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le pubbliche amministrazioni in italia - a cura di e. gualmini e g. capano (2011) , Sintesi del corso di Scienza Politica

riassunto completo del libro "le pubbliche amministrazioni in italia", di e. gualmini e g. capano., 2011. capitoli presenti: - introduzione - l'evoluzione storica della pubblica amministrazione - i ministeri e gli enti pubblici non economici - le autorità indipendenti - il sistema giudiziario - le regioni - gli enti locali - il sistema sanitario - il sistema scolastico

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica le pubbliche amministrazioni in italia - a cura di e. gualmini e g. capano (2011) e più Sintesi del corso in PDF di Scienza Politica solo su Docsity! LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI IN ITALIA a cura di Giliberto Capano ed Elisabetta Gualmini INTRODUZIONE UN CONTRIBUTO POLITOLOGICO ALLO STUDIO DELL’AMMINISTRAZIONE Le componenti di base delle organizzazioni pubbliche sono: 1. Le configurazioni strutturali sono il risultato dei principi di differenziazione e di integrazione del lavoro all’interno dei diversi apparati; 2. Le funzioni sono le attività di base con cui le organizzazioni sono in grado di riprodursi; 3. Il personale 4. I processi decisionali sono sequenze ripetute di decisione e azione con cui le P.A. partecipano alla formulazione delle politiche pubbliche. La prospettiva da cui abbiamo guardato alle diverse componenti è quella dello studio politologico dell’amministrazione, i cui tratti distintivi sono: 1. La SdA non si ferma al solo dato positivo, ma cerca di esaminare le norme e le regole formali all’interno del contesto politico e istituzionale che le ha generate. Le riforme amministrative risultano profondamente condizionate dalle dinamiche del sistema politico e profondamente intrise delle ideologie, in un sistema istituzionalmente denso (e non asettico e neutrale). 2. Un tale approccio (v. sopra) predilige l’analisi delle dimensioni strutturali delle P.A., quest’ultime intese come organizzazioni complesse. Si esamina altresì il funzionamento degli assetti pubblici, che non solo sono polifunzionali, ma anche differenziati dal punto di vista strutturale. 3. Si vuole ricostruire l’iter di implementazione delle politiche pubbliche, partendo dalle zone grigie dove esistono disfunzioni e disparità tra gli obiettivi iniziali e i risultati finali. LE DINAMICHE TRASVERSALI E LE NUOVE TENDENZE La modernizzazione del sistema amministrativo italiano, in atto dagli inizi degli anni Novanta può essere riassunto con le seguenti parole chiave: 1. Decentramento. Trasferimento di sempre maggiori responsabilità politiche e amministrative dal centro del sistema ai governi regionali e locali attraverso una ridistribuzione delle competenze decisionali. Tutto questo ha creato un forte stress organizzativo e gestionale che ha condotto a dispersione delle responsabilità di politica pubblica. 2. Politiche autonomistiche. Tutte quelle dinamiche mediante le quali il potere pubblico decide di non produrre direttamente servizi o prestazioni per i cittadini ma di presidiare i confini dell’arena di politica pubblica (mediante la statuizione delle regole, degli obiettivi, dei criteri generali da perseguire ecc), lasciando ad altre organizzazioni il compito di dare sostanza alle politiche in un regime di autonomia procedurale o sostantiva più o meno larga. All’interno degli strumenti della strategia autonomistica, occorre ricordare il ruolo delle authorities, a cui il potere politico affida il compito di vigilare il rispetto delle regole in specifici settori di politica pubblica. 3. Pluralismo organizzativo. È una logica conseguenza dell’aumentare delle funzioni pubbliche. Esso va inteso come processo di differenziazione e frammentazione dei “tipi” di apparati pubblici. 4. Managerialismo. Strategie mediante le quali si è cercato di introdurre, all’interno delle P.A. italiane, logiche di azione e di governo organizzativo maggiormente orientato alla responsabilizzazione dei vertici amministrativi. 5. Contrattualismo. Strategie mediante le quali le P.A. producono politiche pubbliche attraverso la cooperazione, la collaborazione e l’interazione intersettoriale oppure con organizzazioni rappresentanti di interessi socialmente diffusi e con aziende private. IMPATTO DELLE RIFORME SULLE STRUTTURE, LE FUNZIONI, IL PERSONALE E I PROCESSI Gli assetti organizzativi Il pluralismo organizzativo ha prodotto due specifici risultati: 1. Adozione di un modello che può essere definito di tipo “divisionale” in cui la differenziazione del lavoro avviene sulla base dei risultati che effettivamente devono essere raggiunti e non più della funzione svolta o sul rispetto delle norme formali. 2. La proliferazione di corpi separati rispetto al circuito dell’amministrazione classica con vocazione prevalentemente tecnica e con gradi maggiori o minori di autonomia rispetto a essa (enti pubblici non economici, autorità indipendenti e agenzie amministrative). Le funzioni Lo spostamento del baricentro deliberativo dai ministeri alle regioni e di quello gestionale - amministrativo agli enti locali ha esercitato un impatto di tipo quantitativo: • È aumentata la mole di funzioni legislative affidate alle regioni • Si è esteso il raggio delle funzioni amministrative gestite dalle regioni • Sono aumentati significativamente le attribuzioni e i compiti delle province e delle regioni. Le funzioni prevalenti che sono emerse sono: 1. Le attività di tipo regolativo che caratterizzano in misura prevalente i ministeri e in secondo luogo le regioni, gli enti pubblici e le authorities; 2. Le funzioni di programmazione e pianificazione che riguardano in primo luogo le regioni e poi i livelli ministeriale e locale. 3. Le funzioni di produzione ed erogazione di servizi sono per lo più concentrate a livello locale (comuni, aziende sanitarie, istituzioni scolastiche etc.). 4. Funzioni di indirizzo, informazione e consulenza (enti pubblici, agenzie regionali ecc), quelle sanzionatorie e di aggiudicazione dei conflitti (AI), e quelle promozionali (enti pubblici, ma anche regioni ed enti locali). Il personale La strada prescelta è stata quella dell’omogeneizzazione delle regole del lavoro pubblico con quelle valide per i dipendenti privati, la c.d. contrattualizzazione del pubblico impiego che ha riguardato anche i dirigenti. Il sistema contrattuale è stato disegnato su due livelli: nazionale e decentrato/integrativo. In generale emerge come il nuovo inquadramento e la rimodulazione delle sue regole costitutive (D.LGS 150/2009 detta riforma Brunetta) abbiano razionalizzato il sistema precedente, invece di modificarlo. Sono continuate, infatti, le tendenze storiche sedimentate come, ad esempio la difficoltà a ripartire i fondi per l’incentivazione individuale in modo selettivo e premiante e la difficoltà di contenere le pressioni perché vengano garantiti, sulla base di una rotazione periodica, passaggi di qualifica o stipendiali. Si deve sottolineare come la completa contrattualizzazione del rapporto di lavoro non sia riuscita a raggiungere quella perequazione delle retribuzioni tra i dipendenti. Infatti, continuano a persistere differenze tra i dipendenti che, pur svolgendo le medesime mansioni, lavorano in comparti diversi. Altri fenomeni negativi: lo scarso apporto al lavoro part-time; un grado di istruzione medio relativamente basso, un’anzianità media relativamente bassa. Per contro, invece, si deve osservare come ormai le pubbliche amministrazioni abbiano raggiunto un tasso di femminilizzazione comparativamente apprezzabile (oltre il 50% dei dipendenti pubblici). Il ruolo dirigenziale ha rappresentato un elemento strategico del processo del processo riformatore. Tuttavia c’è la sensazione che ci siano troppi dirigenti rispetto alle funzioni manageriali da svolgere. Questo fenomeno è dovuto a due patologie: 1. La pressione dei funzionari apicali per avere ulteriori possibilità di carriera. 2. La tendenza ad attribuire posizioni dirigenziali a dipendenti che possiedono particolari professionalità necessarie alle attività dell’ente e che possono essere retribuiti in modo adeguato, stando alle classificazioni del personale vigenti, solo se collocati, in una posizione dirigenziale. Il processo decisionale A partire dagli anni Novanta molte P.A hanno gradualmente incorporato nuove capacità ed abilità: 1. Capacità di mediazione, confronto e negoziazione. 2. Capacità di ascolto e ricezione delle domande esterne e di consulenza e indirizzo di fronte alle sfide emergenti. 3. Capacità di pianificazione e programmazione. 4. Capacità di valutazione e monitoraggio, facendo propri gli assunti della trasparenza e della accountability. Razionalità di tipo burocratico improntate al rispetto della norma si intrecciano con i criteri legati all’efficacia e al problem solving e ancora con la razionalità del consenso, orientata all’anticipazione dei conflitti e all’aggiustamento reciproco. I PROBLEMI ANCORA APERTI E LE SFIDE PER IL FUTURO • 1978 Istituzione del Servizio sanitario nazionale, con una struttura organizzativa particolare: al centro il ministero ad assolvere funzioni programmatorie, al livello intermedio le regioni con la responsabilità di gestire finanziariamente e amministrativamente il servizio e a livello locale il compito di fornire il servizio. • Istituzione di due nuovi ministeri: quello dell’Ambiente (1986) e per l’Università (1989). • 1990-2010 Nell’ultimo decennio del secolo venne attuata un’ampia e profonda revisione degli assetti normativi del settore pubblico. Sul versante del disegno organizzativo della P.A, sono quattro le dinamiche da sottolineare: 1. Il processo di privatizzazione/destatizzazione 2. Il decentramento politico – amministrativo 3. La riforma degli apparati centrali 4. Il processo di riforma del pubblico impiego Nel 1993 ci fu l’abolizione del ministero delle Partecipazioni statali e della Cassa del Mezzogiorno. Furono vendute le aziende manifatturiere e le banche pubbliche. Dal 1992 iniziò la trasformazione degli enti pubblici economici e delle aziende maggiormente coinvolte nella produzione o nella distribuzione di servizi pubblici: i telefoni, le poste, l’ENI, l’INA e l’ANAS. L’espressione “privatizzazione” è decisamente impropria. Infatti, se è vero che la trasformazione in società per azioni delle più importanti aziende pubbliche significò il passaggio a formule giuridiche di tipo privatistico, al tempo stesso nella gran parte dei