Scarica Le Politiche sociali. Ferrera M. e più Dispense in PDF di Modelli di progettazione pedagogica e politiche educative solo su Docsity! LE POLITICHE SOCIALI Ferrera M. Sommario PREMESSA........................................................................................................................................................1 CAPITOLO 1: L’ANALISI DELLE POLITICHE SOCIALI DI WELFARE STATE.............................................................2 CAPITOLO 2: LA POLITICA PENSIONISTICA......................................................................................................34 CAPITOLO 3: LA POLITICA DEL LAVORO..........................................................................................................91 CAPITOLO 4: LA POLITICA SANITARIA...........................................................................................................143 CAPITOLO 5: LA POLITICA SOCIO ASSISTENZIALE..........................................................................................182 PREMESSA Questo volume è dedicato all’analisi delle politiche sociali italiane in prospettiva comparata e si propone quattro principali obiettivi. Il primo è quello di presentare alcuni fondamentali strumenti concettuali e analitici per lo studio delle politiche sociali e del welfare state. Il secondo è quello di ricostruire l’evoluzione e le dinamiche di funzionamento delle quattro principali politiche sociali: pensioni, lavoro, sanità e assistenza. Il terzo è quello di suggerire alcune chiavi teoriche e interpretative per spiegare i percorsi di sviluppo di queste quattro politiche, e più in generale del welfare state italiano, in raffronto ai percorsi seguiti da altri paesi europei. Il quarto, infine, è quello di fornire una base di dati e documentazione dalla quale partire per ulteriori approfondimenti di studio. Il manuale è stato pensato per lettori – in particolare studenti universitari – che si accostano per la prima volta al tema delle politiche sociali. Presuppone alcune conoscenze di base sul sistema politico italiano, la storia contemporanea, la metodologia delle scienze sociali. È adatto anche per corsi universitari del triennio. Il capitolo 1 introduce il tema delle politiche sociali e del welfare state, presentando concetti e tipologie e fornendo una sintetica panoramica storico-comparata di taglio generale. I capitoli successivi approfondiscono, nell’ordine, la politica pensionistica, la politica del lavoro, la politica sanitaria e la politica socioassistenziale. L’Italia è il contesto di riferimento per ciascuno di questi quattro capitoli, organizzati in base a una griglia comune – introduzione ai concetti fondamentali per lo studio della politica; evoluzione storica, in chiave comparata; crisi, sfide e tendenze di riforma in Europa; il percorso di riforma in Italia, con particolare attenzione agli ultimi tre decenni; l’agenda per il futuro – e corredati di figure, tabelle, quadri di approfondimento e suggerimenti per ulteriori letture. A completamento del volume il lettore troverà sia i riferimenti bibliografici sia un glossario con i termini più utilizzati e un’appendice sulle fonti statistico- documentarie disponibili per la ricerca empirica. CAPITOLO 1: L’ANALISI DELLE POLITICHE SOCIALI DI WELFARE STATE Che cosa sono le politiche sociali? E che cosa si intende, esattamente, con l’espressione «welfare state», ormai divenuta di uso comune nei dibattiti politici ed economici? Il primo obiettivo di questo capitolo è rispondere a tali domande, fornendo alcune chiarificazioni concettuali di base capaci di caratterizzare l’oggetto di analisi dell’intero volume. Il secondo obiettivo è quello di offrire una sintetica panoramica storico-comparativa del welfare state, dagli albori ottocenteschi alle attuali fasi di crisi e riforma. Questa panoramica potrà fungere da sfondo comune e generale dei capitoli successivi, dedicati a singole politiche. Il terzo obiettivo è di natura più analitica: si cercherà di caratterizzare il welfare state come «costruzione sociopolitica», individuandone la logica di funzionamento. Tale caratterizzazione consentirà di comprendere sia i fattori che hanno alimentato nei decenni passati l’espansione delle politiche sociali sia i fattori che rendono oggi così difficoltosi i processi di riforma. Il quarto obiettivo è infine quello di presentare i principali «modelli» di welfare state discussi dal dibattito comparato, con qualche cenno ai tratti distintivi del modello italiano, sul quale si concentreranno i successivi capitoli del libro. 1. CONCETTI FONDAMENTALI: Secondo una nota definizione, l’analisi delle politiche pubbliche è lo studio di come, perché e con quali effetti i diversi sistemi politici (e in particolare i loro governi) perseguono certi corsi di azione per risolvere problemi di rilevanza 12collettiva1. L’analisi delle politiche sociali è allora lo studio di un sottoinsieme di corsi di azione, volti a risolvere problemi e a raggiungere obiettivi di natura «sociale»: problemi e obiettivi che hanno a che fare, in senso lato, con il benessere (welfare) dei cittadini2. L’etimologia della parola «ben-essere» ci consente di aggiungere alcune precisazioni. I problemi e gli obiettivi che caratterizzano le politiche sociali riguardano le condizioni di vita degli individui, le risorse e le opportunità a loro disposizione nelle varie fasi della loro esistenza (o «ciclo di vita»). In primo luogo, dunque, le politiche sociali sono corsi di azione volti a definire le norme, gli standard e le regole in merito alla distribuzione di alcune risorse e opportunità considerate particolarmente rilevanti per le condizioni di vita e dunque meritevoli di essere in qualche modo «garantite» dall’autorità dello stato. Nelle contemporanee democrazie queste norme, standard e regole sono incorporate nella nozione di cittadinanza sociale [Marshall 1950]. Essere cittadino vuol dire infatti godere non solo di diritti civili e politici, ma anche di specifici diritti sociali, che tipicamente si configurano come diritti-spettanze: questi diritti danno titolo a ottenere risorse (ad es., una pensione) e/o fruire di opportunità (ad es., l’accesso a un servizio) che sorreggono le condizioni di vita. La cittadinanza sociale contribuisce così alla concreta realizzazione dei grandi ideali normativi della tradizione occidentale moderna: libertà, uguaglianza, solidarietà, sicurezza [Flora e Heidenheimer 1981]. In secondo luogo, le politiche sociali sono corsi di azione volti a organizzare concretamente la produzione e la distribuzione di queste risorse e opportunità: ad esempio attraverso gli schemi previdenziali, i servizi sanitari o quelli per l’impiego. Gli apparati preposti all’erogazione delle prestazioni sociali occupano un posto di primo piano all’interno dei contemporanei sistemi amministrativi. Sanità e assistenza sono due comparti importantissimi non solo per i servizi erogati ai cittadini, ma anche per il numero di dipendenti pubblici coinvolti nel processo di erogazione. Gli enti pubblici e i funzionari statali non sono naturalmente gli unici attori delle politiche sociali. Come tutte le politiche pubbliche, anche le politiche sociali sono corsi di azione nei quali si incontrano e interagiscono una pluralità di attori pubblici e non pubblici. Lo stato può inoltre incidere sulla distribuzione di risorse e opportunità e dunque sulle condizioni di vita dei cittadini Le politiche sociali più importanti sono: le politiche pensionistiche, le politiche sanitarie, le politiche del lavoro e le politiche di assistenza sociale3. Esse rispondono a rischi e bisogni diversi. Le politiche pensionistiche riguardano essenzialmente il rischio della vecchiaia, e in particolare la perdita di capacità lavorativa, e dunque di sicurezza economica, che caratterizza l’età anziana. Oltre alla vecchiaia, le politiche pensionistiche coprono anche il rischio di invalidità e il rischio di morte in presenza di familiari «superstiti». Le politiche sanitarie riguardano il rischio di malattia e in particolare i bisogni sanitari a esso connessi. Le politiche del lavoro rispondono essenzialmente al rischio di restare disoccupati. Esse mirano però anche a regolare il mercato del lavoro e a promuovere l’incontro fra domanda e offerta, in modo da prevenire per quanto possibile l’emergenza della disoccupazione e da sostenere l’inserimento o il reinserimento delle persone senza (o in cerca di) occupazione all’interno del mercato del lavoro, attraverso servizi per l’impiego e politiche di formazione. Le politiche di assistenza e dei servizi sociali hanno per oggetto un ventaglio più sfumato di rischi e bisogni: perdita dell’autosufficienza personale, povertà economica, difficoltà di accesso all’abitazione e così via. All’interno di questo comparto vi sono anche le prestazioni e i servizi per le famiglie e i minori: assegni familiari, congedi parentali e indennità, servizi di conciliazione vita- lavoro e altro ancora. Utilizzando un concetto che ormai occupa un posto di primo piano nel dibattito politico e accademico, possiamo dire che queste politiche sono volte a garantire, o quanto meno a promuovere, l’«inclusione sociale», ossia l’ancoramento di individui e famiglie al tessuto sociale che li circonda, assicurando loro risorse e opportunità. Come mostra la figura 1.3, all’interno della spesa sociale le politiche pensionistiche (rischi o «funzioni» vecchiaia, superstiti e invalidità) sono quelle di gran lunga più consistenti sotto il profilo quantitativo; seguono le politiche sanitarie, quelle per il lavoro (rischio disoccupazione) e infine 16quelle di assistenza (famiglia, abitazione ed esclusione sociale). In termini di contabilità economica, la spesa sociale è utilizzata per erogare trasferimenti (prestazioni monetarie), finanziare i consumi pubblici sociali (le retribuzioni dei dipendenti che lavorano nella sanità, nelle residenze assistenziali, nei centri per l’impiego e così via) e per l’investimento in infrastrutture. FIG. 1.3. Spesa sociale per settore nell’UE-28 in % della spesa sociale totale, 2016. Nelle democrazie contemporanee, le politiche sociali costituiscono un sistema relativamente integrato di politiche pubbliche: hanno caratteristiche comuni, sono spesso collegate fra loro sul piano organizzativo e finanziario, sono percepite dai cittadini come facenti parte di un insieme più o meno coerente di corsi di azione volti a garantire loro protezione sociale, a tutelare e promuovere il loro benessere, per il tramite di diritti-spettanze e di interventi diretti dello stato. Come mostra la figura 1.1, la consistenza finanziaria delle misure di protezione sociale è assai elevata: la spesa per queste misure è la voce di gran lunga più rilevante del bilancio pubblico nazionale in tutti i paesi OCSE. Nel dibattito politico e accademico, l’insieme delle politiche sociali è spesso denotato con l’espressione di stato del benessere o welfare state. Nel dibattito italiano più recente è molto utilizzata anche l’espressione di stato sociale. Data la centralità di questo concetto per l’analisi delle politiche sociali, è senz’altro utile approfondire il suo significato. Il quadro 1.1 propone una definizione precisa del concetto di welfare state, basata su tre elementi connotativi. Il welfare state è innanzitutto, come si è detto, un insieme di politiche pubbliche, ossia di corsi di azione che poggiano sull’autorità dello stato. Questo insieme va collocato sullo sfondo di un processo di trasformazioni economiche, sociali e politico-istituzionali che le scienze sociali hanno definito «processo di modernizzazione». Tale processo ha interessato, in tempi e con ritmi variabili, le società europee a partire dal XIX secolo, trasformando la loro struttura produttiva e occupazionale (industrializzazione), 17i loro modelli di organizzazione sociale (urbanizzazione, passaggio dalla famiglia estesa alla famiglia «nucleare», alfabetizzazione tramite la scuola di massa, miglioramento del tenore di vita), i loro sistemi politici e amministrativi (democratizzazione, burocratizzazione e così via). In buona misura, il welfare state è nato proprio come risposta alla nuova configurazione di rischi e bisogni originata dalle dinamiche di modernizzazione e si trova oggi ad affrontare i cambiamenti della tradizionale configurazione in seno alle cosiddette «società neomoderne e postindustriali». Il riferimento a queste dinamiche nella definizione del quadro 1.1 è volto proprio a esplicitare questo nesso, conferendo al concetto di «welfare state» una profondità storica e un carattere dinamico: la modernizzazione è una sindrome evolutiva, è un macroprocesso di sviluppo, o meglio di sviluppi interdipendenti, a tutt’oggi chiaramente riconoscibili e operanti, i quali sfidano le distribuzioni di volta in volta esistenti di risorse e opportunità fra i cittadini e dunque generano una domanda di (nuove) politiche sociali. Il secondo elemento connotativo della definizione precisa la natura sociale delle politiche del welfare state: tramite queste politiche lo stato fornisce protezione contro rischi e bisogni (nel senso chiarito più sopra), secondo tre modalità idealtipiche che vanno sotto il nome di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale. Come vedremo, queste modalità corrispondono a tre diversi tipi di corsi di azione in campo sociale, caratterizzati da norme e logiche proprie per quanto riguarda l’accesso alla protezione pubblica, la natura delle prestazioni e le fonti di finanziamento. Il terzo elemento connotativo focalizza infine l’attenzione su un elemento istituzionale particolarmente importante che caratterizza le politiche del welfare state: i diritti sociali (e i corrispettivi doveri di contribuzione finanziaria). Come si è detto più sopra, le politiche sociali definiscono e distribuiscono risorse e opportunità fra i cittadini essenzialmente e tipicamente attraverso il conferimento di spettanze, ossia titoli a ottenere prestazioni secondo norme, standard e procedure disciplinate dalla legge e garantite dall’autorità dello stato. L’introduzione dei diritti sociali è stata un’innovazione di vasta portata nell’evoluzione dello stato moderno. Infatti non si è trattato soltanto di una estensione funzionale (lo stato ha assunto nuovi compiti), ma per molti aspetti di una trasformazione della natura e della logica di funzionamento dello stato: pensiamo alla salienza nel tempo acquisita da questi diritti per la performance 18dell’economia, per il sistema di stratificazione sociale e soprattutto per le dinamiche di legittimazione e consenso politico. Come ha osservato Flora: Quadro 1.1. Cos’è il welfare state: una definizione Lo sviluppo del welfare state […] ha implicato una trasformazione fondamentale dello stato stesso, della sua struttura, delle sue funzioni e della sua legittimità. In una tradizione weberiana, la crescita del welfare state può essere intesa come graduale apparizione di un nuovo sistema di potere composto di «élites distributrici», «burocrazie di servizio» e «clientele sociali». Con la trasformazione dello stato cambiano anche le basi della sua legittimità e le sue funzioni. Gli obiettivi della solidità e sicurezza verso l’esterno, libertà economica all’interno e uguaglianza rispetto alla legge sono progressivamente sostituiti da una nuova ragion d’essere: l’erogazione garantita di servizi sociali e trasferimenti in denaro secondo criteri standardizzati e procedure routinizzate, non limitate all’assistenza di emergenza [Flora e Heidenheimer 1981; trad. it. 1983, 34-35]. 2. ASSISTENZA, ASSICURAZIONE E SICUREZZA SOCIALE La letteratura storico-comparata sulle politiche sociali ha individuato sin dagli anni Cinquanta tre diversi «modelli» o modalità tipiche di intervento pubblico a fini di protezione sociale4. Nella definizione proposta nel quadro 1.1 queste tre modalità sono identificate con termini o espressioni quali «assistenza», «assicurazione» e «sicurezza sociale». 1. L’assistenza (pubblica o sociale) comprende tutti quegli interventi a carattere condizionale e spesso discrezionale, volti a rispondere in modo mirato (targeted) a specifici bisogni individuali o a categorie circoscritte di bisognosi. È con questo tipo di interventi che lo stato moderno fece la sua apparizione nella sfera sociale, già a partire dal XVII secolo: all’inizio del Seicento l’Inghilterra introdusse un insieme di «leggi sui poveri» (Poor Laws), in base alle quali questi ultimi dovevano essere mantenuti a carico dello stato, ma anche internati in apposite case di lavoro (le workhouses), non troppo dissimili per la verità dalle prigioni. La natura repressiva e stigmatizzante di queste prime forme assistenziali andò progressivamente stemperandosi nel corso del XIX secolo. L’avvento dell’assicurazione e della sicurezza sociale come nuovi strumenti di risposta ai rischi tipici della società industriale hanno ridotto l’utilità e il ruolo di forme di intervento specifiche e mirate. L’assistenza è nondimeno rimasta un settore cospicuo anche in seno ai welfare state maturi. Come mostra la figura 1.3, nell’Unione Europea le prestazioni per le funzioni «famiglia» e 19«abitazione ed esclusione sociale» (quelle in cui si concentrano, appunto, le politiche di sostegno mirato, in base alle condizioni di bisogno) assorbono in media poco più dell’11% della spesa sociale complessiva per prestazioni. La protezione quasi personalizzata nel caso di una gamma più o meno ampia di bisogni particolari si è anzi affermata come vero e proprio diritto-spettanza, caratterizzato da un grado di automatismo di poco inferiore a quello dei diritti sociali standard (come quelli pensionistici o sanitari)5. In termini più analitici possiamo dire che ciò che caratterizza l’assistenza come modalità di protezione sociale è il fatto che le sue prestazioni sono subordinate all’accertamento da parte pubblica di due condizioni: uno specifico bisogno individuale manifesto (particolari condizioni di disagio familiare e/o abitativo, la non-autosufficienza personale e così via) e l’assenza di risorse (in particolare, reddito) per farvi fronte autonomamente, una condizione accertata tramite una verifica della situazione economica dei richiedenti (tradizionalmente chiamata prova dei mezzi, means- test). Con quest’ultima espressione si designano tutte le forme di valutazione, da parte di una Durante la Seconda guerra mondiale, il rapporto di un’importante commissione istituita dal governo britannico e presieduta da Lord Beveridge (e noto come Rapporto Beveridge) consolidò ed estese l’accezione neozelandese: la sicurezza sociale venne a indicare un nuovo sistema di protezione esteso a tutta la popolazione attiva per quanto riguarda la garanzia del reddito e a tutti i cittadini per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, e volto a fornire prestazioni uniformi, corrispondenti a un «minimo nazionale» ritenuto indispensabile per condurre una vita dignitosa, e perciò scollegato (almeno in larga misura) dai contributi eventualmente versati. Tale sistema venne poi effettivamente messo in pratica dopo la fine della Seconda guerra mondiale dal governo di Clement Attlee, fra il 1946 e il 1948. Se la Nuova Zelanda e (più compiutamente) il Regno Unito inaugurano, con i loro servizi sanitari nazionali, una nuova forma di intervento pubblico imperniata sul solo criterio della cittadinanza, la Svezia fu il primo paese ad adottare il nuovo approccio in campo pensionistico: nel 1946 questo paese istituì il primo esempio di «pensione popolare» (folkpension) non contributiva, a somma fissa, fruibile da tutti i cittadini con più di 65 anni, senza prova dei mezzi e indipendentemente dal loro precedente status occupazionale8. L’esempio svedese venne seguito nel decennio successivo dagli altri paesi nordici. Dopo le riforme angloscandinave, l’accezione prevalente – anche se non esclusiva – dell’espressione «sicurezza sociale» è così diventata quella di uno schema di protezione obbligatorio caratterizzato da copertura universale (estesa a tutti i cittadini) e prestazioni uguali per tutti (senza differenziazioni di accesso e di trattamento in campo sanitario e a somma fissa per quanto riguarda i trasferimenti monetari). Rispetto all’assicurazione sociale di stampo europeo- continentale, la sicurezza sociale si differenzia anche per l’assenza di collegamento tra la fruizione dei benefici e la partecipazione specifica al loro finanziamento da parte di beneficiari. La tabella 1.1 riassume i connotati essenziali dei tre concetti sin qui illustrati, differenziati in base al tipo di copertura, al tipo di prestazioni e alle modalità 23di finanziamento. Pur non esaurendone il campo di applicazione, assistenza, assicurazione e sicurezza sociale costituiscono le principali modalità di intervento del welfare state ed è proprio in base a esse (nonostante le molteplici commistioni empiricamente osservabili) che possono essere effettuate le demarcazioni tipologiche più significative tra i vari paesi. TAB. 1.1. Le modalità di intervento del welfare state e le loro caratteristiche 3. UNA PANORAMICA STORICA La traiettoria evolutiva del welfare state europeo può essere suddivisa in cinque fasi distinte: a) instaurazione; b) consolidamento; c) espansione; d) crisi; e) riforma. La globalizzazione, il cambiamento tecnologico e la Grande recessione della prima metà degli anni Dieci di questo secolo hanno a loro volta inaugurato una sesta nuova fase, che ha messo a dura prova i regimi di protezione sociale europei e incoraggiato un’accelerazione, ma anche una riconsiderazione, dell’agenda delle riforme. Esaminiamo sinteticamente le caratteristiche salienti di ciascuna fase. 3.1. INSTAURAZIONE: Il retroterra storico del moderno welfare state è rappresentato dalle misure di assistenza ai poveri (poor relief ), sviluppatesi in tutti gli stati europei a partire dal XVII secolo e codificate in alcuni di essi (a cominciare dall’Inghilterra) in un insieme organico di leggi a carattere assistenziale-repressivo (le Poor Laws). Il decollo vero e proprio del moderno stato sociale avvenne nel XIX secolo con l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria, avvenuta in quasi tutti i paesi europei a cavallo tra Ottocento e Novecento [Briggs 1961; Rimlinger 1971]. L’istituto dell’assicurazione obbligatoria fu un’innovazione istituzionale di vasta portata [Alber 1982; Heclo 1981; Perrin 1969]. L’assistenza ai poveri si basava su interventi occasionali, residuali e discrezionali; questi erano considerati «elargizioni» che la società concedeva a persone quasi sempre ritenute immeritevoli e perlopiù comportavano l’emarginazione politica e civile dei beneficiari; infine, l’erogazione di prestazioni assistenziali avveniva secondo modalità istituzionali indifferenziate e su base prevalentemente locale. L’assicurazione obbligatoria ribaltava quasi completamente questa impostazione. Essa offriva infatti prestazioni standardizzate, fondate su precisi diritti individuali e secondo modalità istituzionali specializzate, su base prevalentemente nazionale. Inoltre, delegando l’amministrazione degli schemi assicurativi a organi bipartiti o tripartiti (datori di lavoro e lavoratori, con o senza lo stato), l’assicurazione obbligatoria inaugurò forse la prima forma di collaborazione tra le due forze antagoniste dello sviluppo capitalistico. Il primo paese a introdurre l’assicurazione obbligatoria fu la Germania, a opera del cancelliere Bismarck: nel 1883 contro le malattie, nel 1884 contro 24gli infortuni e nel 1889 contro la vecchiaia e l’invalidità. L’esempio tedesco ebbe una vasta eco internazionale. L’Austria fu il primo paese a seguire la Germania (nel 1887 per quanto riguarda gli infortuni e nel 1888 per quanto riguarda le malattie); prima della fine del secolo, le succedettero la Norvegia (infortuni, nel 1894), la Finlandia (infortuni, nel 1895), l’Italia (infortuni, nel 1898). Gli altri paesi cominciarono a introdurre forme assicurative sussidiate o finanziate dallo stato, ma senza obbligatorietà, per passare poi anch’essi nei primi due decenni del nuovo secolo all’assicurazione obbligatoria. L’elevata prossimità degli anni di introduzione del primo schema assicurativo obbligatorio nei vari paesi (quasi tutti collocati nel trentacinquennio 1880-1915) suggerisce l’esistenza di un sostrato causale comune. A questo proposito appare opportuno distinguere tra una serie di fattori cornice e una serie di fattori specifici. I primi sono connessi alla Grande trasformazione delle economie e delle società europee causata dalla Rivoluzione industriale. Secondo Karl Polanyi [1957] la Grande trasformazione fu caratterizzata da due distinti movimenti. Dapprima lo scardinamento dell’economia e delle relazioni sociali preindustriali e l’ascesa del mercato capitalistico, di nuove forme di produzione imperniate su macchine e continue innovazioni tecniche: un contesto quasi interamente basato sullo scambio, sulla domanda e sull’offerta di «merci», compresa la forza lavoro. Poi, l’insorgenza di un contromovimento da parte della società contro gli eccessi di mercificazione e le loro conseguenze sociali. Le associazioni sindacali e i partiti operai furono le forze trainanti di questa seconda fase della Grande trasformazione. Per individuare tuttavia la molla che condusse, nei vari paesi, dai problemi funzionali di ordine generale all’effettiva introduzione del primo schema obbligatorio occorre procedere al di là dei fattori cornice, concentrando invece l’attenzione sui fattori specifici di ordine politico-istituzionale. La variabile storicamente cruciale sembra essere stata la mobilitazione dei lavoratori in relazione al contesto politico-istituzionale circostante [Alber 1982]. Fu la mobilitazione operaia (in particolare l’apparizione dei primi partiti socialisti) a dare la spinta decisiva per l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria: ma seguendo due distinti percorsi. Nei regimi monarchico-autoritari (quelli cioè in cui i poteri del parlamento rimanevano piuttosto limitati rispetto alle prerogative della corona), la costituzione di un partito operaio segnò un campanello di allarme per le élite conservatrici al governo e le spronò a concedere l’assicurazione obbligatoria ai fini di controllo sociale e di autolegittimazione. Nei regimi parlamentari (quelli caratterizzati dalla centralità politica del parlamento rispetto alla corona), l’assicurazione obbligatoria dovette aspettare che il partito operaio la includesse nel proprio programma politico (superando anche la diffidenza nei confronti dell’intervento pubblico in quanto tale) e raggiungesse una consistenza parlamentare sufficiente a imporne l’introduzione, condizione che generalmente si verificò dopo la democratizzazione del suffragio. 