Scarica Letteratura latina: Annales, Eneide, Odi, Metamorfosi, Epistole ad Lucilio e più Dispense in PDF di Latino solo su Docsity! LETTERATURA LATINA Età delle origini (III-II secolo a.C., dal 240 a.C.): durante questo periodo si sviluppò la poesia arcaica (Ennio). Sì sviluppò anche il teatro repubblicano, con i generi della tragedia e la commedia di Plauto e Terenzio. Età di Cesare (100-44 a.C., prima metà del I secolo a.C.):gli autori si questa età erano Catullo, Lucrezio, Cesare, Sallustio, Cicerone e Varrone. Età augustea (44 a.c. - 14 d.C.): è l’età d’oro della letteratura latina, quella caratterizzata dagli autori maggiori, come Orazio, Virgilio, Properzio, Tibullo, Ovidio, Tito Livio, Vitruvio. Età giulio-claudia (14-68 d.C.): è l’età di tutti quegli imperatori discendenti alla gens Iulia di Augusto e alla gens Claudia, e sono gli imperatori che vanno da Tiberio a Nerone. A questa età appartenevano diversi autori, Seneca, Lucano e Petronio. Età dei Flavi (69-96 d.C.): gli imperatori di questa età erano Vespasiano, Tito e Domiziano. A questa età appartenevano gli autori Stazio, Marziale e Plinio il vecchio. Età degli Antonini (II secolo d.C.): gli imperatori di questa età erano Nerva, Traiano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Adriano (i cosiddetti “imperatori adottivi). A questa età appartenevano diversi autori, Tacito e Apuleio. Nella letteratura latina il genere letterario è un concetto fondamentale, perché vincolante e fisso. Colui che scriveva un’opera innanzitutto sceglieva il genere, da cui poi derivavano una serie di norme assolutamente fisse e vincolanti. L’autore si poneva a gara con i modelli antichi, da cui riprendeva alcuni concetti (aemulatio). Ciò era molto evidente nel genere storiografico. Inoltre genere poetico è strettamente legato alla forma metrica, perché ogni genere ha una determinata metrica (la poesia epica per esempio è sempre in esametri, quella elegiaca in distici elegiaci…). La metrica latina è molto diversa da quella italiana, perché non si basa sul numero di versi ma sul numero di accenti. La letteratura latina ha anche uno stretto legame con la letteratura greca, infatti la maggioranza di generi latini deriva da quelli greci (anche qui c’è una sorta di aemulatio). POESIA EPICA: Il poema epico è sempre in esametri ed è il genere più alto della letteratura latina. È un genere che ha dei sottogeneri: 📚 epica storica: il contenuto è la storia di Roma. Appartengono a questo tipo due poemi: • I Pharsalia di Lucano, che narra la guerra civile tra Cesare e Pompeo. Sono 10 libri scritti tra il 39 e il 65 d.C. • Gli Annales di Ennio. Sono 18 libri scritti nel 239 a.C.; 📚 epica mitologica: riguarda gli dei e gli eroi. Appartengono a questo genere: • L’Eneide di Virgilio. Sono 12 libri scritti tra il 70 e il 19 a.C.; • La Metamorfosi di Ovidio. Sono 15 libri scritti tra il 43 a.C. e il 18 d.C. Da non confondere con le metamorfosi di Apuleio; • La Tebaide di Stazio. Sono 12 libri scritti tra il 40 e il 50 d.C. Si chiama così perché racconta i fatti dei sette contro Tebe; Al suo interno possono anche esserci dei riferimenti alla storia e a personaggi realmente esistiti, per esempio nel sesto libro dell’Eneide, Enea discende negli inferi ritrovando suo padre che gli mostra una serie di anime che saranno i suoi discendenti. 📚 epica didascalica: è un tipo di epica di matrice greca. Appartiene a questo genere: • Il De rerum natura (La natura delle cose) di Lucrezio. Sono 6 libri scritti tra il 98 e il 55 a.C.; Questo tipo di epica viene usata da coloro vogliono insegnare qualcosa al destinatario. Fino all’epoca carolingia uno dei metodi fondamentali per conoscere un poeta era sapere quanti libri aveva scritto. ELEGIA: Il 69 a.C. è la presunta data di nascita di Cornelio Gallo, quindi si presume che scrisse poesie elegiache circa una ventina di anni dopo. Morì nel 1 d.C. quando Ovidio scrisse una delle ultime opere elegiache. L’elegia è scritta in distici elegiaci e deriva dall’elegia greca anche se si differenza da essa per alcune caratteristiche: l’elegia greca parla di molte cose, elegie politiche, filosofiche, amorose, mentre l’elegia latina è solo amorosa, in chiave autobiografica. Fondamentale dell’elegia latina è il servitium amoris: servus in latino è l’equivalente italiano di “schiavo”, che a sua volta deriva da slavus (slavo/ popolazione dell’area balcanica) ed è una parola che entra nell’italiano intorno al X secolo in ambito veneziano, perché a Venezia gli schiavi erano le persone catturate durante le scorrerie piratesche nell’attuale Croazia. In questo caso servitium amoris è traducibile con schiavitù d’amore, ovvero che l’uomo è schiavo dell’amore e della donna amata. A questo genere appartengono diversi autori: 📚 Cornelio Gallo: scrisse gli Amores, di cui ci rimangono solo 9 frammenti dei 4 libri che Cornelio scrisse. Erano dedicati a una donna che veniva indicata con il nome di Licoride (pseudonimo). Cornelio Gallo fu il primo prefetto dell’Egitto, dopo la sua conquista romana avvenuta nel 30 a.C. In questa epoca Cornelio aveva ottimi rapporti con Augusto che però per motivi a noi sconosciti si ruppero, condannando Cornelio a una sorta di damnatio memoriae. 