a Roma. Le funzioni furono profondamente riformate da Costantino che sciolse le coorti e regionalizzò la carica, creando nuove prefetture che si accompagnavano a quelli «ministeriali». Tradizionalmente la sede dei prefetti era stata Roma ed essi avevano esercitato in modo collegiale le loro funzioni; ora risiedevano nelle città imperiali. Privi di ogni potere militare, questi prefetti, di rango senatorio, erano la più alta autorità di governo nel proprio territorio. Sono i responsabili dell'ordine e dell'amministrazione locale, trasmettono disposizioni ai vicari delle diocesi, ai governatori delle province, controllano i giochi, i mercati, le costruzioni pubbliche e gestiscono l'annona civile e militare, incassano le imposte in natura e distribuiscono, come stipendio, le razioni; sono giudici d'appello rispetto ai tribunali territoriali e sono i destinatari di numerosi rescritti imperiali su questioni di diritto privato, penale e civile. Sono funzionari che operano per delega imperiale, anche se il loro ruolo, proprio in forza dei poteri imperiali che gestiscono vice sacra (=al posto dell'imperatore), conferisce loro grande prestigio. Il vicario delle diocesi, di rango equestre, fiancheggiato da due tesorieri, ha gli stessi poteri che il prefetto ha nella sua ripartizione. Il vicario aveva il suo officium, ampio al pari di quello del prefetto del pretorio. L'Italia era amministrata da due vicari, uno per l'Italia settentrionale e uno per la Suburbicaria, l'Italia meridionale. 3.2 Il governo delle province. I governatori delle province presentano una grande varietà di titoli: praesides, di rango equestre; correctores, di rango equestre o senatorio; iudices, in Occidente; byparchoi in Oriente. Eliminata la distinzione tra province senatoriali ed imperiali, tutte erano sotto il controllo dell'imperatore, che lo esercitava attraverso i prefetti e i vicari, ma anche attraverso comites inviati appositamente. I poteri dei governatori erano solo civili, con compiti di polizia, finanziari, giudiziari. Anche l'officium provinciale era numeroso. La corruzione dei governatori provinciali e dei loro dipendenti fu oggetto di ripetuti interventi legislativi. Il risultato fu il persistere dei comportamenti illeciti e le fonti continuarono a denunciare con forza ma inutilmente. 3.3 L'Italia e Roma. L'importante novità, sul piano amministrativo, fu la riduzione, operata da Diocleziano, dell'Italia a provincia, che portò alla perdita della centralità di Roma. Dopo l'editto di Caracalla non c'era più ragione che l'Italia e Roma avessero privilegi; non c'era più l'urbs che dominava su popoli soggetti, l'Italia non si identificava più con Roma. Il territorio non fu più immune da tributo, non fu più esente dal reclutamento militare, divenne sede stabile di eserciti. Roma e Costantinopoli sfuggivano però all'autorità del governatore delle province; avevano un prefetto della città, come rango si collocavano tra il vicariato e la prefettura del pretorio. Aveva competenza su un raggio di 100 miglia attorno alla città ed era responsabile del buon andamento della vita cittadina. 4_La nuova burocrazia. L'aumento del numero delle province e la separazione dei poteri militari da quelli civili, produssero un notevole aumento del personale dell'amministrazione locale e un appesantimento burocratico del governo. 4.1 I funzionari. Alla base della creazione della struttura amministrativa dell'impero vi erano il tentativo di una più razionale organizzazione dei servizi e l'esigenza di dare risposte più efficaci alle mille necessità dell'impero, in nome di una centralizzazione. Tutto questo si tradusse in un continuo accrescimento del personale amministrativo e nell'appesantimento della burocrazia, perchè ogni imperatore aumentò il numero degli addetti. La moltiplicazione delle province e la separazione dei poteri militari da quelli civili, produssero un notevole aumento del personale dell'amministrazione locale. Non era richiesta al personale una particolare competenza, perchè la mancanza di separazione tra le varie funzioni faceva si che i maggiori dignitari dovessero occuparsi di tutto e per periodi brevi. Servono in maniera permanente i notarii, un corpo di funzionari il cui ruolo fu di primaria importanza perchè la loro funzione di stenografi li metteva al corrente dei segreti dello stato. Uomini di scarsa cultura, venivano reclutati nel seno delle classi più umili. Il loro capo, il primicerius notariorum, col rango elevato di proconsole, teneva la lista completa dei funzionari, il laterculum maius. La qualità del personale lasciava a desiderare e gli imperatori se ne lamentavano nelle loro costituzioni, denunciando l'ignoranza, la mancanza di scrupoli dei giudici. 4.2 Il loro reclutamento. L'imperatore era responsabile di tutte le nomine, ma naturalmente egli non era in grado di selezionare i più meritevoli fra migliaia di aspiranti e si doveva affidare al giudizio dei funzionari della corte. Si sviluppò un sistema di raccomandazioni, di intrighi, di pressioni, in cui avevano la meglio quelli che erano più vicini all'imperatore e avevano più influenza su di lui. Era la pratica del suffragium, pratica ufficiale e costosa: chi chiedeva appoggi prometteva o dava già in anticipo ai suoi protettori terra o denari e vennero stabilite vere e proprie forme contrattuali. Il costo dell'acquisto dei posti crebbe costantemente, il basso livello degli stipendi spingeva i titolari della cariche a rifarsi delle spese sostenute, accettando mance, praticando estorsioni. I funzionari erano collocati in una rigida gerarchia, cui corrispondevano titoli onorifici: al limite più basso sono i perfectissimi (gli antichi cavalieri), i clarissimi (gli antichi appartenenti all'ordine senatorio), e gli spectabiles e gli illustres. Ciascun funzionario ha alle sue dipendenze un certo numero di subordinati che occupano anch'essi un grado nella gerarchia. 