3.2. CONSOLIDAMENTO: La fase dell’instaurazione durò, come si è detto, fino alla Prima guerra mondiale: le numerose sperimentazioni istituzionali e amministrative consentirono ai vari paesi di accumulare un bagaglio di competenze tecniche che servì poi da base al successivo consolidamento. Questo venne realizzato nel periodo tra le due guerre. Innanzitutto, fu quasi completato o largamente integrato il catalogo dei rischi coperti dai vari schemi. Inoltre, molti paesi cominciarono a estendere il raggio d’azione di tali schemi, includendo al loro interno altri segmenti della popolazione oltre ai lavoratori dipendenti, o istituendo schemi ex novo per questi nuovi segmenti. Tipico è a questo proposito il caso degli assegni familiari, che sono una forma di assicurazione la cui titolarità spetta al capofamiglia lavoratore, ma le cui prestazioni si erogano in base ai familiari inattivi. Furono numerosi i paesi a istituire tale schema nel periodo tra le due guerre: il Belgio (1930), la Francia (1932), l’Italia (1936-1937), i Paesi Bassi (1939) e la Finlandia (1943). In molti paesi, l’assicurazione contro le malattie venne estesa ai componenti familiari (fu la Norvegia, nel 1909, il paese pioniere al proposito mentre la maggior parte degli altri paesi compì questo passo tra il 1930 e il 1945) e quella pensionistica venne estesa ai superstiti (in Germania, sin dal 1911). Questa fase di consolidamento del welfare state segna dunque il passaggio dalla nozione più ristretta di «assicurazione dei lavoratori» a quella più ampia di assicurazione sociale, che dava una definizione più estesa dei rischi e soprattutto dei possibili beneficiari e in cui si faceva gradatamente strada, accanto alla tradizionale idea del risarcimento in base ai contributi versati, anche l’idea di una protezione minima in base ai bisogni. Nell’area scandinava, sulla scia dell’avvento al potere dei partiti socialdemocratici, questa fase segnò anche la congiunzione tra politica sociale e politica economica con l’estensione dell’intervento dello stato nel campo delle abitazioni o del mercato del lavoro, nel quadro di obiettivi anticiclici keynesiani. 3.3. ESPANSIONE: Il trentennio che va dal 1945 alla metà degli anni Settanta del Novecento fu un periodo di sviluppo impetuoso e generalizzato. In tutti i paesi vi fu una costante estensione e un notevole miglioramento della protezione offerta dallo stato. Il raggio di copertura dei vari schemi assicurativi raggiunse in questo periodo i propri limiti naturali (ossia la totalità dei cittadini). I sistemi tradizionali e locali di assistenza pubblica vennero progressivamente marginalizzati nella loro portata finanziaria e funzionale. In alcuni paesi l’estensione della copertura avvenne essenzialmente in direzione «verticale». Gli schemi introdotti nelle prime due fasi riguardavano 26infatti principalmente le persone bisognose: nel caso delle pensioni, ad esempio, gli anziani poveri9. Dopo la Seconda guerra mondiale la prova dei mezzi venne abolita e la copertura fu in questo modo estesa a tutta la popolazione. Questo fu il corso degli ultimi trent’anni, soprattutto nell’area europea. Il welfare state si è così trovato a essere minato nelle sue stesse fondamenta politico-istituzionali. La fase della crisi è iniziata verso la fine degli anni Settanta e si è protratta per almeno tutti gli anni Ottanta, originando pressanti esigenze di riadattamento istituzionale. Nel corso del decennio successivo in quasi tutti i paesi è iniziata una nuova fase di cambiamento e riforma. I confini tra la fase della crisi e la fase della riforma sono sfumati e più labili di quelli che separano le fasi pre29cedenti. In pressoché tutti i welfare state europei (compresa l’Italia) gli anni Novanta e Duemila hanno tuttavia registrato l’introduzione di riforme più o meno incisive degli schemi e dei programmi ereditati dal passato. 3.5. RIFORMA: l riadattamento istituzionale ha riguardato un po’ tutte le sfide appena illustrate. Il passaggio da uno sviluppo economico sostenuto a uno sviluppo lento o nullo, unitamente agli squilibri demografici, ha originato acuti problemi di governo finanziario della spesa sociale, incentivando l’adozione di politiche di controllo dei costi e di riforme restrittive di molte delle tradizionali formule di prestazione. Il contenimento dei costi ha interessato soprattutto i settori pensionistico e sanitario, particolarmente sensibili alle dinamiche dell’invecchiamento demografico. Nel settore delle pensioni le riforme hanno riguardato soprattutto l’età pensionabile (che è stata elevata) e la formula di computo delle pensioni, che è stata resa meno generosa, rafforzando il legame attuariale con i contributi effettivamente versati. In campo sanitario sono state introdotte misure di contenimento dei costi (ad es., tramite le compartecipazioni finanziarie degli utenti, oppure la ridefinizione in senso restrittivo delle prestazioni a carico del servizio pubblico) e al tempo stesso misure per accrescere l’efficienza e l’efficacia dei servizi. Provocando una complessiva redistribuzione delle opportunità lavorative tra settori produttivi e aree geografiche, sconvolgendo i tradizionali percorsi di carriera e generando nuovi dualismi in seno al mercato occupazionale, la transizione al post-industrialismo ha promosso una redistribuzione delle opportunità di protezione sociale: ad esempio l’introduzione di nuovi ammortizzatori ha favorito i processi di deindustrializzazione, di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro, di marginalizzazione dei lavoratori più deboli, compresi gli immigrati. La maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro e la ridefinizione dei rapporti di genere hanno posto a loro volta il problema di una più efficace conciliazione tra vita professionale e riproduzione sociale, richiedendo un ripensamento di molti tradizionali istituti del welfare state. L’instabilità crescente del matrimonio e della famiglia tradizionale ha poi fatto emergere sindromi di nuova povertà (pensiamo alle famiglie monogenitoriali) che non hanno trovato adeguata tutela negli assetti vigenti e hanno dunque promosso un ripensamento delle politiche socioassistenziali. La crescente «porosità» delle barriere statali dei singoli welfare state nazionali li ha infine esposti ai rischi di importare problemi dall’esterno (ad es., shock valutari e finanziari o turbolenze occupazionali) e di subire i vincoli diretti o indiretti all’armonizzazione o alla convergenza posti dai vari regimi internazionali (pensiamo ai nuovi vincoli posti dall’Unione economica e monetaria europea). Come illustra il quadro 1.2, il termine più appropriato per designare questo delicato processo di riadattamento istituzionale è quello di ricalibratura. La ricalibratura del welfare state: Il dibattito sulla crisi e sulla riforma del welfare state ha cercato a lungo un termine attraverso cui interpretare la direzione del cambiamento istituzionale. Inizialmente hanno prevalso i termini «negativi», come tagli oppure ridimensionamento (retrenchment in inglese). Successivamente hanno cominciato a essere utilizzati termini più neutrali sotto il profilo sia descrittivo sia valutativo: ad esempio modernizzazione (il termine preferito dalla Commissione europea), riconfigurazione, ristrutturazione o razionalizzazione. Ferrera, Hemerijck e Rhodes [2000] hanno proposto il termine ricalibratura. Con questa espressione si vuole connotare un processo di cambiamento istituzionale caratterizzato da: • la presenza di un insieme di vincoli, di natura sia esogena sia endogena, che condiziona le scelte dei decisori politici; • l’interdipendenza fra eventuali scelte espansive o migliorative (l’introduzione di un nuovo programma, il rafforzamento di un programma esistente) e scelte restrittive o sottrattive, in conseguenza dei vincoli; • uno spostamento deliberato dell’enfasi posta sui diversi strumenti e obiettivi delle politiche sociali: sia all’interno di ciascuna politica sia fra diverse politiche. Il concetto di «ricalibratura» può a sua volta essere articolato in alcune sottodimensioni: 1. la ricalibratura funzionale concerne i rischi in risposta ai quali i sistemi di welfare si sono sviluppati nel corso del tempo e si riferisce a quegli interventi volti a ribilanciare le diverse funzioni di protezione sociale (ad es., contenimento della tutela della vecchiaia e promozione di nuovi schemi di assistenza all’infanzia); 2. la ricalibratura distributiva riguarda i gruppi sociali e si riferisce a quegli interventi che mirano a ribilanciare il grado di protezione sociale dalle categorie ipergarantite (ad es., i dipendenti pubblici) a quelle sottogarantite (ad es., le persone in cerca di occupazione); 3. la ricalibratura normativa si riferisce invece a norme o valori e denota quelle iniziative di natura simbolica (discorsi pubblici, prese di posizione da parte di leader politici, esperti o intellettuali) che forniscono argomentazioni e «buone ragioni» per trasformare lo status quo in quanto inefficiente, inefficace o iniquo. 3.6. UNA NUOVA “GRANDE TRASFORMAZIONE”: La ricalibratura del welfare si è resa necessaria anche a fronte delle dinamiche di globalizzazione: la liberalizzazione del commercio internazionale e la crescente integrazione dei mercati a livello globale pongono serie sfide ai tradizionali assetti del welfare state su base nazionale e richiedono un riadattamento istituzionale volto a conciliare redistribuzione e solidarietà sociale, da un lato, con efficienza e competitività economica, dall’altro. La globalizzazione ha preso avvio con l’integrazione nell’economia mondiale di Cina, India, Russia, i suoi ex satelliti sovietici nell’Europa orientale, nonché con la rapida crescita di Corea del Sud, Taiwan, Brasile e di altre economie in via di sviluppo. Una combinazione di crescita vertiginosa nei paesi in rapida industrializzazione e bassa crescita nell’area OCSE ha determinato una massiccia diminuzione della disuguaglianza fra il Nord e il Sud del mondo. Al netto miglioramento del benessere e delle condizioni di vita nei paesi in 31via di sviluppo ha fatto però da contraltare un altrettanto netto incremento delle differenze di reddito fra strati sociali all’interno dei paesi sviluppati, ossia maggiore disuguaglianza. Almeno fino all’inizio della crisi (2008), il PIL pro capite dei paesi OCSE ha continuato a crescere, ma non sono saliti altrettanto i redditi della famiglia media, cioè quella situata al centro della distribuzione. Ad aumentare sono stati, infatti, i redditi delle famiglie più ricche. Seppur in misura meno pronunciata rispetto agli Stati Uniti, anche nei paesi dell’Unione Europea dagli anni Duemila a oggi la disuguaglianza di reddito è aumentata: è cresciuta la quota di reddito percepita dal novantesimo percentile (l’1% più ricco) ed è corrispettivamente aumentato il rischio di povertà ed esclusione sociale, che ormai lambisce visibilmente anche la classe media. Il forte aumento della disuguaglianza ha avviato un processo di disarticolazione della struttura sociale in termini di chance di vita: opportunità, interessi, orizzonti, connessioni [Milanović 2016]. La struttura di classe delle società avanzate si è riarticolata in quattro segmenti. In alto troviamo un’élite di plutocrati quasi interamente «inglobata»: il decile più ricco è pienamente inserito nei circuiti globali – soprattutto quelli finanziari –, in grado di consumare e vivere in un mondo senza confini. Per questa élite la globalizzazione è stata ed è un grande vantaggio in termini di reddito, ricchezza, opportunità, incluse le opportunità di influenza politica. A seguire, troviamo il ceto borghese, benestante ma ancorato a patrimoni e attività prevalentemente nazionali. Questo ceto controlla ancora buona parte delle posizioni di autorità all’interno dei vari paesi, spesso attraverso meccanismi di cooptazione. Al centro della distribuzione vi è la «massa media», un coacervo di categorie sociali (compresa la tradizionale classe operaia) che possono contare su flussi di reddito regolare da lavoro dipendente, autonomo o da pensione. La massa media ha nel complesso registrato una stagnazione dei propri redditi, e durante la crisi addirittura una riduzione. A dispetto dell’impoverimento relativo, la massa media è in qualche modo connessa ai circuiti globali, in quanto consumatrice di beni e servizi resi accessibili proprio dalla globalizzazione. Ma della globalizzazione queste categorie percepiscono oggi soprattutto gli aspetti negativi sul piano della sicurezza economica e sociale. Molte famiglie hanno perso il lavoro e/o hanno dovuto ridimensionare il tenore di vita. Al fondo della distribuzione (sotto il secondo decile, più o meno) troviamo invece i «deprivati», gli «esclusi» e soprattutto la maggior parte dei precari. I vantaggi economici della globalizzazione non sono stati equamente distribuiti: nel mezzo del sistema di stratificazione si sono creati molti «perdenti», e in basso è arrivato poco o niente, anche per assenza di politiche di sviluppo e di assistenza sociale adeguate. In questo generale contesto, a partire dal 2008 l’Unione Europea è stata investita da una crisi finanziaria senza precedenti, che ha provocato una severa recessione, con drammatiche conseguenze sociali, soprattutto in Sud Europa. Il tasso di disoccupazione è massicciamente aumentato, soprattutto fra i giovani e i lavoratori oltre i 46 anni. Tra i 26 milioni di disoccupati in 32Europa nel 2013, il 43% era disoccupato da oltre un anno. Dopo decenni di lenta convergenza verso l’alto, il divario fra paesi del Nord e paesi del Sud Europa ha ripreso a crescere rapidamente rispetto ai principali indicatori economici e sociali. Fino al 2011 la quota della popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale era rimasta piuttosto stabile. Da allora in poi l’effetto della crisi è diventato evidente: il rischio è cresciuto nella maggior parte degli stati membri. Nel 2013 quasi il 25% delle famiglie a basso reddito (UE-15) ha riferito di trovarsi in condizioni di serie difficoltà finanziarie. La crisi ha indebolito la capacità dei sistemi di welfare di svolgere la propria funzione di stabilizzazione economica e sociale, in particolare nei paesi caratterizzati da maggiori problemi di bilancio. Sotto pressione dai mercati finanziari, questi paesi hanno dovuto aumentare le tasse e ridurre la spesa sociale in modo molto rapido, contribuendo alla generale compressione dei consumi. Seppure in ritardo rispetto alla gravità della situazione, l’Unione Europea ha reagito istituendo schemi sovranazionali di prestito di emergenza, come il Meccanismo europeo di stabilità, ma l’accesso dei governi a tali prestiti è stato strettamente condizionato al rapido ripristino dei saldi di bilancio e al contenimento del debito sovrano. La caduta in termini reali della spesa per la protezione sociale è stata una conseguenza sgradita di tali politiche di austerità. Seppur lentamente, a partire dal 2014 la recessione è andata attenuandosi, consentendo una ripresa di produzione e consumi. Alla fine del decennio in alcuni paesi (fra cui l’Italia) non sono stati ancora recuperati i livelli di reddito pro capite del 2008: la crisi è destinata a lasciare profonde cicatrici nel tessuto economico e sociale. Data la vastità e la profondità delle sfide con cui il welfare deve oggi confrontarsi, sono in molti oggi a chiedersi se non sia in atto una Seconda grande trasformazione. Le dinamiche endogene descritte nel precedente paragrafo (compresa la Quarta rivoluzione industriale) e quelle esogene appena discusse possono essere considerate come il «primo movimento» – quello che Polanyi chiamava disruption, ossia l’ascesa di nuovi modi di produrre e la conseguente rottura dei vecchi equilibri, relazioni sociali, forme di vita – di una Seconda grande trasformazione. Ma il «secondo movimento» non sembra ancora decollato. Secondo alcuni il «precariato» potrebbe oggi svolgere il ruolo di propulsore del cambiamento. Ciò che prevale nel panorama politico alla fine degli anni Dieci intercategoriale del consenso attraverso microdistribuzioni di benefici pubblici è diventata l’obiettivo primario (in quanto potenzialmente più remunerativo) degli attori politici. La logica della pressione pluralistica dei gruppi di interesse (sul lato della domanda) e quella della competizione a tutto campo fra partiti pigliatutto (sul lato dell’offerta) si sono così rinforzate a vicenda nell’alimentare il lungo ciclo distributivo registrato dalla politica sociale europea sino a gran parte degli anni Ottanta. 4.2 CRISI E RIFORMA DEL WELFARE: DALLE DISTRIBUZIONI ALLE SOTTRAZIONI A partire dagli anni Novanta, la crisi delle finanze pubbliche, il processo di integrazione europea, le sfide della globalizzazione hanno riportato in primo piano il problema dei costi del welfare state, forzando in agenda gli obiettivi del «risanamento», del recupero di efficienza, della modernizzazione e ricalibratura dei vari schemi e programmi sociali. Alla prova dei fatti, la riforma del welfare state si è tuttavia rivelata molto difficile dal punto di vista politico. I provvedimenti di riforma – nella misura in cui sono veramente tali – implicano l’imposizione di sacrifici più o meno concentrati volti al conseguimento di benefici diffusi: la sostenibilità di lungo periodo del sistema pensionistico, maggiore efficienza nei servizi sanitari o nei mercati del lavoro, maggiore 36competitività, finanze pubbliche in equilibrio e così via. Si sa chi perde, ma non si sa chi guadagna: un gioco a somma apparentemente negativa. Dopo i lunghi decenni del torpore distributivo, la politica sociale è tornata così a essere una questione di redistribuzione. A essere ancora più precisi, nel corso degli anni Novanta la politica sociale ha assunto i contorni di una vera e propria politica sottrattiva: la variante forse più intrattabile di politica redistributiva, in cui si devono attribuire quasi esclusivamente delle perdite, almeno nel breve periodo, e per di più sotto forma di cancellazione (o sensibile diminuzione) di spettanze codificate e considerate alla stregua di veri e propri diritti di proprietà. Caratterizzati come sono da alta visibilità dei costi, ampiezza delle platee coinvolte e rilevanza della posta in gioco, i processi redistributivi (e a maggior ragione quelli sottrattivi) inducono per loro natura gli attori al confronto esplicito, non solo a fini difensivi, ma anche offensivi o proattivi. Non è un caso che le grandi ondate di protesta contro i «tagli» che hanno investito un po’ tutti i paesi europei negli ultimi due decenni abbiano visto come protagonisti non tanto «movimenti» bensì i soggetti tradizionali dell’azione politica, a cominciare naturalmente dalle confederazioni sindacali: le quali hanno peraltro visto nella battaglia a difesa del welfare un’occasione quasi storica per invertire il proprio declino di rappresentanza e riguadagnare sia sostegno sociale che influenza decisionale. La nuova politica sociale sottrattiva ha anche registrato una dislocazione delle sedi di conflitto. Se l’arena privilegiata dei vecchi scambi distributivi era essenzialmente quella parlamentare, più ospitale ai negoziati occulti, agli scambi intrecciati e così via, i conflitti sulla riforma del welfare avvengono invece tipicamente nell’arena elettorale (spesso la «piazza» vera e propria). Le decisioni concrete riguardo ai «tagli» sono state però elaborate soprattutto in seno all’arena governativa. In alcuni paesi i governi hanno cercato di risanare e riformare con uno stile che potremmo definire «avversariale»: pensiamo soprattutto al Regno Unito durante il lungo governo di Margaret Thatcher (1979-1990). Nella maggior parte dei paesi, tuttavia, lo stile è stato invece «concertativo»: i governi hanno cercato di contrattare le misure restrittive con i rappresentanti degli interessi coinvolti (a cominciare naturalmente dai sindacati). Tutte queste dinamiche complicano e rallentano il processo di riforma e ne condizionano fortemente rotta e contenuti. Sono infatti gli interessi a favore dello status quo distributivo a controllare le quote di consenso di gran lunga più consistenti. Per partiti e governi entrare in collisione con questi interessi significa andare incontro a certe quanto impietose punizioni elettorali. D’altra parte moltissimi dei componenti di quei gruppi sociali che avrebbero tutto da guadagnare da una seria riforma (pensiamo ai giovani) non sono disponibili a «far blocco». Quando ci si trova in condizioni di precarietà socioeconomica, la certezza di un qualche beneficio, anche modesto (un sussidio) o indiretto (la prestazione, magari generosa, di un familiare), conta molto di più di vantaggi più consistenti, ma solo eventuali, connessi a operazioni di riassetto complessivo delle regole distributive.37 Stretti fra l’incudine degli imperativi fiscali e il martello delle punizioni elettorali, i governi si sono dunque trovati a operare con margini di manovra davvero esigui. Abbiamo detto più sopra che negli anni Novanta il welfare state europeo è entrato in una nuova fase evolutiva, imperniata sulle «riforme». Questa fase ha prodotto alcune importanti innovazioni istituzionali, anche nel nostro paese – come vedremo nei prossimi capitoli. Ma la strategia privilegiata è stata sinora quella dell’«inseguimento adattivo»: poche riforme di struttura e molti tagli ai margini, lungo le linee di minor resistenza sociopolitica. Nel riformare il welfare i politici prestano la massima attenzione a evitare il biasimo da parte degli elettori onde minimizzare le perdite di consenso: una strategia che il politologo americano Weaver [1986] ha definito, appunto, blame avoidance. Il fatto è però che, riducendo la gamma delle opzioni politicamente praticabili, l’obiettivo della blame avoidance ha pesantemente condizionato il processo di riforma, rallentandone il ritmo e ostacolando l’adozione di misure davvero incisive. Come verrà illustrato nei capitoli sulle singole politiche, il welfare state (in particolare il welfare state italiano) si trova ancora in mezzo al guado dal punto di vista del riadattamento istituzionale. La fase delle riforme e della ricalibratura è destinata a durare ancora a lungo, anche per affrontare il ventaglio di sfide connesse alla seconda Grande trasformazione di cui abbiamo parlato più sopra. 5. LE TIPOLOGIE DEI WELFARE STATE I welfare state hanno storicamente registrato e tuttora registrano vistose differenze per quanto riguarda la gamma e la generosità delle prestazioni, le condizioni di accesso, l’ampiezza e le caratteristiche dei loro destinatari, le modalità di finanziamento e di amministrazione. Osservato da vicino, ciascun welfare state nazionale presenta una combinazione «unica» di tratti caratterizzanti e fa dunque caso a sé. Se però ci allontaniamo dal «qui e ora» e adottiamo una prospettiva di osservazione più ampia e di taglio comparativo, non è difficile rilevare all’interno di ciascun caso nazionale alcuni elementi di somiglianza con altri casi, in base ai quali individuare un numero relativamente limitato di «famiglie», «modelli» o «tipi» di welfare state. Ma dove cercare gli elementi di somiglianza/differenza? Come riconoscere quelli più rilevanti per l’identificazione di famiglie e tipi? La strategia analitica più indicata per rispondere a queste domande è quella di adottare un’ottica evolutiva, osservando il processo di differenziazione istituzionale del welfare state europeo durante le sue principali giunture critiche. 5.1 DUE MODELLI: Nella panoramica storica presentata in precedenza abbiamo già accennato alla grande biforcazione avvenuta nella prima metà del XX secolo fra modelli 38universalistici o beveridgeani, da un lato, e modelli occupazionali o bismarckiani, dall’altro. Il principale criterio di distinzione fra questi due modelli è il «formato di copertura»: ossia le regole di accesso e affiliazione ai principali schemi di protezione sociale, in particolare quelli pensionistici e quelli sanitari: nel modello universalistico (adottato dai paesi angloscandinavi) gli schemi di protezione sociale coprono tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro posizione lavorativa; nel modello occupazionale (adottato dalla grande maggioranza dei paesi europeo-continentali) gli schemi di protezione sociale sono invece rivolti ai lavoratori, che vengono coperti da una pluralità di schemi occupazionali, con regole diverse gli uni dagli altri. La scelta del formato di copertura è stata storicamente molto importante in quanto ha definito i confini interni del welfare state, gli ambiti di condivisione dei rischi sociali e dunque il raggio della solidarietà e della redistribuzione. I modelli universalistici hanno creato un unico grande bacino di solidarietà e redistribuzione, corrispondente all’intera comunità politica. I modelli occupazionali hanno invece assecondato le tradizionali demarcazioni tra settori produttivi (ad es., industria e agricoltura, lavoro dipendente e lavoro autonomo), e gerarchie occupazionali (ad es., operai e impiegati), frammentando la comunità politica in tante diverse collettività redistributive. La scelta del chi includere nei nuovi schemi pubblici di protezione è stata storicamente preliminare e assai più controversa rispetto alla decisione in merito a quanto e come proteggere. Essa infatti ha sollecitato i vari gruppi sociali (il chi, appunto) a definire i propri interessi e a posizionarsi gli uni nei confronti degli altri di fronte ai nuovi scenari di redistribuzione, valutando le implicazioni sia economiche sia politiche delle varie possibili soluzioni. Questa scelta ha inaugurato un percorso di sviluppo, orientando l’evoluzione istituzionale successiva di ciascun welfare state in una direzione ben definita, con conseguenze visibili ancora oggi, sul piano socioeconomico e su quello politico- istituzionale, a circa un secolo di distanza. 