📚 Tibullo: visse durante l’età augustea ma non era simpatizzante di Augusto, tant’è che fece parte del Circolo di Messalla Corvino, covo di letterati meno vicini al potere. Scrisse il Corpus Tibllianum, 3 libri dedicati a una donna: nei primi due libri era Delia, mentre nel terzo era Nemesi (il cui significato greco è vendetta) che è la donna fittizia a cui Tibullo complessivamente avevano 30 libri, forse 14 di Historiae e 16 di Annales. Gli Annales finiscono con la morte di Nerone e cominciano con Augusto 📚 Svetonio: scrisse il De vita Caesarum (Le vita dei Cesari) e il De viris illustribus. La prima opera parla di Cesare, che dopo la sua morte venne sostituito da Ottaviano che prende il suo nome; a partire da questo momento il nome Cesare verrà usato da tutti gli imperatori e venne usato anche per indicare la carica dell’imperatore. Invece la seconda opera riguarda gli uomini illustri, che secondo Svetonio erano i poeti, i grammatici, gli oratori, gli storici e i filosofi. Scrisse anche il De grammaticis et rhetoribus. IL TEATRO: Il teatro romano deriva dal mondo greco. Come nel mondo greco commedia e tragedia non vengono rappresentate sempre ma solo in occasioni speciali. In particolare per l’occasione venivano costruiti appositi teatri in legno che poi venivano smontati. Il primo teatro a rimanere costruito fu quello di Pompeo (61-55 a.C.) che per evitare che il suo teatro venisse distrutto dichiarò che si trattava di un tempio, uguale agli templi eretti con i bottini di guerra, ma si trattava di un teatro, sulla cui cavea (la platea) vi era solo un piccolo tempio dedicato alla Venere Vincitrice. Dalla Grecia derivano due generi: 🎭 la commedia: gli autori principali erano Nevio, Plauto e Terenzio. Si divideva in due sottogeneri: - la Palliata, la commedia con il pallio, ovvero una veste corta tipica del mondo greco. Era ambientata in Grecia e i personaggi erano greci; - la Togata, la commedia con la toga, abito tipicamente romano. Era ambientata a Roma; 🎭 la tragedia: gli autori principali sono Ennio, Pacuvio, Accio, Nevio, Ovidio e Seneca. Si divideva in due sottogeneri: - la Cothurnata, era ambientata in Grecia. Deve il proprio nome agli stivali a suola alta indossati dagli attori tragici greci, detti cothurni; - la Praetexta, era ambientata a Roma. Come descrivere un autore e un’opera? C’è lo dice Servio, commentatore virgiliano del IV sec. d.C.: “In exponendis auctoribus haec consideranda sunt: poetae vita, titulus operis, qualitas carminis, scribentis intentio, numerus librorum, ordo librorum, explanatio” Bisogna conoscere: la vita del poeta, il titolo delle opere, il tipo di poesia, che cosa voleva dire l’autore con la sua opera, il numero di libri e il loro ordine, la spiegazione del testo. QUINTO ORAZIO FLACCO: Conosciamo la vita di Orazione grazie a un suo commentatore, chiamato Porfirione (III secolo d.C.). Orazio Flacco nacque nel 65 a.C. a Venosa, una colonia militare romana, al confine fra Apulia e Lucania, dove il padre, un liberto, possedeva una piccola proprietà prima di trasferirsi a Roma per esercitare la professione di esattore nelle vendite all’asta. A Orazio, nonostante la modesta condizione sociale, ebbe una buona educazione (Romae nutriri mihi contigit atque doceri): frequentò a Roma la scuola del grammatico Orbilio, dove studiavano i figli delle famiglie più illustri, e intorno al 44 a.C. andò in Grecia per perfezionarsi. Li viene coinvolto nella lotta, seguita all’assassinio di Cesare, tra repubblicani e cesaricidi, che avevano proprio in Grecia la loro base. Orazio ottiene da Bruto, il capo dei ribelli, il grado di tribuno e il comando di una legione, ma la sconfitta di Filippi (42 a.C.) interrompe la sua carriera militare. Ne 41 a.C. torna a Roma ma non viene imprigionato ma entra nel Circolo di Mecenate (ciò viene anche detto nel primo verso del primo libro delle Odi: “Maecenas atauis edite regibus”, ovvero “O Mecenate, discendente di antichi re”). Nelle Odi loda anche la benevolenza di Cesare: “Neu sinas Medos agitare inultos. Te duce, Caesar” ovvero “E non permettere che i Medi cavalchino impuniti, Sotto il tuo comando, Cesare”. COSA SCRISSE? Orazio scrisse diverse opere: 📚 gli Epodi 📚 le Satire; 📚 le Odi (da Orazio chiamate Carmina): i primi tre libri scritti tra il 30 e il 23 a.C. e il quarto scritto nel 13 a.C. Si tratta di poesia lirica, quindi in metri lirici, che seguiva il modello di Alceo. Nel componimento che apre la raccolta, Orazio si rivolge a Mecenate e afferma che la sua scelta di vita consiste nell’essere lyricus vates, ovvero di voler emulare Alceo e quindi diventare poeta e seguire le ispirazioni dategli dalle divinità (vates). 📚 le Epistole, tra il 23 e il 13 a.C.; 📚 il Carmen Saeculare, nel 17 a.C. Era componimento di occasione, ovvero un coro che veniva cantato da due gruppi fanciulli e fanciulle, durnate i Ludi Saeculares; 📚 l’Ars Poetica (detta anche Epistola ai Pisoni) nel 13 a.C.; Negli ultimi anni la produzione letteraria di Orazio andò progressivamente diminuendo fino a cessare del tutto. Morì alla fine di novembre dell’8 a.C, a due mesi di distanza dalla morte di Mecenate, accanto alla cui tomba fu sepolto. ORAZIO FLACCO E L’EPICUREISMO: Giorgio Pasquali nel 1921 scrisse il libro “Orazio lirico” in cui definì il poeta un epicureo imperfetto: questo termine non se lo inventò, anzi già Orazio nelle sue Epistole ci disse che era epicureo (Me pinguem et nitidum bene curata cute vises, cum ridere voles, – Epicuri de grege porcum). Il 323 a.C (morte di Alessandro Magno) fu un periodo difficile per il mondo greco perché stava nascendo un nuovo mondo greco poco apprezzato e non a caso in questa epoca nacquero varie filosofie che si proposero all’uomo di dare una ricetta per raggiungere la felicità. Le filosofie ellenistiche più importanti furono tre: epicureismo, stoicismo e cinismo (quest’ultimo non ebbe nessun valore per il mondo latino). L’epicureismo nacque dal pensiero di Epicuro che scrisse un’opera intitolata “Sulla natura” (20 libri). La nostra fonte principale sull’epicureismo è la lettera che Epicuro inviò a Meneceo e che può essere considerata come un riassunto di tale filosofia. Il pensiero di Epicuro arrivò a Roma grazie ad alcuni filosofi epicurei, tra cui troviamo Filodemo di Gadara, che si trasferì a Roma e ospitato da Cornelio Pisone. Filodemo scrisse numerose opere che erano conservate nella biblioteca dei Pisoni ad Ercolano. Oltre a ciò l’epicureismo si diffuse anche negli strati bassi della popolazione, chiaramente in una forma semplificata (chiamato anche epicureismo basso). Secondo la filosofia di Epicuro i piaceri da ricercare per essere felici erano i piaceri naturali e necessari (per esempio bere acqua quando si ha sete, oppure mangiare quando si ha fame). L’epicureismo nelle classi alti era criticato e contrastato, perché rispetto allo stoicismo, l’epicureismo criticava il rapporto tra l’individuo e la vita pubblica: Epicuro diceva che per trovare la felicità l’uomo doveva allontanarsi da qualsiasi cosa che comprometteva la sua serenità d’animo, tra cui l’amore, la vita pubblica…Questo modo di vivere la vita in modo privato era in contrasto con i principi della morale romana (mos maiorum), secondo la quale il primo dovere del cittadino era servire lo stato. 