casi lo stato, attraverso il ministero del Tesoro, manteneva un ruolo rilevante nel governo e nell’indirizzo di questi organismi. Per definire questo fenomeno è stata proposta l’espressione “destatizzazione”. È importante sottolineare comunque che se cambiano le formule giuridiche di controllo pubblico non si modifica, nella sostanza, la capacità delle istituzioni pubbliche di influenzare, se non addirittura guidare direttamente, questi enti – aziende attraverso una consistente, partecipazione azionaria. LE FUNZIONI, OVVERO COSA FANNO E CHE RUOLO HANNO LE AMMINISTRAZIONI NELLE POLITICHE PUBBLICHE L’insieme delle attività essenziali delle P.A. può essere ricondotto a quattro gruppi di funzioni basilari: • La regolazione dei comportamenti individuali e collettivi; • La produzione di beni e servizi per la collettività; • Le funzioni ausiliarie (il controllo e la consulenza); • Le c.d. funzioni strumentali, ovvero quelle attività mediante le quali le P.A. acquisiscono e gestiscono le risorse necessarie alla loro azione, tra cui il personale. Svolgendo le predette funzioni, le P.A. producono le politiche pubbliche, ossia quei processi tramite cui vengono prese e attuate decisioni rilevanti per la collettività. Il primo trentennio del Novecento vide la decisiva espansione del ruolo interventista dello stato, sia mediante la regolazione sia attraverso la produzione diretta di servizi. Un processo dovuto alla democratizzazione che ha portato con sé l’allargamento dei diritti di cittadinanza e, quindi, l’espansione dello stato sociale. Riscontriamo così un interventismo sociale ovverosia un insieme di azioni che lo stato compie quando, solitamente per rispondere a una domanda collettiva, esso interviene a regolare un determinato settore della politica pubblica. Tra gli interventi più significativi: • L’introduzione della scuola elementare obbligatoria (1859) • L’obbligo assicurativo sugli infortuni (1889) • Prime norme che delineano un sistema nazionale per il monitoraggio dell’igiene pubblica. • Costruzione strade, ferrovie e acquedotti, bonifica paludi. Con l’inizio degli anni Trenta questa tendenza interventista si irrobustì e si istituzionalizzò, intervenendo direttamente nella politica economica e nel credito. Questo andamento entrò in crisi negli anni Ottanta: lo stato cominciò a vendere le proprie industrie, a privatizzare o destatizzare le public utilities monopolistiche, rovesciando il rapporto stato – regioni – enti locali sulla base del principio di sussidiarietà. In generale i poteri pubblici si ritirarono dal ruolo centrale e autoritario che avevano storicamente avuto nei processi di produzione delle politiche pubbliche diminuendo il loro coinvolgimento diretto, ma accrescendo il loro ruolo regolatore e di valutatore dell’operato dei soggetti, privati e pubblici, che avevano il compito di produrre direttamente i servizi (autonomismo). Questo ridisegno ha certamente avuto un aspetto positivo poiché ha liberato energie nelle P.A., e al tempo stesso ha spinto la società ad uscire da un certo immobilismo statalista, che l’aveva caratterizzata per più di un secolo. Per contro però bisogna sottolineare come questo processo presenti due aspetti negativi: • La funzione di regolazione ha contraddistinto soprattutto le amministrazioni centrali, mentre quelle regionali e locali sono ancora legate a una concezione dirigista e interventista del potere pubblico; • Le esigenze della nuova funzione regolatrice implicherebbero una grande capacità di valutazione, conoscenze tecniche nell’elaborare le regolazioni e notevoli capacità professionali nel valutare le regole, gli standard e i vincoli posti all’azione dei soggetti produttori. Competenze e capacità che non paiono ancora omogeneamente diffuse in Italia. IL PERSONALE • 1853-1900. L’amministrazione cavouriana era caratterizzata da una sostanziale assenza di garanzie e diritti per i dipendenti e gli impiegati statali. Si entrava in amministrazione come volontari e si progrediva per anzianità. Gli stipendi erano giudicati molto bassi. • Tra il 1866 e il 1878 furono introdotti il sistema dei concorsi pubblici per il reclutamento e il requisito della laurea per accedere ai livelli apicali. • La burocrazia venne progressivamente a caratterizzarsi per una forte componente tecnica, strettamente correlata alle varie funzioni di intervento sociale che lo stato via via acquisiva. Esercitava una funzione di controllo ed era numericamente sottodimensionata rispetto a quella degli altri paesi (Il numero dei dipendenti aumentò con il governo Crispi). • 1900-1930. Questo percorso di istituzionalizzazione del pubblico impiego è scandito da due tappe normative basilari: • Lo statuto del 1908 con il quale si formalizzava l’assetto gerarchico autoritario delle carriere; si introdusse una serie di diritti e doveri per i lavoratori; si estendeva il sistema del pubblico concorso per tutte le amministrazioni. • La riforma De Stefani del 1923 con la quale la struttura delle carriere venne militarizzata mediante un sistema di 13 gradi. Vi sono poi tre ulteriori processi: • Processo di meridionalizzazione. Il lavoro statale diventava l’unica prospettiva di impiego per molti meridionali. • Processo di sindacalizzazione. Trovò ovviamente origine nel momento in cui il numero dei dipendenti pubblici cominciò ad ampliarsi in modo consistente. • Giuridicizzazione dell’azione amministrativa. Progressivo allontanamento delle professionalità tecniche dai ruoli direttivi delle amministrazioni centrali a tutto vantaggio di coloro che avevano una formazione giuridica. Questo processo provocò una fuoriuscita dei tecnici dalle amministrazioni statali verso il privato o verso le amministrazioni parallele. • 1930-1970. Passaggio con qualche cesura tra il regime fascista e quello repubblicano. Con il decreto 3/1957, infatti, non si faceva altro che defascistizzare l’ordinamento delle carriere disegnato dalla riforma fascista. • 1970-1990 • Legge delega 775/1970. Vennero rafforzati i diritti sindacali e si introdusse il principio della contrattazione collettiva per gli stipendi (anche se in modo limitato), si razionalizzò il sistema delle carriere, si istituì la dirigenza statale. • Legge quadro sul pubblico impiego (93/1983). Disegnava uno strano sistema misto, dove alle forme privatistiche proprie della contrattazione collettiva si accompagnava la natura pubblicistica. • Legge 312/1980. Con tale legge si intendeva eliminare la gran parte dei problemi che l’assetto precedente aveva creato e in particolare: • L’organizzazione gerarchico -burocratica • La parcellizzazione delle mansioni • La giungla retributiva • Il meccanismo che legava la progressione economica alla progressione di carriera • Decreto 748/1972. Venne introdotta la dirigenza nelle P.A. Questa soffrì di tre problemi: la difficoltà a distinguere operativamente le competenze dirigenziali dalle responsabilità dei vertici politici degli apparati; la pressione affinché si entrasse nei ruoli dirigenziali per anzianità di servizio; il numero eccessivo di posizioni dirigenziali. • 1990-2005 Con il decreto legislativo 29/1993 si è arrivato a ciò che viene definita la privatizzazione della P.A. Il suo contenuto può essere così riassunto: • Omogeneizzazione del rapporto della gran parte dei dipendenti pubblici • Distinzioni tra le competenze dirigenziali e quelle di indirizzo politico • Creazione dell’agenzia negoziale per le P.A. con il compito di rappresentare la parte pubblica nella contrattazione nazionale. Tale decreto è stato successivamente perfezionato. Queste le revisioni più significative: • Con la tornata contrattuale 1998-2001 è stato riformato il sistema delle carriere, sostituendo le qualifiche funzionali che sono state dimezzate con l’introduzione delle categorie. Il nuovo sistema prevede che si possa progredire economicamente all’interno della stessa categoria previa valutazione del proprio operato, mentre la promozione verticale è possibile sono mediante il superamento di prove concorsuali. • I contratti prevedono che una parte piccola ma non marginale del salario sia collegata alla prestazione del dipendente, introducendo fra l’altro la valutazione annuale delle prestazioni dei lavoratori. Si possono riscontrare tuttavia notevoli problemi operativi: i fondi per la produttività sono stati distribuiti a pioggia, le promozioni costruite ad personam. Per quanto riguarda la dirigenza poi appare evidente come questa abbia continuato a essere caratterizzata da un atteggiamento passivo. • 2005-2010 Il decreto legislativo 150/2009, meglio conosciuto come “riforma Brunetta”, introduce delle innovazioni: • L’istituzione per ogni amministrazione del sistema di misurazione e valutazione della performance • La valutazione annuale di ogni dipendente adoperata dai dirigenti sulla base dei criteri del sistema di misurazione della performance • La ripartizione rigida del salario aggiuntivo ai dipendenti sulla base della valutazione annuale • L’attribuzione al dirigente del potere di datore di lavoro nell’organizzazione delle attività del proprio ufficio oltre che del compito di valutare i propri dipendenti. Tra gli aspetti da sottolineare abbiamo: 1. Rafforzamento del ruolo dirigenziale 2. Imposizione centralizzata del sistema di valutazione delle performance organizzative, mediante un processo di standardizzazione di parametri e indicatori e l’istituzione di un organismo di valutazione esterno all’ente 3. Rilegificazione dei meccanismi di attribuzione del salario accessorio ai dipendenti e l’imposizione della selettività per l’attribuzione degli aumenti di stipendio e per le promozioni. I PROCESSI DECISIONALI E LE PROCEDURE La storia amministrativa italiana è stata caratterizzata da un lungo periodo durante il quale i processi decisionali sono stati frammentati, disordinati e i controlli sono diventati fortemente burocratici e vincolanti, sostanzialmente orientati a controllare il rispetto del principio di legalità piuttosto che quello di efficienza ovvero di efficacia. Il sistema dei controlli e quello delle consulenze istituzionali venne fondato mediante una serie di importanti provvedimenti. Nel 1862 fu istituita la Corte dei Conti, con la funzione primaria di controllare la legittimità degli atti del governo e il bilancio dello stato. Nel 1869 venne istituita la Ragioneria generale dello stato e le ragionerie centrali dei ministeri con il compito di controllare il comportamento finanziario delle amministrazioni centrali (creando quella duplicazione