5.2 I tre regimi Durante la fase dell’espansione, dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, il welfare state europeo è passato attraverso una seconda importante giuntura evolutiva, nella quale sono diventate rilevanti le dimensioni del quanto e del come, oltre a quella del chi10. Le formule di computo delle 39prestazioni, la gamma e la qualità dei servizi, le modalità di gestione e soprattutto di finanziamento sono diventati elementi decisivi per la conformazione del welfare state nei vari paesi e per la sua effettiva capacità di incidere sulle condizioni di vita dei cittadini, redistribuendo risorse e opportunità, in stretta interazione con le sfere del mercato del lavoro e della famiglia. Durante questa fase è emersa e si è consolidata una nuova differenziazione tipologica fra i welfare state europei: una differenziazione che ha dato luogo a un articolato e fruttuoso dibattito fra gli studiosi. L’autore che ha maggiormente influito su questo dibattito è Esping-Andersen [1990]. Secondo questo studioso durante il lungo periodo espansivo del «capitalismo keynesiano» si sono consolidati tre diversi regimi di welfare: quello liberale, quello conservatore-corporativo e quello socialdemocratico. Con l’espressione regime di welfare, Esping-Andersen fa riferimento non solo al contenuto delle politiche sociali dello stato, ma all’intero sistema di interrelazioni fra queste e il mercato del lavoro, da un lato, e la famiglia, dall’altro. In quale misura le politiche sociali (ed in particolare i trasferimenti monetari: pensioni, indennità di disoccupazione e malattia) hanno offerto ai lavoratori risorse e opportunità per contrastare la loro dipendenza dal mercato del lavoro? E in quale misura queste politiche sono riuscite a creare una «comunità di eguali» di fronte a rischi e bisogni sociali, azzerando le differenze di reddito e di classe? Queste sono per Esping-Andersen le due domande più importanti da porre se siamo interessati a cogliere gli outcomes, gli esiti di un regime di welfare sul piano delle condizioni di vita. Sul piano analitico, le due domande identificano due diverse dimensioni di variazione: la dimensione della demercificazione. Si è detto più sopra che durante la Prima grande trasformazione, la forza lavoro si convertì in una merce, il cui valore era essenzialmente determinato dalla legge della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro. Ispirandosi alle idee di Polanyi [1957] Esping-Andersen utilizza il termine per connotare il grado in cui gli individui situati all’interno di un dato regime di welfare possono liberamente astenersi dalla prestazione lavorativa, senza rischiare il posto di lavoro, perdite significative di reddito o in generale di benessere; la dimensione della destratificazione. Con questo termine Esping-Andersen connota invece il grado in cui la conformazione delle prestazioni sociali dello stato attutisce (fino, al limite, ad annullare) i differenziali di status occupazionale o di classe sociale. Come spiega il quadro 1.3, i tre regimi si differenziano in modo rilevante lungo queste due dimensioni, dando luogo a diversi «mondi del capitalismo welfarista» caratterizzati da diversa efficacia nel modificare la distribuzione delle chance di vita prodotta dalla sfera del mercato e da quella della famiglia: l’efficacia è massima nel regime socialdemocratico, media in quello conservatore-corporativo e minima in quello liberale. Come suggeriscono gli aggettivi associati ai tre regimi, la loro differenziazione è essenzialmente riconducibile a dinamiche di natura Due altri tratti giustificano la collocazione dei quattro paesi sud europei in un raggruppamento distinto. Alla fine del lungo ciclo espansivo, fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, tutti e quattro i paesi hanno istituito servizi sanitari nazionali a vocazione universale, basati cioè su diritti di cittadinanza. Si è trattato di innovazioni importanti, in quanto «fuori linea» rispetto al sentiero bismarckiano imboccato nella fase genetica del welfare state. E si è trattato di innovazioni molto significative anche sul piano del contenuto e della distribuzione delle chance di vita della popolazione. Esping- Andersen non ha considerato l’offerta e la conformazione dei servizi sanitari nella sua caratterizzazione dei tre regimi. Ma non è difficile comprendere come la presenza di un servizio sanitario nazionale possa esercitare effetti importanti sia di demercificazione che di destratificazione, rispetto ai sistemi frammentati di mutue occupazionali prima vigenti nell’Europa meridionale e a tutt’oggi caratteristici dei regimi conservatori-corporativi. La tradizione di elevato particolarismo che ha storicamente caratterizzato, fino alla fase dell’espansione, il funzionamento del welfare state in Europa 43meridionale, sia sul versante delle erogazioni (come manipolazioni clientelari e frodi) sia sul versante del finanziamento (evasioni contributive su vasta scala di fatto tollerate dall’amministrazione, di tanto in tanto sanate attraverso «condoni» fiscali e così via). In Europa meridionale non è solo il «welfare» ad avere assunto una configurazione sui generis, ma è anche lo «State»: uno stato assai poco «weberiano», largamente infiltrato e facilmente manipolabile dagli interessi organizzati (e in particolare dai partiti politici). Anche a seguito delle lunghe parentesi autoritarie, i welfare state sud europei (e, come vedremo, quello italiano in particolare) sono a lungo rimasti caratterizzati da un basso grado di statualità (stateness)12 [Ferrera 1996a]. Rispetto agli altri tre regimi, il regime sud europeo è identificato da un aggettivo meramente geografico (e non «politico» come nel caso dei regimi di Esping-Andersen). Dal punto di vista sociopolitico, il regime sud europeo è stato infatti il prodotto di una costellazione causale complessa: il corporativismo (accentuato dalle esperienze autoritarie), l’ingombrante presenza della Chiesa cattolica (in Spagna, Portogallo e soprattutto in Italia), ma anche l’aspra competizione politica fra destra e sinistra, incluse destre e sinistre di orientamento massimalista. Nei paesi sud europei si è registrata per lungo tempo un’intensa «polarizzazione ideologica», ossia un’ampia distanza di posizioni fra estrema destra ed estrema sinistra, nonché la diffusione di orientamenti ostili al mercato, alla democrazia, al capitalismo e al «riformismo» di stampo socialdemocratico. Le fasi della crisi e della riforma (tuttora in corso) possono essere considerate una nuova giuntura critica nell’evoluzione del welfare state europeo. Le sfide endogene e quelle esogene illustrate nel paragrafo 3.4 hanno infatti promosso nuovi processi di differenziazione istituzionale. I vecchi regimi o mondi di welfare sono ancora riconoscibili, ma con caratteristiche in parte nuove. Come vedremo nel prossimo capitolo, i sistemi pensionistici di oggi sono ad esempio molto diversi dai sistemi pensionistici del Trentennio glorioso. Grazie anche al processo di integrazione europea, fra i quattro regimi ha cominciato a manifestarsi un processo di «ibridazione» reciproca. Così ad esempio nell’area scandinava le tradizionali formule di computo a somma fissa sono state trasformate in (o affiancate da) formule legate ai contributi, mentre nei paesi sud europei sono stati introdotti (o sperimentati) nuovi schemi di reddito minimo garantito contro la povertà. Il dibattito comparato più recente ha peraltro cominciato ad abbandonare il concetto di «regime», tornando da un lato a quello originario di welfare state (e, stanti i processi di decentramento in corso nei vari paesi, anche di welfare region e di welfare locale) oppure muovendo verso concezioni più ampie di «welfare mix», ove 44accanto al mercato del lavoro e alla famiglia occupa una posizione di primo piano anche il terzo settore delle associazioni non profit e volontarie [Borzaga e Fazzi 2005]. 5.4 I welfare state «ibridi» dell’Europa centro-orientale Oltre alle quattro Europe sociali identificate dal dibattito comparato (usando aggettivi meramente geografici: quella scandinava, quella anglosassone, quella continentale e quella sud europea), l’attenzione più recente si è rivolta verso una quinta Europa sociale. Questa comprende i paesi ex comunisti dell’Europa centro-orientale, entrati a far parte dell’Unione Europea fra il 2004 (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lettonia e Lituania) e il 2007 (Bulgaria e Romania)13. Prima dell’adesione, tali paesi hanno dovuto affrontare il difficilissimo compito di creare e consolidare un’economia di mercato e un maturo sistema democratico, cercando il sostegno delle istituzioni internazionali e in particolare del Fondo monetario internazionale (FMI). Nel contempo, si sono trovati a fronteggiare anche molte delle sfide illustrate nel paragrafo 3.4, soprattutto l’invecchiamento demografico e l’emergenza di nuovi rischi sociali. Infine, durante il processo di adesione, ciascun paese ha dovuto assorbire il cosiddetto acquis communautaire (l’insieme delle norme UE) e attrezzarsi per partecipare ai vari processi di coordinamento europeo, compresi i processi riguardanti l’occupazione e l’inclusione sociale. Per effetto di queste dinamiche, i welfare state centro-orientali si presentano oggi come sistemi ibridi e non sempre internamente coerenti, che riflettono percorsi evolutivi punteggiati da rotture e condizionamenti esterni [Inglot 2008]. Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Polonia sono i paesi più avanzati dell’area e anche quelli in cui il welfare esordì già all’inizio del Novecento, all’epoca dell’Impero austro- ungarico, tramite l’introduzione di assicurazioni sociali di impronta bismarckiana. Nei rimanenti paesi gli esordi del welfare furono più tardivi ma anche in essi fra le due guerre mondiali furono poste le fondamenta di assicurazioni bismarckiane. Sotto i regimi del cosiddetto «socialismo reale», fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, il ruolo e la natura delle assicurazioni occupazionali furono depotenziati, le impese di stato divennero i principali erogatori di prestazioni e servizi per i propri dipendenti e furono creati sistemi sanitari e d’istruzione a raggio universale, anche se di standard scadente [Kornai 1992]. Il welfare assunse tratti paternalistico-autoritari e fu usato da un lato per finalità di controllo sociale (soddisfare i bisogni primari dei lavoratori onde evitare sollevazioni antiregime) e dall’altro per finalità «produttivistiche» (sostenere la produzione economica e la piena occupazione). Le donne erano incluse al pari degli uo45mini nell’economia di stato, ma le loro condizioni erano ben lungi da quelle dei paesi nordici. Anziché un modello di famiglia del tipo (tendenzialmente) dual-earner e dual-carer (doppia partecipazione lavorativa e condivisione dei carichi familiari), nei paesi socialisti si affermò un modello dual-earner e double burden (donne lavoratrici e al tempo stesso esclusive responsabili dei carichi familiari) [Pascall e Lewis 2004], fortemente penalizzante e discriminatorio. Come nella sfera del consumo, anche nella sfera del welfare si originarono poi marcate differenziazioni di privilegio (accompagnate da estesi fenomeni di clientelismo e corruzione: emblematico il caso della Romania di Ceausescu), essenzialmente collegate alla vicinanza dei beneficiari ai partiti di stato e alla disponibilità a servire i loro (spesso inconfessabili) interessi. Il welfare comunista fu pertanto caratterizzato da un mix di universalismo (copertura, formule di prestazione) e particolarismo (accessi e qualità filtrate dall’appartenenza partitica e dalla posizione nella nomenklatura di stato). Dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, i paesi dell’ex blocco sovietico avviarono la difficile transizione alla democrazia e all’economia di mercato. Questa seconda transizione seguì percorsi e modalità diversi nei vari paesi: ad esempio una modalità più rapida e dirompente in Polonia (il percorso a big bang), più graduale in Ungheria o Cecoslovacchia (che si divise nel 1993 fra Repubblica Ceca e Slovacchia). A cavallo del secolo, il motore del modello capitalistico ha cominciato a funzionare a pieno regime: seppure con frequenti turbolenze, le economie di quest’area hanno ormai imboccato la strada della crescita e dunque dell’aumento del reddito e del tenore di vita della popolazione. Negli anni Novanta, la transizione al sistema di mercato fu tuttavia accompagnata da enormi rivolgimenti sociali e occupazionali (i nuovi «mercati» del lavoro adottano un modello improntato alla massima flessibilità e alla minima imposizione fiscale sulle retribuzioni e i profitti), i quali causarono un marcato aumento della povertà e delle disuguaglianze, non adeguatamente compensato dalla rete del welfare. Grazie all’assistenza finanziaria (ma anche al forte condizionamento politico) del FMI, i paesi centro-orientali smantellarono gli schemi creati dai regimi comunisti e (in parte rivitalizzando l’eredità bismarckiana degli esordi) istituirono nuovi sistemi di protezione basati su tre pilastri: una safety net (rete di sicurezza) di base, filtrata dalla prova dei mezzi, come contrasto alla povertà estrema; assicurazioni sociali con formule prevalentemente contributive e con finanziamento in larga misura a capitalizzazione; assicurazioni e servizi privati [Cerami 2006]. Un misto, insomma, di occupazionalismo (l’approccio bismarckiano prevalente nell’Europa continentale) e residualismo liberale «amichevole nei confronti del mercato» di stampo anglosassone. L’assorbimento dell’acquis e l’adesione all’Unione Europea ha negli ultimi anni temperato la componente residuale-liberale della quinta Europa sociale, promuovendo alcune misure migliorative nel campo dei servizi e dell’occupazione. La necessità di contenere deficit e debiti a fronte di un rapido invecchiamento demografico ha d’altra parte spinto la maggior parte di questi paesi a varare incisive riforme pensionistiche. Nati, come si è detto, programmaticamente 46ibridi, i welfare state centro-orientali stanno oggi fronteggiando una nuova, delicata sfida: bilanciare le legittime aspirazioni dei propri cittadini a ottenere livelli di protezione di standard «europeo» senza compromettere il vantaggio competitivo rappresentato da modelli economici imperniati sulla flessibilità, su bassi livelli di imposizione fiscale e contributiva e dunque su costi del lavoro relativamente più bassi di quelli della «Vecchia Europa» [Cerami e Vanhuysse 2009]. 5.5 Il modello sociale dell’Unione Europea Nel corso degli anni l’Unione Europea ha gradualmente accresciuto il proprio ruolo nella sfera sociale, promuovendo forme sempre più intense di armonizzazione regolativa, coordinamento e indirizzo dei sistemi nazionali. Il Trattato di Lisbona (2009) ha definito in modo chiaro la missione dell’Unione Europea su questo fronte. Piena occupazione, progresso sociale, un elevato livello di tutele, lotta all’esclusione e alle discriminazioni, promozione della giustizia sociale, della parità tra donne e uomini, della solidarietà tra le generazioni e dei diritti dei minori: questi gli obiettivi elencati nell’articolo 3 (TUE) del Trattato. Sono inoltre esplicitamente menzionati la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli stati membri. Nell’ambito del lavoro e del welfare l’Unione Europea «sostiene e completa l’azione degli Stati membri», con competenze concorrenti, in particolare attraverso la definizione di prescrizioni minime e di regole che tutelino e favoriscano la libera circolazione dei lavoratori e delle persone. A seconda dello specifico settore di intervento, l’Unione può agire tramite regolamenti, direttive, il recepimento di accordi fra le parti sociali a livello UE (dialogo sociale), il cosiddetto «metodo aperto di coordinamento» basato su soft laws (prescrizioni non vincolanti) e l’impiego di risorse finanziarie proprie. Le disposizioni sociali del Trattato di Lisbona sono il frutto di un lungo e graduale sviluppo. La politica sociale, in senso lato, ha esordito come strumento volto ad assicurare l’integrazione del mercato – in particolare il mercato del lavoro – ma ha progressivamente allargato il suo campo di azione in tre direzioni: 1. l’armonizzazione delle misure nazionali tramite la fissazione di standard comuni (per lo più «minimi»); 2. la correzione del mercato, tramite politiche regolative, compensative o preventive a livello UE; 3. il coordinamento delle politiche nazionali volto a promuovere la loro «modernizzazione» e la convergenza verso l’alto. La libertà di movimento dei lavoratori è una delle quattro libertà fondamentali sancite dal Trattato di Roma (1957), che vietò tutte le forme di discriminazione basate sulla nazionalità da parte degli stati membri in materia di occupazione. A questo primo divieto si è successivamente aggiunta la 47lotta alle discriminazioni di genere, forse il terreno su cui l’Unione Europea è stata più attiva e ha avuto maggior successo. Attraverso una sequenza di direttive e sentenze della Corte di giustizia Il pilastro fornisce un quadro di riferimento – basato sul diritto dell’Unione Europea – per promuovere la convergenza «verso l’alto» dei sistemi nazionali di protezione sociale. Si compone di 20 principi e diritti, raggruppati in tre aree: • Pari opportunità e accesso al mercato del lavoro; • Condizioni di lavoro eque; • Protezione sociale adeguata e sostenibile. In ciascuna delle tre aree l’Unione Europea potrà proporre iniziative legislative, raccomandazioni e comunicazioni. Potrà anche mettere a disposizione risorse finanziarie per la realizzazione dei principi tramite i propri fondi strutturali. Vi sarà inoltre un quadro di valutazione dei principali indicatori occupazionali e sociali. Negli ultimi anni si è peraltro affacciata l’idea di istituire una vera e propria Unione sociale europea (USE), che dovrebbe operare come controparte dell’Unione economica e monetaria. Non si tratterebbe di un sistema di welfare federale con schemi centralizzati, ma, appunto, di un’unione fra sistemi nazionali sempre più integrati e sorretti da qualche forma di condivisione dei rischi (e dunque di solidarietà paneuropea) in caso di particolari avversità [Ferrera 2018]. 6. IL WELFARE STATE ITALIANO L’Italia spende per la protezione sociale una quota del PIL un po’ più alta della media UE, non troppo dissimile da quella del Regno Unito, della Finlandia o del Belgio. Dal punto di vista delle sue dimensioni aggregate, il welfare state del nostro paese non appare dunque deviante rispetto agli standard europei. La particolarità italiana sta nella composizione interna della spesa. Come mostra la tabella 1.3, gran parte della spesa sociale del nostro paese è assorbita dalle funzioni «vecchiaia e superstiti» (58,9% del totale di contro a una media UE-15 del 45,2%), ossia dal sistema pensionistico. Le funzioni «famiglia», e «abitazioni ed esclusione sociale» appaiono invece marcatamente sottodimensionate: rispettivamente il 4,7 e lo 0,8%, di contro a valori europei (UE- 15) pari all’8,5 e al 4,1%. Nessun altro paese europeo (nemmeno gli altri paesi mediterranei) registra una simile distorsione funzionale in seno al proprio welfare state. L’Italia presenta inoltre una seconda distorsione, di natura distributiva. All’interno delle varie funzioni di spesa, compresa quella pensionistica, vi è un netto divario di protezione (accesso alle prestazioni e loro generosità) fra le diverse categorie occupazionali. È vero che tutti i welfare state continentali presentano, come si è detto, un certo grado di segmentazione e giustapposizione fra inclusi ed esclusi, insiders e outsiders. Ma anche in questo caso la situazione italiana presenta caratteri di eccezionalità in seno allo stesso raggruppamento dei sistemi bismarckiani e sud europei. TAB. 1.3. La spesa sociale per settore in % della spesa sociale totale, media 2010-2015 La figura 1.4 fornisce una visualizzazione illustrativa della doppia distorsione che caratterizza il modello italiano di welfare state. Sull’asse orizzontale è col51locata la distorsione funzionale, ossia l’iperprotezione del rischio «vecchiaia e superstiti» a discapito dei rischi e dei bisogni collegati ad altre fasi del ciclo di vita (come povertà, presenza di figli, esigenze di «cura» e servizi all’interno della famiglia, disagio abitativo, sostegni all’inserimento e alla formazione professionale e così via)14. Sull’asse verticale è collocata invece la distorsione distributiva. La figura identifica tre diversi gruppi sociali: FIG. 1.4. La «doppia distorsione» del welfare state italiano. 1. il gruppo dei garantiti è essenzialmente composto dai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche e delle grandi imprese. La loro protezione è molto elevata (++++) nel caso delle pensioni ed è più o meno in linea con gli standard europei nel caso dei rischi diversi dalla vecchiaia (+++)15; 2. il gruppo dei semigarantiti: esso è composto da una variegata combinazione di lavoratori dipendenti (piccole imprese, settori tradizionali come l’edilizia o l’agricoltura), lavoratori autonomi (come piccoli commercianti o piccoli artigiani) e lavoratori «atipici». Per quanto riguarda il rischio «vecchiaia» (++), la forma di protezione tipica di questo gruppo è la pensione «al minimo», mentre per quanto riguarda i rischi diversi dalla vecchiaia le prestazioni e le tutele sono assai limitate negli importi e nella durata (+) oppure assenti; 3. il gruppo dei non garantiti: qui troviamo tipicamente quei lavoratori che restano relegati nell’economia sommersa (ancora molto diffusa in Italia, soprattutto nel Mezzogiorno), senza riuscire a conquistare un ancoramento stabile e duraturo con il mercato del lavoro regolare. Il rischio «vecchiaia» è in qualche modo tutelato anche per questi lavoratori, grazie all’esistenza della pensione o assegno sociale (+): una prestazione means-tested, rivolta agli anziani sprovvisti di reddito e d’importo inferiore alla pensione minima. Per quanto riguarda gli altri rischi (fatto salvo il rischio di malattia: la sanità italiana è, infatti, organizzata in forma universalistica dal 1978) questi lavoratori non godono invece di alcuna tutela (−).52 La figura – lo ripetiamo – ha intenti puramente esemplificativi, di carattere generale. I prossimi capitoli di questo volume entreranno nel merito delle singole prestazioni, della loro evoluzione nel tempo, delle differenziazioni socioeconomiche e politico-istituzionali a esse collegate. E discuteranno i fattori specifici che possono essere ritenuti responsabili di questa doppia distorsione. Qui ci preme sottolineare due punti soltanto, rispettivamente sulle cause e sulle conseguenze della distorsione. Per quanto riguarda le cause, le peculiarità del modello italiano di stato sociale sono strettamente collegate agli scivolamenti distributivi della Prima Repubblica, ossia il sistema di governo che ha caratterizzato l’Italia, grosso modo, dal 1948 al 1992 e fondamentalmente imperniato sul «governo dei partiti», in un contesto di alta polarizzazione ideologica fra destra e sinistra e bassa «statualità» (nell’accezione più sopra precisata) [Ferrera, Fargion e Jessoula 2012]. Richiamandoci a Flora, in questo capitolo abbiamo più volte ripetuto che il welfare state può essere considerato come un nuovo sistema di potere. Nel caso italiano, questo sistema di potere si è consolidato durante i decenni della Prima Repubblica intorno a una vera e propria partitocrazia distributiva, che ha massicciamente utilizzato i diritti-spettanze e gli apparati amministrativi dello stato a fini di cattura del consenso, spesso attraverso modalità particolaristico-clientelari16. Per quanto riguarda le conseguenze, occorre sottolineare che il modello italiano di stato sociale ha dato origine a crescenti problemi sul piano dell’efficienza, dell’efficacia e dell’equità: sia all’interno delle generazioni (pensiamo ai divari categoriali) sia fra diverse generazioni (pensiamo all’asimmetria fra la protezione dei rischi tipici dell’età anziana e quelli tipici delle altre fasi del ciclo di vita). Le due distorsioni del modello hanno inoltre attivato una serie di circoli viziosi che hanno teso a rafforzare lo status quo e a ostacolare il cambiamento istituzionale. Se il welfare state non offre ai giovani risorse e opportunità per entrare nel mercato del lavoro, per acquisire autonomia, per formare nuove coppie e riprodursi, la famiglia di origine resta il punto di riferimento principale, in molti casi l’unico «ammortizzatore sociale» disponibile per il soddisfacimento di bisogni e la tutela dei rischi attraverso l’attivazione di quella rete di solidarietà intergenerazionali e parentali che, come abbiamo visto, caratterizza le società sud europee. In questo modo, però, la famiglia può trasformarsi in una sorta di «trappola»: trattiene i giovani nel proprio seno, e in questo modo ostacola la mobilità, rallenta e irrigidisce i processi di riproduzione sociale, frenando peraltro la formazione di una domanda politica a favore del cambiamento. Ciò che i giovani «visualizzano» sono le garanzie dei propri genitori (nella misura in cui ci sono), la loro aspirazione è quella di acquisire le stesse garanzie (il posto fisso, una pensione generosa a fine carriera). Il familismo all’italiana ha provocato dunque conseguenze negative contemporaneamente sul piano economico, sociale e politico.53 In buona misura proprio a causa delle sue distorsioni interne, il welfare state del nostro paese ha registrato in forma particolarmente accentuata la fase della crisi iniziata negli anni Settanta. Quasi tutte le dinamiche elencate nella tabella 1.2 si sono manifestate in Italia con una particolare intensità: pensiamo alla comparsa di deficit e debito pubblico, con le conseguenti pressanti necessità di contenimento dei costi; pensiamo al marcato invecchiamento della popolazione, con le sue conseguenze in campo pensionistico e sanitario. La stessa transizione verso il postindustrialismo è avvenuta in tempi e modi particolarmente compressi e dunque con conseguenze laceranti sui tradizionali istituti di protezione. Se, come si è detto, tutti i paesi europei hanno dovuto reagire alla crisi imboccando il sentiero delle riforme, l’agenda della «ricalibratura» ha assunto in Italia un profilo particolarmente esigente, sul piano sia dei contenuti sia dei tempi. Nonostante la crescente consapevolezza del cumulo di problemi e della loro gravità, il governo politico-istituzionale della crisi è stato piuttosto incoerente e comunque largamente inefficace sino all’inizio degli anni Novanta. A partire dal 1992, tuttavia, è iniziata una nuova fase, caratterizzata da importanti riforme un po’ in tutti i comparti di spesa. Gli snodi decisionali più salienti sono riportati nella tabella 1.4. Senza poter qui entrare nel merito di ciascun provvedimento, possiamo nondimeno osservare una generale tendenza «ricalibrativa». più stretti, variabili nei diversi ordinamenti nazionali) ha diritto a percepire una prestazione previdenziale, corrispondente a parte della pensione che sarebbe spettata all’assicurato; 2. la pensione di reversibilità spetta invece ai medesimi soggetti nel caso in cui il decesso avvenga dopo il pensionamento dell’assicurato. Anche nel caso dell’invalidità si prevedono due tipi di prestazioni: 1. la pensione d’invalidità previdenziale, corrisposta ai lavoratori assicurati a seguito della perdita della capacità – parziale o totale2 – di lavoro per un evento invalidante; 2. la pensione d’invalidità civile, prestazione prettamente assistenziale rivolta agli invalidi civili (totali e parziali), ai ciechi e ai sordomuti che si trovano in condizioni di bisogno, accertato tramite una «prova dei mezzi» (cap. 5). In questo capitolo, il fuoco verrà invece posto sulle forme di tutela della vecchiaia per una serie di ragioni: in primo luogo, perché la spesa per le sole pensioni di vecchiaia rappresenta la prima voce di spesa sociale in tutti i paesi europei (a eccezione dell’Irlanda); in secondo luogo, perché la spesa per le pensioni di vecchiaia è molto più elevata di quella per le pensioni d’invalidità e superstiti, ma soprattutto negli 59ultimi quattro decenni la prima è aumentata in modo considerevole in quasi tutti i paesi occidentali, mentre la spesa per invalidità e superstiti ha mostrato – con poche eccezioni – variazioni di modesto rilievo. Ciò è particolarmente vero nel caso italiano, dove negli ultimi tre decenni la «crisi della previdenza» ha investito proprio il settore della protezione della vecchiaia. Delimitato il campo d’indagine, procediamo con la definizione di alcuni concetti chiave per analizzare l’evoluzione della tutela della vecchiaia in prospettiva storico-comparata. 