📚 L’ode del carpe diem (undicesimo componimento del I libro delle Odi): È scritto in un metro particolare, l’asclepiadeo maggiore. Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. ut melius, quidquid erit, pati. seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida (invidioso) aetas (tempo): carpe (cogliere) diem quam minimum credula postero. • Questi ingredienti si ritrovano tutti nei papiri magici; • Iolco è la città di Giasone, una città della Tessaglia, regione rinomata per le maghe, e patria di Giasone. L’Iberia è la regione del Ponto fra l’Armenia e la Colchide dove era nata Medea, la maga e avvelenatrice per eccellenza; - Vv 47-82: Poi Canidia, mordendo coi denti lividi l’unghia lunga del pollice, che cosa disse o non disse? “Leali mie patrone, tu, Notte, e tu, Diana, che governi il silenzio quando si compiono i riti segreti, adesso, adesso venite, e rovesciate addosso alla casa nemica l’ira e il potere. Mentre le belve nascoste nelle selve spaventose si abbandonano al dolce sonno, le cagne della Suburra abbaino al vecchio traditore, cosparso di un profumo migliore di quello mai creato da me, e tutti lo deridano! Che accade? Perché non funzionano più i veleni di Medea barbara, con cui punì la superba rivale, la figlia del grande Creonte, e si diede alla fuga, quando la veste donata, imbevuta di male, portò via tra le fiamme la nuova sposa? Eppure non mi è sfuggita nessun’erba e nessuna radice, nascosta anche nei luoghi remoti. Dorme dunque, e il letto è impregnato dell’oblio di ogni altra rivale? O va in giro, liberato dagli incantesimi di un’altra maga più esperta? Eppure dovrai tornare con nuovi veleni a me, Varo, e ti farò piangere molto; tornerà la tua mente al richiamo di formule non provinciali. Qualcosa di più voglio preparare e versarti, dato che mi rifiuti, un veleno più potente, e prima il cielo cada più in basso del mare, con sopra la terra, che tu non arda per il mio amore, come il bitume nel fuoco nero”. • la casa nemica è la casa del traditore Varo e delle sua amante; • “Le cagne della Suburra”: quartiere malfamato di Roma, tra il Quirinale e l’Esquilino, ritrovo di prostitute; • “Che accade, perché non funzionano più i veleni di Medea barbara”: Medea era figlia del re della Colchide e quando gli Argonauti giunsero qui per impadronirsi del vello d’oro, Medea si innamorò di Giasone. Dopo aver aiutato Giasone in una prova di forza con un filtro magico, i due fuggirono insieme dalla Colchide, ma Giasone alla fine ripudiò Medea per sposare una principessa. Medea si vendicò inviando alla sposa una veste avvelenata (secondo Orazio con lo stesso filtro magico che aveva usato per Giasone): indossata, la principessa si consumò tra le fiamme. EPODI: Il termine significa “coppia di versi formata da un primo verso più lungo e un secondo verso più corto”. Sono 17 componimenti scritti tra il 41 e il 30 a.C. Nello scriverlo riprese lo stile di due lirici greci, Archiloco e Ipponatte, indicati come modello nell’epodo sesto, i quali avevano già sperimentato questo tipi di genere contraddistinto da metri basati sul giambo, da argomenti e toni realistici, dall’attacco personale e dall’irrisione. Prima di Orazio già Catullo aveva sviluppato motivi di questo tipo nei suoi carmina e aveva utilizzato versi giambici, ma senza che vi fosse una rigorosa connessione tra metro e contenuto. Ciò spiega l’orgoglio con cui Orazio in un’epistola (Epistula I) dichiara di essere stato il primo a introdurre nel Lazio i giambi di Archiloco, seguendo “i metri e lo spirito” dell’antico poeta, non “gli argomenti e le parole”. Aspetto essenziale di questa ripresa è il metro. Orazio adotta infatti non solo svariati metri giambici (già usati in latino, ad esempio, da Catullo), ma impiega per primo a Roma l’epòdo, un sistema metrico (utilizzato da Archiloco) in cui in un primo verso più lungo se ne aggiunge uno più corto. Appunto per la presenza di tali metri la raccolta venne chiamata dagli antichi Epodi, anche se l’autore chiamava questi componimenti Iambi. Nella raccolta si possono distinguere diversi filoni tematici. Quello dell’invettiva di nota negli epodi 4, 6 e 10. Tra questi, soltanto il decimo è diretto contro una determinata persona, Mevio, cui viene augurato di morire in un naufragio. Nell’epodo 3 è presente una maledizione contro l’aglio, propinato al poeta da Mecenate. Ai modi dell’ invetriva si possono ricondurre anche gli epodi 8 e 12, rivolti, contro una vecchia libidinosa che desidera il poeta e sollecita da lui prestazioni sessuali, Gli epodi 5 e 17 sono dedicati alla magia: il tema viene trattato in modo molto realistico, con un gusto per l’eccessivo, l’orrendo e il repellente. Vi è anche un filone di poesia civile. Gli epodi 7 e 16 si riferiscono alla medesima situazione e trattano temi simili: la confusione e lo scompiglio successivi alla battaglia di Filippi (42 a.C.). Nel settimo l’autore rimprovera aspramente i concittadini che combattono tra loro e individua la causa remota delle guerre civili nell’antico fratricidio commesso da Romolo. Nell’epodo 16 invita i romani a seguirlo in un’utopistica fuga verso le Isole dei beati, dove permane la condizione dell’età dell’oro. Nell’epodo 1, che funge da dedica a Mecenate, il poeta assicura amicizia e lealtà al patrono e ad Ottaviano; nel 9 esprime l’affanno e