dei controlli che avrebbe rappresentato un elemento significativo della tradizionale lentezza dei processi decisionali). Il Consiglio di Stato, ridisegnato nel 1865, era l’organo di consulenza primario delle amministrazioni riguardo alle tematiche amministrative. Diventava lo strumento mediante il quale si cercava di rendere meno deboli gli interessi del cittadino rispetto a quelli del governo nei processi decisionali pubblici. Il quadro che questo “legalismo” originava era un’azione amministrativa caratterizzata da un pesante sistema di controlli, preventivi e successivi, da una sostanziale prevalenza dell’interesse dell’amministrazione rispetto ai diritti del cittadino, da una strutturale frammentazione e quindi lentezza dei processi decisionali. Con la legge 241/1990 il sistema amministrativo ha finalmente avuto la sua prima legge organica sull’azione amministrativa con la quale sono stati stabiliti princìpi guida essenziali rispetto alla tempistica, alla responsabilità dei procedimenti, all’accesso agli atti e alla trasparenza dei processi. Con la riforma della Corte dei Conti del 1994 si è ridotto notevolmente il numero delle materie oggetto di controllo preventivo. È opportuno poi sottolineare l’introduzione degli URP e le Carte servizi. L’attuazione ha mostrato notevoli problemi. In molte amministrazioni, infatti, gli strumenti sopra descritti (la semplificazione, la responsabilizzazione dei dirigenti, l’introduzione di nuovi sistemi di controllo e di valutazione) sono stati adoperati in modo incongruente ovvero ricondotti alle logiche sedimentate dal passato. Inoltre la riduzione dei controlli preventivi e in molti casi dei controlli esterni se certamente ha reso più celeri i processi decisionali, al tempo (Cassa del Mezzogiorno del 1950 e ENI nel 1953 ecc.). Nei decenni successivi le dinamiche si sono invece invertite, assistendo a uno sfoltimento degli enti pubblici. Il dibattito giuridico sulla definizione di ente pubblico e sulle sue possibili classificazioni è variegato. Gli studiosi sono concordi nell’individuare alcuni indici di pubblicità comuni a tutti gli enti: • L’istituzione per opera di un soggetto pubblico • La nomina degli organismi direttivi in tutto o in parte di competenza dello stato • L’esistenza di controlli e finanziamenti pubblici • Il conferimento di poteri autoritativi Gli enti pubblici non economici possono essere intesi come quelle strutture delegate dallo stato a gestire specifici servizi oppure a tutelare interessi pubblici al di fuori di qualsiasi finalità di lucro. Essi agiscono con gli strumenti del diritto pubblico, sono sottoposti al controllo del governo, anche attraverso il potere di nomina dei vertici e della Corte dei Conti, e sono regolati dal punto di vista dell’inquadramento del personale e del funzionamento interno dal medesimo regime giuridico che disciplina l’amministrazione dalla quale sono stati originati. Due visioni opposte riguardano la nascita degli enti pubblici: • Gli enti sarebbero stati istituiti con finalità di occupazione partitica e di sottogoverno da parte del potere politico centrale; lo sviluppo di tali strutture avrebbe così consentito ai governi di esercitare un controllo più penetrante sulla società tramite la colonizzazione dei posti e delle cariche. • Gli enti avrebbero risposto ad esigenze funzionali delle amministrazioni pubbliche, alla necessità di superare la rigidità della burocrazia ministeriale e di cercare competenze specialistiche più congruenti con i compiti da svolgere. Sul piano normativo la prima riforma del c.d. parastato si ebbe con la legge 70/1975 che aveva l’obiettivo di rivedere l’assetto del personale inquadrato negli enti e di conseguirne un generale riordino. Vennero individuati gli enti utili e per tutti gli altri fu prevista la soppressione entro tre anni. Tuttavia tale riforma non riuscì a sfoltire significativamente il numero di strutture. Così solo negli anni ’90 i più grandi enti pubblici (IRI, ENI, ENEL e INA) vennero convertiti in società per azioni come passaggio preliminare alla loro privatizzazione. Qualche anno più tardi si assistette alla vendita del Credito italiano e alla trasformazione delle poste e della Telecom. È possibile raggruppare il complesso di attività svolte dagli enti pubblici non economici intorno a tre funzioni: 1. Funzioni di erogazione di servizi. Interessa il gruppo di enti previdenziali tra cui spiccano INPS E INAIL. Per quanto riguarda la prima, i servizi erogati sono di natura previdenziale, quelli cioè che si basano sui contributi precedentemente versati dai lavoratori come le pensioni, e di tipo assistenziale. L’INAIL, invece, si occupa del settore assicurativo nel caso di infortuni, malattie professionali ecc. 2. Funzioni di ricerca e promozionali. Sono enti volti ad incoraggiare la realizzazione di iniziative e progetti di sviluppo e innovazioni anche in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati (CNR, ENEA, ISTAT, CONI ecc.). Numerosi sono gli enti di ricerca (come il CNR, sorto nel 1923, e l’ISTAT nato nel 1926), la cui funzione prevalente è dare vita a progetti scientifici di vario tipo. 3. Funzioni regolative. In questo caso gli enti ricevono un’esplicita investitura da parte delle istituzioni di riferimento per la tutela di determinati interessi pubblici (ACI, con competenza regolativa che riguarda la gestione del Pubblico registro automobilistico; SIAE, con riferimento alla tutela del diritto di autore). PROCESSI DECISIONALI NEI MINISTERI ED ENTI PUBBLICI I processi decisionali rispondono a logiche differenti, a seconda dell’obiettivo da perseguire. Ad esempio il processo di svolgimento dei controlli antidoping da parte del CONI risponde a una logica di command and control: le procedure che guidano l’azione sono altamente formalizzate, e la logica che si utilizza è quella legale-burocratica. Oppure ad esempio il processo che porterà all’approvazione di bilancio da parte del ministero contiene maggiormente azioni negoziali e confrontazionali, orientate al problem solving. Il processo di bilancio coinvolge la contabilità dello Stato e quella degli enti subnazionali, perciò è un processo di sorveglianza reciproco e multilaterale (c.d. multilevel governance). CAP. 3 LE AUTORITÀ INDIPENDENTI INTRODUZIONE Le AI hanno origine nei paesi di common law a partire dalla metà del XIX secolo, mentre la comparsa di tali organismi nell’Europa continentale è molto più recente (anni ’80 e ’90 del Novecento). Questa differenza cronologica è causata sia dall’influenza delle tradizioni amministrative – che ha facilitato la creazione di corpi specializzati esterni all’amministrazione nei paesi anglosassoni –, sia dalle caratteristiche istituzionali del sistema politico statunitense, che hanno agevolato il ricorso alle politiche regolative. La diffusione delle AI in Europa è stata attuata sotto la spinta dell’integrazione comunitaria, dei processi di privatizzazione delle imprese pubbliche e di liberalizzazione delle public utilities. La prima a istituirle è stata la Francia, seguita dall’Italia. La loro diffusione è giustificata da un’esigenza di regolazione, dal momento che si è passati dall’erogazione diretta di beni /servizi a un modello basato sull’intervento indiretto dello Stato in economia, in cui lo Stato agisce da arbitro. Alle AI viene affidata, da parte di un organo politico (Parlamento), la cura di ambiti settoriali sensibili della vita economico-sociale, contro gli eventuali abusi derivanti dal mercato (market failures) o dal potere esecutivo. Le AI possiedono, quindi, un maggior livello di indipendenza e di imparzialità, oltre che specifiche garanzie procedurali stabilite dalla legge. L’indipendenza delle AI è, tuttavia, relativa, poiché si articola diversamente per ciascuna AI. Risulta difficile classificare le AI in base a un criterio unitario: l’eterogeneità è il risultato della stratificazione di interventi legislativi, accentuatisi dopo la vicenda giudiziaria di Tangentopoli. La frammentazione normativa ha generato molte ambiguità interpretative. Non tutti reputano auspicabile uno statuto comune a tutte le AI, perché esse possiedono fisionomie strutturali e funzionali assai diverse tra loro. Certamente la non appartenenza all’organizzazione ministeriale statale e l’autonomia nella gestione delle risorse finanziarie sono un requisito necessario per essere identificata come un’AI. Perciò le organizzazioni soggette a tutti gli effetti ai poteri di vigilanza e indirizzo del governo sono piuttosto da accostarsi alle “agenzie” (caso emblematico è stato l’ex Autorità per l’Informatica nella PA). Attualmente le AI italiane e con un alto grado di consolidamento istituzionale sono: CONSOB, Antitrust, AEEG (Autorità per l’energia elettrica e gas), AGCOM e Garante per la protezione dei dati personali. LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA Investitura dei vertici e forma di governo CONSOB: Nomina governativa. Mandato di sette anni non rinnovabile né revocabile (ma dal 2008 la revoca è prevista per impossibilità di funzionamento o continuativa inattività). Incompatibilità con altri incarichi durante il mandato. Esistenza e attuazione di un codice etico autoprodotto dal 2010. ANTITRUST: Nomina istituita a seguito di intesa dei presidenti di Camera e Senato. Mandato di sette anni non rinnovabile né revocabile. Incompatibilità con altri incarichi durante il mandato. Esistenza e attuazione di un codice etico autoprodotto dal 1995. GARANTE: il presidente viene nominato tramite cooptazione interna, mentre tutti gli altri membri sono selezionati a seguito di un’intesa dei presidenti di Camera e Senato. Dal 2008 il mandato è di sette anni, non è rinnovabile né revocabile. Incompatibilità con altri incarichi durante il mandato. Esistenza e attuazione di un codice etico autoprodotto. AEEG: i membri sono nominati a seguito di intesa governo-parlamento, eccetto per i commissari che sono nominati da un’intesa tra i presidenti di Camera e Senato. Mandato di sette anni non rinnovabile né revocabile. Incompatibilità con altri incarichi durante e dopo il mandato (per almeno quattro anni dalla cessazione dell’incarico). Esistenza e attuazione di un codice etico autoprodotto. AGCOM: i commissari sono eletti dai parlamentari con voto limitato di preferenza, mentre il presidente è nominato in parte dal governo, ma bilanciato da un intervento parlamentare. Mandato di sette anni non revocabile né rinnovabile. Incompatibilità con altri incarichi durante e dopo il mandato (per