1.2. Politica pensionistica e sistema pensionistico In prima approssimazione possiamo dire che con l’espressione politica pensionistica facciamo riferimento a quelle azioni – ma ove necessario anche a quelle «inazioni» – attraverso cui viene tutelata la vecchiaia. Tale tutela può tuttavia essere garantita tramite interventi che ricadono anche in altri settori di politica sociale (sanità, lavoro, assistenza sociale). È perciò necessario individuare l’obiettivo specifico della politica pensionistica, che consiste nel garantire agli individui anziani un reddito vitalizio nella fase della vita in cui è precluso ai più l’accesso a un’attività retribuita. A garantire la sicurezza economica e la disponibilità di un reddito per gli anziani possono concorrere diversi attori che operano in sfere differenti. Nell’evoluzione dei sistemi pensionistici europei la tutela della vecchiaia è stata affidata al settore pubblico, al settore privato, ovvero all’interazione tra i due. Pertanto, gli attori che operano sulla scena previdenziale come gestori delle risorse ed erogatori delle prestazioni possono essere enti previdenziali pubblici (ad es., l’INPS nel caso italiano) e parapubblici, ovvero istituzioni private (fondi pensione, banche, assicurazioni, società di gestione del risparmio), tutti generalmente sottoposti a una cornice normativa emanata dallo stato. Un sistema pensionistico per la tutela della vecchiaia è dunque costituito da quell’insieme di regole e istituzioni preposte a erogare prestazioni vitalizie in denaro a coloro che hanno terminato la carriera lavorativa e/o hanno superato una certa soglia di età, garantendo agli stessi la sicurezza economica anche nel periodo di quiescenza. Il finanziamento del sistema si fonda, in genere, sul versamento di parte del reddito percepito da lavoratori e/o cittadini, tramite contributi sociali o imposte dirette, e/o sull’utilizzo delle risorse provenienti da altre imposte (ad es., IVA, imposte sulla casa, ecc.). L’ampia accezione di sistema pensionistico qui proposta e il riferimento alle istituzioni pongono al centro della riflessione quali siano poi, concretamente, i circuiti attraverso cui vengono gestite le risorse, quali gli attori che operano in un sistema di tutela della vecchiaia, quali le prestazioni erogate (con le relative condizioni di accesso, modalità di calcolo e finanziamento). Partiamo da queste ultime. 1.3. Le prestazioni a tutela della vecchiaia Nei paesi europei possiamo individuare quattro tipi di prestazioni a tutela della vecchiaia (tab. 2.1), che si differenziano in base a beneficiari e condizioni di accesso, nonché per la diversa funzione svolta: previdenziale, di assistenza sociale e di sicurezza sociale. I primi due tipi, le pensioni previdenziali di vecchiaia e di anzianità sono rivolte ai lavoratori e hanno natura previdenziale (o assicurativa), in quanto mirano al mantenimento (entro certi limiti) del reddito nella fase di quiescenza. Esse sono dunque collegate con la retribuzione precedente del lavoratore ovvero con i contributi versati e si distinguono per le differenti condizioni di accesso. La forma più tipica – pensione previdenziale di vecchiaia – spetta al lavoratore al superamento di una certa soglia di età (età pensionabile). Il diritto a questo tipo di pensione è inoltre condizionato al pagamento di contributi per un periodo prefissato, variabile nei diversi paesi tra i 15 e i 25 anni (periodo contributivo minimo). L’età pensionabile può essere fissa o flessibile: nel secondo caso il pensionamento è consentito nel periodo che intercorre tra un’età anagrafica minima e un’età massima. In alcuni paesi, inoltre, è possibile ottenere la pensione di vecchiaia in anticipo rispetto all’età pensionabile, con una decurtazione dell’importo della prestazione (pensione di vecchiaia anticipata). Il raggiungimento di una soglia di età anagrafica non è invece richiesto per accedere alla pensione previdenziale di anzianità – che come si vedrà nel prosieguo ha giocato un ruolo significativo nel caso italiano – per la quale è necessario soltanto un versamento contributivo per un numero prestabilito di anni. Obiettivo dell’età pensionabile flessibile, della pensione anticipata e della pensione di anzianità è di conferire al lavoratore maggiore discrezionalità rispetto al momento in cui ritirarsi dalla vita attiva, discrezionalità che risulta particolarmente importante per quei lavoratori che, avendo iniziato precocemente l’attività, sarebbero costretti a lavorare in media molti più anni prima di poter accedere al pensionamento (ad es., si pensi alla differenza tra un lavoratore manuale che abbia iniziato a lavorare a 15 anni e un laureato che ottiene il suo primo lavoro a 25 anni). La pensione sociale individua invece quei trattamenti, con finalità assistenziale, previsti negli ordinamenti pensionistici di molti paesi europei allo scopo di garantire un livello minimo di reddito a quegli individui che, superata una soglia di età anagrafica, non hanno versato contributi a fini pensionistici ovvero non dispongono di sufficienti requisiti contributivi per aver diritto a una pensione previdenziale (di vecchiaia o di anzianità). In quanto prestazioni assistenziali, condizione per l’accesso a tali pensioni è il superamento di una «prova dei mezzi» che accerti l’effettiva situazione di bisogno del beneficiario3.61 Queste prestazioni a tutela della vecchiaia sono state tutte introdotte, in tempi diversi, nel sistema pensionistico italiano e più in generale negli ordinamenti previdenziali dell’Europa continentale e meridionale. Nelle nazioni nordiche si individua invece un quarto tipo di prestazione pensionistica – la pensione di base – che non mira a tutelare i lavoratori né gli anziani in condizioni di bisogno, ma garantisce un livello minimo di reddito a tutti i cittadini anziani. Svolge pertanto una funzione di sicurezza sociale tramite prestazioni a somma fissa – dunque non collegate al precedente reddito da lavoro – per tutti i cittadini (ovvero residenti da un certo numero di anni) che hanno superato una soglia di età anagrafica, indipendentemente dalla partecipazione al mercato del lavoro e dalla condizione economica. In ragione della diversa finalità delle pensioni qui presentate, differenti sono le sfere istituzionali, gli enti e gli attori coinvolti nell’erogazione di tali prestazioni. Se infatti pensione sociale e pensione di base sono appannaggio dello stato per la natura intrinsecamente solidaristica e redistributiva e l’obiettivo di contrasto della povertà delle stesse, le prestazioni con finalità previdenziali possono essere erogate sia da enti pubblici (o parapubblici) sia da istituzioni private (fondi pensione, assicurazioni, banche). 1.4Finanziamento, gestione delle risorse, calcolo delle prestazioni Definiti i diversi tipi di pensione e le relative finalità, il punto chiave da mettere ora a fuoco riguarda il reperimento delle risorse. Infatti, le prestazioni pensionistiche presentate poc’anzi, oltre a essere erogate e gestite tramite diversi circuiti – stato/mercato e pubblico/privato – sono anche generalmente finanziate in modi differenti. Tali modalità sono due e consistono nel finanziamento fiscale e nel finanziamento contributivo. Il primo è generalmente associato – per la maggiore capacità redistributiva «verticale», cioè tra diverse fasce di reddito – alla pensione sociale e a quella di base, mentre il finanziamento tramite contributi è utilizzato per le pensioni previdenziali di vecchiaia e anzianità. In questo secondo caso, con il pagamento dei contributi sociali, i lavoratori (e i datori di lavoro) finanziano le prestazioni pensionistiche per loro stessi ovvero per i lavoratori già in quiescenza. Tale considerazione richiede di spostare il fuoco dell’analisi dai metodi di «estrazione» delle risorse economiche ai sistemi con cui queste ultime vengono gestite al fine di erogare le prestazioni pensionistiche a coloro che ne hanno diritto. La modalità di gestione delle risorse dipende almeno in parte dal metodo di finanziamento. In un sistema fondato sul finanziamento fiscale la gestione delle risorse è infatti affidata all’amministrazione centrale dello stato: le imposte/tasse (dirette e indirette) confluiscono nel circuito della finanza pubblica e da qui, generalmente con legge di bilancio, vengono trasferite a un ente responsabile dell’erogazione delle prestazioni. In un sistema finanziato tramite contributi le cose sono invece più complesse ed esistono due alternative:62 la prima consiste nella creazione di risparmio a fini previdenziali attraverso il versamento, l’accumulazione e l’investimento di contributi sociali; la seconda si fonda sullo scambio di una quota del proprio reddito da lavoro con il diritto a una porzione di reddito futuro o, in altre parole, a una prestazione pensionistica una volta terminata la fase lavorativa. Ebbene, la prima alternativa richiama la logica di quello che viene definito un sistema – o uno schema – pensionistico «a capitalizzazione», la seconda la logica di un sistema «a ripartizione». Vediamo meglio tali alternative. In un sistema a capitalizzazione (fully funded) i contributi versati sono accumulati in conti individuali, investiti sui mercati finanziari e – rivalutati secondo il rendimento degli investimenti – sono poi convertiti in rendita al momento del pensionamento. Al contrario, in un sistema a ripartizione (pay-as-you-go o payg) i lavoratori versano i contributi a un determinato tempo t e questi vengono immediatamente utilizzati per il pagamento delle prestazioni ai pensionati; i lavoratori ottengono però il diritto a ricevere una pensione quando, al tempo t + 1, essi stessi si ritireranno dall’attività. Va detto al proposito che, per quanto in letteratura e nel dibattito politico le dimensioni ripartizione/capitalizzazione e pubblico/privato si sovrappongano frequentemente – nel senso che si fa spesso riferimento a sistemi pubblici a ripartizione e privati a capitalizzazione – le due dimensioni sono in realtà del tutto indipendenti: possono pertanto esistere schemi pubblici a capitalizzazione e schemi privati a ripartizione. D’altra parte, bisogna sottolineare che la distinzione tra «schemi a ripartizione» e «schemi a capitalizzazione» è di fondamentale importanza per comprendere i più recenti sviluppi della politica pensionistica, in quanto i due sistemi sono diversamente esposti ai rischi (demografici, economici, politici e finanziari [Thompson 1997; Bonoli 2003]) che possono minare la sostenibilità finanziaria degli schemi di protezione della vecchiaia (par. 3). Le risorse economiche per la tutela della vecchiaia devono poi essere convertite in prestazioni, che come abbiamo visto poc’anzi assumono caratteristiche e finalità estremamente differenti tra loro. In linea generale esistono tre metodi per definire i trattamenti pensionistici. Nel primo il valore delle pensioni è indipendente dal precedente reddito da lavoro, dalla durata della carriera professionale e dai contributi eventualmente versati: le prestazioni sono infatti a somma fissa (flat rate) o forfetarie. È il caso della pensione sociale e della pensione di base. prime forme mutualistico-assicurative libere e volontarie alla protezione pubblica della vecchiaia ebbe luogo, nella maggior parte dei paesi del Vecchio continente, tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la Prima guerra mondiale, ovvero negli anni immediatamente successivi a questa. I primi schemi pensionistici pubblici vennero istituiti in Germania (1889) e in Danimarca (1891), ed erano diretti rispettivamente agli operai industriali e agli anziani poveri. Nel caso tedesco il primo intervento di tutela economica della vecchiaia si concretizzò in uno schema di assicurazione sociale obbligatoria per la categoria di lavoratori più esposta al rischio d’indigenza nell’età anziana – gli operai; al contrario, in Danimarca si optò per garantire la protezione – tramite un intervento a carattere assistenziale – a quei cittadini che, superata una certa soglia di età si trovavano in condizione di bisogno, quest’ultima da accertarsi attraverso una «prova dei mezzi» (means-test). I sistemi tedesco e danese possono essere considerati come prototipi dei due modelli di tutela della vecchiaia che si sono radicati nei vari paesi europei nella prima metà del XX secolo. Nel dibattito internazionale questi due modelli sono noti come modello bismarckiano e modello beveridgeano. Il primo deriva il nome dal cancelliere Otto von Bismarck, che ne fu ispiratore ai tempi del I Reich Tedesco. Il secondo modello è invece così denominato con riferimento a Lord Beveridge. Questi fu l’ideatore, nel 1942, di un piano di riorganizzazione del sistema di protezione sociale britannico, che orientò le riforme – inclusa quella pensionistica – adottate dal governo Attlee dopo la 66fine della Seconda guerra mondiale verso un modello universalistico e inclusivo, rivolto cioè a tutti i cittadini. Pertanto, nella fase originaria il sistema danese del 1891 può essere definito «beveridgeano» solo come prima approssimazione ante litteram e in senso lato, perché sì universalistico, ma selettivo e dunque diretto ai soli anziani poveri. La tabella 2.3 mostra come i due modelli presentino caratteristiche differenti in relazione a cinque fondamentali dimensioni istituzionali. Il modello bismarckiano ha come obiettivo il mantenimento del tenore di vita dei lavoratori durante la fase di quiescenza: le prestazioni sono perciò collegate al precedente reddito da lavoro e finanziate tramite il versamento di contributi da parte della popolazione occupata. Tale versamento costituisce anche la condizione per accedere al programma e percepirne le prestazioni. La copertura nei sistemi bismarckiani è quindi di tipo occupazionale, nel senso che sono i lavoratori – e non i cittadini – a essere assicurati attraverso l’inclusione in schemi che in genere ricalcano le demarcazioni professionali. L’evoluzione tipica del modello ha infatti registrato l’istituzione dell’assicurazione obbligatoria per gli operai industriali e la successiva estensione della copertura ad altri gruppi occupazionali, tra cui gli impiegati, i lavoratori agricoli, i lavoratori autonomi. Da ciò discende anche la caratteristica frammentazione dei sistemi bismarckiani, costituiti da schemi differenti per le varie categorie occupazionali. TAB. 2.3. I modelli originari di tutela della vecchiaia Al contrario, il modello beveridgeano assume come figura di riferimento il cittadino anziano, in condizioni di bisogno nella fase originaria del welfare, tutti i cittadini oltre una certa soglia di età dopo i provvedimenti espansivi degli anni Cinquanta e Sessanta. L’obiettivo degli schemi che si ispirano a questo modello è la prevenzione della povertà tra le persone in età avanzata attraverso l’erogazione di prestazioni a somma fissa – indipendentemente dalla partecipazione del beneficiario al mercato del lavoro e dagli adempimenti contributivi – finanziate dalla fiscalità generale. Nei primi decenni del XX secolo la forza attrattiva del modello danese si esercita sulle aree scandinava e anglosassone: Regno Unito (1908), Norvegia (1936) e Finlandia (1937) istituiscono infatti programmi di assistenza sociale rivolti agli anziani poveri, mentre la Svezia esordisce nel 1913 già con uno schema universalistico inclusivo rivolto a tutti i cittadini anziani. Lo schema introdotto in Germania viene invece preso a modello nell’Europa continentale e mediterranea. Austria (1909), Francia (1910), Spagna (1919), Belgio 67(1924), Grecia (1934), Portogallo (1935), e in questa prima fase anche i Paesi Bassi (1913), si collocano nella scia di Bismarck, introducendo uno schema di assicurazione pensionistica obbligatoria per i lavoratori. L’Italia rientra in questo secondo gruppo di paesi, con l’istituzione (1919) di uno schema obbligatorio per la tutela della vecchiaia (e dell’invalidità) rivolto ai lavoratori dipendenti del settore privato. L’assicurazione pensionistica fondata sul modello occupazionale costituisce inoltre un’importante eredità istituzionale in quei territori dell’Europa centro-orientale che erano appartenuti all’Impero germanico e/o a quello austro-ungarico. Uno schema nazionale di stampo bismarckiano viene introdotto nel 1927 in Polonia, nel 1929 in Ungheria, nel 1937 in Slovenia; analogo sviluppo si ha, negli anni Venti, nelle tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) che hanno raggiunto l’indipendenza dalla Russia nel 19184. La fase che segue l’introduzione dei primi schemi pensionistici pubblici e giunge alla Seconda guerra mondiale non si caratterizza per sostanziali novità sul fronte pensionistico. Si tratta essenzialmente di un periodo di consolidamento e istituzionalizzazione del settore, durante il quale si registrano in diversi casi l’estensione della copertura a nuove categorie, un modesto incremento delle prestazioni e, talvolta, un relativo ammorbidimento delle condizioni di eleggibilità, tra cui in particolare la riduzione dell’età pensionabile (come ad esempio avviene in Italia, in Francia e in Germania). ■ L’Italia: scelta originaria e sviluppi fino alla Seconda guerra mondiale. Nella fase originaria l’Italia si colloca dunque tra i paesi bismarckiani. Nel 1919, con il d.lgt. n. 603 viene infatti istituito un tassello fondamentale del sistema pensionistico pubblico – che si aggiunge allo schema preesistente per i dipendenti dello stato introdotto già nel 1864 – con la definizione di uno schema obbligatorio per la tutela di vecchiaia e invalidità, rivolto ai lavoratori dipendenti del settore privato, e la costituzione della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali5. Sono soggetti all’obbligo contributivo i lavoratori industriali più esposti al rischio di vecchiaia, gli operai, oltre agli impiegati con retribuzione mensile inferiore alle 350 lire e a mezzadri e affittuari. La portata dell’intervento è enorme: tra il 1919 e il 1920 gli assicurati passano da circa 650.000 a oltre 10 milioni. Le altre caratteristiche dello schema sono il finanziamento contributivo paritario di lavoratori e datori di lavoro, cui si aggiunge una quota a carico dello stato; la gestione delle risorse a capitalizzazione; requisiti piuttosto stringenti per l’accesso alla pensione di vecchiaia (65 anni) e un sistema ibrido di calcolo delle prestazioni, che sono agganciate 68ai contributi versati, ma con tassi di rivalutazione predeterminati che di fatto consentono di assicurare un certo livello di copertura (modesto) delle pensioni rispetto al precedente reddito da lavoro. L’impostazione occupazionale-bismarckiana e la caratteristica frammentazione del sistema – con schemi differenziati per le diverse categorie occupazionali6 – si rafforzano durante il periodo fascista nel quadro dell’organizzazione corporativo-professionale del sistema produttivo e del regime di protezione sociale. Il decreto di riordino n. 3184/1923 da un lato estende la copertura obbligatoria agli impiegati con retribuzione fino a 800 lire mensili, dall’altro sancisce l’esclusione dei lavoratori agricoli: l’assicurazione pensionistica obbligatoria diviene così una realtà per i soli lavoratori dipendenti e tale rimarrà fino alla fine degli anni Cinquanta. Peraltro, il ventennio fascista non si caratterizza, al di là delle dichiarazioni d’intenti, per innovazioni radicali sul terreno della tutela della vecchiaia. Si tratta di una fase di consolidamento istituzionale nella quale i provvedimenti mirano a una riorganizzazione amministrativa – con il cambio di denominazione della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali in Istituto nazionale fascista della previdenza sociale (INFPS) nel 1934 – e al rafforzamento della tutela soltanto nella fase conclusiva del regime, tra il 1939 e il 1945, al fine di recuperare consenso e fronteggiare le drammatiche conseguenze sociali del conflitto bellico. Con la riforma del 1939 si estende la copertura agli impiegati con retribuzione mensile fino a 1.500 lire, ma le misure più incisive riguardano l’introduzione della pensione di reversibilità e la riduzione dell’età pensionabile con contestuale differenziazione tra uomini (60 anni) e donne (55 anni) – requisiti destinati a rimanere «congelati» fino alla riforma Amato del 1992 (par. 4). Negli ultimi mesi del regime fascista si registra inoltre il superamento del principio di finanziamento paritario, accollando ai datori di lavoro i due terzi dell’onere contributivo e ai lavoratori il terzo rimanente. 2.2La tutela della vecchiaia nella fase espansiva Al termine della Seconda guerra mondiale i sistemi pensionistici dei paesi europei presentano assetti istituzionali profondamente differenti poiché sono andati strutturandosi secondo i due modelli originari bismarckiano e beveridgeano (tab. 2.4). Si possono però cogliere alcune caratteristiche comuni: infatti, tutti i sistemi pensionistici si fondano quasi esclusivamente su schemi pubblici 7, sono generalmente poco articolati ed erogano prestazioni d’importo modesto.69 con prestazioni collegate alle retribuzioni si determina una fondamentale divaricazione all’interno del gruppo [Hinrichs 2000]. Alcune nazioni introducono infatti gli schemi retributivi prima degli anni Settanta, optando per una gestione a ripartizione attraverso il sistema pubblico: è il caso della Svezia (1959), della Finlandia (1960) e della Norvegia (1966). Al contrario, in un secondo raggruppamento – Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi, Svizzera e Danimarca – ancora alla metà degli anni Settanta lo stato assicura soltanto una tutela di base a tutti i cittadini: l’erogazione di prestazioni collegate alle retribuzioni verrà quindi in larga parte affidata alla diffusione dei fondi pensionistici privati a capitalizzazione. ■ Una nuova classificazione: sistemi pensionistici monopilastro e multipilastro. Alla luce di quanto illustrato, è evidente come nella fase espansiva sia avvenuto un profondo stravolgimento dei modelli originari di tutela della vecchiaia, che si sono ibridati acquisendo obiettivi ed elementi istituzionali tipici del modello alternativo. Nei paesi bismarckiani sono state introdotte le pensioni sociali, con finalità assistenziali e finanziate dalla fiscalità generale; in quelli beveridgeani sono stati istituiti schemi pensionistici integrativi di natura previdenziale, cioè con prestazioni collegate alle retribuzioni e finanziamento di tipo contributivo. In virtù di ciò, in quasi tutti i paesi è andato emergendo un sistema pensionistico articolato, con un primo livello di prestazioni finalizzato a prevenire la povertà e un secondo livello volto a mantenere i differenziali di reddito generati nel mercato del lavoro. Last but not least, la diffusione sulla scena pensionistica di attori non pubblici ha determinato in alcuni paesi un’ulteriore articolazione dell’architettura previdenziale, che è andata strutturandosi su diversi pilastri pensionistici. Tale riconfigurazione multipilastro non consente più di concentrare l’attenzione esclusivamente sugli schemi pubblici di tutela della vecchiaia. La letteratura di stampo politologico e sociologico ha perciò elaborato nuove classificazioni dei sistemi pensionistici, che puntano il fuoco sul diverso ruolo e la diversa importanza dei tre pilastri nei vari paesi [ibidem; Myles e Pierson 2001; Bonoli 2003; Natali 2008; Jessoula 2009; Ebbinghaus 2011]. In particolare, poiché l’elemento centrale – specie in termini di spesa – di un sistema di protezione della vecchiaia è rappresentato dagli schemi con prestazioni collegate al reddito, il trattamento classificatorio presta in genere particolare attenzione alla natura di questi schemi, e specialmente al fatto che l’erogazione di tali prestazioni sia affidata al circuito pubblico/stato con schemi a ripartizione ovvero a quello privato/mercato con fondi a capitalizzazione. Come visto poc’anzi, infatti, i paesi europei hanno operato scelte differenti relativamente al come e al quando introdurre prestazioni pensionistiche collegate alle retribuzioni:72 FIG. 2.1. Da Bismarck e Beveridge ai sistemi monopilastro e multipilastro. 