la paura per la causa di Cesare, schernisce gli avversari di Ottaviano e si prepara a brindare vittoria. Ben rappresentato è anche il filone erotico: l’epodo 14 svolge il motivo dell’amore che domina completamente il poeta, impedendogli di comporre verso. Lo stesso motivo apre l’epodo 11, che sviluppa altri spunti topici della poesia erotica, come l’avidità della donna e la povertà del poeta. Nell’epodo 15 il poeta si rivolge invece a una donna infedele con un tono risentito ma meno violento rispetto ad altri epodi; nei carmi amorosi domina infatti un pathos leggero sentimentale. Infine l’epodo 2 è uno splendido elogio della vita dei campi, ma gli ultimi versi ci fanno sapere che a pronunciarlo è un usuraio incapace di rinunciare ai suoi impegni cittadini. Motivi simposiaci sono invece presenti nell’epodo 13: durante una tempesta, il poeta invita gli amici a bere. PUBLIO VIRIGILIO MARONE: Nacque il 15 ottobre del 70 a.C. ad Andes, villaggio vicino a Mantova, forse corrispondente all’odierna Pietole. Figlio di un proprietario terriero, ebbe un’istruzione completa in città via via più importanti e quindi meglio attrezzate per gli studi superiori: Cremona, Milano, Roma. Nella capitale frequentò la scuola di retorica, si trasferì poi a Napoli, dove si dedicò allo studio della filosofia presso quelli che sarebbero diventati gli amici più cari della sua vita, i poeti Lucio Vario e Plozio Tucca, e forse anche Orazio. Nel corso della sua vita ebbe dei nobili che sponsorizzavano le sue opere, per esempio Asinio Pollione, e successivamente, quando entrerà nel circolo di Mecenate, Augusto. Nel 19 a.C. partì per un viaggio in Grecia e in Asia Minore con l’intenzione di perfezionare l’Eneide: forse voleva raccogliere informazioni di carattere storico, mitologico d geografici nei luoghi stessi che aveva descritto nella sua opera. Ma il viaggio si interruppe presto: incontratiti ad Atene Augusto che ritornava a Roma dall’Oriente, il poeta decise di rientrare in Italia con lui. Ammalatosi dopo aver visitato la città di Megara sotto un solo cocente, sbarcò a Brindisi in gravi condizioni e vi morì il 21 settembre del 19 a.C., a cinquant’anni. Fu sepolto a Napoli. Prima di lasciare l’Italia, Virgilio aveva chiesto unitamente all’amico Vario di promettergli che avrebbe bruciato il poema incompiuto se gli fosse capitato qualcosa durante il viaggio. Negli ultimi giorni della malattia richiese più volte, invano, gli scrinia, cioè i bauletti che contenevano l’opera, con l’intenzione di distruggerla, e nel testamento affidò agli amici Vario e Tucca i suoi scritti, a condizione che non diffondessero nulla di ciò che aveva lasciato inedito. Ma Vario e Tucca pubblicarono l’Eneide per ordine di Augusto, contro la manifesta volontà dell’autore. Virgilio scisse varie opere: 📚 le Bucoliche; 📚 le Georgiche; 📚 l’Eneide; LE GEORGICHE: Sono un poema epico-didascalico in quattro libri, in esametri, relativo alla coltivazione dei campi e all’allenamento del bestiame. Il titolo significa “relativo alla coltivazione dei campi”. Vennero scritti tra il 38 e il 30 a.C. Il libro I è dedicato alla coltivazione dei cereali, alle stagioni e ai segni del cielo di cui l’agricoltura deve tenere conto nella sua attività, il libro II tratta della coltura degli alberi e in particolare della vite, il libro III tratta dell’allevamento del bestiame e il IV dell’apicoltura. L’opera è dedicata a Mecenate, il cui nome compare all’inizio di ciascuno dei quattro libri e assume particolare rilievo nel proemio del III libro. raffinatissimi con l’accompagnamento del flauto (strumento legato ad alcuni generi lirici della tradizione greca); • personaggi del mito: sono introdotte divinità o figure mitiche tipiche dell’ambiente pastorale, come Pan, satiri e il mitico pastore-cantore Dafni; • ambientazione agreste: i personaggi sono collocati in un ambiente naturale, come la campagna coltivata o boschi selvaggi; • dettagli descrittivi: la natura è descritta minuziosamente, con riferimenti precisi a fiori, piante, animali e insetti; • idealizzazione: la natura è rappresentata come luogo ideale, accogliente e in armonia con l’uomo; • presenza di temi e situazioni ricorrenti, tra cui spiccano il lamento d’amore e la gara di canto; • varietà di impostazione: mimetica (ovvero drammatica), di tipo mitologico o dialogico (sono riportate le parole dei personaggi senza alcuna introduzione narrativa) o narrativa; DIVISIONE DEI LIBRI: 📙 Titiro e Melibeo, l’ecloga I: la prima ecloga è un dialogo tra due pastori-contadini: Melibeo, costretto dalle discordie civili ad abbandonare i suoi campi, assegnati a un empio soldato, e Titiro, che invece può conservare i suoi beni grazie all’intervento di un “giovane” conosciuto nella grande città di Roma e che egli esalta come un dio in terra. L’ecloga potrebbe essere interpretata in chiave autobiografica: dietro il nome di Titiro si celerebbe Virgilio stesso, minacciato nei suoi possedimenti dalle distribuzioni di terre ai veterani e rientranti nel possesso del suo fondo da Ottaviano (il giovane dio). Ma l’identificazione non è totale: Titiro è senex e nel 41 a.C. Virgilio non aveva ancora trent’anni; Virgilio parla per bocca di entrambi i suoi personaggi, esprimendo per mezzo di Titiro l’ammirazione e la beatitudine per il potente benefattore, e attraverso Melibeo l’amarezza sua e dei compatrioti per le brutali espropriazioni, conseguenza delle atroci guerre civili. 📙 Licida e Meride, l’ecloga IX: anche la IX ecloga è in forma di dialogo tra due pastori, Licida e Meride, entrambi poeti, come il loro amico Menalca; di quest’ultimo Meride riferisce al costernato Licida che, dopo aver sperato di poter conservare i proprio beni grazie ai suoi carmi, non solo ha dovuto cedere il suo piccolo podere a uno straniero, ma ha rischiato addirittura, nella contesa che è nata, di perdere la vita. 