almeno quattro anni dalla cessazione dell’incarico). Esistenza e attuazione di un codice etico autoprodotto. Gli organi direttivi di vertice hanno una forma di governo collegiale. L’unica autorità monocratica è l’AGCOM, che però conserva il carattere collegiale nelle commissioni. Le leggi istitutive stabiliscono che i compensi siano fissati con una determinazione del Presidente del Consiglio su proposta del MEF. Esistono a riguardo prassi molto diversificate. Solo nel caso del Garante si ha un’esplicita previsione di legge (al presidente spetta un’indennità non eccedente la retribuzione del primo presidente di Cassazione). Attualmente presidenti e commissari Antitrust, i componenti di CONSOB, AEEG e AGCOM ricevono lo stesso trattamento economico dei giudici della C. Cost. Autonomia organizzativa e finanziamento Solo i regolamenti emanati dalla CONSOB subiscono il controllo di legittimità del Presidente del Consiglio, sentito il Ministro del Tesoro (le AI istituite dal 1990 sono esentate). Nella fase iniziale della loro istituzione, le AI hanno presentato assetti organizzativi molto flessibili e gli organigrammi sono stati ridefiniti via via che venivano precisati gli obiettivi legati alla mission regolativa. In generale i regolamenti interni delle AI distinguono le funzioni di indirizzo e controllo dell’attività organizzativa dalle funzioni di attuazione e gestione. L’organizzazione è articolata in strutture di primo livello (dipartimenti/direzioni/ divisioni), che a loro volta istituiscono unità operative di secondo livello (uffici). Per legge, solo Antitrust, Garante e COVIP (Commissione di vigilanza su fondi pensione) prevedono la figura del segretario generale, che sovrintende al funzionamento della struttura organizzativa. In Antitrust il segretario è di nomina politica, e dal 2000 i suoi compiti sono stati ridimensionati, istituendo una direzione generale responsabile dell’attività istruttoria nei vari settori. In CONSOB la figura del segretario generale è facoltativa, mentre non è affatto prevista nelle leggi istitutive delle altre AI. Tuttavia tutte le AI hanno articolato le proprie strutture istituendo questo ruolo. Simbolo della loro indipendenza strutturale è l’autonomia dal finanziamento pubblico, che però è molto variabile tra le diverse AI: per AEEG vale un regime di autofinanziamento; per AGCOM è previsto un regime di finanziamento misto (risorse pubbliche/private); in CONSOB vige un autofinanziamento parziale dagli anni ’90 (il costo delle contribuzioni è commisurato al costo della vigilanza. La CONSOB fissa annualmente i criteri, con un vaglio di legittimità da parte del MEF); il Garante ha diminuito i trasferimenti di fondi dallo Stato, attingendo invece a risorse proprie; anche per l’Antitrust è prevista una forma parziale di autofinanziamento. LE FUNZIONI In alcuni casi la legge istitutiva dell’AI fa esplicita menzione dei compiti delegati (Garante, AEEG, AGCOM). In altri casi gli obiettivi della delega possono essere ricavati dalle finalità generali della legge (Antitrust). In altri casi ancora gli obiettivi sono vaghi o descritti in maniera minimale (CONSOB). L’esercizio della delega può prevedere la seguente serie di poteri: • Poteri di vigilanza: richiesta di dati e di informazioni, ispezioni nei confronti dei soggetti vigilati. Tutte le AI li possiedono; • Poteri di segnalazione: obbligo per le AI di indicare i provvedimenti più importanti assunti o gli eventi di rilievo istituzionale. Tutte le AI li possiedono; • Poteri consultivi: il governo deve sentire l’AI prima di adottare normative suscettibili di incidere sulle materie regolate. Sono posseduti da Antitrust, Garante, AEEG, AGCOM; • Poteri normativi e di carattere regolamentare: consistono nel disciplinare anche situazioni esterne, emanando norme vincolanti per i destinatari del settore di riferimento. Sono posseduti da CONSOB, AEEG, AGCOM; • Poteri di aggiudicazione: consistono nell’intervento nella composizione delle controversie, ad esempio tra soggetti destinatari della regolazione. Tutte le AI li possiedono (la CONSOB dal 2006); • Poteri sanzionatori: di tipo amministrativo. Tutte le AI li possiedono (erano indiretti per la CONSOB fino al 2005). IL PERSONALE Ciascuna autorità ha un proprio ruolo organico del personale e ne definisce con regolamenti interni l’ordinamento delle carriere e il trattamento giuridico-economico. Le leggi istitutive fissano vincoli numerici per il personale di ruolo e a tempo determinato, ma la crescita dei carichi di lavoro ha fatto estendere tali limiti. In generale tutte le AI inizialmente hanno fatto ricorso al personale distaccato da altre amministrazioni, poi si è proceduto al reclutamento mediante concorso pubblico. In tutti i casi esaminati si registra una distanza tra le dimensioni delle piante organiche e il personale in servizio, causata in parte dall’attenzione posta nella selezione del personale, e in parte dall’alto tasso di turn over dei dipendenti, la cui attrattiva sul mercato è elevata. Per la maggioranza delle AI il trattamento economico del personale di ruolo è stabilito sulla base di criteri fissati dal contratto collettivo in vigore per la Banca d’Italia. In Antitrust il meccanismo di avanzamento basato sull’anzianità di servizio è stato sostituito da una progressione salariale connessa a processi di valutazione periodica. Questo esempio è stato seguito da altre AI. I PROCESSI DECISIONALI Le indagini e le istruttorie dell’Antitrust L’intervento dell’Autorità si attiva a seguito di una denuncia di un’impresa, una P.A., cittadini, o per iniziativa autonoma della stessa autorità. Nel caso delle concentrazioni la l. 287/1990 richiede che siano preventivamente notificate all’Antitrust le operazioni il cui fatturato delle imprese coinvolte superi certe soglie, altrimenti sono previste sanzioni amministrative. Sulla base dell’indagine preliminare, il collegio decide se formalizzare l’avvio di un’istruttoria. Poi sono avvertiti i soggetti interessati, che hanno diritto a essere sentiti e visionare i documenti rilevanti non riservati. Le ispezioni sono condotte in collaborazione con la Guardia di Finanza. Con gli anni i procedimenti avviati sono diminuiti, e con essi anche il numero di istruttorie. Le decisioni assunte dall’Autorità possono essere contestate in sede giurisdizionale dai destinatari, che presenteranno ricorso al Tar Lazio, e successivamente al Consiglio di Stato. Sono escluse le azioni per risarcimento danni, che vanno I pubblici ministeri (PM) invece esercitano principalmente una funzione che è detta inquirente/requirente. I PM agiscono sia nel processo civile sia nel processo penale a tutela di interessi pubblici. Sulla base della normativa vigente un magistrato può esercitare, nel corso della propria carriera, sia le funzioni giudicanti, sia quelle requirenti. Il passaggio delle funzioni è vietato in una serie di casi specifici: all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione, all’interno del distretto di Corte di Appello competente ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato presta servizio. È inoltre indicato un limite massimo di quattro passaggi nel corso della carriera del magistrato, unitamente alla previsione di un periodo di permanenza minima nelle funzioni pari a cinque anni. Il CSM e il ministero della Giustizia Il ministero della Giustizia e il CSM rappresentano i due organi incaricati della governance del sistema giudiziario. Si può affermare che la Costituzione assegna al CSM la gestione del personale togato, mentre al ministero attribuisce le funzioni di indirizzo politico, supporto e organizzazione dell’attività giudiziaria. Il CSM è un organo di rilevanza costituzionale con sede a Roma ed è deputato a garantire l’indipendenza dell’ordine giudiziario (è quindi un organo di autogoverno della magistratura). Il CSM è composto da 3 membri di diritto (Presidente della Repubblica che lo presiede, il primo presidente e il procuratore della Corte di Cassazione) e da membri elettivi. La Costituzione non fissa il numero dei componenti del Consiglio ma si limita a ripartirne la composizione in una componente togata che corrisponde ai 2/3 e una componente laica, eletta dal Parlamento in seduta comune a scrutinio segreto, scegliendo tra professionisti ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di servizio della professione. I membri durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. L’art.110 della Costituzione afferma che “ferme restando le competenze del CSM, spettano al ministero l’organizzazione e il funzionamento della giustizia”. IL PERSONALE Il magistrato togato è il magistrato di carriera che esercita la funzione giurisdizionale (di giudice o di pubblico ministero) a tempo indeterminato, nominato mediante pubblico concorso e regolato dalle norme sull’ordinamento giudiziario, con remunerazione continuata. Negli uffici giudiziari operano anche i magistrati onorari. Tali figure sono magistrati non reclutati per concorso. Essi non sono legati allo stato da un rapporto di pubblico impiego ma di servizio onorario. Questa qualifica onoraria spetta al giudice di pace, al giudice onorario aggregato, al giudice onorario di tribunale e al vice procuratore onorario. Si entra in magistratura tramite concorso pubblico bandito dal ministero della Giustizia. I criteri per l’accesso alla professione prevedono: la cittadinanza italiana, l’esercizio dei diritti civili, una condotta incensurabile e una laurea in giurisprudenza. Inoltre non si deve essere stati respinti per tre volte in precedenti concorsi per magistratura. La carriera comune sia per i giudici che per i PM si basa essenzialmente sulla progressione economica per anzianità. I vincitori del concorso vengono nominati magistrati ordinari in tirocinio (non esercitano le funzioni giudiziarie). Una volta passati due anni possono diventare magistrati in tribunale, dopo undici anni di questa funzione possono essere nominati magistrati di appello, poi dopo sette anni di funzioni di appello si può diventare magistrato di Cassazione. La l. 111/2007, tuttora in vigore, prevede che per l’avanzamento i magistrati debbano conseguire delle periodiche valutazioni di professionalità e competenza da parte del CSM. I PROCESSI DECISIONALI Sin dall’istituzione del CSM nel 1959 si è assistito a un drastico ridimensionamento dei poteri del Ministro a favore del CSM. È il CSM a bandire il numero di posti per il concorso in magistratura, sulla base dei posti vacanti, che risultano dalle piante