1. nella fase originaria con sistemi pubblici divenuti a ripartizione all’inizio della fase espansiva (paesi bismarckiani); 2. tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni Sessanta sempre con schemi pubblici a ripartizione (Finlandia, Norvegia, Svezia); 3. dopo la metà degli anni Settanta affidandosi a piani privati a capitalizzazione (Danimarca, Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi, Svizzera). A ben vedere (figg. 2.1 e 2.2), tuttavia, questi tre gruppi possono essere ridotti a due perché alla fine dell’«età dell’oro» i paesi del gruppo 2 (Svezia, Finlandia, Norvegia) presentano una configurazione pensionistica assai simile a quella dei paesi di derivazione bismarckiana (ad es., l’Italia, gruppo 1). In entrambi i raggruppamenti il «cuore» del sistema pensionistico è infatti costituito da schemi assicurativi pubblici, obbligatori, inclusivi, maturi, gestiti a ripartizione e con prestazioni collegate alle retribuzioni. Tali nazioni sono state perciò inserite in uno stesso gruppo e identificate come sistemi monopilastro [Jessoula 2009]. Esse presentano una configurazione radicalmente diversa dai paesi di matrice beveridgeana che si sono affidati alla previdenza complementare privata (gruppo 3). In questo secondo caso il sistema pubblico fornisce soltanto una protezione di base, mentre la funzione di mantenimento del reddito dei lavoratori nella fase di quiescenza è affidata agli schemi a capitalizzazione di secondo e terzo pilastro, ai quali è anche imputabile la quota maggioritaria di spesa pensionistica. In virtù di tale architettura i sistemi pensionistici di questo gruppo sono stati denominati multipilastro [Bonoli 2003]. FIG. 2.2. Assetto istituzionale dei sistemi monopilastro e multipilastro al termine della fase espansiva. Riportando in forma grafica gli assetti pensionistici di alcuni paesi scelti come casi tipici dei tre gruppi appena delineati (fig. 2.2), si può osservare 73come alla fine dell’«età dell’oro» i casi svedese e italiano – in origine differenti ma poi convergenti verso un’architettura monopilastro – presentino una configurazione istituzionale effettivamente molto simile. Il sistema si struttura su un unico pilastro pubblico composto da due livelli. Il cuore è rappresentato dagli schemi a ripartizione con finalità previdenziali del secondo livello, mentre la differenza più rilevante tra i due paesi consiste nel diverso assetto del primo livello: universalistico inclusivo con la pensione di base in Svezia, universalistico selettivo e assistenziale (pensione sociale) in Italia. I Paesi Bassi presentano invece un’architettura pensionistica del tutto differente, fondata sull’integrazione di tre pilastri: il primo, pubblico, imperniato sulla pensione di base universalistica, il secondo occupazionale a capitalizzazione e il terzo individuale sempre a capitalizzazione (sistema multipilastro). 2.3Una «sindrome italiana»: l’impetuosa espansione delle pensioni Nella cosiddetta «età dell’oro» si assiste alla robusta espansione del sistema pensionistico italiano lungo direttrici analoghe a quelle degli altri sistemi di matrice bismarckiana: 1. viene estesa la copertura dell’assicurazione pensionistica obbligatoria oltre il comparto del lavoro dipendente, con la creazione di nuovi schemi per le diverse categorie di lavoratori autonomi; 2. viene creata una rete di protezione minima (safety net) per gli anziani con nessun, ovvero insufficiente, requisito contributivo;74 3. vengono (gradualmente) modificati il metodo di calcolo delle prestazioni, da contributivo a retributivo, nonché 4. la modalità di gestione dei contributi, da capitalizzazione a ripartizione. La traiettoria italiana è tuttavia caratterizzata da alcune importanti peculiarità, tra cui l’eccessiva generosità della tutela previdenziale in taluni casi e specialmente per quanto concerne i requisiti di accesso al pensionamento, da cui discendono la forte disparità di trattamento tra le varie categorie professionali e, per riprendere una nota espressione di Peter Flora [1986], una dinamica della spesa «oltre i limiti» della sostenibilità economico- Come è facilmente intuibile, l’introduzione delle pensioni di anzianità ha rappresentato uno snodo rilevante della tutela della vecchiaia nel nostro paese per almeno due ragioni: in primo luogo, perché i modesti (in chiave comparata) requisiti contributivi avrebbero determinato, nei decenni successivi, l’approfondirsi del divario tra 76contributi versati e prestazioni percepite, intaccando gli equilibri finanziari del sistema; in secondo luogo, perché le diverse regole per le varie categorie di lavoratori hanno aumentato la frammentazione normativa del sistema, con rilevanti conseguenze sul piano dell’equità intragenerazionale. Circa l’importo delle prestazioni il passaggio fondamentale è costituito dalla riforma del 1969 (l. n. 153), che definisce i tratti fondamentali del sistema pensionistico poi rimasti in buona parte inalterati per oltre due decenni. Dopo una serie di incrementi ad hoc del valore delle pensioni (i più significativi nel 1958, 1962, 1963 e 1965) l’originario sistema contributivo viene infatti rimpiazzato dal nuovo metodo di calcolo delle prestazioni di tipo retributivo. A partire dal 1969, e fino alla riforma del 1995, le pensioni verranno calcolate con la formula già vista ( P = rp · c · r) secondo la quale, ipotizzando una carriera lavorativa di c = 40 anni, la prestazione pensionistica P corrisponde all’80% della retribuzione pensionabile (rp): P = rp · 40 · 2% = rp · 80% Con la riforma del 1969 giunge inoltre a completamento il processo di sostituzione dell’originario sistema di gestione dei contributi a capitalizzazione con il sistema a ripartizione che, sfruttando la robusta crescita economica, si è rivelato un formidabile strumento per espandere il sistema pensionistico, trasferendo ai lavoratori in quiescenza quote crescenti del reddito nazionale. Negli anni Settanta alcuni provvedimenti incrementano ulteriormente la generosità del primo pilastro pubblico. La l. n. 160/1975, in particolare, modifica il meccanismo d’indicizzazione, che legava la crescita delle prestazioni pensionistiche all’aumento dei prezzi, sostituendolo con un indice composto che collega i trattamenti pensionistici anche alla dinamica delle retribuzioni nel settore industriale. Il risultato dei numerosi interventi espansivi qui illustrati è un sistema pensionistico estremamente frammentato lungo le linee occupazionali – con molti schemi differenti per le varie categorie, ognuno con specifiche regole riguardo alle condizioni di eleggibilità, il livello dei contributi e delle prestazioni – e oneroso, con il forte incremento della spesa pensionistica sul PIL (dal 4,5% nel 1960 al 6,8% nel 1970 e al 10,8% nel 1980 [Ministero del Tesoro 1981]) – e l’emergere di ragguardevoli sbilanci nei conti dell’INPS, e di altri fondi pensionistici autonomi. A questo proposito è importante notare che le riforme espansive furono raramente precedute da rigorosi studi e proiezioni sul loro impatto. Inoltre, la scarsa visibilità dei costi dei singoli provvedimenti espansivi – per le caratteristiche intrinseche delle politiche distributive (cap. 1) oltre che per il ricorso al deficit spending e la progressiva adozione della ripartizione in condizioni economiche e demografiche favorevoli – consentì ai principali partiti di utilizzare le politiche per la vecchiaia come moneta corrente degli scambi politici. In altre parole, le pensioni divennero uno strumento fondamentale per attrarre il sostegno dei gruppi d’interesse e dei 77cittadini/elettori e, nel periodo 1950- 1980, la politica pensionistica italiana registrò le dinamiche tipiche dello «scivolamento distributivo» illustrato nel capitolo 1, con i caratteristici picchi di generosità e irresponsabilità finanziaria che contribuirono all’emergere di quel «welfare state all’italiana» [Ferrera, Fargion e Jessoula 2012] segnato dallo sbilanciamento funzionale a favore della tutela della vecchiaia, a discapito di altri rischi quali la disoccupazione, i carichi familiari e la povertà/esclusione sociale. Tale poderosa espansione della protezione della vecchiaia in Italia – come effetto cumulativo di numerosissimi (spesso micro) interventi legislativi che sarà alla radice della «sindrome previdenziale» italiana a partire dagli anni Ottanta del XX secolo –, va sì compresa con riferimento a specifiche concezioni e «visioni» degli attori sulla scena pensionistica, ma è soprattutto l’esito di un processo di policy svoltosi sul peculiare sfondo politico-istituzionale della Prima Repubblica [ibidem]. Le dinamiche della competizione partitica e dello scambio politico in un contesto di democrazia bloccata e di pluralismo polarizzato [Sartori 1966] hanno giocato un ruolo di primo piano nell’estensione e nel rafforzamento del sistema di tutela della vecchiaia, anche oltre i limiti della sostenibilità finanziaria. Perlomeno fino al definitivo consolidamento del regime democratico, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta [Morlino 2008], il governo e le forze politiche che lo componevano sono stati infatti impegnati nella cruciale opera di stabilizzazione del nuovo assetto costituzionale, per la quale il sostegno «qualificato» dei principali gruppi di interesse – accanto a quello «diffuso» dei cittadini-elettori – era elemento di essenziale importanza. Proprio sul terreno previdenziale, dove in virtù del miglioramento delle condizioni economiche emergono ampie possibilità di «catturare» tale sostegno con erogazioni mirate a particolari gruppi e categorie, si è giocata una parte importante della sfida tra le forze di governo – specialmente la DC – e il principale partito di opposizione – il PCI – che in questa sfera godeva tra l’altro di intrinseche rendite di posizione dovute all’ideologia socialcomunista. Specularmente si sono aperti importanti spazi di azione per i gruppi di pressione – sindacati in primis, ma anche la Coldiretti. La competizione tra gli attori sociali, in combinazione con quella tra DC e PCI, hanno perciò operato come potenti fattori propulsivi del policy making previdenziale in un contesto in cui la posta in gioco degli scambi politici non era rappresentata dal mero consenso politico-elettorale bensì dal più vitale sostegno al regime democratico in fase di difficile consolidamento [Jessoula 2009; 2011b; Ferrera, Fargion e Jessoula 2012]. 3. CRISI E RIFORMA DEI SISTEMI DI TUTELA DELLA VECCHIAIA Dopo tre decenni di espansione previdenziale, a partire dagli anni Settanta iniziano a delinearsi alcuni cambiamenti nelle condizioni che hanno sostenuto 78tale crescita o sulle quali semplicemente i sistemi pensionistici sono stati «disegnati». Si registrano processi di mutamento, più o meno repentini e profondi nei vari paesi, in almeno quattro sfere istituzionali: 1. sistema economico; 2. mercato del lavoro; 3. struttura demografica della società; 4. famiglia e rapporto tra i generi. Tali dinamiche rappresentano altrettante sfide esogene ai sistemi di protezione della vecchiaia dei paesi europei12, cui si aggiungono alcuni elementi critici di natura endogena, e cioè connessi alle decisioni di policy della fase espansiva e alla stessa evoluzione istituzionale degli schemi pensionistici. Come vedremo sotto, altri due processi di mutamento, quali la più o meno graduale sostituzione del «paradigma» economico keynesiano [Hall 1993] e le trasformazioni politico-istituzionali connesse al rafforzamento dell’Unione economica e monetaria, pur non costituendo veri e propri fattori di crisi degli assetti pensionistici, hanno inciso in modo rilevante sulle opzioni a disposizione dei policy maker nel fronteggiare la crisi. Ma torniamo alle sfide in senso stretto con particolare attenzione al gruppo di paesi con sistemi pensionistici monopilastro cui appartiene l’Italia (cfr. in seguito il quadro 2.1 sulla crisi e sulle riforme nei sistemi multipilastro e nei paesi ex comunisti). 3.1Le sfide ai sistemi pensionistici monopilastro In generale va osservato che i processi di cambiamento nelle quattro sfere sopra elencate hanno prodotto due ordini di problemi specialmente nei sistemi pensionistici monopilastro: 1. una crisi di tipo economico-finanziario; 2. uno «spiazzamento» delle regole pensionistiche rispetto al contesto in cui erano state definite, con conseguente rischio di minore efficacia nella tutela della vecchiaia. Sul primo versante, la particolare vulnerabilità – nonché l’esposizione agli interventi di riforma – degli schemi pensionistici nei sistemi monopilastro deriva da tre ordini di fattori. In primo luogo, nella maggior parte di questi paesi durante la fase espansiva sono stati istituiti schemi retributivi, che erogano prestazioni piuttosto generose e sono tra le cause del consistente aumento della spesa pubblica per pensioni. In secondo luogo, questa assorbe una quota considerevole di PIL (tab. 2.6) e costituisce la prima voce di spesa sociale (fig. 1.3), per cui eventuali «tagli» nel settore del welfare vengono primariamente indirizzati proprio verso tale comparto.79 In terzo luogo, nei sistemi monopilastro il cuore del sistema pensionistico è costituito da schemi (pubblici) a ripartizione: tale metodo di gestione non solo è particolarmente vulnerabile alle trasformazioni accennate sopra, ma rende anche immediatamente percepibili eventuali squilibri tra l’ammontare dei contributi riscossi e la spesa per le prestazioni erogate, con l’emergere di deficit nelle casse pensionistiche. Vediamo perché. TAB. 2.6. Spesa pubblica per pensioni (solo rischio vecchiaia) nei paesi europei in % del pil L’equilibrio finanziario di un sistema a ripartizione si fonda sull’equivalenza tra le entrate e le uscite in un determinato periodo temporale, ed è espresso dalla formula: Entrate = Uscite → RLK = PN dove: pratica frequente in diversi paesi europei specialmente per fronteggiare fasi contingenti di ristrutturazione industriale e più strutturali situazioni di eccesso di domanda di lavoro connesse al processo di deindustrializzazione (cosiddetta labour reduction route, cap. 3) – ha inciso negativamente sul tasso d’occupazione dei lavoratori più anziani riducendo di conseguenza la base su cui operare il prelievo delle risorse (L). Per effetto delle dinamiche appena illustrate, a partire dalla fine degli anni Settanta e ancor più negli ultimi vent’anni, i sistemi pensionistici monopilastro hanno evidenziato una sindrome comune, caratterizzata da costi crescenti e dall’approfondirsi del divario tra contributi e prestazioni. Inoltre, le cifre riportate nella tabella 2.6 illustrano chiaramente che la spesa pubblica per pensioni continuerà a crescere nei prossimi decenni in quasi tutti i paesi europei, assorbendo quote sempre maggiori del reddito nazionale. Riconsideriamo ora la formula proposta in precedenza, modificata come segue: RLK = PN → K = PN/RL Si intuisce facilmente come, a fronte di un aumento della spesa pensionistica (PN) più rapido della crescita del montante retributivo (RL) per effetto delle dinamiche appena illustrate, il fattore (PN/RL) tenda ad aumentare. Ciò significa che, per riportare in equilibrio il sistema senza operare tagli alle prestazioni (e cioè senza intervenire su P e N) si deve intervenire sul prelievo contributivo (K), portandolo al livello al quale è soddisfatta l’uguaglianza K = PN/RL o, che è lo stesso, si raggiunge l’equilibrio tra entrate e uscite (RLK = PN), con K che rappresenta in questo caso l’aliquota contributiva di equilibrio. L’aumento delle aliquote contributive ha effettivamente rappresentato il principale provvedimento adottato per fronteggiare la crisi previdenziale nel periodo che va dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta [Palier 2010], spesso accompagnato da trasferimenti dal bilancio pubblico per ripianare i deficit della previdenza. Entrambe le strategie hanno consentito di evitare tagli alle prestazioni sociali – che costituiscono interventi rischiosi sul piano politico-elettorale per i governi – garantendo il mantenimento delle «promesse» pensionistiche effettuate nella fase espansiva. Negli ultimi due decenni, tuttavia, le trasformazioni del contesto economico internazionale e del quadro politico-istituzionale a livello europeo hanno esercitato un’ulteriore pressione sulle strutture previdenziali. In particolare, i fenomeni di liberalizzazione e di internazionalizzazione dei mercati hanno agevolato processi di delocalizzazione della produzione da parte delle imprese occidentali in paesi con un più basso costo del lavoro. Tale possibilità di «uscita» delle imprese dal contesto produttivo nazionale ha rafforzato la posizione di potere delle stesse nell’arena politica domestica, rendendo più arduo per i decisori politici proseguire nel continuo aumento delle entrate pensionistiche tramite l’innalzamento delle aliquote contributive – in alcuni paesi già a livelli piuttosto elevati.83 Analoghi stimoli a cambiare il versante di intervento, passando dall’aumento delle entrate a misure di contenimento/riduzione della spesa, sono giunti ai policy maker da cambiamenti di tipo politico-istituzionale, quali l’approfondimento del processo di integrazione europea con la definizione del percorso verso l’UEM negli anni Novanta. I famosi «parametri di convergenza» inclusi nel Trattato di Maastricht hanno infatti imposto forti vincoli di bilancio ai paesi comunitari, incentivando così i governi ad adottare misure che, riducendo la spesa pensionistica, diminuissero i trasferimenti dal bilancio pubblico volti ad appianare lo squilibrio finanziario degli schemi previdenziali. Infine, la diffusione di un approccio macroeconomico di stampo neoliberista imperniato sul «dogma» del pareggio di bilancio – sulla scorta dei governi conservatori nel Regno Unito e negli Stati Uniti – e l’accantonamento del paradigma keynesiano hanno ulteriormente contribuito a spingere i governi nazionali verso l’adozione di misure sottrattive per far fronte al contesto di «austerità permanente» [Pierson 1994]. Come accennato all’inizio del paragrafo, tuttavia, i problemi di natura finanziaria non esauriscono le sfide agli schemi di tutela della vecchiaia nei sistemi monopilastro. Durante la fase espansiva, infatti, tali programmi erano stati perlopiù disegnati con riferimento al modello del male breadwinner – fondato sulla famiglia monoreddito garantito dal capofamiglia maschio – e ai profili di carriera tipici dell’occupazione industriale. Specialmente i requisiti di accesso e le modalità di calcolo delle prestazioni erano stati definiti sulla base del lavoratore «tipo», cioè il lavoratore maschio, con una carriera non frammentata e un periodo di contribuzione continuativo e prolungato. Alcune delle trasformazioni illustrate poc’anzi, in particolare la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’aumento delle forme di lavoro «flessibili» – con il corollario di una maggiore frammentazione e «intermittenza» dei profili di carriera – nonché il diffondersi di nuovi modelli familiari in senso lato (coppie di fatto eterosessuali e non, famiglie monogenitoriali, ricostituite, ecc.), hanno perciò prodotto un effetto di «spiazzamento» degli assetti pensionistici esistenti, mettendone a repentaglio la capacità di svolgere efficacemente la funzione di tutela del reddito nella fase di quiescenza [Hinrichs e Jessoula 2012]. 3.2 La riforma dei sistemi pensionistici monopilastro A partire dai primi anni Novanta in tutti i paesi europei con sistemi pensionistici incentrati sul pilastro pubblico a ripartizione sono state adottate riforme volte a contenere la spesa pubblica per la tutela della vecchiaia, cui si sono accompagnate misure dirette a ridisegnare l’architettura pensionistica complessiva, nonché ad adattare gli schemi previdenziali alle mutate circostanze sociali e occupazionali.84 Tali misure sono state perseguite lungo due fondamentali traiettorie di riforma [Amato e Marè 2001]. La politica pensionistica nei sistemi multipilastro ed ex comunisti Sistemi multipilastro • A metà anni Settanta lo stato assicura soltanto una protezione di base e gli schemi privati a capitalizzazione hanno una diffusione ancora piuttosto limitata (Danimarca, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Svizzera)1. • Alcune sfide esogene, e specialmente l’invecchiamento demografico, incidono anche sui sistemi articolati su più pilastri. Tuttavia, la più tarda istituzione e maturazione degli schemi a capitalizzazione ne differisce l’impatto. • Accanto a limitati interventi sottrattivi, la politica pensionistica mantiene perciò un carattere espansivo e di adattamento al mutato contesto con interventi che mirano a: 1. estendere la copertura degli schemi complementari anche tramite forme di inclusione (semi)obbligatoria; 2. migliorare la tutela dei diritti degli aderenti ai fondi pensione, la portabilità delle prestazioni, l’armonizzazione delle regole tra uomini e donne; 3. più robusti elementi redistributivi nel primo pilastro rafforzando la tutela di base e (re)introducendo forme di selettività nell’erogazione delle prestazioni. Paesi ex comunisti Nei paesi ex comunisti la sfida cruciale è rappresentata dal collasso del blocco sovietico che avvia la «doppia transizione» verso l’economia di mercato e la democrazia liberale2. Nella prima fase della transizione le pensioni vengono utilizzate come strumenti di riduzione dell’offerta di lavoro con conseguente forte aumento della spesa. Dalla fine degli anni Novanta si delineano due diverse traiettorie: 1. Repubblica Ceca e Slovenia: il sistema pensionistico rimane incentrato sul pilastro pubblico di stampo bismarckiano-occupazionale, con adozione di riforme parametriche volte a migliorarne la sostenibilità economico-finanziaria; vengono solo gettate le basi per una possibile evoluzione multipilastro in futuro; 2. nella maggior parte dei casi – Bulgaria, Estonia, Lettonia, Polonia e Slovacchia – viene intrapreso un cambiamento più innovativo e radicale con l’introduzione dell’adesione obbligatoria a fondi a capitalizzazione a contribuzione definita accanto a interventi parametrici sugli schemi pubblici. 1 Per un approfondimento, cfr. Ebbinghaus [2011] e Hinrichs e Jessoula [2012]. 2 Per maggiori dettagli, cfr. Guardiancich [2012]. La prima traiettoria ha previsto un ventaglio di interventi sottrattivi cosiddetti parametrici – perché agiscono sui parametri fondamentali degli schemi pubblici a ripartizione mantenendo però inalterata l’architettura complessiva del sistema – finalizzati a ristabilire l’equilibrio finanziario e la sostenibilità economica del primo pilastro. Tali interventi hanno riguardato: 0. l’innalzamento dell’età pensionabile; 1. la diminuzione dell’importo delle prestazioni tramite: a) la riduzione dell’aliquota di rendimento, b) l’estensione del periodo di riferimento per il calcolo della retribuzione pensionabile, c) la modificazione del meccanismo d’indicizzazione delle prestazioni;85 2. l’istituzione di un più stretto legame tra contributi versati e prestazioni erogate tramite: a) il passaggio da un sistema retributivo a un sistema contributivo, b) l’estensione dei periodi contributivi per accedere alle pensioni di vecchiaia e di anzianità. Questi provvedimenti sono stati spesso accompagnati da misure finalizzate ad adattare gli schemi pensionistici al mutato contesto sociale e occupazionale – è il caso dell’introduzione dei «crediti contributivi» per periodi di disoccupazione e non occupazione, ovvero del rafforzamento degli schemi redistributivi di base – nonché da riforme delle politiche del lavoro volte ad aumentare il tasso di occupazione, specie per i lavoratori più anziani, allargando in tal modo la cosiddetta «base contributiva». Accanto agli interventi sottrattivi, una seconda direttrice evolutiva ha riguardato l’adozione di riforme strutturali volte a modificare l’architettura complessiva del sistema pensionistico con lo spostamento di parte della spesa per la tutela della vecchiaia su schemi – generalmente privati – a capitalizzazione. Sono state definite cornici regolative per le forme pensionistiche complementari a capitalizzazione – i fondi pensione – e predisposti incentivi fiscali volti a favorire lo sviluppo del secondo e del terzo pilastro accanto a un primo pilastro pubblico ridimensionato. Le riforme strutturali sono però generalmente di difficile implementazione nei paesi con sistemi a ripartizione estesi e maturi per via del cosiddetto problema del doppio pagamento [Myles e Pierson 2001]. Con questa espressione si fa riferimento al fatto che durante la transizione da un sistema a ripartizione a uno a capitalizzazione, ovvero a un sistema multipilastro, le generazioni attive dovrebbero «pagare due volte»: da un lato, devono infatti continuare a finanziare il sistema a ripartizione per garantire il pagamento delle prestazioni in essere, dall’altro dovrebbero versare i contributi nei fondi a capitalizzazione per «costruirsi» la loro pensione futura. La transizione verso un assetto multipilastro è stata comunque intrapresa in tutti i paesi europei con sistemi pensionistici paradossalmente, una connotazione espansiva invece che sottrattiva15. Questo nonostante l’invecchiamento demografico, la crescente disoccupazione, debito e deficit pubblici in aumento e finanze previdenziali in condizioni via via più critiche. Tra gli interventi espansivi vanno menzionati in particolare l’abolizione del «tetto» sulla retribuzione pensionabile (1988) e soprattutto la l. n. 233/1990 che estende il metodo retributivo alle tre grandi categorie di lavoratori autonomi assicurati presso l’INPS. Quest’ultimo provvedimento è di cruciale importanza, in primis perché sancisce la generalizzazione dell’obiettivo del mantenimento di un elevato livello di reddito tramite gli schemi di primo pilastro per tutti i lavoratori. Le altre conseguenze dell’intervento sono assai meno virtuose: il metodo retributivo viene infatti applicato ai lavoratori autonomi senza adeguare il livello del prelievo contributivo per tali categorie, che è circa la metà (12%) di quello richiesto ai dipendenti del settore privato. Ciò comporta, da un lato, il drammatico aggravamento delle prospettive finanziarie delle tre gestioni coinvolte (agricoli, artigiani e commercianti) [INPS 1993; Franco 2002]; dall’altro introduce l’ennesimo elemento distorsivo sul piano delle parità di trattamento tra le diverse categorie di lavoratori, per il più favorevole rapporto contributi/prestazioni garantito ai lavoratori autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti (tab. 2.8). TAB. 2.8. I principali schemi pensionistici pubblici prima della riforma Amato Tali sviluppi mostrano come in Italia il passaggio dalle politiche distributive tipiche dell’«età dell’oro» a quelle sottrattive necessarie ad aggredire la crisi previdenziale si riveli praticamente impossibile durante la Prima Repubblica, nonostante il dibattito fosse avviato da ormai un decennio. Quali sono le ragioni di tale incapacità dei policy maker nell’affrontare le sfide, esogene ed endogene, al sistema pensionistico? Senza dubbio la mancanza di consenso circa la gravità della crisi della previdenza ha giocato un ruolo nella procrastinazione di un intervento sottrattivo. Tuttavia, la causa principale della contraddittoria policy pensionistica degli anni Ottanta ha natura politica e va rintracciata nelle peculiari caratteristiche del sistema politico italiano. Un sistema connotato da elevata frammentazione e polarizzazione del sistema partitico, e da governi deboli, sostenuti da coalizioni ampie ed eterogenee (3,7 partiti per coalizione in media), che si estendono solitamente dal centro-destra al centro-sinistra 89dello spettro politico attorno al perno costituito dalla DC. Tali coalizioni presentano frequenti e laceranti conflitti interni – in particolare tra il sempre più influente PSI e la DC – che incidono sulla stabilità dei governi, così che questi – che tra l’altro rimangono in carica solo 300 giorni in media – incontrano formidabili ostacoli nel far adottare in parlamento riforme sottrattive. Si può perciò affermare che – per quanto la relazione tra concentrazione del potere e chance di approvare una riforma delle pensioni sia tutt’altro che lineare – in Italia, ancora negli anni Ottanta, il governo disponesse di un’autonomia troppo limitata dalla coalizione di sostegno, e fosse troppo spesso coinvolto in scontri con il parlamento, per potersi dedicare a interventi estremamente rischiosi sul piano politico-elettorale come l’adozione di politiche sottrattive in campo pensionistico previdenziale. Molto più agevole e politicamente conveniente, era invece continuare a perseguire politiche distributive, tramite provvedimenti espansivi che venivano temporaneamente – e solo parzialmente – bilanciati dal continuo innalzamento delle aliquote contributive. Con l’inizio degli anni Novanta si chiude però il periodo espansivo del sistema pensionistico italiano. L’Italia è alle soglie di una nuova epoca, nella quale molti dei vizi del suo sistema pensionistico non saranno più tollerati per l’impatto congiunto di fattori domestici e internazionali. 