📙 il tema amoroso, le ecloghe II e X: la II ecloga è un appassionato canto d’amore omoerotico del pastore Coridone per Alessi, un ragazzino, schiavo di un ricco padrone, che non contraccambia la sua passione. Troviamo per la prima volta in questo carme il tema tipicamente Cirigliano dell’amore come follia, forza irrazionale e incontrollabile che travolge l’uomo irresistibilmente e dolorosamente. L’ecloga X è dedicata a Cornelio Gallo: egli è in preda alla disperazione per le infedeltà dell’amante Licoride, da lui cantata nelle sue elegie; trasferite da Virgilio nel mondo bucolico, assume i tratti di un personaggio teocriteo, Dafni, eroe pastorale della tradizione siciliana e prototipo del poeta-pastore, la cui morte era stata rappresentata da Teocrito nel suo primo idillio. 📙 la gara poetica, le ecloghe III, VII e VIII: la III contiene un canto “amebeo” (cioè alternato), in cui ognuno dei due pastori recita due versi per volta, introducendo spunti tematici attinenti all’amore, alla poesia, a momenti di vita pastorale. Nella VII i contendenti si esibiscono in strofe alterne di quattro versi ciascuna. Nell’VIII, invece, i due pastori che gareggiano cantano ciascuno una volta sola, inserendo nei loro versi due ritornelli ripetuti a più riprese. Argomenti di quest’ultimo componimento è, di nuovo, l’infelicità amorosa: il primo pastore sfoga la sua disperazione per il fatto che la fanciulla amata sta per sposarsi con un altro e chiude il suo canto con un addio alla vita; il secondo pastore descrive i riti magici compiuti da una donna per ricondurre a sé dalla città l’amato che l’ha abbandonata. Il passo farà da modello a molte descrizioni di streghe sia in poesia che in prosa. 📙 Dafni, l’ecloga V: il canto amebeo si ritrova anche in questa ecloga, che ha per tema la morte e la trasfigurazione di Dafni. 📙 il ritorno dell’età aurea, l’ecloga IV: all’inizio dell’ecloga il poeta esprime l’intenzione di innalzare il tono del suo canto, in modo da renderlo degno del console Pollione. Dopodiché Virgilio profetizza solennemente la prossima fine di un ciclo cosmico e l’inizio del successivo, che coinciderà con il ritorno sulla Terra della mitica età dell’oro. 📙 l’esaltazione della poesia, l’ecloga VI: parla del tema del valore e dell’importanza della poesia, e non è certo un caso che essa sia collocata al centro della raccolta. Due pastorelli costringono scherzosamente Sileno (anziano compagno di Bacco) a intonare un canto dai temi perlopiù mitici, al contro del quale è inserito un omaggio a Cornelio Gallo, con la descrizione della sua consacrazione poetica da parte delle Muse. 📚 Bucolica VIII (vv. 64-109): “Porta acqua, e cingi questo altare con morbida benda e brucia grasse verbene e incenso maschio, perché io possa provare con riti magici a catturare i sensi sani del promesso sposo; qui non manca nulla, se non gli incantesimi. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni. I versi possono addirittura trarre giù dal cielo la luna, con versi Circe trasformò i compagni di Ulisse, il freddo serpente muore nei prati al suono dei versi. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni. Prima di tutto ti metto attorno a tre a tre questi fili di tre diversi colori, e tre volte porto la sua immagine intorno a questo altare; il dio ama il numero dispari. Lega con tre nodi, Amarilli, ciascuno dei tre colori; annoda dunque, Amarilli, e pronuncia queste parole: «Allaccio i lacci di Venere». Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni. Come questa creta indurisce e come questa cera si scioglie per un unico e medesimo fuoco, così Dafni per il nostro amore. Spargi il farro e brucia col fuoco sacro i fragili rami dell'alloro: Dafni, crudele, fa bruciare me, io brucio questo alloro, come se fosse Dafni. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni. Dafni venga preso da un amore, come quello che coglie una giovenca, quando stanca di cercare il giovenco tra radure e fitte foreste stramazza vicino ad un rivo d'acqua sulla verde erba palustre, e fuori di sé dimentica di ripararsi davanti alla lunga notte, lo colga un amore così, né io mi curerò di guarirlo. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni. Queste vesti mi lasciò una volta quel traditore, pegni cari di sé, che io ora proprio sulla soglia di casa, Terra, ti affido; questi pegni mi sono debitori di Dafni. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni. Queste erbe e questi veleni, colti nel Ponto, Meri in persona mi ha dato; nascono numerosi nel Ponto. Per mezzo di questi ho visto Meri spesso trasformarsi in lupo e nascondersi nelle foreste, spesso evocare le anime dai profondi sepolcri e trasportare altrove le messi seminate. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni. Porta fuori le ceneri, Amarilli, e gettale dietro le spalle nel ruscello che scorre. E non voltarti indietro! Con queste magie io colpirò Dafni; egli non si cura degli dei, né degli incantesimi. Riportate dalla città a casa, o miei versi, riportate Dafni. «Guarda: la cenere stessa ha avvolto spontaneamente l'altare di tremule fiamme, mentre tardavo a portarla fuori. Sia un buon presagio!» É certo qualcosa e Ilace abbaia sulla soglia. Devo credere? O chi ama si crea da sé le proprie illusioni? Interrompetevi, dalla città viene Dafni, interrompetevi ormai, o versi.” È dedicata ad Asinio Pollione e descrive la gara tra i pastori Damone, che canta il suo amore infelice per Nisa, ormai promessa sposa a un altro uomo, e Alfesibeo, che assume le vesti di una donna tradita ed esegue un incantesimo d’amore per riportare a sé l’amato Dafni. Spettatori della gara sono alcuni elementi naturali come la giovenca, le linci e i fiumi stessi. Il canto proprio per il fatto che espone i canti dei due pastori appare diviso in due parti. Gli incantesimi realizzati dalla donna sono molto diversi da quelli visti in Orazio: se quelli di Orazio era incantesimi di magia nera, questi sono di magia bianca. Alcuni dei riti che compie questa donna corrispondono a quelli