organiche definite dal Ministro. Il Ministro emana il bando di concorso, ma la commissione esaminatrice è selezionata dal CSM. Secondo l’art. 107 Cost., il ministro possiede la facoltà di promuovere l’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, davanti alla sezione disciplinare del CSM, anche se tale facoltà è esercitabile anche dal procuratore generale c/o la Corte di Cassazione. La l. 195/1958 prevede una collaborazione tra CSM e il Ministro per l’attribuzione di incarichi direttivi degli uffici giudiziari, ma tale interazione non deve essere intesa come un potere di veto del Ministro sulle proposte del CSM. Inoltre, il CSM può esprimere pareri sui ddl riguardanti l’ordinamento giudiziario. Organo associativo della magistratura italiana al quale aderisce il 90% del personale togato è l’ANM, dove si articolano quattro correnti che esprimono diverse visioni di politica giudiziaria, più o meno vicine ai partiti politici. CAP. 5 LE REGIONI LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA Quando le regioni nascono, esse vengono pensate come enti di indirizzo e programmazione legislativa, dotate di apparati amministrativi snelli, chiamate a delegare i compiti e le funzioni di amministrazione attiva ai governi locali. Tuttavia lo sviluppo successivo delle regioni si allontana dalle previsioni originarie: le regioni finiscono per trattenere presso di sé la quasi totalità delle funzioni amministrative loro attribuite, che cresceranno nel corso degli anni, data l’espansione del welfare state, divenendo enti di amministrazione attiva, dedite a compiti operativi a tutti gli effetti. Le regioni si organizzano per assessorati secondo lo schema delle direzioni generali dei ministeri dando vita a strutture caratterizzate per la specializzazione funzionale dei compiti, l’uniformità degli uffici e soprattutto la gerarchia quale criterio di regolazione del rapporto tra il vertice politico e l’apparato amministrativo. La riforma Bassanini, avviata dalla legge delega 59/1997, promuove un imponente processo di decentramento amministrativo, basato sul principio di sussidiarietà, che punta a trasferire la generalità dei compiti operativi a livello locale, salvo quelli che richiedono un esercizio unitario a livello superiore. Uno degli intenti della riforma è riportare le regioni alla loro funzione originaria, quella di enti di indirizzo e programmazione, rafforzandone però i poteri di regolazione e coordinamento in relazione ai governi locali tenuti oggi ad assolvere la prevalenza delle funzioni di amministrazione attiva. I processi di riorganizzazione interna hanno teso ad abbandonare il modello assessorile, di natura gerarchico - funzionale, per convergere verso il modello dipartimentale, di natura divisionale. Tale modello privilegia lo sviluppo della dimensione orizzontale dell’organizzazione, poggia su macroaree organizzative nelle quali sono aggregate tutte le funzioni associate alla realizzazione di un medesimo obiettivo e, in tal senso, promuove un maggiore orientamento al risultato. L’approdo al modello dipartimentale viene in buona misura indotto dalla riforma della dirigenza amministrativa che attribuisce ai dirigenti non solo una maggiore autonomia ma anche una responsabilità di risultato. Il modello dipartimentale consente alle regioni di operare con efficienza ed efficacia, e di potenziare la specifica funzione di indirizzo e programmazione originaria. La macrostruttura regionale si divide in due livelli dirigenziali: il dipartimento e il settore (quale unità di secondo livello). È uno schema che privilegia la dimensione orizzontale. Per l’esercizio delle proprie funzioni le regioni non si avvalgono solo della struttura organizzativa interna, ma ricorrono a soggetti terzi. Tali strutture dispongono di autonomia funzionale e organizzativa, e possono acquisire conoscenze e personale all’esterno dell’organico regionale che ne nomina i vertici e ne approva i bilanci. Fra i più importanti abbiamo: • Gli enti regionali sono generalmente istituiti per svolgere funzioni che non hanno rilevanza economica o imprenditoriale (Enti agricoli, forestali o gestori di parchi naturali, gli istituti di preservazione dei beni pubblici, quelli per il diritto allo studio e gli istituti di ricerca, ecc) • Le aziende regionali invece sono costituite per svolgere attività che si prestano all’impiego di criteri di economicità e risultano guidate da una logica di natura imprenditoriale (ASL e Istituti per l’edilizia popolare). • Le agenzie regionali rappresentano lo strumento più innovativo fra quelli di amministrazione indiretta. Il modello di agenzia si diffonde a seguito delle leggi Bassanini. Sono strutture dotate di ampia autonomia organizzativa, decisionale di bilancio, preposte al conseguimento di obiettivi tecnico – operativi, strumentali all’attuazione delle politiche decise dall’esecutivo regionale (ARPA). LE FUNZIONI La funzione legislativa La riforma del Titolo V della Costituzione amplia il potere legislativo regionale e introduce nuovi principi per l’esercizio delle competenze legislative che rafforzano il ruolo di indirizzo delle regioni, consentendo la formulazione di politiche in maggior autonomia rispetto al governo centrale. Grazie all’art. 117 Cost., le regioni hanno ampliato le loro competenze legislative, e ottenuto un potere legislativo esclusivo. L’art. 120 Cost. disciplina il potere di intervento sostitutivo dello stato, volto a garantire il rispetto non solo degli obblighi internazionali ma anche di alcuni livelli di uniformità nelle politiche sociali ed economiche. La riforma ha anche notevolmente ampliato le materie concorrenti. È questo il caso della sanità, delle politiche a tutela del lavoro, dell’istruzione, della ricerca, della cultura, dei porti ed aeroporti, dell’energia, ecc. Un cenno particolare va al “potere estero” delle regioni: il nuovo testo costituzionale attribuisce alle regioni competenza legislativa concorrente in materia di rapporti internazionali. Il rafforzamento del potere legislativo regionale, con tanto di equiparazione delle regioni allo stato nell’esercizio della funzione legislativa pone le premesse per una trasformazione federale del nostro ordinamento, accumunando le regioni italiane a quelle dei sistemi federali. Le funzioni amministrative La prima novità introdotta dalle riforme in materia di funzioni amministrative è rappresentata dal superamento del principio del c.d. “parallelismo”. Mentre prima le regioni avevano competenza amministrativa essenzialmente nei settori nei quali possedevano competenza legislativa, oggi, grazie al decentramento, le regioni hanno acquisito competenza in tutti i settori dell’intervento pubblico salvo quelli che restano in campo all’amministrazione centrale in quanto attinenti a funzioni di rilevanza nazionale. Il principale ruolo attribuito alle regioni risulta essere quello di programmazione e regolazione ovvero di indirizzo, organizzazione e coordinamento delle funzioni amministrative svolte da altri enti (primariamente comuni e province). Il principio fondamentale che regola sia la titolarità che l’esercizio delle funzioni amministrative è, infatti, quello di sussidiarietà (verticale). Il principio di sussidiarietà implica quello di adeguatezza o idoneità degli enti. Laddove il compito consiste nel perseguire finalità o erogare servizi che non sono alla portata delle amministrazioni comunali, il principio opera portando la competenza ai livelli superiori. Il federalismo fiscale Nell’esercizio delle loro funzioni le regioni hanno progressivamente rafforzato la propria autonomia finanziaria all’insegna di una crescente responsabilizzazione abbandonando il sistema di finanza derivata che le vedeva quasi interamente dipendenti da trasferimenti statali, provenienti da vari fondi nazionali. Tale sistema, fortemente centralizzato, oltre a rendere nulla l’autonomia e la responsabilità di entrata, limitava l’autonomia di spesa poiché vincolava le risorse trasferite al finanziamento di predeterminate funzioni riconoscendo alle regioni pochi margini discrezionali. Il processo di riforma, all’insegna del federalismo fiscale, avviene con il decreto 56/2000, che prevede l’abolizione della maggior parte dei trasferimenti statali vincolanti, sostituendoli con la compartecipazione a importanti tributi erariali (IVA e IRPEF) per la quale si prevede la possibilità di un’addizionale regionale, e imposta sulla benzina. Parallelamente si assicura l’intervento finanziario del ministero del Tesoro per sostenere la spesa sanitaria nei territori con maggiore popolazione o minore capacità fiscale. L’art. 119 Cost. afferma che le regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa e riconosce loro poteri di imposizione fiscale ovvero la facoltà di stabilire tributi con legge propria. Al fine di scongiurare eccessive differenze nella capacità di finanziamento delle attività regionali, il nuovo art. 119 prevede anche l’istituzione di un fondo di solidarietà per i territori con minore capacità fiscale. Importante anche la legge delega 42/2009 per il varo dei decreti attuativi. L’intento del legislatore è quello di operare un’incisiva razionalizzazione della spesa pubblica a livello regionale, riconducendola a standard di efficienza che responsabilizzino gli amministratori nell’uso delle risorse. Un secondo criterio innovativo è la distinzione fra tipi di spese regionali sulla base delle modalità di finanziamento: • Spese riconducibili al vincolo dei livelli essenziali delle prestazioni che riguardano la sanità, l’assistenza sociale e l’istruzione. In questo caso l’erario si farà interamente carico dell’eventuale insufficienza delle risorse regionali. • Spese non riconducibili a tale vincolo. Finanziate con le risorse regionali, anche se si può accedere al fondo perequativo, ma senza garanzia di copertura totale del fabbisogno. • Spese speciali per promuovere lo sviluppo economico nei territori più bisognosi. Finanziate, interamente o in parte, con trasferimenti centrali o Fondi europei, nell’ambito di programmi di sostegno delle aree più arretrate del paese. Il nuovo riparto di competenze fra lo stato e le regioni rafforza la necessità di cooperazione fra il centro e la periferia. Il quadro che si è andato delineando è quello che in letteratura viene indicato con il concetto di multilevel governance ovvero un assetto nel quale le competenze di intervento pubblico risultano sempre più intrecciate e condivise fra i livelli di governo. L’esercizio delle funzioni