4. DOPO IL 1992: RIFORME E TRANSIZIONE A UN SITEMA PENSIONISTICO MULTIPILASTRO In contrasto con l’ambivalente politica pensionistica degli anni Ottanta, il periodo 1992-2012 ha fatto registrare una serie di incisive riforme – 1992-1993, 1995, 1997, 2000, 2004-2005, 2007, 2009, 2010, 2011 – caratterizzate da misure parametriche sottrattive sul pilastro pubblico e interventi a carattere regolativo volti ad avviare la transizione a un sistema multipilastro (riforme strutturali). Nei due decenni considerati si possono distinguere tre diverse fasi del processo di riforma del sistema pensionistico italiano (tab. 2.9). TAB. 2.9.Principali provvedimenti nella fase delle riforme 1992-2012 La prima fase va dal 1992 al 1997 ed è detta di «emergenza» per via della crisi multidimensionale – politico-istituzionale oltre che economico-finanziaria – che investe l’Italia (par. 4.1 ). Tale periodo è cruciale perché con le riforme Amato (1992-1993) e Dini (1995) viene disegnata la nuova architettura del sistema di tutela della vecchiaia. Il periodo tra la fine degli anni Novanta e il 2007 è invece caratterizzato da nuove riforme previdenziali, perlopiù parametriche e talvolta contraddittorie tra loro, adottate nel quadro del rinnovato sistema politico-istituzionale della Seconda Repubblica (par. 5 )16. Con il 2008 si apre invece una seconda fase di crisi che conduce all’adozione di nuovi interventi emergenziali che culminano con la riforma Fornero-Monti a fine 2011 (par. 6 ). .4.1La fase dell’«emergenza»: le riforme nel nome del «risanamento» e dell’Europa Il periodo si apre con i due provvedimenti del governo Amato nel 1992-1993 per poi proseguire con la cruciale riforma Dini del 1995 e l’aggiustamento del governo Prodi nel 1997. Questa prima serie di interventi (principalmente) sottrattivi non soltanto è riuscita a riportare sul sentiero della sostenibilità economica e dell’equilibrio finanziario gli schemi pensionistici pubblici – la cui dinamica di spesa appariva del tutto fuori controllo nei primi anni Novanta – e ad armonizzare le regole (anche se non sempre in modo definitivo) tra le varie categorie di lavoratori, ma ha anche trasformato l’architettura complessiva del sistema previdenziale. Fin dalla riforma Amato si è infatti avviata la transizione verso un assetto multipilastro, favorendo lo sviluppo dei pilastri complementari a capitalizzazione accanto a un pilastro pubblico meno generoso rispetto al passato. Benché incisivi, gli interventi parametrici sugli schemi pubblici hanno spesso previsto lunghi periodi di transizione per l’applicazione delle nuove regole, diluendo nel tempo gli effetti delle riforme e scaricando i costi sulle generazioni più giovani. Inoltre, la fase ha registrato anche il fallimento del progetto di riforma elaborato dal primo governo Berlusconi nel 1994, che richiede adeguata interpretazione. ■ Crisi multidimensionale e riforma Amato del 1992-1993. La riforma pensionistica adottata dal governo Amato, con vari provvedimenti normativi tra la seconda metà del 1992 e i primi mesi del 1993, si colloca nel quadro della grave crisi economico-finanziaria e politico-istituzionale che attraversa l’Italia. Nei primi anni Novanta le condizioni di finanza pubblica sono infatti critiche. Nel 1991 il deficit pubblico è al 10,5% e il debito al 108,4% sul PIL. Il nuovo Trattato dell’Unione Europea firmato a Maastricht nel 1992 – che avvia il processo di convergenza verso l’UEM – stabilisce un obiettivo del 3% per il rapporto deficit/PIL e del 60% per quello debito/PIL. L’Italia è lontana da entrambi gli obiettivi: il processo di risanamento della Ciononostante, la riforma Amato ha costituito una tappa importante del processo di riforma delle pensioni in Italia perché a) si è trattato del primo provvedimento effettivamente sottrattivo sul pilastro pubblico, b) ha introdotto il primo quadro regolativo per la previdenza complementare a capitalizzazione che, c) avrebbe determinato, negli anni successivi, un peculiare «sdoppiamento» del policy making previdenziale su due diversi circuiti decisionali, relativi alla riforma del primo pilastro pubblico e ai pilastri complementari a capitalizzazione [Jessoula 2011b]. ■ La riforma fallita del governo Berlusconi I. Dopo l’approvazione della riforma Amato l’INPS pubblica un dettagliato rapporto nel quale si evidenzia che, se i primi interventi restrittivi adottati nel 1992 hanno migliorato la condizione finanziaria del sistema, gli schemi per i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti e lavoratori agricoli) mostrano ancora prospettive allarmanti. Questi programmi soffrono da decenni di un deficit strutturale, ma la situazione è drammaticamente peggiorata dopo la generosa riforma del 1990. Meno critica è invece la condizione del Fondo pensioni per i lavoratori dipendenti su cui l’impatto della riforma è più evidente [INPS 1993]. Alla tornata elettorale del 1994 – la prima con il nuovo sistema elettorale prevalentemente maggioritario – si registrano la parziale ristrutturazione del sistema partitico e la formazione di una maggioranza di centro- destra a sostegno del primo governo pienamente «politico» dopo i due gabinetti tecnici guidati da Amato e Ciampi. Silvio Berlusconi è nominato presidente del Consiglio e sembra deciso a proseguire la linea di rigore fiscale intrapresa dai suoi predecessori. Con Lamberto Dini alla guida del ministero del Tesoro e Clemente Mastella al Lavoro viene istituita una commissione, presieduta da Onorato Castellino, per elaborare un progetto di riforma delle pensioni. Il «pacchetto previdenziale» presentato a fine settembre 1994 mira al contenimento dei costi e al prolungamento dell’attività lavorativa nel breve periodo ed è imperniato su tre provvedimenti principali: 1. penalizzazione in caso di pensionamento per anzianità pari al 3% per ogni anno di anticipo rispetto all’età pensionabile; 2. riduzione dell’aliquota di rendimento dal 2 all’1,75% per i lavoratori con più di 15 anni di contributi, in precedenza meno colpiti dalla riforma Amato; 3. nuovo meccanismo d’indicizzazione delle pensioni all’inflazione programmata. Le misure, accolte positivamente dall’associazione degli imprenditori, scatenano un’imponente e prolungata protesta dei sindacati. Nel frattempo 96la maggioranza parlamentare va sfaldandosi – anche per la riluttanza della Lega Nord a intervenire in maniera restrittiva sulle pensioni di anzianità, particolarmente concentrate nella parte settentrionale del paese. All’inizio di dicembre il governo deve cedere il passo. L’accordo siglato il 1o dicembre 1994 tra governo e sindacati prevede infatti solo alcuni interventi prevalentemente temporanei, e sancisce che entro il giugno 1995 dovrà essere approvata una riforma organica e strutturale del sistema pensionistico altrimenti le aliquote contributive dovranno essere elevate per decreto. Il 22 dicembre Silvio Berlusconi rassegna le dimissioni, concludendo la sua prima esperienza politica con una sconfitta sul terreno delle pensioni. ■ La «rivoluzione copernicana» della riforma Dini. Data la criticità della situazione politica ed economico- finanziaria, dopo le dimissioni di Berlusconi il presidente della Repubblica Scalfaro opta per non indire nuove elezioni anticipate a soli otto mesi dell’ultima consultazione elettorale. Se, infatti, la situazione economica è relativamente migliorata – la crescita del PIL è al 2,2% nel 1994 – il debito pubblico ha raggiunto il 125% del PIL (mentre il deficit è al 7,1%), ma soprattutto l’instabilità politica del 1994 ha provocato una forte svalutazione della lira, richiedendo un deciso intervento da parte del governo [Ferrera e Gualmini 1999]. La «palla» della riforma previdenziale passa così nelle mani del neopresidente del Consiglio Lamberto Dini, ex ministro del Tesoro del governo Berlusconi e ora a capo, ironia della storia, di un gabinetto sostenuto in parlamento dai partiti di centro-sinistra e dalla Lega Nord. Il nuovo governo ha comunque una chiara connotazione tecnica ed è concepito per rimanere in carica il tempo necessario ad adottare alcune misure urgenti: tra queste, la riforma delle pensioni già prevista dall’accordo tra governo Berlusconi e sindacati del dicembre 1994. Il provvedimento di riforma viene elaborato tramite un processo di concertazione tripartita tra governo – in particolare il ministro del Lavoro Treu – e parti sociali, che si snoda per circa tre mesi fino all’accordo dell’8 maggio 1995. L’accordo non viene però siglato da Confindustria che lamenta l’approccio troppo graduale del piano di riforma diretto a stabilizzare la spesa pensionistica in rapporto al PIL nel medio-lungo periodo. Presentato alla Camera dei deputati il 17 maggio, il disegno di legge che recepisce puntualmente le misure previste dall’accordo procede con un iter parlamentare spedito e viene approvato il 4 agosto (l. n. 335/1995). La trasformazione del primo pilastro indotta dalla l. n. 335/1995 rappresenta una vera e propria rivoluzione nella tutela pubblica della vecchiaia per le categorie professionali coinvolte – i lavoratori dipendenti pubblici e privati e le tre categorie di lavoratori autonomi assicurate presso l’INPS. A un quarto di secolo dalla riforma del 1969, che aveva introdotto il metodo retributivo per i dipendenti del settore privato, e cinque anni dopo l’estensione di tale metodo alle tre principali gestioni del lavoro autonomo, la logica di funzionamento del primo pilastro viene infatti completamente modificata con il passaggio a un sistema di tipo contributivo. Il pilastro pubblico rimane a ripartizione, ma il metodo contributivo presuppone la definizione di un determinato livello di contribuzione sulla base della quale vengono calcolate le prestazioni pensionistiche che possono variare secondo alcuni parametri (quadro 2.4). Nel nuovo sistema, inoltre, le pensioni riflettono non soltanto la durata della contribuzione (come nel sistema retributivo) ma anche l’effettivo ammontare dei contributi versati. Ciò mette in evidenza come l’adozione del sistema contributivo miri, innanzitutto, a rafforzare il nesso a livello individuale tra contributi versati e prestazioni. Tuttavia, il nuovo metodo agisce anche in altre due direzioni: 1. il superamento delle disparità di trattamento e di talune iniquità distributive; 2. il contenimento dei costi, specie, come vedremo, nel medio-lungo periodo21. Circa il primo punto, va detto infatti che l’applicazione del metodo contributivo alle gestioni per i dipendenti pubblici e privati e alle tre gestioni per i lavoratori autonomi rende omogeneo il trattamento previdenziale tra le principali categorie: quelle che contribuiscono in misura maggiore – lavoratori dipendenti privati e pubblici, con un’aliquota del 33% – disporranno in futuro di prestazioni più elevate, quelle che contribuiscono di meno – gli autonomi (con aliquote attorno al 15%, elevate fino al 24% negli anni successivi) – percepiranno una pensione proporzionalmente inferiore. Quanto al contenimento dei costi sono opportune due considerazioni. In primo luogo, va ricordato che il metodo contributivo, specie per effetto di alcuni specifici meccanismi per i quali si rimanda al quadro 2.4, «scarica» sugli assicurati i costi di eventuali dinamiche sfavorevoli (demografiche, economiche, ecc.), rafforzando perciò la stabilità e la sostenibilità finanziaria del sistema. In secondo luogo, il sistema contributivo permette un deciso contenimento della spesa nel medio-lungo periodo per effetto della drastica riduzione delle prestazioni pensionistiche (par. 5). Tale distribuzione temporale degli effetti della riforma deriva dalla lunga fase di transizione prevista per l’entrata in vigore del nuovo sistema, che si applica integralmente solo ai nuovi entranti sul mercato del lavoro dopo il 1o gennaio 1996 e non si applica a coloro che al 31 dicembre 1995 dispongono di almeno 18 anni di contribuzione. La riforma Dini, tuttavia, non è importante soltanto per l’introduzione del sistema contributivo. La l. n. 335/1995 persegue infatti la sostenibilità finanziaria del sistema anche attraverso misure dirette al prolungamento dell’attività lavorativa, mirando inoltre ad adattare le regole previdenziali a un quadro socio-occupazionale in fase di trasformazione. Due elementi, in particolare, sono diretti a favorire il prolungamento dell’attività lavorativa: 1. gli incentivi a differire il pensionamento impliciti nel sistema contributivo, per via del valore crescente dei coefficienti di trasformazione in relazione all’età effettiva di quiescenza, come mostrato nel quadro 2.4; 2. l’innalzamento del requisito contributivo per l’accesso alle pensioni di anzianità, con il passaggio graduale da 35 a 40 anni entro il 2008. Viene però 98prevista, nel periodo di transizione, la possibilità di accedere al pensionamento per anzianità combinando requisito contributivo (35 anni) ed età anagrafica (gradualmente crescente da 52 anni a 57 nel 2006). Tra i provvedimenti volti a migliorare l’adattamento delle regole previdenziali al mutato contesto, e specialmente a un mercato del lavoro in trasformazione nel quale sono sempre più frequenti le carriere lavorative discontinue, sono invece da ricordare: 1. l’estensione dell’assicurazione obbligatoria ai lavoratori «parasubordinati», con la creazione di una nuova gestione separata presso l’INPS; 2. l’introduzione di «crediti contributivi», a carico della fiscalità generale, versati nelle casse pensionistiche per i periodi di disoccupazione e non occupazione per attività di cura dei figli o di persone non-autosufficienti; 3. la riduzione a 5 anni del periodo contributivo minimo per avere diritto a una pensione di vecchiaia. Infine la riforma prevede la sostituzione della pensione sociale e dell’«integrazione al minimo» con una nuova prestazione means-tested – l’assegno sociale – per tutti i cittadini sopra i 65 anni e al di sotto di una certa soglia di reddito. La riforma Dini ha dunque profondamente trasformato i tratti fondamentali del primo pilastro pensionistico, modificandone la logica di funzionamento per quanto concerne il calcolo delle prestazioni, rafforzandone le fondamenta finanziarie e riducendo fortemente le disparità di trattamento intragenerazionali e intercategoriali. Con riferimento a quest’ultimo punto va infatti sottolineato che, se l’introduzione del sistema contributivo ha armonizzato le modalità di calcolo delle prestazioni per le principali categorie di lavoratori dipendenti e autonomi, l’intervento sulle pensioni di anzianità ha fatto sì che, al termine del periodo di transizione, anche i requisiti di accesso al pensionamento anticipato saranno omogenei nelle sei gestioni principali. Tuttavia, sul piano dell’equità intergenerazionale la riforma è stata decisamente meno «virtuosa», producendo una frattura tra diverse coorti di lavoratori, specie per l’esenzione dei lavoratori più anziani dal nuovo (meno generoso) metodo contributivo e il conseguente lungo periodo di transizione. Il sistema contributivo sarà infatti pienamente «a regime» soltanto attorno al 2035. In questa lunga prospettiva temporale, il governo Dini ha perciò cercato di «compensare» le giovani generazioni per la riduzione del livello di protezione garantito dal primo pilastro, con l’inserimento nella l. n. 335/1995 di alcune misure dirette a favorire il decollo della previdenza complementare, ancora non avvenuto due anni dopo il varo del d.lgs. n. 124/1993. Al riguardo l’esecutivo non si trovava in una situazione molto dissimile dal governo Amato, a causa dei forti vincoli di bilancio indotti dal processo di convergenza europea e dalle ancora difficili condizioni di finanza pubblica. Tuttavia, era andata diffondendosi la consapevolezza che – non volendo forzare il trasferimento obbligatorio del TFR ai fondi pensione per rispettare la volontà di sindacati e datori di lavoro – senza uno sforzo finanziario da parte 100del governo il sistema pensionistico italiano sarebbe rimasto senza la sempre più necessaria componente a capitalizzazione. La riforma Dini ha perciò previsto una serie di misure finalizzate a rendere più favorevole – dal punto di vista fiscale – il sistema di previdenza complementare, ad ampliare la platea dei potenziali aderenti e, non In particolare, sul primo versante la situazione è tranquillizzante nel lungo periodo, con previsioni che indicano una modesta crescita della spesa pensionistica tra il 2015 e il 2033 – anno in cui si raggiunge il picco del 16% sul PIL – cui seguirebbe una decrescita fino a circa il 13,5% nel 2050 per effetto dell’entrata a regime del metodo contributivo e della graduale modificazione della struttura demografica della popolazione. TAB. 2.10. Proiezioni della spesa pensionistica pubblica in % del PIL, 2000-2050 Tali risultati sono ancor più significativi se si considera che per l’Italia l’andamento previsto dell’indice di dipendenza demografica (tab. 2.7) e dell’indice di dipendenza economica degli anziani è particolarmente sfavorevole. Quest’ultimo dovrebbe infatti aumentare dal 48,8% del 2000 al 64,5% nel 2020 per raggiungere nel 2040 praticamente la parità (97,8%) tra la popolazione sopra i 65 anni e gli occupati delle fasce di età 15-64 anni. Le commissioni concordano inoltre sul fatto che a breve termine rimangono alcune criticità riguardanti i trend di spesa e le disparità di trattamento delle diverse categorie occupazionali, essenzialmente riconducibili alla lenta transizione verso l’integrale applicazione del sistema contributivo e l’entrata a regime dei nuovi requisiti di accesso alle pensioni di anzianità. In particolare, la commissione Brambilla sottolinea che – nonostante il rallentamento della spesa pensionistica – «il deficit delle gestioni obbligatorie (cioè il saldo annuo tra spesa per prestazioni e contribuzioni) si mantiene su livelli elevati» [Ministero del Welfare 2001, 6], pari all’1,2% del PIL nel 2000 al netto della quota a carico della Gestione interventi assistenziali dello stato presso l’INPS (GIAS, cap. 5 ). Rispetto al lungo periodo pare invece opportuno intraprendere azioni volte a garantire prestazioni pensionistiche adeguate per le giovani generazioni cui si applicherà integralmente il metodo contributivo. Dopo circa due decenni in cui l’attenzione degli attori politici e sociali è rimasta concentrata sui problemi di (in)sostenibilità finanziaria e iniquità distributiva della previdenza pubblica, ritorna così al centro della scena la questione dell’adeguatezza del sistema pensionistico nel suo complesso − specie con riferimento al livello delle prestazioni per i lavoratori più giovani − e del connesso problema dell’equo trattamento delle diverse generazioni/coorti. Se infatti il sistema contributivo si dimostra un formidabile strumento di stabilizzazione della spesa e di equilibrio finanziario nel lungo periodo, ciò è possibile soltanto al prezzo di una consistente riduzione del livello delle prestazioni pensionistiche. E tale «compressione» delle pensioni di primo pilastro investe in particolar modo i lavoratori più giovani, non intaccando in alcun modo le «spettanze» dei lavoratori più anziani esentati dall’applicazione del nuovo sistema. I dati elaborati dalla commissione Cazzola mostrano infatti come il tasso di sostituzione – che esprime il rapporto percentuale tra la pensione lorda al momento del pensionamento e l’ultima retribuzione lorda percepita – rimanga sostanzialmente invariato fino al 2010, cioè quindici anni dopo l’adozione della riforma, per poi diminuire drasticamente in soli vent’anni di ben 17,5 punti percentuali, fino a rimpiazzare poco meno del 50% dell’ultima retribuzione (49,6%) nel 2030 (in caso di pensionamento a 60 anni con 35 di contribuzione).104 La commissione Cazzola suggerisce dunque due strategie per compensare la diminuzione del tasso di sostituzione e garantire pensioni di livello adeguato anche in futuro: il prolungamento dell’attività lavorativa, che nel sistema contributivo si traduce automaticamente in un maggiore importo delle pensioni, e l’integrazione delle pensioni pubbliche con prestazioni complementari erogate dai fondi di secondo e terzo pilastro a capitalizzazione (tab. 2.11). TAB. 2.11. Tasso di sostituzione lordo (%) previsto per un dipendente privato che si ritira a 65 anni con 40 anni di contribuzione, 2000-2050 Le riforme hanno, infatti, anche avviato una riconfigurazione complessiva dell’architettura previdenziale verso un sistema multipilastro per cui, come emerge chiaramente dalla tabella 2.11, lo sviluppo della previdenza complementare è un tassello fondamentale del piano di ristrutturazione della previdenza italiana al fine di garantire pensioni adeguate nei decenni futuri. Ciononostante, nei primi anni Duemila i numeri dei pilastri complementari sono meno soddisfacenti di quelli auspicati dai governi Amato e seguenti. Il primo fondo pensione è infatti divenuto operativo solo nel 1998 e al 31 dicembre 2000 sono stati autorizzati all’esercizio 23 fondi chiusi e 99 fondi aperti (di cui 70 operativi), che però attraggono rispettivamente soltanto 783 mila e 223 mila lavoratori. A fronte di un’occupazione complessiva pari a 20,6 milioni queste cifre sono decisamente modeste [Ministero del Welfare 2001]. La commissione mette tra l’altro in evidenza che il quadro della previdenza complementare è più articolato di quanto dicano tali cifre, individuando anche i fattori che hanno di fatto precluso l’accesso alla previdenza complementare alla maggior parte dei lavoratori. Nel settore privato la diffusione dei fondi pensione negoziali è limitata e il bacino di potenziali aderenti è ancora ristretto a soli 2,5 milioni di lavoratori. Per molti di essi non è perciò ancora possibile aderire ai fondi occupazionali, in quanto non ancora istituiti o operativi nei settori di riferimento; al contrario, dove tali fondi sono operativi il tasso di adesione dei dipendenti privati è decisamente più incoraggiante: 32,6% [COVIP 2001]. Si registra inoltre una buona capacità di attrazione dei fondi negoziali nelle grandi imprese rispetto alle piccole aziende, nelle quali la previdenza complementare occupazionale stenta a farsi strada. La situazione è invece decisamente deficitaria per i lavoratori autonomi, tra i quali si contano 216 mila iscritti alle varie forme pensionistiche complementari su circa 6 milioni di lavoratori indipendenti. Infine, rispetto al comparto pubblico la commissione sottolinea «il mancato avvio della previdenza complementare […] a causa della tardiva e incompleta estensione a questa categoria di lavoratori della 105normativa relativa al TFR. I dipendenti pubblici rappresentano una realtà di circa 3,6 milioni di occupati per i quali fino alla fine del 2000 è rimasta preclusa la possibilità di integrazione delle riduzioni della previdenza pubblica» [Ministero del Welfare 2001, 29]. Da ultimo i commissari suonano l’allarme per un aspetto particolarmente problematico nello sviluppo della previdenza complementare: il basso tasso di adesione dei giovani, che dovrebbero essere quelli maggiormente interessati e coinvolti per la prevista riduzione del livello delle prestazioni pubbliche nei decenni futuri. 