che nell’antichità erano riti sacri. Anche qui c’è la stessa dicotomia che abbiamo visto in Orazio: da un lato c’è l’incantesimo performativo, che implica che bisogna fare qualcosa, e dall’altro l’incantesimo di parola rappresentato da un “ritornello”, che sono le parole dell’incantesimo ripetute dalla donna. Il tre era il numero più vicino alla divinità e nel mondo latino era molto comune annodare dei fili per fare un incantesimo. Come in Orazio si chiama in causa la potenza dell’incantesimo con esempi di grandi maghi (Circe) e degli effetti stupefacenti raggiunti con gli incantesimi. L’atmosfera è diversa rispetto ad Orazio, e anche l’atteggiamento del narratore. Essendo poi il nome OVIDIO: Nacque nel 43 a.C. a Sulmona da una famiglia di rango equestre, dopo aver frequentato le scuole dei retoricò più famosi a Roma e in Grecia, intraprese la carriera politica ma l’abbandonò ben presto per dedicarsi interamente alla poesia. Entrato nel circolo di Messalla Corvino, Ovidio incominciò giovanissimo a “pubblicare” i suoi versi, coltivando il genere dell’elegia amorosa e riscuotendo subito grande successo. Raccolse le sue elegie in un’opera intitolata Amores, curandone una prima edizione in cinque libri, che successivamente ridusse e divennero tre. Agli Amores seguirono altre opere appartenenti allo stesso genere: le Heroides, composte dopo il 15 a.C., e l’Ars amatoria, scritta tra l’1 a.C. e l’1 d.C. Nel periodo successivo, dall’1 all’8 d.C., Ovidio passò a una poesia più impegnativa, coltivando l’elegia eziologica di argomento romano nei Fasti e l’epica mitologica nelle Metamorfosi. La prima di queste sue opere rimase incompiuta e la seconda non ricevette l’ultima mano a causa di un evento drammatico che colpì il poeta: nell’8 d.C. fu condannato all’esilio da Augusto a Tomi (odierna Costanza, sul mar Nero). Qui a Tomi scrisse due opere, i Tristia (cinque libri) e le Epistulae ex Ponto (quattro libri). METAMORFOSI: Quando Ovidio fu colpito dalla condanna di esilio, nell’8 d.C., aveva da poco ultimato la composizione di un poema in esametri, in quindici libri, intitolato Metamorphoses (“Libri delle trasformazioni”). Il poema ha inizio dal Caos originario, e segue via via il succedersi delle età mitiche e delle generazioni eroiche fino all’età contemporanea: • libri I-II: a partire dall’origine del mondo fino al diluvio universale e alla rinascita del genere umano; • libri III-VI: miti tebani di Cadmo e delle sua casa, episodio di Perse, leggende ateniesi; • libro VII: saga degli Argonauti e impresa di Medea; • libro VIII: storie di Minosse; • libri IX-X: episodi incentrati sulle figure di Ercole e di Orfeo; • libro XI: vicende di Peleo; • libri XII-XIII: miti legati alla guerra di Troia, cui si collega il viaggio di Enea verso l’Italia; • libro XIV: episodi relativi al viaggio di Enea; • libro XV: storie e leggende di Roma. In questo libro Pitagora dice che quella che secondo Ovidio è la legge fondamentale del mondo “omnia mutatur, nihil interit” ovvero “tutto muta, nulla perisce”. 📚 Il mito di Apollo e Dafne, libro I delle Metamorfosi: Il mito è attestato per la prima volta nelle Metamorfosi, ma sappiamo che la vicenda era già stata narrata da scrittori ellenistici, ma nessuna di queste versioni anteriori si è conservata. Cupido suscita in Apollo un’ardente passione per la bellissima ninfa Dafne, e in quest’ultima una risoluta avversione all’amore. Dopo ave tentato invano di sedute l’amata, il Dio cerca di farla sua con la violenza; inseguita, la ninfa fugge e quando le forze mancano chiede aiuto alla madre Terra e al padre Peneo, che la trasformano in un albero di alloro. Ovidio aveva una costruzione retorica molto precisa e ciò si vede nei due versi iniziali, che descrivono la fuga di Dafne. Dafne si allontanò subito al Dio Apollo e dal suo discorso ancora incompiuto. Il topos della donna che corre per sfuggire alle brame di uno spasimante e delle parole lasciate in sospeso ricorda specialmente l’epillio di Orfeo ed Euridice. Apollo non tollerando più l’atteggiamento della donna si mise a rincorrerla. Ciò permette di capire che Apollo deciderà di possedere la ninfa con la violenza. Iniziò così un inseguimento, durante il quale Apollo venne paragonato a un cane da caccia che inseguiva una lepre (Dafne). La donna, ormai stanca di correre invocò la dea Terra, pregandola di trasformarla, e chiese aiuto al padre (il dio-fiume Peneo) chiedendogli di mutare la sua bellezza. Appena finito di pregare un torpore invase il corpo di Dafne: essa si sta trasformando in un albero di alloro (al movimento della scena precedente subentra la fissità della nuova condizione) ma, nonostante la trasformazione, la ragazza non perse il suo splendore e la sua bellezza. Apollo, una volta giunto da Dafne, vide che si stava trasformando in un albero, ma la ragazza, non avendo perso la sua bellezza, continuò a essere amata dal Dio, che cercò di baciarla nonostante il legno. Apollo quindi, non potendo possedere Dafne, decise di far proprio l’albero di alloro, usandolo per ornare il suo capo, la sua cetra e la sua faretra. 🔎 Il termine “laurea” è il femminile sostantivato dell’aggettivo laureus, derivato da laurus (allora). Nel passo denota l’albero, ma spesso il termine indica la “corona di alloro” con cui, a Roma, si ormavamo i generali vittoriosi durante la cerimonia del trionfo, i poeti e alcuni sacerdoti. L’alloro, pianta sacra ad Apollo, era infatti simbolo della vittoria, della poesia e dell’immortalità. L’aggettivo ha avuto come esito l’italiano “laurea”, che indica il titolo conseguito al termine degli studi universitari. FASTI: Il termine Fasti significa “calendario” e infatti l’obiettivo di Virgilio era quello di realizzare una libro-calendario composto da 12 libri, un libro per ogni mese dell’anno, in cui spiegava le ricorrenze e le festività di ogni mese, illustrando i fatti della leggenda e della storia di Roma che ne sono alle origini. L’opera, iniziata nell’1 o 2 d.C., era stata concepita in dodici libri, ma nell’8 d.C., quando dovette lasciare Roma, Ovidio ne aveva composti soltanto sei (da gennaio a giugno). 