regionali non può prescindere dalla collaborazione con gli enti locali. In materia sanitaria le regioni hanno acquisito ampi spazi di autonomia, e il risultato è stato l’emergere di modelli sanitari differenziati che hanno oltrepassato l’uniformità del SSN precedente. Questa crescente interdipendenza rende importante lo sviluppo e la gestione delle relazioni intergovernative, al fine di assicurare la partecipazione allargata ai processi decisionali che definiscono gli interventi comuni e il coordinamento delle risorse e competenze, evitando dispersioni e inefficienze. A tale riguardo, le riforme hanno introdotto specifici strumenti di consultazione (Conferenza permanente stato – regioni, ecc.). IL PERSONALE L’organizzazione del personale regionale recepisce le riforme del pubblico impiego che, a partire dal d.lgs. 29/1993, hanno introdotto nuovi principi per il reclutamento e la gestione delle risorse umane. Innanzitutto, la privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, intesa come applicazione di norme privatistiche e contrattuali, senza alcuna specialità di status o 4. La fase delle riforme aziendaliste (anni Novanta e Duemila). Riconfigurazione della separazione delle funzioni tra regioni, province e comuni, ognuno con funzioni differenziate. Questa ripartizione delle funzioni segue i principi di sussidiarietà verticale, adeguatezza e differenziazione. Così alla regione spetta il compito di regia; per le province si profila una funzione di raccordo con le regioni, soprattutto di indirizzo e programmazione nei confronti dei comuni, ai quali infine compete la gestione diretta degli interventi. Secondo la nuova distribuzione delle funzioni, gli enti locali e le regioni sono chiamati a definire in modo negoziale i programmi degli interventi e delle responsabilità della loro attuazione, mediante contratti ideali chiamati “convenzioni”, se stabiliscono le funzioni tra enti locali di pari livello, e “accordi di programma” se fissano le funzioni tra enti di diverso livello. La logica della contrattualizzazione delle funzioni degli enti locali segue le dottrine del New Public Management (NPM). Funzioni amministrative e tipi di politiche pubbliche Le funzioni amministrative di comuni e province possono essere riassunte sotto il duplice profilo giuridico e politologico. Sotto il profilo giuridico le funzioni amministrative si distinguono in proprie e delegate. Queste ultime consistono in compiti assegnati, quasi esclusivamente ai comuni, in qualità di terminali dell’apparato centrale, con il sindaco in veste di ufficiale dello stato. Nelle funzioni cosiddette proprie invece rientrano le disposizioni normative che contraddistinguono l’attività programmatoria, regolativa e gestionale di comuni e province. Gli strumenti di governo secondo la cosiddetta tipologia NATO degli strumenti elaborata da Hood sono composti da: • N: strumenti informativi (Nodality) • A: strumenti autoritativi conferiti dalla legge (Authority) • T: strumenti finanziari (Treasure) • O: strumenti organizzativi (Organization). La programmazione è divenuta, anche per legge, lo strumento più importante di governo e di direzione amministrativa, poiché costituisce la base negoziale durante la quale i vertici decisionali dell’amministrazione locale contrattano gli obiettivi delle politiche pubbliche e ne definiscono le modalità, i vincoli e ne predispongono le risorse necessarie. Nei comuni e nelle province il documento prende il nome di Programma esecutivo di gestione (PEG). Per le province, la programmazione assume un significato di pianificazione, con finalità di indirizzo ai comuni, mentre per i comuni la programmazione delle politiche ha natura più operativa. IL PERSONALE I tratti salienti delle opportunità offerte dalla legislazione possono essere riassunti in sei punti: 1. Definizione di uno status dirigenziale, inclusa la figura del general manager, specifico per l’ente locale, separato dal resto dell’organico mediante contratti a t.d., e con la possibilità di reclutare dirigenti anche dall’esterno con contratti ad personam; 2. Sostituzione, per il resto del personale, del sistema delle qualifiche funzionali, dove unico criterio di emancipazione salariale era l’anzianità, con un sistema di categorie contrattuali ispirato ai settori industriali; 3. Introduzione dell’attribuzione temporanea e revocabile di incarichi di coordinamento e di direzione, denominati P.O., a personale non direttivo (prevalentemente fascia C e D); 4. Costituzione di organismi di valutazione (secondo il d.lgs. 150/2009), nominati dai sindaci e dai presidenti di Giunta; 5. Individuazione di forme contrattuali di tipo flessibile, a fianco del tradizionale rapporto di lavoro a t.i. (contratti a tempo determinato, a progetto, part time, ecc.); 6. Istituzione di un sistema di relazioni sindacali, che sia fondato sul principio del volontarismo contrattuale tra diverse parti dove lo stato è tutelato da un’apposita Agenzia per la rappresentanza negoziale (ARAN), nella definizione di piattaforme contrattuali, le quali vengono successivamente negoziate con i responsabili delle risorse umane e Rappresentanze sindacali unitarie (RSU). L’idea traguardo di quest’insieme di premesse decisionali predisposto dalle normative è il superamento della logica della pianta organica, ovvero uno standard definito di posti in dotazione a ciascun ente, verso la logica alternativa della provvista professionale, vale a dire un complesso variabile di risorse umane a seconda delle esigenze, con ampi margini di flessibilità nell’impiego e nella definizione individuale delle mansioni, dei contratti e dei rapporti di lavoro. Il direttore generale L’introduzione di tale figura è la principale innovazione nel personale degli enti locali. Il direttore generale ha il compito di supervisionare la gestione e il raggiungimento degli obiettivi formulati nella programmazione strategica, coordinando l’azione dei dirigenti, controllando e destinando l’uso delle risorse, provvedendo in linea indiretta alla gestione del personale e alla valutazione dei risultati delle prestazioni dei singoli settori. I direttori generali sono responsabili del raggiungimento degli obiettivi verso la Giunta e il primo ideale contraente nei confronti della medesima. Il rapporto che essi intrattengono è fiduciario, poiché sono nominati dal sindaco o dal presidente, ne condividono il progetto del mandato elettorale e il loro incarico non dura di più, anche se è revocabile prima della scadenza naturale, nel caso in cui i risultati conseguiti siano al di sotto delle aspettative. Non si tratta dunque di una nomina dovuta esclusivamente all’affiliazione di schieramento. Vi sono tre idealtipi di direttore generale: 1. il direttore generale “consulente interno” del sindaco o del presidente della Giunta, il quale supera le resistenze dell’amministrazione scivolando in un ruolo di esperto di management, non partecipa alla conferenza dei dirigenti e intrattiene un legame più stretto con i mandanti politici che non i dirigenti; 2. il direttore generale “regista”, il quale si colloca alla guida dell’ideale macchina amministrativa esaminandone gli indirizzi e le potenzialità attraverso un contributo prevalentemente di studio e di pianificazione, senza affrontare sul campo i rapporti con i dirigenti, come un tecnico che svolge un mandato a tempo; 3. il direttore generale “di frontiera” cioè il rappresentante politico della Giunta nell’amministrazione, il quale affronta per conto di essa conflitti e relazioni con dirigenti e segretario. I dirigenti Il ruolo di dirigente all’interno del comune e della provincia è radicalmente mutato emancipandosi sulla carta e nella pratica. Tra gli effetti dell’emancipazione del dirigente vi sono anche la presa di coscienza del ruolo e la rivendicazione dei propri interessi, che ha condotto alla proliferazione di una teoria di associazioni professionali, gruppi di lavoro e sodalizi. Alla base di questo fenomeno vi è la diversa statuizione del ruolo dirigenziale, derivante dalla legge 142/1990 secondo la quale il dirigente assurge al ruolo di decisore delle politiche locali e non si configura più solo come un mero applicatore di disposizioni date da altri (l’organo politico). Lo status organizzativo e il potere decisionale ne esaltano la discrezionalità e la responsabilità nell’intervenire per la parte tecnica delle scelte del governo. I dirigenti si assumono la responsabilità di azioni dotate di una certa gravità, e questo ha favorito un parziale ricambio generazionale, portando al ritiro dal lavoro di quanti lo ritenessero un investimento troppo oneroso. I segretari comunali e provinciali Il ruolo di segretario generale di comuni e province è il retaggio di un disegno accentrato allorché questi svolgeva un compito di controllo di legittimità per conto dello stato, nella persona del ministro degli Interni, dal quale il segretario generale dipendeva ed era formalmente nominato. Nella pratica questo controllo oltrepassava la forma e sfociava nel merito delle decisioni esercitando un potere informale indiscreto e penetrante. Secondo le nuove disposizioni (d.lgs. 267/2000, T.U.), il segretario generale è formalmente scivolato da una posizione di autorità a un ruolo di tipo consultivo, al pari di altri esperti che agiscono a supporto della direzione generale e dei dirigenti, influenzando la programmazione e le decisioni mediante il proprio sapere giuridico. Tuttavia nella pratica non si è verificato questo cambiamento di posizione del segretario generale, che, in realtà, ha incrementato il proprio prestigio e potere, assumendo anche l’incarico di direttore generale. Il segretario generale è nominato dal sindaco o dal presidente della Giunta. Il suo incarico segue il mandato del medesimo. I PROCESSI DECISIONALI Attraverso le riforme si è passati da una catena decisione-esecuzione, dove la prima era esercitata dalla Giunta e la seconda dall’amministrazione, a una separazione di funzioni fondata sul binomio indirizzo-gestione, dove il primo è sempre esercitato dal governo, e la seconda dalla direzione amministrativa (dirigenti e general manager), senza alcun apporto decisionale da parte dei segretari. Ciò riflette la trasformazione dell’ente locale da organizzazione burocratica a strategica. La separazione e l’integrazione di due ruoli decisionali specializzati (indirizzo e gestione) sono una prospettiva ambiziosa, per la quale non si può immaginare un netto distacco dalle pratiche antecedenti. Abbandonare la