5.2 Le riforme nella fase dell’alternanza bipolare: da Berlusconi a Prodi Le questioni sollevate dalle commissioni verranno affrontate tra il 2002 e il 2007 in un quadro decisamente mutato, sia sul fronte economico-finanziario sia su quello politico, rispetto alla fase delle «riforme dell’emergenza». A cavallo del millennio si iniziano infatti a raccogliere i frutti del risanamento finanziario, con livelli modesti di deficit in rapporto al PIL e una lenta, ma continua, diminuzione del debito pubblico (fino al 2005). A questi si accompagnano tendenze positive per quanto riguarda l’occupazione e la disoccupazione e, almeno fino al 2001, anche una discreta dinamica dell’economia. Sul fronte politico la grande novità è che l’Italia sembra avviata – pur con alcune resistenze e taluni aspetti critici – verso una democrazia dell’alternanza di tipo (quasi)maggioritario, caratterizzata da un sistema partitico ancora fortemente frammentato e tuttavia strutturato secondo una chiara configurazione bipolare. La principale dinamica competitiva coinvolge infatti solo due coalizioni: quella di centro-destra, organizzata attorno a Forza Italia e al suo leader Silvio Berlusconi, e quella di centro- sinistra imperniata sul raggruppamento dell’Ulivo (poi Unione). Proprio tali coalizioni si alternano al governo, con formazioni solo parzialmente variabili, nel periodo 2001-2008, facendo seguito ai gabinetti di centro-sinistra della fase 1996-2001. Nella nostra prospettiva ciò è interessante perché, nel periodo considerato, tale alternanza e dinamica competitiva si rifletteranno nell’arena pensionistica, traducendosi in riforme a volte contraddittorie, che includono misure espansive accanto a quelle sottrattive. Vediamo meglio le tappe della politica previdenziale nella fase dell’alternanza bipolare, iniziando dai governi Berlusconi II e III (2001-2006). ■ Il centro-destra e la riforma Maroni-Tremonti. Come messo in evidenza dalle analisi delle commissioni riportate poc’anzi, nel 2001 vi sono sul tavolo due questioni fondamentali: 1. il previsto incremento della spesa a breve-medio termine, prima che possano avvertirsi gli effetti del metodo contributivo e anche per via di un’età media di pensionamento ancora attorno ai 60 anni e per gli uomini decisamente 106inferiore (5,5 anni) rispetto ai 65 previsti dalla riforma Amato (per i lavoratori soggetti al sistema retributivo); 2. l’adeguatezza delle prestazioni per le generazioni più giovani, nel lungo periodo. A questa si affianca la necessità di garantire una tutela sufficiente a condurre una vita dignitosa per quelle persone che non riescono ad accedere alle pensioni previdenziali, e che devono perciò fare affidamento su prestazioni minime di natura assistenziale (pensione sociale, assegno sociale e integrazione al minimo, cap. 5 ). Circa la prima criticità, perseguire il prolungamento della fase di vita attiva pare essere una soluzione efficace perché, agendo sia sul versante delle entrate sia su quello delle uscite, contribuirebbe alla sostenibilità degli schemi di primo pilastro nella fase di transizione al sistema contributivo. Per via della particolare rilevanza delle pensioni di anzianità come canale di accesso alla quiescenza in Italia [Patriarca e Patriarca 2015], molte delle proposte nel dibattito di policy si concentrano perciò su questo punto. Il piano di riforma contenuto nel disegno di legge delega presentato dal governo alla Camera dei deputati nel novembre 2001 non si limita però a prevedere aggiustamenti incrementali agli schemi dell’assicurazione obbligatoria, mirando piuttosto a indurre un profondo mutamento istituzionale del sistema previdenziale italiano attraverso una ridefinizione dei pesi, e della relativa rilevanza, dei diversi pilastri pensionistici. Le misure cruciali in questo senso sono due: 1. la riduzione – tra i 3 e i 5 punti percentuali – del prelievo contributivo nel primo pilastro per i nuovi assunti; 2. il trasferimento obbligatorio del TFR maturando ai fondi pensione, che avrebbe reso di fatto obbligatoria l’adesione alla previdenza complementare. del provvedimento: il brusco innalzamento da 57 a 60 anni del requisito anagrafico in combinazione con i 35 anni di contribuzione viene infatti «ammorbidito» con una serie di «scalini» che prevedono un aumento da 57 a 58 anni nel 2008 e un successivo graduale inasprimento dei requisiti attraverso un sistema di «quote». A tale intervento espansivo si accompagnano l’incremento delle pensioni più basse24 e due misure finalizzate a favorire l’adattamento delle regole previdenziali al nuovo mercato del lavoro postindustriale, caratterizzato da una quota crescente di lavoratori «atipici» e dalla diffusione di carriere frammentate. La riforma prevede infatti l’irrobustimento della tutela per i parasubordinati con l’aumento delle aliquote di finanziamento e di computo – al 24% nel 2008, per poi salire al 25% nel 2009 e al 26% nel 201025 – nella Gestione separata INPS, avvicinandole a quelle vigenti per i dipendenti pubblici e privati. Inoltre la norma rende più agevole la cosiddetta «totalizzazione» dei contributi versati a due o più gestioni pensionistiche, a favore quindi dei lavoratori con carriere discontinue. Accanto a tali elementi espansivi la riforma Damiano include però alcune importanti misure sottrattive volte al controllo delle dinamiche di spesa e specialmente al rafforzamento del legame contributi-prestazioni nel sistema contributivo. Il governo Prodi interviene, infatti, sul delicato tema della revisione dei coefficienti di trasformazione – da cui dipende il valore delle pensioni nel sistema contributivo e su cui il gabinetto di centro-destra aveva soprasseduto a dispetto delle disposizioni della legge Dini – disponendo la riduzione degli stessi a partire dal 2010 in base ai nuovi dati demografici ed economici. E circa la revisione dei coefficienti l’esecutivo di centro-sinistra non si limita ad ottemperare a quanto previsto dalla l. n. 335/1995, apportando anche due importanti modifiche alla procedura:110 FIG. 2.3. Il meccanismo del silenzio-assenso dopo la revisione del governo Prodi. 1. la revisione decennale prevista dalla riforma Dini viene rimpiazzata da una revisione triennale; 2. viene eliminato l’obbligo di consultazione delle parti sociali: l’adeguamento dei coefficienti diviene quindi materia prettamente interministeriale, gestita dal ministero del Lavoro di concerto con quello dell’Economia e delle Finanze. Sul fronte della previdenza complementare l’attività del nuovo esecutivo si concentra fin dai primi mesi sulla revisione del d.lgs. n. 252/2005 con l’obiettivo di anticipare l’implementazione del meccanismo del «silenzio-assenso» introdotto dalla riforma Maroni-Tremonti e prevista per i primi sei mesi del 2008. Preceduto e accompagnato da un processo di negoziazione e confronto con i sindacati e Confindustria, l’intervento del governo sui pilastri a capitalizzazione avviene in due passaggi successivi nell’autunno 2006 e apporta alcune significative modifiche al meccanismo del silenzio-assenso e ai tempi d’implementazione dello stesso. L’anticipo dell’implementazione del silenzio-assenso viene sancito tramite decreto legge nel novembre 2006 (d.l. n. 279/2006), poi inserito nella finanziaria 2007 (l. n. 296/2006), che peraltro contiene anche norme che comportano una più profonda revisione del d.lgs. n. 252/2005. Vengono infatti delineati due differenti percorsi nel caso di manifestazione esplicita della volontà del lavoratore di tenere il TFR maturando in azienda (fig. 2.3): nelle imprese sotto i 50 addetti, il TFR rimane effettivamente presso l’azienda; al contrario, nel 111caso di imprese con almeno 50 dipendenti il TFR viene trasferito a un fondo di tesoreria, gestito dall’INPS («INPS 2» nella figura), che dovrà garantire condizioni analoghe a quelle previste per lo stesso TFR. Come vedremo nel paragrafo 8 tale innovazione sarà gravida di conseguenze per lo sviluppo della previdenza complementare in Italia. L’intervento sul cosiddetto «scalone» ha senza dubbio eliminato una fonte di iniquità tra coorti contigue di lavoratori. D’altra parte, la combinazione di questo intervento espansivo con quelli restrittivi sui coefficienti di trasformazione indica che il governo Prodi ha di fatto seguito il modello distributivo delineatosi fin dagli anni Novanta, fondato su una robusta tutela dei lavoratori più anziani nel breve periodo, con lo spostamento dei costi sulle giovani generazioni nei termini del mantenimento di elevate aliquote contributive (33% nel primo pilastro) e di pensioni d’importo modesto in futuro. Al contempo, gli incrementi selettivi delle pensioni più basse mostrano come la politica pensionistica del governo Prodi abbia mirato – nel quadro di un sistema pensionistico avviato verso l’irrobustimento del principio assicurativo e la neutralità attuariale – anche al rafforzamento dei flussi esplicitamente redistributivi negli schemi assistenziali per gli anziani poveri. 6.RITORNO DELL’EMERGENZA E NUOVO VINCOLO ESTERNO: DALLA CRISI ECONOMICA GLOBALE AL GOVERNO MONTIRitorno dell’emergenza e nuovo vincolo esterno: dalla crisi economica globale al governo Monti Allo scoppio della crisi finanziaria ed economica globale nel 2008 (cap. 1), l’Italia aveva già sensibilmente ristrutturato la sua architettura pensionistica in diversi passaggi di riforma. Ciononostante, gli anni tra il 2009 e il 2011 si caratterizzano per una nuova crisi multidimensionale, per certi versi simile a quella dei primi anni Novanta, entro cui si collocano tre ulteriori provvedimenti, tanto incrementali quanto robusti, sul primo pilastro pensionistico. Sul fronte economico-finanziario, il quadro italiano è stato contrassegnato da persistenti condizioni di difficoltà, connesse innanzitutto alla crisi globale del periodo 2007-2009. Se l’impatto congiunturale della crisi è inizialmente meno devastante rispetto a molti altri paesi europei (dinamica del PIL a –1,2% nel 2008 e –5,1% nel 2009) la contrazione economica va a incidere su una situazione già compromessa sul piano della crescita da circa un decennio – con variazione media del PIL dello 0,7% tra il 2001 e il 2011, molto inferiore alla media UE-15 (1,5%). La crisi pone inoltre fine ai positivi trend occupazionali registrati fin dai primi anni Duemila, con il tasso di occupazione (20-64) che diminuisce dal 62,9% (2008) al 59,7% (2013) e il contemporaneo drammatico aumento della disoccupazione dal 6,1% del 2007 al 12,7% del 2014. Alle criticità economico-finanziarie si accompagnano le notevoli difficoltà sul fronte politico-istituzionale, ancora una volta connesse al progressivo sfaldarsi della maggioranza parlamentare a sostegno del Berlusconi IV – nominato 112dopo la vittoria del centro-destra alle elezioni del 2008 – anche per effetto di nuove inchieste giudiziarie che coinvolgono il presidente del Consiglio e alcuni esponenti della maggioranza. Dopo una fase di rinnovato «trasformismo» parlamentare – con maggioranze dai contorni mobili, pur in grado di consolidarsi in occasione dei ripetuti voti di fiducia – si giunge alle dimissioni del governo Berlusconi e alla nomina di un nuovo gabinetto tecnico sotto la direzione dell’economista Mario Monti, e sostenuto da un’ampia coalizione tra i principali partiti politici (PD, PDL, UDC). Peraltro, già a partire dal 2010, lo scoppio della «crisi greca» e del debito sovrano – con il rischio di contagio particolarmente acuto per i paesi dell’Europa meridionale – non soltanto spinge l’Italia verso una nuova fase recessiva, che si rivelerà poi particolarmente acuta e prolungata, ma pone i governi italiani di fronte a un nuovo, e molto più robusto, «vincolo esterno». Infatti, in questo quadro, i nuovi interventi nel settore pensionistico sono indotti da pressioni internazionali e soprattutto sovranazionali, con notevole analogia rispetto ai primi anni Novanta. Entrambi i governi Berlusconi e Monti si trovano dunque a operare nel quadro di un rinnovato vincolo esterno, derivante dall’interazione tra i parametri di bilancio europei e i mercati finanziari. In quanto paese debole dell’Eurozona – per l’elevato livello del debito pubblico (120% del PIL nel 2011) e la prolungata stagnazione economica – l’Italia è infatti investita a più riprese dalle dinamiche sfavorevoli dei mercati finanziari, con il conseguente incremento del differenziale tra il rendimento dei titoli di stato italiani e tedeschi – il cosiddetto spread. Ne è conseguita, da un lato, una procedura rafforzata di sorveglianza fiscale da parte della Commissione europea che nel 2009 ha aperto la procedura d’infrazione per deficit eccessivo contro l’Italia, dall’altro un’inedita azione della Banca centrale europea, che è intervenuta in maniera robusta nel policy making domestico in campo pensionistico e non solo. Entrambe le azioni hanno di fatto richiesto ai governi italiani di riformare il sistema pensionistico tramite ulteriori misure sottrattive di emergenza. In ordine cronologico, il primo provvedimento di riforma adottato nel 2009 rappresenta, oltre che una prima reazione alla crisi economica, anche la risposta del governo Berlusconi alla «pressione diretta» e «de facto» non derogabile da parte della Corte europea di giustizia (causa C-46/07), che con sentenza del 13 novembre 2008 ravvisa nella diversa età legale di pensionamento nel comparto del pubblico impiego (65 uomini, 60 donne) una discriminazione a danno dei lavoratori maschi, con conseguente obbligo per l’Italia di eliminare la fonte di discriminazione equiparando i requisiti di accesso al pensionamento di vecchiaia. Il governo, e specialmente il ministro della Funzione pubblica Brunetta, coglie dunque l’occasione per puntare a un intervento di riduzione della spesa tramite l’equiparazione dell’età pensionabile per le donne ai 65 anni vigenti per gli uomini. Nonostante l’emergere di due coalizioni eterogenee di attori – l’una favorevole, l’altra contraria all’innalzamento dell’età pensionabile – che «attraversano le demarcazioni istituzionali tra ministeri, quelle tra maggioranza e opposizione» 113[Jessoula 2010, 253], provocano spaccature all’interno dei partiti e mandano in frantumi l’unità sindacale, con acuti contrasti anche in seno al gabinetto Berlusconi – specie tra il ministro Brunetta e il responsabile della Previdenza sociale Sacconi26 –, in un primo passaggio si prevede la graduale armonizzazione dell’età pensionabile fino a raggiungere i 65 anni per le donne nel 2018. Il provvedimento viene incluso nel primo pacchetto anticrisi dell’estate 2009 (l. n. 102/2009, cosiddetta riforma Sacconi 1). Qualche mese più tardi, tuttavia, con lo scoppio della «crisi greca» e le più robuste pressioni dei mercati finanziari sui paesi deboli dell’Eurozona, la Commissione europea di fatto impone all’Italia di elevare l’età pensionabile a 65 anni per le donne impiegate nel comparto pubblico già a partire dal 2012: l’innalzamento Più recentemente, dopo due decenni di incisivi interventi «sottrattivi» e soprattutto dopo le riforme improntate all’austerity della fase 2009-2011, una nuova traiettoria di policy a carattere espansivo si è aperta con la riforma Poletti-Renzi – adottata nel 2016 e rivista nel 2018 – ed è poi proseguita con il d.l. n. 4/2019, che delinea la nuova riforma delle pensioni disegnata dal governo M5s-Lega in carica dal 2018. Pur disegnate da governi differenti, le tre riforme sono innanzitutto da considerarsi una risposta alle misure di contenimento della spesa attuate durante la crisi del debito sovrano 2010-2012. Queste ultime hanno infatti reso molto più severe le condizioni di accesso al pensionamento nel breve periodo, in specie con l’aumento dell’età pensionabile di 7 anni in 7 anni per le donne (un unicum nell’Unione Europea) e il robusto incremento dei requisiti contributivi per il pensionamento anticipato, andando perciò a toccare importanti interessi consolidati, nonché le diverse coorti di lavoratori prossimi al pensionamento. Allo stesso tempo, le tre riforme recenti mirano ad aggredire il tradizionale paradosso delle pensioni in Italia, per cui all’elevata spesa pensionistica in prospettiva comparata – la seconda in Europa, pari al 15,5% del PIL nel 2017 – corrisponde una debole tutela contro la povertà in età anziana, e più in generale, come si vedrà più avanti, un’ampia quota di pensionati con redditi decisamente modesti (quadro 2.6 ). Le riforme della quarta ondata combinano, infatti, misure volte ad ammorbidire i criteri di accesso al pensionamento con interventi di sostegno ai pensionati a basso reddito: esse marcano, dunque, una sostanziale discontinuità con i provvedimenti delle prime tre ondate (1992-2011), segnando un 117ritorno a una politica pensionistica prevalentemente espansiva, promossa da dinamiche di competizione politico-elettorale domestica. 7.1 La riforma Poletti-Renzi La riforma viene disegnata dal ministro del Lavoro del governo Renzi, in carica dal 2014 e a guida Partito democratico in specie nella figura del presidente del Consiglio e segretario del partito Matteo Renzi. Inclusa nella legge di stabilità 2017, essa ne rappresenta di fatto l’ultimo atto politico, dopo la sconfitta al referendum costituzionale dell’autunno 201628. Numerose, benché di portata limitata, sono le misure previste dalla riforma delle pensioni Poletti-Renzi (quadro 2.5). La più nota tra queste è l’Anticipo finanziario a garanzia pensionistica (APE) che, in via sperimentale dal 1o maggio 2017 al 31 dicembre 2018, consente di ricevere un’indennità in anticipo fino a 3 anni e 7 mesi rispetto all’età pensionabile attualmente fissata (fino al 2019) a 66 anni e 7 mesi. Si tratta, di fatto, di un prestito, corrisposto da una banca in 12 mensilità annue – e coperto da un’assicurazione contro il rischio di premorienza – fino alla maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia. 118A questo punto il pensionato inizia a restituire il prestito ricevuto, con rate mensili e per una durata di 20 anni. Più innovativa, la versione sociale dell’APE prevede la possibilità di richiedere, a 63 anni, un’indennità pari al valore della pensione (entro un massimo di 1.500 euro mensili) da parte di alcune categorie di lavoratori «svantaggiati» con almeno 30 anni di contributi: i ) disoccupati che da almeno 3 mesi abbiano esaurito integralmente la prestazione per disoccupazione; ii ) persone che assistono da almeno 6 mesi un coniuge o parente con handicap grave; iii ) individui con invalidità almeno pari al 74%. A questi si aggiungono i lavoratori, con almeno 36 anni di contributi, che da almeno 6 anni svolgono mansioni considerate gravose. Gli interventi solidaristici non si limitano, tuttavia, alla modifica selettiva e mirata delle condizioni di eleggibilità, bensì riguardano anche il valore delle prestazioni e il reddito pensionistico degli individui già in quiescenza. La manovra aumenta, infatti, l’importo della «quattordicesima» di pensione, estende quest’ultima a circa 1,2 milioni di pensionati percettori di assegni fino a due volte il «minimo», ed eleva a 8.000 euro la «no tax area» per i pensionati sotto i 75 anni29. Infine, per quanto concerne la previdenza complementare, il provvedimento contenuto nella legge di stabilità sancisce che, sempre in via sperimentale tra il 1o maggio 2017 e il 31 dicembre 2018, i lavoratori che accederanno all’APE potranno anche richiedere l’erogazione delle prestazioni complementari a contribuzione definita in forma di Rendita integrativa temporanea anticipata (RITA). Come anticipato, la riforma segna una svolta nella politica pensionistica italiana, tanto nel processo decisionale – caratterizzato dal negoziato con i sindacati e quindi in contrasto con i provvedimenti unilaterali disegnati dai gabinetti Berlusconi (riforma Sacconi 2) e Monti (riforma Fornero-Monti) – quanto nei contenuti, contrassegnati da misure espansive che destinano circa 7 miliardi in tre anni per iniziare ad affrontare le più aspre conseguenze sociali delle riforme Sacconi e Fornero-Monti, in particolare il notevole incremento dei disoccupati over50, quadruplicati fino a circa 500.000 unità in pochi anni. La portata innovativa della riforma non riguarda, tuttavia, solo la sua natura espansiva. Più rilevante, nel quadro della traiettoria pensionistica italiana, è che diverse misure mettano in discussione l’idea che un sistema pensionistico equo debba prevedere regole uguali per tutti e la corrispondenza tra contributi versati e prestazioni percepite a livello individuale. Tale idea, ancorata alla nozione di «equità attuariale», è divenuta dominante nel dibattito previdenziale italiano fin dalla metà degli anni Novanta sostanzialmente per due ragioni. Da un lato, come formula «salvifica» rispetto ai «vizi» e alle distorsioni ereditati 119dalla squilibrata espansione pensionistica dell’«età dell’oro» 1945-1975. Dall’altro, come conseguenza del passaggio al metodo contributivo, per effetto dei fenomeni di «inerzia cognitiva» e radicamento della coalizione di interessi che spesso seguono l’adozione di riforme innovative di ampia portata, quale appunto la riforma Dini del 1995. In contrasto con tale approccio dominante, la riforma declina l’equità in senso sostanziale, aprendo al riconoscimento del principio che i lavoratori non sono tutti uguali né sul lavoro né al pensionamento [Leombruni et al. 2015] e che si possano dunque prevedere tutele più robuste per gli individui maggiormente svantaggiati. In particolare, due sono le sfide che vengono messe nel mirino dalla riforma con finalità equitative. La prima concerne le condizioni di accesso al pensionamento, ritenute troppo stringenti sia per la capacità di assorbimento di manodopera da parte di un mercato del lavoro ancora non in piena salute, sia per il profilo di alcune categorie di lavoratori e figure professionali – da cui l’introduzione dell’APE sociale e delle misure per lavoratori precoci e impiegati in mansioni usuranti. La seconda direttrice di intervento mira a correggere, in misura limitata, l’allocazione delle risorse per gli attuali pensionati – per cui a una spesa molto elevata corrisponde un’ampia quota di individui con redditi pensionistici poco generosi – tramite misure di sostegno ai percettori di prestazioni modeste, quali irrobustimento ed estensione della quattordicesima e innalzamento della «no tax area». Benché rilevante sul piano dei principi di riferimento, la portata della riforma è contenuta specie se raffrontata con i robusti provvedimenti sottrattivi dei due decenni precedenti. Peraltro, il dibattito pensionistico rimane particolarmente vivace, specie attorno agli effetti determinatisi sul mercato del lavoro negli anni successivi ai provvedimenti di emergenza in campo pensionistico. I trend mostrano, infatti, che al sensibile incremento dell’occupazione dei lavoratori anziani – nella fascia 55-64 anni il tasso di occupazione cresce dal 34,3% (2008) a ben il 50,3% nel 2016 – fanno da contraltare il rapido incremento dei disoccupati over50 – che passano in pochi danni da 130 mila unità a circa mezzo milione di individui – oltre alle drammatiche tendenze occupazionali sia dei giovani nella fascia 15-24 anni sia dei giovani adulti 25-39 anni (cap. 3 ). 7.2 La riforma Di Maio-Salvini Su questo sfondo il dibattito sul «superamento della riforma Fornero» (qui riforma Fornero-Monti) ha segnato una delle principali linee di competizione politica alle elezioni del 4 marzo 2018, da cui è emerso il governo M5s-Lega. A fine gennaio 2019 il governo «giallo-verde» ha dunque licenziato la nuova riforma delle pensioni Di Maio-Salvini, che presenta anch’essa misure volte ad ammorbidire i criteri di accesso al pensionamento e interventi di sostegno ai pensionati a basso reddito, pur con alcune significative novità rispetto alla riforma Poletti-Renzi.120 La riforma Di Maio-Salvini include, infatti, diversi provvedimenti, tra cui i più noti sono la cosiddetta «quota 100», sperimentale per il triennio 2019-2021 – di fatto una variante (molto) addomesticata della promessa elettorale della Lega di «abolire la riforma Fornero» –, e la «pensione di cittadinanza», estensione agli over67, del cavallo di battaglia pentastellato. «Quota 100» consente il pensionamento prima del raggiungimento sia dell’età pensionabile, attualmente fissata a 67 anni, sia del periodo contributivo minimo per la «pensione anticipata» (42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne) in caso di soddisfacimento della quota 100, appunto, calcolata come somma degli anni di età (minimo 62 anni) e di anzianità contributiva (minimo 38). Tale quota non è agganciata alle dinamiche demografiche, diversamente dall’età pensionabile che è invece automaticamente collegata alle variazioni nell’aspettativa di vita. Inoltre, la riforma sospende, fino al 31 dicembre 2026, il medesimo collegamento automatico del requisito contributivo per la «pensione anticipata» ai cambiamenti dell’aspettativa di vita: tale requisito rimarrà perciò fissato, fino a tale data, al livello del 2018 indicato sopra30. Il secondo intervento, la «pensione di cittadinanza», è volto a contrastare la povertà nella fase di pensionamento tramite l’erogazione di una prestazione assistenziale – dunque con «prova dei mezzi» – a tutti coloro che hanno superato i 67 anni di età, risiedono in Italia da almeno 10 anni e si trovano in condizione di difficoltà economica con un reddito equivalente annuo inferiore a 9.360 euro. Tale prestazione, che può integrare le pensioni già in erogazione, è fissata a 630 euro/mese cui si aggiungono 150 euro di contributo per l’affitto, per un totale di 780 euro mensili. La riforma Di Maio-Salvini rappresenta, dunque, il terzo provvedimento espansivo dopo i precedenti del 2016 e del 2018, e comporta una previsione di significativo incremento della spesa pensionistica nei prossimi anni: l’Ufficio parlamentare di bilancio, nel suo rapporto per il 2019, ha infatti stimato i costi delle misure volte a facilitare il pensionamento anticipato in 4 miliardi di euro nel 2019, 8,3 miliardi nel 2020, 8,7 miliardi nel 2021, 8,2 miliardi nel 2022, 7 miliardi nel 2023, costi che andrebbero poi a esaurirsi nel 2026 e a cui vanno aggiunti quelli per la pensione di cittadinanza. Con tale ingente impiego di risorse, quota 100 e pensione di cittadinanza mirano ad affrontare due criticità che riguardano sia le condizioni economiche di una significativa quota di pensionati italiani, sia le difficoltà di una schiera sempre più ampia di lavoratori prossimi al pensionamento sui quali si sono scaricate le conseguenze negative del rapido incremento dell’età pensionabile in un quadro caratterizzato da limitata crescita economica e debole performance del mercato del lavoro.121 In particolare, la pensione di cittadinanza è prevista contribuire alla riduzione dell’ampia quota di anziani che vivono in condizioni economiche molto modeste. I dati ISTAT più recenti dicono, infatti, che nel 2016 il 12,6% dei pensionati ha ricevuto un reddito Monti l’azione degli organi comunitari si è trasformata da pressione indiretta orientata a chiedere la riforma del sistema pensionistico a fini di contenimento della spesa pubblica in una pressione diretta volta a configurare un vero e proprio scambio condizionato (cosiddetta condizionalità) con il governo italiano e a incidere sul contenuto delle riforme. 124Infatti, allo scopo di disinnescare la speculazione finanziaria sui titoli di stato italiani, nell’estate 2011 la BCE – congiuntamente con la Banca d’Italia – ha inviato una lettera al governo Berlusconi con la quale chiedeva di adottare urgentemente una serie di incisive riforme, tra cui quella delle pensioni con particolare riferimento all’eliminazione delle pensioni di anzianità. Sempre per placare i mercati, la BCE ha poi accompagnato tale richiesta con la «promessa» di acquistare ingenti quote di titoli di debito italiani «in cambio» dell’adozione delle riforme: lo scambio condizionato si è dunque perfezionato con la repentina approvazione della riforma Fornero-Monti – con il cosiddetto «decreto Salva Italia» a fine 2011 – e il successivo intervento della BCE sul mercato dei titoli che ha consentito di arrestare le dinamiche speculative anche prima del lancio del Quantitative Easing nel corso del 2012. Due decenni di riforme sottrattive, l’incisività dei provvedimenti del periodo 2009-2011, gli effetti determinatisi – specie sul mercato del lavoro – dalla combinazione di questi con la prolungata fase di recessione economica che ha caratterizzato l’Italia fino al 2014, nonché il processo di ristrutturazione del sistema partitico hanno successivamente innescato gli sviluppi della fase più recente, segnata dal ritorno a una politica pensionistica prevalentemente espansiva. Infatti, seppur volte ad affrontare problemi reali relativi sia al basso reddito pensionistico di un’ampia quota di pensionati sia alla permanenza sul mercato del lavoro a età avanzate – per effetto dei nuovi requisiti di accesso alla quiescenza – le misure adottate tra il 2016 e il 2019 sono state fortemente condizionate – e innervate – da obiettivi di cattura di consenso politico-elettorale. La riforma Poletti-Renzi, confezionata in vista della cruciale tornata referendaria del 2016 in un quadro di progressiva debolezza del governo e specialmente del presidente del Consiglio, mirava a riconquistare consensi soprattutto sul lato sinistro dello schieramento politico e, come tale, è stata preceduta da una fase di confronto con le organizzazioni sindacali, durata circa quattro mesi e conclusasi con un verbale d’intesa a settembre 2016 che tratteggiava le principali misure da adottare e i principi cui si ispirava la riforma. I timidi interventi delineati dal provvedimento non sono però stati sufficienti a disinnescare la competizione sul terreno pensionistico alle successive elezioni politiche del 2018 quando, come visto sopra, in particolare la Lega – trasformatasi da forza territoriale in partito della destra radicale a vocazione nazionale – ha fatto dell’«abolizione della riforma Fornero» uno dei suoi principali cavalli di battaglia. Con riferimento, infine, alla trasformazione dell’architettura complessiva del sistema verso un assetto multipilastro, l’analisi svolta ha messo in luce come lo sfruttamento del cancello istituzionale TFR ha permesso di avviare, e perseguire, la riarticolazione del sistema pensionistico su più pilastri pur in condizioni estremamente avverse [Jessoula 2011a; 2018]. Tuttavia, come si vedrà nel prossimo paragrafo, la copertura della previdenza a capitalizzazione è ben lungi da essere universale e, soprattutto, i tassi di adesione alle forme complementari mostrano un’estrema variabilità in relazione a settori produttivi, categorie professionali e dimensione delle imprese, suggerendo la persistenza, in determinati contesti, di dinamiche di inerzia istituzionale. 