📚 Le streghe, VI libro dei Fasti: La parola strega deriva dal latino strix, strigis che significava “uccello notturno”. La protagonista di questo testo è la divinità Carna, il cui termine deriva dal latino caro- carnis che significa “carne”. Era la protettrice delle viscere. Il console Giunio Bruto le dedicò un tempio sul colle Celio, in cui venivano celebrate delle feste, le Carnaria, il 1 giugno. Le streghe nel racconto di Ovidio hanno una grossa testa, occhi fissi, becchi rapace, piume bianche e artigli uncinati, appunto paragonabili ad alcuni uccelli notturni quali il gufo o il barbagianni. Queste striges volano di notte in cerca di bambini e ne guastano i corpi strappati alle culle; il loro nome deriva dal terrificante stridere notturno. Le streghe non erano uccelli che nascevano tali ma erano vecchie che con un incantesimo vengono trasformate in uccelli. Le streghe, una notte, entrarono nella stanza del bambino Proca (era il bisnonno di Romolo e Remo, padre di Numitore, padre di Rea Silvia, madre di Romolo e Remo) e gli succhiarono il torace, facendolo gridare e contorcere dal dolore. La tutrice del bambino corse dalla divinità Carna, la quale la rassicurò dicendo di poter guarire il bimbo tramite un rito magico: toccò tre volte gli stipiti, uno dopo l’altro con foglie di corbezzolo (erba magica), tre volte con foglie di corbezzolo segnò la soglia. Asperse l'ingresso con acqua (e l'acqua era drogata), e tenne in mano le viscere crude di una scrofa di appena due mesi. A questo punto chiese alle streghe di risparmiare le viscere del bambino e scambiarle con quelle di una scrofa appena nata (si trattava di uno scambio, era un’azione molto praticata nella religione romana). Quando Carna sacrificò la scrofa, mise all'aria aperta le interiora recise e proibì ai presenti al sacrificio di guardarle, voltandosi indietro. Un bastone di Giano (antica divinità romana, protettore degli inizi e dei passaggi), preso dal biancospino, fu posto dove una finestrella dava luce alle stanze, dopodiché si dice che gli uccelli non violarono la culla, e il fanciullo riacquistò il colore di prima. 🔎 Libagione: rito tipico del mondo latino in cui si dona alla terra vino o altri liquidi. luogotenente di Augusto e governatore della Sicilia. Nel 62 Seneca abbandonò tutti gli incarichi politici, ritirandosi a vita privata. Quelle a Lucilio sono epistole letterarie, nel senso che furono scritte con il preciso scopo di essere pubblicate, anzi, questo è il primo epistolario propriamente letterario in latino, poiché, a differenze di quelle ciceroniane, fu concepito fin dall’inizio in vista della pubblicazione. Le Epistulae di Cicerone erano 37 libri di lettere, ed era un epistolario vero e proprio, ovvero era un insieme di lettere che Cicerone scrisse durante un preciso arco di tempo ai famigliari, ad Attico ed altri uomini politici suoi alleati. Ciò non significa tuttavia che le lettere senecane siano fittizie, come qualche studioso ha ipotizzato, o che i fatti e gli episodi a cui lo scrittore fa riferimento siano inventati. Uno dei tratti caratterizzanti del genere epistolare era appunto il riferimento personale ad avvenimenti, circostante e occasioni della vita quotidiana: questo aspetto è presente anche in Seneca e occupa uno spazio notevole, tanto da costituire la principale differenza tra le Epistulae e le altre opere filosofiche. Queste lettere filosofiche trattavano di tutti i temi fondamentali della filosofia di Seneca ma non in modo sistematico. L’intenzione era quella di creare una sorta di “corso di filosofia”, le prime lettere parlavano di concetti basilari fino ad arrivare a concetti più complessi. 📚 Epistulae ad Lucilium, Riappropriarsi di sé e del proprio tempo: La lettera posta all’inizio di queste epistole funge da prologo all’intera raccolta e riprende no dei temi principali della riflessione filosofica di Seneca: la conquista del dominio su se stessi e la liberazione del condizionamento degli altri e delle cose, indispensabile premessa al conseguimento della sapienza. Seneca rivela che il cammino verso la perfezione è spesso ostacolato da un uso scorretto del tempo e da una scarsa considerazione del suo valore. Tali argomenti, già trattati nel De brevitate vitae si ricollegano alla dottrina stoica del tempo inteso come unico vero bene concesso all’uomo dalla divinità. L’epistola si apre con la formula consueta di saluto epistolare: il nome del mittente, il nome del destinatario in dativo e il verbo del saluto (Seneca Lucilio suo salutem = Seneca salita il suo Lucilio). Prosegue poi con la frase “Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur…” ovvero “fai così, o mio Lucilio, rivendica te stesso per te, e il tempo che finora ti veniva portato via o sottratto o ti sfuggiva, mettilo da parte e custodiscilo”. Seneca invita Lucilio a fare buon uso del temp. Questo invito è sottolineato dai quattro imperativi (fac, vindica, collige, serva) che incorniciano il primo periodo. Seneca poi dice che noi pensiamo di essere grati a Dio o alla natura se abbiamo dei beni, ma nessuno pensa di essere grato se ha il tempo e questo secondo Seneca era da stupidi perché invece il tempo era il bene reale ed effettivo, mentre le altre cose erano accidenti che non valevano nulla. Seneca non presenta se stesso come il saggio stoico che non spreca il tempo e vive secondo filosofia, ma cerca di tenero conto di cosa perde e si usare il tempo per qualcosa che vale veramente. Consiglia a Lucilio di usare il tempo in modo adeguato e conclude l’epistola con una metafora “è troppo tardi per risparmiare quando si è arrivati alla feccia”, perché la parte che rimane sul fondo non è soltanto la più piccola, ma anche la peggiore. Seneca sviluppa l’immagine del vino che si deposita al fondo dell’ancora e risulta sgradevole e la applica, con una metafora, al concetto del tempo che resta alla fine della vita (è inutile risparmiare vino quando è rimasta solo la fine dell’anfora, non solo risparmio meno vino di quello che mi sembra di risparmiare ma è anche di qualità peggiore di quello che “stava sopra”. Quindi consiglio a Lucilio, visto la sua giovinezza, si iniziare fino da subito a stare attento a come usa il suo tempo, perché quando invecchierà gli resterà “solo la parte cattiva del vino”). 