pratica di sconfinamento reciproco rappresenta una sfida decisiva per gli enti locali, ed è lecito, dunque, attendersi un processo di apprendimento che dovrebbe riguardare tutta la classe dirigente locale. CAP. 7 IL SISTEMA SANITARIO INTRODUZIONE Il SSN è un sistema pubblico, finanziato principalmente dalla fiscalità generale, che garantisce a tutti i cittadini un’ampia gamma di prestazioni sanitarie gratuite. Il SSN è stato istituito con la legge 833/1978. Prima di allora la copertura contro i rischi di malattia veniva garantita dall’iscrizione a casse mutue divise in base alla categoria professionale (settore privato, dipendenti statali, e cosi via). Tale assetto organizzativo determinava profonde difformità di trattamento: tanto i contributi da versare, quanto le prestazioni cui si aveva diritto variavano sensibilmente a seconda della mutua di appartenenza. Con la riforma sanitaria del 1978 i diversi attori che in precedenza erano deputati al finanziamento e all’erogazione dei servizi sanitari vennero ricondotti sotto un’unica proprietà: le casse mutue vennero liquidate e fatte confluire nel SSN, mentre le strutture ospedaliere rinunciarono alla propria autonomia per diventare stabilimenti produttivi del nuovo servizio pubblico. LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA La legge 833/1978 stabilisce le caratteristiche istitutive del SSN italiano: • Universalità della copertura assicurativa: il diritto all’assistenza sanitaria viene garantito a tutti i cittadini italiani (anche a quelli stranieri, regolarmente soggiornanti in Italia) senza distinzioni di sesso, età, condizione sociale, economica e sanitaria. • Uguaglianza dei cittadini rispetto ai bisogni di salute e la gratuità nell’accesso alle cure. • Globalità di erogazione dei servizi alle persone e alla collettività. Il SSN deve, infatti, provvedere a un’ampia gamma di prestazioni. • Solidarietà fiscale: il SSN è finanziato attraverso imposte dirette pagate secondo aliquote progressive sul reddito. • Democrazia nelle scelte strategiche e nella gestione operativa dei servizi. Fino alla riforma del 1993 il controllo democratico sulla gestione del SSN veniva garantito attraverso la nomina da parte dei comuni degli amministratori delle USL; attualmente l’accountability democratica del SSN si fonda sul principio che i direttori generali delle aziende sanitarie rispondono del proprio operato alla Giunta regionale che ha il potere di nominarli, così come di rimuoverli dall’incarico. • Controllo pubblico dei fattori di produzione, e l’unicità di gestione dei servizi da parte delle USL. Fin dall’istituzione il SSN è stato articolato su tre livelli di governo: quello nazionale (funzioni di finanziamento e programmazione generale), quello regionale (funzioni di gestione e programmazione della rete ospedaliera) e quello locale (funzioni operative). Tra i limiti evidenziati dal SSN nel corso degli anni Ottanta si evidenziava l’eccessiva ingerenza dei politici nell’amministrazione delle strutture sanitarie. I comitati di gestione divennero ben presto oggetto di lottizzazione da parte dei partiti che finivano per utilizzare risorse destinate alla sanità per fini politici-clientelari. Gli anni novanta e il processo di aziendalizzazione Obiettivo fondamentale delle misure adottate nei primi anni ’90 fu di promuovere un nuovo modello di gestione del SSN, basato sulla competizione dei fornitori e improntato a una cultura di responsabilità e intraprendenza imprenditoriale. La prima novità di rilievo introdotta dalla riforma del 1992-1994 fu la trasformazione delle USL e degli ospedali di maggiori dimensioni in aziende autonome. Si intendeva così favorire l’adozione, da parte delle strutture sanitarie pubbliche, di strumenti e logiche di gestione, tipici delle imprese private. Le USL divennero quindi ASL, dotate di personalità giuridica pubblica e di un’ampia autonomia gestionale. Gli ospedali pubblici di maggiori dimensioni si trasformarono in Aziende Ospedaliere (AO). Sia nella ASL sia nelle AO la direzione fu affidata a manager pubblici nominati dalla Giunta regionale. È questa la cosiddetta managerializzazione della sanità, attraverso cui si mirava a depoliticizzare la gestione delle strutture sanitarie pubbliche. Il passo fondamentale è consistito nella separazione tra le ASL, cui sarebbero spettate le funzioni di committenza, e le AO, investite della funzione di erogazione delle prestazioni specialistiche. Il modello contrattuale presuppone che i possibili fornitori siano messi in competizione tra di loro, in modo da comportare benefici sia in termini di efficienza che di efficacia del sistema. In realtà solo gli ospedali di maggiori dimensioni sono divenuti fornitori autonomi rispetto alle ASL, mentre quelli di dimensioni minori sono rimasti all’interno delle aziende territoriali di afferenza. Le ASL in quest’ultimo caso hanno dunque continuato a svolgere anche funzioni di produzione. Gli anni Novanta e Duemila: il processo di regionalizzazione La riforma sanitaria del 1992-1993 conferì alle regioni ampia discrezionalità nel programmare, organizzare e finanziare i servizi sanitari sul proprio territorio. I governi regionali acquisirono controllo, che prima spettava ai comuni, sulle aziende locali. Il decentramento delle competenze comportò anche nuove responsabilità finanziarie: vennero date alle regioni per la prima volta fonti di finanziamento proprie. Con il federalismo fiscale introdotto nel 2000 i finanziamenti dei sistemi sanitari regionali non sarebbero più dipesi dai trasferimenti del governo centrale, ma le regioni vennero dotate di entrate proprie, derivanti dall’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e da un’addizionale IRPEF. Fu anche previsto un Nel 2001 fu stipulato l’accordo stato-regioni (istitutivo dei LEA) con cui il governo si accollò i debiti maturati fino ad allora dalle regioni, che si sarebbero fatte carico dei deficit eventualmente prodotti dal 2001 in poi. Si iniziò a distinguere quindi tra regioni viziose e regioni virtuose. Nel 2005 governo e regioni raggiunsero un altro accordo, in base a cui le regioni viziose sarebbero state soggette a controlli più rigidi del governo. Le regioni viziose avrebbero dovuto concordare un piano di rientro col MEF e col ministro della Salute. Nel 2006 si arrivò al Patto per la Salute. L’aiuto finanziario alle regioni era, tuttavia, condizionato alla sottoscrizione di un piano di rientro, volto a raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2010. Nel caso una regione non avesse saputo rispettare il piano di rientro, il governo avrebbe potuto togliere la gestione del sistema sanitario alla Giunta regionale, e affidarlo a una commissione di nomina governativa. Il rispetto di tali piani viene monitorato ogni tre mesi dal governo nazionale. Le prime a essere commissariate sono state il Lazio e l’Abruzzo (2008), poi Campania, Molise (2009), Calabria (2010). L’attività libero-professionale dei medici del SSN Ai medici del SSN è concesso svolgere anche la libera professione. Fin dai primi anni Novanta i medici dipendenti del SSN possono svolgere l’attività libero-professionale scegliendo tra la modalità intramoenia (svolta all’interno della struttura in cui lavorano) e la modalità extramoenia (in strutture o studi privati). Con il d.lgs. 229/1999 la situazione cambiò drasticamente: ai medici del SSN fu chiesto di scegliere in modo definitivo tra intramoenia e extramoenia. Chi avesse scelto l’extramoenia avrebbe dovuto rinunciare a una cospicua indennità di esclusività e alla possibilità di essere responsabile di struttura. La l. 138/2004 modificò il quadro normativo: la scelta in materia di rapporto esclusivo non è più irreversibile e può essere cambiata ogni anno; la scelta del rapporto non esclusivo non preclude più la direzione di strutture semplici e complesse. Data la mancanza di spazi dove poter svolgere l’attività intramoenia, è stata istituita nel 2000 l’intramoenia allargata: i medici, previa autorizzazione della propria azienda, potevano svolgere l’attività intramuraria anche in strutture private. CAP. 8 – IL SISTEMA SCOLASTICO INTRODUZIONE Il sistema scolastico impiega ben un terzo dei dipendenti pubblici ed è una P.A. sui generis (sarà per la funzione sociale che la scuola svolge; o perché il rapporto docente-alunno è molto soggettivo e non è un normale rapporto amministrativo; o perché la scuola c’entra ben poco col concetto di “burocrazia” ecc). Il sistema scolastico italiano è stato contraddistinto per lungo tempo da un assetto istituzionale centralistico, come tutte le altre amministrazioni statali, però ha sviluppato differenze con le altre P.A., come ad esempio un debole rapporto gerarchico tra i dipendenti e un rapporto particolare con i fruitori del servizio (studenti e famiglie). LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA L’evoluzione storica e normativa Nel 1860 venne emanata la legge Casati, che uniformava l’organizzazione della scuola elementare, sulla base di un percorso diviso in due cicli biennali. Il costo della scuola elementare era sostenuto dalle amministrazioni locali. Per quanto riguarda i cicli successivi, erano previste l’istruzione classica secondaria e l’istruzione tecnica. L’istruzione superiore era finanziata direttamente dallo Stato. Al centro del sistema vi era il Ministero, coadiuvato dal Consiglio superiore della pubblica istruzione e da tre ispettorati (si ravvisava dunque quell’impronta centralistica e accentratrice). La previsione di responsabilità finanziaria degli enti locali per la scuola elementare fu un ostacolo per un’efficace lotta all’analfabetismo nelle zone meridionali. Con la prima legge Coppino (1867) la struttura scolastica risultava ancora più accentrata; la seconda legge Coppino (1877) innalzava l’obbligo scolastico fino ai nove anni. La legge Orlando (1904, età giolittiana) portò l’obbligo scolastico ai 12 anni, lo Stato assunse la gestione e responsabilità di parte delle scuole elementari, e svincolò il consiglio scolastico provinciale dal rapporto di subordinazione con il ministero dell’Interno, individuando il provveditore come presidente. Tale organo divenne una struttura burocratica decentrata del Ministero dell’Istruzione. La riforma Gentile razionalizzò gli assetti organizzativi e centralizzò ulteriormente il sistema scolastico. L’ordinamento scolastico gentiliano prevedeva: la scuola materna (né obbligatoria né gratuita), la scuola elementare quinquennale, la scuola media inferiore (suddivisa in