9. PRESENTE E FUTURO DELLE PENSIONI IN ITALIA A oltre un quarto di secolo dal primo intervento chiaramente sottrattivo del governo Amato, che bilancio possiamo trarre delle riforme? Qual è la configurazione del sistema pensionistico italiano e quali i problemi aperti? Che direzioni ha preso la politica pensionistica dopo la Grande recessione degli anni 2008-2014? In questo paragrafo si mira a rispondere sinteticamente a tali quesiti. 9.1 Un quarto di secolo dopo: un bilancio delle riforme A quasi tre decenni dal primo intervento sottrattivo del governo Amato, in primis è opportuno valutare il processo di riforma del sistema pensionistico italiano rispetto ai due obiettivi originari di contenimento della spesa e armonizzazione di regole e trattamenti previdenziali. Sul primo versante il quadro è ben delineato. Se da un lato la spesa per pensioni (vecchiaia e superstiti) rimane più elevata – 15,6% del PIL nel 2016 (quadro 2.6) – rispetto alla media europea (11,9%), dall’altro, la figura 2.4 mostra che i vari interventi parametrici sono stati in grado di ridurre drasticamente l’aumento previsto di spesa. In particolare, le riforme della prima fase di emergenza – specialmente Amato e Dini – hanno avuto una maggiore portata riconducendo il sistema pensionistico italiano sul sentiero della sostenibilità economico-finanziaria. Questi interventi hanno però diluito i costi nel medio-lungo periodo rispetto agli interventi adottati nel triennio 2009-2011, che invece sono stati disegnati per essere particolarmente incisivi 126a breve-medio termine. Per effetto delle riforme adottate il sistema pensionistico italiano è dunque sostenibile, con un decremento previsto della spesa sul PIL di circa mezzo punto percentuale fino al 2025 – pur a fronte del rapido invecchiamento demografico e del prossimo pensionamento della generazione dei baby boomers –, un successivo aumento fino al picco del 15,8% attorno al 2035-2040, cui segue una lieve diminuzione con la piena entrata a regime del metodo contributivo. Naturalmente, su questo versante andrà attentamente monitorato l’impatto in termini di maggiore spesa dei recenti provvedimenti espansivi. FIG. 2.4. La spesa pensionistica pubblica in Italia in % del PIL, 1995-2045. Il ragionamento su armonizzazione regolativa e omogeneità di trattamento va invece affrontato da due prospettive differenti. La prima è quella intragenerazionale. Qui il sistema contributivo opera come un potente strumento di omogeneizzazione dei trattamenti tra le diverse categorie professionali. Analogamente, le condizioni di accesso alla quiescenza sono state armonizzate, e non solo tra i diversi comparti del lavoro dipendente (pubblico e privato) e del lavoro autonomo: anche tra uomini e donne la completa parificazione è stata raggiunta nel 2018 con l’implementazione della riforma Fornero-Monti. La seconda prospettiva fa riferimento all’omogeneità di trattamento delle diverse generazioni. Su questo piano, come visto in precedenza, l’applicazione integrale delle misure sottrattive in via prioritaria alle giovani generazioni e l’esenzione dei lavoratori più anziani da alcuni provvedimenti chiave – in primis, il metodo contributivo – ha determinato una frattura intergenerazionale. Al fine di mantenere le più generose spettanze dei pensionati attuali, i nuovi entrati sul mercato del lavoro dopo la riforma Dini pagano infatti contributi più elevati che in passato e avranno in futuro pensioni meno generose per un periodo di pensionamento molto breve. Queste considerazioni richiedono di accostare al tema della parità di trattamento quelli dell’adeguatezza e dell’equità del sistema di tutela della vecchiaia, cosa che faremo nel prossimo paragrafo, dopo aver presentato con maggiori dettagli l’assetto pensionistico emerso dal ventennio di riforme. 9.2 Verso un sistema multipilastro? Le caratteristiche dell’attuale architettura pensionistica possono essere riassunte come segue. Il sistema si trova in una fase di lenta transizione verso una configurazione multipilastro ed è fondato su solide basi finanziarie, ha un’impronta marcatamente assicurativa, con limitata capacità redistributiva e soprattutto è ancora molto incompleto rispetto allo sviluppo dei pilastri complementari (fig. 2.5) [Jessoula 2018]. Solidità finanziaria (come visto sopra), impronta decisamente assicurativa e limitata redistribuzione derivano dalla combinazione, caso raro in Europa, di un primo pilastro contributivo con pilastri complementari a contribuzione definita: a eccezione dell’assegno 127sociale/pensione di cittadinanza, tutti gli schemi sono infatti ispirati al principio della neutralità attuariale e mirano a immunizzare il sistema dagli shock esogeni, scaricando sugli assicurati il rischio connesso a sfavorevoli dinamiche demografiche, economiche, finanziarie, ecc. Il cuore del primo pilastro è costituito dal secondo livello assicurativo, che copre la totalità dei lavoratori, e specialmente dagli schemi pubblici dell’assicurazione obbligatoria gestiti dall’INPS, presso cui è assicurato oltre il 90% degli occupati. Per effetto della riforma Fornero-Monti, a partire dal 2012 l’INPS copre, oltre al tradizionale bacino dei lavoratori del settore privato, anche i dipendenti pubblici. L’ente si articola in diverse gestioni o regimi, tuttavia gli schemi più rilevanti sul piano quantitativo sono sei, rivolti a: 1. lavoratori dipendenti (FPLD); 2. lavoratori autonomi agricoli «coltivatori diretti, coloni e mezzadri»; 3. artigiani; 4. commercianti; 5. parasubordinati (Gestione separata); 6. dipendenti pubblici, precedentemente assicurati presso l’INPDAP.128 Nel primo gruppo troviamo i lavoratori con prospettive pensionistiche rassicuranti. Si tratta principalmente di quei dipendenti privati, con contratto a tempo indeterminato, carriere lunghe e poco frammentate, occupati in imprese medio-grandi e/o in settori sindacalizzati, che hanno buone probabilità di aderire a un fondo pensione complementare: essi dovrebbero (plausibilmente) disporre in futuro di una tutela adeguata, tramite la combinazione di pensioni pubbliche mediamente elevate con le pensioni integrative. Ai primi si aggiungono i dipendenti pubblici, in genere non iscritti a schemi complementari, per i quali il livello della tutela dovrebbe essere comunque adeguato: perché il valore delle pensioni pubbliche è lo stesso di quello per i dipendenti privati, ma le carriere lunghe e poco frammentate tipiche del comparto dovrebbero assicurare un importo elevato sia delle pensioni sia del TFR. In un secondo gruppo rientrano i lavoratori impiegati nelle piccole imprese e/o in settori a bassa densità sindacale. Sul piano formale, questi godono nel primo pilastro dello stesso livello di tutela dei lavoratori inseriti nel primo gruppo delineato sopra; tuttavia, non potranno generalmente contare su prestazioni complementari per via del modestissimo tasso di adesione. Decisamente più critici sono poi gli scenari previdenziali per quei lavoratori che trascorrono una cospicua porzione di carriera in occupazione «atipica». Tra questi, i lavoratori con contratto a tempo determinato, per i quali la maggiore discontinuità nella carriera si traduce in un ridotto livello di protezione sia delle pensioni pubbliche sia del TFR, giacché i lavoratori a tempo generalmente non si iscrivono alle forme pensionistiche integrative. Infine, i parasubordinati, che si trovano a tutti gli effetti in una situazione di «svantaggio cumulativo». Essi percepiranno con il sistema contributivo pensioni pubbliche più modeste rispetto ai lavoratori dipendenti, cui si aggiunge la maggiore probabilità di profili di carriera discontinui e frammentati che riducono ulteriormente il livello delle pensioni [Raitano 2007]. Inoltre, per l’indisponibilità del TFR e le basse retribuzioni questi lavoratori rimangono de facto esclusi dal sistema di previdenza complementare34. Le previsioni sui decenni futuri vanno comunque maneggiate con cautela, non solo perché basate su una serie di ipotesi e assunzioni circa vari parametri, ma anche perché elaborate a legislazione vigente. E tuttavia, alcuni dati recenti di fonte amministrativa (reali dunque, non proiezioni future) mostrano che per una quota significativa – oltre il 50% – di lavoratori di prima occupazione successiva al 1996 il versamento contributivo effettivo nei primi 13 anni di carriera rappresenta la metà del versamento di un lavoratore mediano, 132sempre occupato e con retribuzione media nel periodo di riferimento: tale ridotto versamento comporterà, al pensionamento, una sensibile riduzione del livello della prestazione di vecchiaia [Raitano 2017]. Infine, sempre con riferimento ad adeguatezza e, soprattutto, equità ma da una diversa prospettiva, va rimarcato il fatto che il perseguimento di un adeguato livello di tutela pubblica tramite l’inasprimento dei requisiti di accesso solleva problemi di equità, perché l’aspettativa di vita tende ad essere minore tra le fasce a più basso reddito e varia sistematicamente tra le diverse categorie professionali [Leombruni et al. 2015]. Si può quindi ragionevolmente concludere che, dopo due decenni di riforme sottrattive che hanno riportato il sistema pensionistico sul sentiero della sostenibilità economica e finanziaria e le recenti misure espansive spinte da ragioni di contingenza politico-elettorale di breve periodo, è necessaria l’apertura di una fase di attenta valutazione delle riforme implementate, al fine di ridisegnare le regole pensionistiche per i decenni futuri in modo che queste possano affrontare con successo il «trilemma delle pensioni» [Jessoula 2017]: l’efficace combinazione di sostenibilità economico- finanziaria, appunto, con l’adeguatezza e l’equità, dimensioni rispetto alle quali il sistema italiano di tutela della vecchiaia mostra nervi ancora scoperti. CAPITOLO 3: LA POLITICA DEL LAVORO Questo capitolo si propone di rispondere alle seguenti domande: che cos’è la politica del lavoro? Come è cambiata in Italia nel corso degli anni e come possiamo interpretare il suo cambiamento? Il paragrafo 1 illustra i principali concetti utilizzati nell’analisi di questo settore delle politiche sociali e fornisce alcune indicazioni sul quadro generale delle politiche del lavoro in Europa, al fine di collocare il caso italiano in prospettiva comparata. I successivi paragrafi ricostruiscono lo sviluppo di questa politica nel nostro paese. Il paragrafo 2 illustra le caratteristiche del modello originario di politica del lavoro che emerge e si consolida tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni Settanta. Il paragrafo 3 presenta i primi, seppur limitati, interventi di revisione del modello originario realizzati negli anni Ottanta. Il paragrafo 4 analizza i principali provvedimenti di riforma adottati dagli anni Novanta fino all’inizio della crisi dei debiti sovrani del 2011. Il paragrafo 5 esplora il nuovo corso delle politiche del lavoro italiane avviato a seguito della riforma Fornero e del Jobs Act. Il paragrafo 6 ricostruisce e propone un’interpretazione della traiettoria di sviluppo istituzionale della politica del lavoro italiana negli ultimi vent’anni. L’ultimo paragrafo offre uno sguardo in prospettiva su alcune delle principali questioni aperte delle politiche del lavoro italiane. 1. Concetti fondamentali La politica del lavoro costituisce un’area di policy dai confini spesso incerti. È possibile distinguere due accezioni di «politica del lavoro», una allargata e una ristretta. Per quanto riguarda la prima accezione, la politica del lavoro può essere intesa come un insieme composito di interventi pubblici volti al 134raggiungimento e al mantenimento di un elevato e stabile livello occupazionale [Beveridge 1944]. Così intesa, la politica del lavoro finisce con il fondersi nella più ampia area delle politiche per l’occupazione, ovvero di quegli interventi, ad esempio di natura macroeconomica, fiscale, infrastrutturale o industriale, che perseguono trasversalmente l’obiettivo della crescita dell’occupazione. Al fine di circoscrivere l’ambito del nostro interesse, in questo capitolo faremo riferimento a un’accezione ristretta di «politica del lavoro», considerando solo i principali provvedimenti che hanno un rapporto diretto ed esplicito con il mercato del lavoro1. In letteratura, sono state elaborate diverse classificazioni delle politiche del lavoro. Una delle distinzioni più comuni è quella tra «interventi passivi», di mera tutela del reddito della persona in cerca di occupazione (ad es., i sussidi di disoccupazione), e «interventi attivi», volti a rendere più efficiente il funzionamento del mercato del lavoro (ad es., la formazione e i servizi di collocamento) [Reyneri 2011a; 2011b]. Anche se tale distinzione ha conosciuto un’ampia diffusione, una rigida classificazione delle politiche del lavoro in attive e passive appare problematica dal momento che risente dell’approccio ideologico dominante e dell’utilizzo effettivo (e non solo dichiarato) di una data misura di policy [Sinfield 1997; Clasen 1999]. Inoltre, una categorizzazione dicotomica delle politiche del lavoro in attive e passive esclude dall’analisi tutte quelle norme che disciplinano l’attivazione e il recesso dei rapporti di lavoro, incidendo pertanto sulla struttura dell’occupazione. Per questo motivo, distingueremo tre sottogruppi di politiche del lavoro sulla base dei principali compiti che si prefiggono di assolvere: le misure indirizzate alla regolazione dei rapporti di lavoro; le misure volte al sostegno o mantenimento del reddito a fronte della disoccupazione involontaria o della sospensione delle attività lavorative (disoccupazione temporanea); le misure volte alla rimozione degli ostacoli non legislativi all’ingresso e permanenza nel mondo del lavoro, che, per brevità, chiameremo politiche proattive. In questo caso si tratta di un insieme eterogeneo di provvedimenti volti a favorire l’inserimento o il reinserimento professionale delle persone attraverso l’acquisizione di competenze (corsi di formazione, tirocini e apprendistato), la regolazione dell’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro, l’assistenza alle persone in cerca di occupazione o ancora l’incentivazione delle assunzioni e della stabilizzazione occupazionale. In quanto segue, ci proponiamo di illustrare sinteticamente i principali aspetti che contraddistinguono i tre sottogruppi di politiche del lavoro precedentemente identificati.135 FIG. 3.1. Lavoratori a tempo indeterminato e a termine in % sul totale dei lavoratori dipendenti, 2017. ■ Partendo dal primo sottogruppo, ovvero la regolazione dei rapporti di lavoro, i paesi europei si differenziano per la presenza di: una diversa composizione del mercato del lavoro nazionale dovuta allo specifico mix di forme di occupazione che prevalgono nell’arco temporale preso in esame; un diverso insieme di vincoli relativi all’attivazione ed estinzione dei rapporti di lavoro2. Per quanto riguarda il primo elemento di variazione, in tutti i paesi europei il rapporto di lavoro di gran lunga dominante è quello a tempo indeterminato, che nell’Unione Europea costituisce circa l’86% del totale dei rapporti di lavoro dipendente dichiarati nel 2017 (fig. 3.1). La percentuale di lavoratori a termine è invece particolarmente elevata (superiore al 26%) in Spagna e Polonia (tab. 3.1), e interessa soprattutto i giovani. Nell’Unione Europea, circa il 44% delle persone tra 15 e 24 anni sono infatti assunte a termine, contro il 12,2% delle persone tra sostanzialmente inalterate le norme a tutela dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato e sul licenziamento collettivo (a eccezione del caso spagnolo). TAB. 3.2. Variazione dell’indice EPL in alcuni paesi europei, 1990, 2013, versione 1 È dunque prevalsa quella che in letteratura è stata definita una «strategia di riforma a due livelli» (two-tiers reform strategy), cioè l’adozione di riforme «al margine» che hanno interessato prevalentemente i rapporti a termine, lasciando (quasi) invariato il livello di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato (i cosiddetti insiders o core workers) [Ochel 2008; Davidsson 2011]. In alcuni paesi, come l’Italia e la Svezia, tale processo di flessibilizzazione dei contratti a termine risulta particolarmente significativo. Allo stesso tempo, è possibile osservare in Spagna anche una diminuzione delle tutele connesse al lavoro a tempo indeterminato. Come argomenteremo, quest’ultimo cambiamento ha interessato anche il nostro paese a partire dal 2012 con le riforme adottate dai governi Monti e Renzi (cap. 3, parr. 5.1 e 5.3). ■ Il secondo sottogruppo di politiche del lavoro fa riferimento alle prestazioni monetarie erogate in caso di disoccupazione effettiva o temporanea. In tutti i paesi europei è presente un insieme più o meno coordinato di strumenti di tutela del reddito dei disoccupati chiamati, nel gergo italiano, ammortizzatori sociali. L’articolazione tipica di tale sistema è a tre livelli o «pilastri»4, così distinti:139 un pilastro assicurativo, nel quale le prestazioni, sotto forma di indennità di disoccupazione, sono erogate per una durata definita, a fronte del versamento di una determinata quota di contributi; un pilastro assistenziale «dedicato», che prevede l’elargizione di sussidi, sulla base di requisiti di reddito, nel caso di impossibilità di accesso al primo pilastro oppure di esaurimento delle spettanze e persistenza dello stato di disoccupazione; un pilastro assistenziale «generale», quindi non specificamente rivolto ai lavoratori, dove le prestazioni forniscono, in base a stringenti requisiti di reddito e patrimonio, un «reddito minimo garantito» a chi si trova in condizioni di indigenza (cap. 5). I tre pilastri sono stati edificati in tempi storici diversi [Alber 1981]. Le prime forme di tutela economica contro il rischio di disoccupazione risalgono al XIX secolo. Si trattava di schemi di assistenza mutualistica istituiti dalle organizzazioni sindacali, al fine di mettere a disposizione dei propri iscritti sussidi al reddito in caso di perdita dell’occupazione. Il primo di questi schemi venne creato nel 1831 nel Regno Unito, per poi diffondersi in altri paesi europei. Sul finire dell’Ottocento, anche a seguito della crescita esponenziale della disoccupazione che mise in crisi le casse di mutuo soccorso sindacali, alcune amministrazioni cittadine istituirono degli schemi assicurativi volontari. Le prime esperienze furono realizzate in Svizzera (a Berna, nel 1893), in Germania (a Colonia, nel 1896) e in Belgio (a Gent, nel 1901). In particolare, lo schema adottato nella cittadina belga di Gent divenne un modello per altre amministrazioni locali in Europa. Queste misure a sostegno del reddito avevano un carattere fortemente selettivo, dal momento che operavano solo a livello locale o erano riservate ai lavoratori iscritti al sindacato. Esse fecero comunque da apripista allo sviluppo di schemi assicurativi, di natura volontaria, che vennero istituiti a livello nazionale in Francia (nel 1905), Norvegia (nel 1906) e Danimarca (nel 1907). Il primo schema assicurativo nazionale di natura obbligatoria fu invece creato nel Regno Unito nel 1911, a cui seguirono l’Italia (nel 1919) e la Germania (nel 1927). Negli altri paesi europei schemi assicurativi statali e obbligatori si diffusero all’incirca a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale [Sjöberg, Palme e Carrol 2010]. Le crisi occupazionali degli anni Trenta e del secondo dopoguerra spinsero numerosi governi nazionali a istituire anche un secondo pilastro per fornire assistenza «dedicata» ai disoccupati privi della tradizionale tutela assicurativa, mentre il terzo pilastro (da noi denominato «assistenziale generale») costituisce un’acquisizione più recente, realizzata perlopiù nel corso dell’ultimo trentennio.140 In sintesi, in quasi tutti i paesi europei esiste oggi un sistema di ammortizzatori sociali strutturato in due o tre pilastri [Clasen e Clegg 2011; Picot 2013]. L’Italia ha rappresentato, fino a tempi recenti, un’eccezione rilevante dal momento che, a fronte della progressiva espansione di una pluralità di schemi assicurativi riferibili solo al primo pilastro, non esistevano schemi assistenziali di secondo e terzo livello a vocazione universale. Passando a esaminare le indennità offerte dalle assicurazioni contro la disoccupazione, possiamo rilevare tre dimensioni di variazione che riguardano la generosità, il finanziamento e i requisiti di accesso. Il livello di generosità della prestazione è definito dal suo importo e dalla durata di erogazione. L’ammontare delle indennità è generalmente calcolato come percentuale della retribuzione di riferimento, la quale consiste nella media delle retribuzioni di un dato periodo. Il rapporto fra l’ammontare dell’indennità di disoccupazione e la retribuzione precedentemente percepita individua il cosiddetto tasso di sostituzione che rappresenta una delle misure della generosità economica delle prestazioni di disoccupazione. Il valore del tasso di sostituzione può essere soggetto anche a variazione interna. Ad esempio, si possono prevedere differenziazioni sulla base dell’anzianità contributiva, dell’età anagrafica del percettore di sussidio o dell’area geografica di riferimento. Inoltre, il tasso di sostituzione tende spesso a diminuire con il trascorrere del periodo di fruizione del beneficio stesso; questo meccanismo «a scalare» nel tempo, oltre a costituire una misura di contenimento della spesa, mira a incentivare il lavoratore al più rapido reinserimento possibile nel mercato del lavoro. Il finanziamento delle indennità di disoccupazione deriva di norma da contributi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro, con una percentuale di contribuzione a carico dell’una e/o dell’altra parte che cambia da paese a paese. Se ad esempio in Germania e in Austria la quota è ugualmente ripartita tra lavoratori e datori di lavoro, in Francia e nei Paesi Bassi è maggiore per questi ultimi. In caso di mancata copertura contributiva del finanziamento delle indennità, o per il finanziamento di una loro eventuale proroga, interviene lo stato attraverso la fiscalità generale. I requisiti di accesso, ovvero le condizioni che determinano la possibile fruizione delle indennità di disoccupazione: in primo luogo, l’evento assicurato (la disoccupazione) deve essere involontario, vale a dire determinato da una decisione del datore di lavoro e non già del lavoratore (salvo eventuali eccezioni definite per legge); in secondo luogo, il lavoratore deve soddisfare specifici requisiti contributivi, ovvero il versamento di un ammontare minimo di contributi, e talvolta anche requisiti di anzianità assicurativa, ovvero un periodo minimo di iscrizione a una determinata cassa assicurativa. Queste condizioni di eleggibilità ai benefici finiscono così con l’escludere l’accesso alle prestazioni alle persone in cerca di una prima occupazione o che, pur avendo già lavorato, non hanno potuto iscriversi a un’assicurazione contro la disoccupazione (ad es., i lavoratori autonomi) o ancora a coloro che hanno carriere lavorative 141fortemente discontinue, cioè intervallate da frequenti e/o lunghi periodi di disoccupazione. infine, la fruizione del beneficio economico è di norma condizionata al rispetto di alcuni adempimenti amministrativi, quali ad esempio la presentazione di una domanda per il godimento del relativo trattamento economico di disoccupazione. Il disoccupato deve inoltre dimostrare di essere effettivamente attivo nella ricerca del lavoro, nonché disponibile ad accettare le offerte di lavoro o di formazione proposte dai servizi per l’impiego. Il mancato rispetto di tali adempimenti è spesso sanzionato con l’interruzione o la sospensione della prestazione monetaria. A fianco del primo pilastro, nella maggior parte dei paesi europei esistono anche schemi assistenziali che offrono sussidi a favore di quei lavoratori privi o privati di copertura assicurativa. L’accesso a tali sussidi è generalmente condizionato all’accertamento della mancanza di mezzi di sussistenza effettivi (means-testing). Il loro importo non è collegato alla precedente retribuzione, ma consiste di norma in un ammontare forfetario finanziato attraverso il fisco e di durata non sempre predefinita, in quanto soggetta a verifiche periodiche del perdurare dello stato di bisogno. Alcuni paesi prevedono inoltre programmi di tutela per specifiche situazioni di rischio come le integrazioni salariali per la sospensione delle attività lavorative a seguito di crisi aziendali di carattere congiunturale o settoriale. Questi schemi assicurativi contro la disoccupazione parziale (short-time work schemes) sono presenti in numerosi paesi europei, ma in Italia, come avremo modo di illustrare, hanno assunto un ruolo centrale nel sistema degli ammortizzatori sociali5. Anche sul fronte della spesa per le misure a sostegno del reddito dei disoccupati è possibile notare significative differenze tra i paesi europei (tab. 3.3). Queste variazioni sono riconducibili a una pluralità di fattori fra i quali l’andamento del mercato del lavoro (ovvero il tasso di disoccupazione e il numero 142dei beneficiari effettivi dei sussidi) e dell’economia nazionale, nonché alcune specifiche scelte di policy.