6_Chiesa e impero. Durante questo periodo il rapporto fra imperatori e Chiesa rappresentò un grave problema istituzionale poiché all'imperatore era attribuita la responsabilità di mantenere il favore divino verso l'impero. 6.1 Dalle persecuzioni alla conversione. Nell'editto dei tetrarchi del 295 si leggeva che gli dei immortali sarebbero ritornati favorevoli verso il nome romano, una volta che tutti coloro che vivevano sotto il potere degli imperatori conducessero una vita rispettosa della religione. Solo una redenzione collettiva poteva assicurare un ritorno della benevolenza e della protezione degli dei. Proprio la natura rigorosa dell'ideologia tetrarchica, sta alla base delle persecuzioni contro i manichei e i cristiani, precedute dall'epurazione dei cristiani dall'esercito. Con un quarto editto, nel 304, Diocleziano ordinò che tutta la popolazione dovesse compiere un sacrificio, pena la morte o altre punizioni; i cristiani preferirono la morte al rituale del culto imperiale, attribuendogli più importanza di quella che erano disposti a riconoscere i cittadini pagani. Nel 313, con Costantino, al paganesimo sarebbe subentrato il cristianesimo. Il clero ricevette il privilegio dell'esenzione dai munera e la chiesa potè acquisire eredità. Non era possibile distruggere di colpo le credenze e le istituzioni e a Giove, Ercole e al Sole sostituire il Dio unico dei cristiani. 6.2 Il rapporto tra imperatori e Chiesa. Nella cultura pagana, all'imperatore era attribuita la responsabilità di mantenere la pax deorum, ossia il favore divino verso l'impero. In seguito alla conversione costantiniana, il problema si trasportò in campo cristiano; l'imperatore fu investito del compito di garantire che la Chiesa offrisse a Dio il suo culto. Nel 314 Costantino convoca il concilio di Arles, per porre fino allo scisma donatista, e nel 325 quello di Nicea, per bloccare l'eresia ariana. La chiesa accettava che l'imperatore fosse arbitro nelle dispute ecclesiastiche e che mettesse in atto le decisioni dei concili. La Chiesa talvolta si oppose all'imperatore e protestò per ragioni religiose e morali: l'imperatore deve ubbidire alle regole morali della Chiesa in quanto cristiano. 7_Le istituzioni cittadine e la loro crisi. 7.1 La vita municipale. Le città possedevano un ordo, una sorta di piccolo senato, i cui membri erano chiamati curiali; essi, selezionati in base alla ricchezza e alle proprietà fondiarie, erano di numero variabile. Spettava alla curia designare i magistrati, scegliere il patrono, nominare o licenziare i medici, fare atti di evergetismo, erigere statue e controllare i cantieri. Al suo interno, esisteva il gruppo dei principales che aveva il compito di ripartire annualmente le imposte e i munera tra i cittadini. I più poveri erano chiamati a fornire dei munera sordida, normalmente erano giornate di lavoro. 7.2 I curiali. L'impero aveva sempre più bisogno di risorse per mantenere l'esercito, l'amministrazione e le cortiimperiali e voleva ricavarle dalle tasse, per cui venne impedito a qualsiasi lavoratore di abbandonare il proprio posto e venne previsto che i figli dovessero prendere il posto di lavoro dei padri. Le professioni divennero ereditarie. I curiali dovevano sobbarcarsi grandi spese per la vita della città ed erano obbligati a garantire la riscossione delle tasse nel loro territorio, con un grande rischio personale. Il carico fiscale era pesante. Le proprietà erano tassate per ogni persona in grado di lavorare e per ogni appezzamento sufficiente a mantenere una persona. L'imposta fondiaria era fissata nel suo ammontare globale, divisa tra le province, che la suddividevano tra le città, i villaggi, i grandi proprietari, e giungeva ai singoli contribuenti. Ciascuno di loro era valutato secondo il numero di unità fiscali che a lui facevano capo. L'imposta, pagata in natura, a meno che non fosse convertita in denaro attraverso il meccanismo della adaeratio, veniva raccolta nei vari magazzini dell'annona, per essere ridistribuita all'esercito, ai funzionari, alle grandi città. Se le terre, nonostante i divieti, erano state abbandonate dai contadini e non erano più produttive, l'imposta fissata dal governatore della provincia per la città era dovuta ugualmente e i curiali dovevano pagare la differenza. Per evitarlo, essi tartassavano i loro concittadini. I curiali, nonostante i divieti, cercavano di fuggire, abbandonando le città e rifugiandosi nei loro campi; oppure facendo ricorso a quei mezzi che permettevano di essere esentati dall'obbligo di essere curiali: arruolandosi nell'esercito o negli uffici pubblici, diventare preti o ricoprire alte cariche delle stato che erano esentate dai munera. Costantino II e poi Giuliano condussero una caccia ai figli dei curiali negli scrinia e a tale scopo lettere ed editti vennero inviati dagli imperatori ai prefetti. Gli interventi imperiali, sempre più minacciosi, erano tesi a fare restare nella città e nel ruolo di magistrati i notabili più ricchi.
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