sei possibili percorsi) e la scuola media superiore. Nel 1933 la scuola elementare divenne totalmente statizzata. Nel 1940 (riforma Bottai) tre tipi di scuola media vennero unificati in un unico percorso, mantenendo separati gli altri tre. Nel 1947 si istituirono gli istituti tecnici professionali, nel 1956 gli istituti tecnici femminili, e nel 1962 la scuola media diventò unica. Gli anni Novanta rappresentarono l’inizio di una stagione di riforme (che vide, tra l’altro, l’inattuazione della riforma Berlinguer del 2000 e la riforma Moratti nel 2003), culminata con la riforma Gelmini (2010-2011). • L. 59/1997: fissazione dell’autonomia organizzativa e didattica delle istituzioni scolastiche; • D.lgs. 59/1998: introduzione della figura di dirigente scolastico; • D.lgs. 112/1998: trasferimento di funzioni amministrative, organizzative e di pianificazione alle regioni ed enti locali; • D.lgs.258/1999: istituzione dell’INVALSI; • D.lgs. 286/2004: costituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo, che comprende l’INVALSI; • L. 296/2006: costituzione dell’Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, con il compito di svolgere attività di ricerca, consulenza e formazione. Questo complesso percorso normativo è stato l’esito dell’intreccio di tre fattori: 1. Il convincimento che, attraverso una maggiore autonomia, le scuole possano essere più efficaci nel costruire i processi di apprendimento; 2. Il processo transnazionale di riforme amministrative (New Public Management), che ha enfatizzato il decentramento politico-amministrativo; 3. L’esigenza di aprire la scuola verso il mondo esterno, così da integrare di più le esigenze culturali ed economiche del proprio territorio. Per quanto riguarda le funzioni e l’organizzazione del ministero, si nota che la l. 59/1997 configuri tutto eccetto quel ridimensionamento organizzativo e funzionale cui la politica autonomistica aspira, dal momento che il ministero continua a svolgere attività di gestione, e non solo di indirizzo e controllo. Gli assetti organizzativi Il sistema scolastico nazionale è suddiviso in quattro livelli di governo: 1. Livello nazionale. Il ministero, sotto l’indirizzo politico del ministro e mediante il Dipartimento dell’Istruzione, svolge funzioni di indirizzo, coordinamento e monitoraggio. Espleta anche funzioni di consulenza e di supporto all’attività delle istituzioni scolastiche autonome, e si occupa degli affari e delle relazioni internazionali, inclusa la collaborazione con l’UE in materia di istruzione scolastica. Indirizza il funzionamento del sistema di istruzione nazionale anche attraverso l’INVALSI, che svolge la sua attività autonomamente, ma seguendo le strategie presenti in direttive ministeriali. Il Consiglio nazionale della Pubblica istruzione è una sorta di organo rappresentativo del personale della scuola. Le Conferenze nazionali degli enti locali (e in particolare la Conferenza stato-regioni) svolgono un ruolo di confronto e negoziazione sulle principali strategie di politica scolastica nazionale; 2. Livello regionale. Gli USR sono apparati di livello apicale, unità periferiche dell’amministrazione ministeriale. Vigilano sull’attuazione delle politiche scolastiche nazionali, assegnano alle scuole le risorse finanziarie e di personale. I dirigenti dell’USR nominano i dirigenti scolastici. Gli USR si articolano in unità territoriali, chiamate Centri servizi amministrativi. La pianificazione e gestione, a livello regionale, delle politiche del sistema scolastico si basano sull’azione coordinata di regioni e apparati periferici dello stato (gli USR, appunto), dal momento che la L.Cost. 3/2001 ha definito come materia di legislazione concorrente l’istruzione; 3. Livello locale. Il sistema scolastico ruota intorno alle relazioni tra Centri servizi amministrativi (CSA), gli enti locali e il consiglio scolastico provinciale. I CSA provvedono alle funzioni tecnico-amministrative (in particolare gestione dei ruoli provinciali e del reclutamento). Sostituiscono i provveditorati, aboliti nel 2000. Le scuole secondarie superiori sono di competenza delle province, mentre ai comuni sono affidati gli altri ordini di scuola. Il consiglio scolastico provinciale è l’organo collegiale territoriale con competenza sulle scuole di tutti gli ordini e grado di una certa provincia. Possiede competenze consulenziali, così come la facoltà di esprimere pareri obbligatori sulle carriere dei docenti; 4. Livello istituzionale. A capo di ogni istituzione scolastica vi è un dirigente scolastico coadiuvato da un direttore dei servizi generali e amministrativi. Il dirigente ha la legale rappresentanza dell’istituzione, la responsabilità dei risultati finali, della gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali, e la titolarità delle relazioni sindacali. Il consiglio d’istituto è formato da docenti, non docenti, genitori e studenti. È responsabile della programmazione finanziaria dell’istituzione scolastica, competente sull’indicazione dei criteri generali riguardo alla formazione delle classi e l’adattamento degli orari. Approva il POF, uno strumento con cui le istituzioni scolastiche concretizzano gli obiettivi nazionali individuando percorsi formativi autonomi. Il collegio docenti è composto da tutti i docenti in servizio e decide sul funzionamento didattico e programmazione dell’azione educativa. Elabora il POF. Si tratta di un ambiente istituzionale fortemente articolato, composto da quei legami interorganizzativi che Weick (1976) definisce deboli (producono effetti improvvisi e inaspettati, occasionali e trascurabili, nel senso che le due parti organizzative interconnesse non sono particolarmente influenzate dalle interazioni reciproche). Questa configurazione dell’organizzazione scolastica consente l’articolazione in unità e azioni differenziate, autonome e discrezionali, ma presenta delle potenzialità distorsive in assenza di una leadership adeguata e di una solida condivisione degli obiettivi da realizzare da parte di tutti gli attori coinvolti. I dati sulle comparazioni internazionali riguardo alla qualità dell’apprendimento risultano molto negativi, dal momento che l’innovazione curriculare è scarsa e i metodi didattici sono pressoché invariati. LE FUNZIONI Le funzioni dei sistemi scolastici si dividono in tre categorie: • La funzione economica si riscontra con il contributo allo sviluppo economico di una determinata collettività. Un sistema economico, per svilupparsi, necessita di sempre maggiori competenze tecniche, e al contempo gli individui, per migliorare le proprie condizioni economiche, devono aumentare la quantità e qualità della propria istruzione; • La funzione sociale riguarda il ruolo della scuola nei processi di stratificazione sociale, correlata [la funzione] alle dinamiche e alle trasformazioni del contesto economico e politico di un certo territorio. In certi casi la scuola può limitarsi semplicemente a formare le classi dirigenti, mentre in altri può essere un meccanismo che aiuti a modificare il sistema delle classi ereditato dal passato in senso più inclusivo; • La funzione di socializzazione è volta a trasmettere ai giovani quei valori, norme e capacità attraverso cui essi diventano membri della collettività e si prodigano per migliorarla. Nonostante si sia molto alzato il tasso di scolarizzazione media nei decenni, l’Italia resta uno dei paesi occidentali con il più basso tasso di scolarizzazione, ed è risultata terzultima tra i paesi OCSE in merito alle capacità logico-matematiche e alla comprensione della propria lingua da parte dei quindicenni. I vantaggi retributivi e occupazionali, anche se presenti, sono inferiori rispetto a quelli di altri paesi (le retribuzioni dei docenti sono inferiori del 20% rispetto agli altri paesi OCSE), anche se occorre precisare che le ore nette di insegnamento sono nettamente inferiori. L’Italia possiede un sistema socioeconomico particolare per cui alcune zone del paese godono di un’ampia offerta del lavoro e il proseguimento degli studi è disincentivato; altre zone, invece, sono depresse, e la dispersione scolastica è molto diffusa. Quindi la scuola non assicura ciò che promette, e la società svaluta il ruolo della scuola, che perciò sarà disincentivata a migliorare le proprie prestazioni. La società e le famiglie appaiono meno capaci di affrontare i problemi attuali (droga, criminalità ecc) e considerano la scuola come l’istituzione che dovrebbe reagire. La scuola, d’altra parte, ha attuato la strategia dell’accondiscendenza, ricoprendo un ruolo di formazione e socializzazione, ruolo che prima apparteneva ad altre istituzioni sociali. IL PERSONALE Il numero degli insegnanti supera le 800000 unità, un dato elevato se rapportato a quello degli altri paesi. Con la “massificazione” dell’istruzione media e superiore, si è reso necessario, in tutti i paesi occidentali, aumentare il numero degli insegnanti. Tale processo, tuttavia, è continuato indipendentemente dall’andamento demografico che, dagli anni Ottanta, ha iniziato a decrescere. L’aumento dei docenti è continuato fino alla metà degli anni ’90, quando si è stabilizzato. Il tasso di femminilizzazione del personale insegnante si attesta all’80%, la più alta percentuale tra i paesi europei. La l. 124/1999 ha disposto il passaggio del personale amministrativo, tecnico e ausiliario delle scuole in carico agli enti locali alle dipendenze dello stato. Il numero complessivo, tra personale a t.d. e personale a t.i., è molto elevato, e ben il 29% dei dipendenti non è di ruolo. Infatti, la l. 133/2008 ha disposto una riduzione di 130000 posizioni lavorative nel triennio 2009-2011. In linea di principio, questa riduzione dovrebbe rendere maggiori le risorse finanziarie delle istituzioni scolastiche. Il sistema di reclutamento non è affatto efficace: è stato istituito con il d.p.r. 417/1974 e prevede che metà dei docenti sia assunta attraverso concorsi triennali per titoli ed esami, mentre l’altra metà mediante concorsi per soli titoli. Questo meccanismo è subito entrato in crisi per il non rispetto delle tempistiche. Inoltre, per ovviare all’assenza di formazione specifica all’insegnamento, con l’a.s. furono istituite le Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario (SSIS), per accedere alle quali occorreva un diploma v.o., oppure una laurea specialistica. Il diploma finale valeva come abilitazione di stato all’insegnamento. Questo sistema è stato modificato con il
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