🕰 La metafora tempo-denaro: per descrivere in quali modi si perde tempo, Seneca si serve di una metafora d economico finanziaria, in cui il tempo stesso è assimilato al denaro. Se è vero che prestava denaro ad altissimo interesse, come dicono alcune fonti, egli sa, ora che si è ritirato dalla scena politica, che il bene più prezioso posseduto dall’uomo è il tempo. Per questo dunque desidera insegnare all’amico Lucilio come evitare di sprecarlo. Le diverse forme del tempo sono indicate dai verbo auferebatur, subripiebatur, excidebat, che descrivono rispettivamente la sottrazione aperta, il furto subdolo e la perdita casuale per incuria e disattenzione. Nel paragrafo 3 le frasi tempus…nostrum est e in huius rei…possessionem natura nos misit presentano l’idea del tempo come possesso, il cui valore inestimabile è sottolineato dal contrasto con gli altri beni minima, vilissima e reparabilia; al concetto di “prestito” o “beneficio” rinviano, invece i termini imputari (“essere messo contro”), accepit (“ha ricevuto in prestito o in dono”), gratus (“riconoscere”), reddere (“restituire”). 📆 L’invito ad afferrare l’oggi: l’antidoto al tempo sprecato consiste, secondo Seneca, nella valorizzazione di ogni istante dell’esistenza e nel consapevole possesso del proprio tempo, che rende l’uomo padrone del presente e lo libera dalla dipendenza dal futuro. L’esortazione a vivere intensamente ogni attimo serve a ricordare che il presente è l’unico momento a disposizione dell’uomo per realizzare il perfezionamento di sé e la conquista della sapienza. LE TRAGEDIE: Le tragedie di Seneca sono dieci e sono in poesia: nove sono mitologiche di argomento e ambientazione greca, la decima è una tragedia di argomento e ambientazione romana (Octavia). Vennero scritte nei primi anni del principato di Nerone (54-56 d.C.), quando Nerone divenne principe e Seneca era suo consigliere. In questo periodo Seneca era al culmine delle propria carriera, ma già i rapporti con Nerone si stavano incrinando, infatti in queste tragedie molto spesso è descritta la figura del tiranno (molto probabilmente tramite questa figura Seneca cercava di far capire a Nerone come non doveva comportarsi). Queste tragedie non vennero scritte per essere rappresentate su un palco, ma venivano lette a un pubblico molto ristretto, la corte di Nerone e a Nerone stesso. Le tragedie parlavano di mitologia ma Seneca rivisitò un po’ questo tema: in tutte le tragedie Seneca voleva farci vedere come succedeva quando il logos (la ragione) si scontrava con le passioni umane (ira, amore, gelosia, vendetta..). Seneca vuole farci vedere come queste emozioni portano alla rovina chi si lascia sopraffare da quest’ultime, abbandonando il logos. Per questo motivo personaggi non erano veri e propri personaggi indagati nella loro psicologia, ma erano perosnaggi-passione, ovvero erano la rappresentazione di una passione, erano la reincarnazione di alcune emozioni (Medea per esempio rappresentava la rabbia). Vi era una forte attenzione al pathos, che sfociava anche in alcuni casi nel DE IRA: È un’opera in tre libri in cui Seneca si prefigge di combattere l’ira, passione tra le più odiose, pericolose e funeste. In polemica con la dottrina peripatetica, che giustificava l’ira in determinate circostanze, Seneca segue le posizioni stoiche, per cui l’ira non è mai accettabile né utile, poiché è prodotta da un impulso, che offusca la ragione e si manifesta in forme molto simili a quelle della folla. Indica poi i rimedi a essa, cioè i mezzi per prevenirla e placarla. LA CONSOLATIO AD MARCIAM: È l’opera più antica (“Discorso consolatorio rivolto a Marcia”), scritta prima dell’esilio, forse nel 37. In essa Seneca si propone di consolare Marcia, donna dell’alta società romana (figlia dello storico Cremuzio Cordo), che tre anni prima aveva perso il giovane figlio Metilio. Il testo si inserisce nella tradizione della “consolazione” filosofica, che aveva avuto illustri esempi nella letteratura greca e che, in quella latina, era rappresentata in particolare dalla Consolatio (a noi non pervenuta) scritta da Cicerone a se stesso per la morte della figlia. Seneca si impegna a dimostrare che la morte non è un male, svolgendo sia la tesi della morte come fine di tutto sia quella della morte come passaggio ad una vita migliore. Conclude l’ampia trattazione con l’elogio di Metilio e con la sua apoteosi, immaginando che il nonno Cremuzio lo accolga in cielo, nella sede riservata alle anime degli uomini grandi. MARCO ANNEO LUCANO: Nacque a Cordoba nel 39 d.C. da Marco Anneo Mela, fratello di Seneca. Studiò a Roma, dove fu allievo di Anneo Cornuto, e completò la sua istruzione ad Atene. Anneo Cornuto Scrisse una serie di opere, che non ci sono giunte, tranne un opuscolo mitologico che inserisce la tipica concezione stoica del mito: gli stoici credevano che il mito fosse una favola (fabula) che non avevano nessun valore, il loro valore era allegorico. In mito non aveva valore in se, anche perché gli stoici non credevano nelle divinità, ma queste divinità erano allegorie di fenomeni naturali o personificazioni di arti/discipline/ conoscenze. Questa interpretazione nel mito tipica defilo stoicismo che si ritrova in Anneo Cornuto, si ritroverà anche nelle opere di Lucano. Quest’ultimo scrisse un poema epico in cui non c’erano gli dei, ma c’era un apparato soprannaturale fatto di magie, spiriti, profezie… Era molto vicino agli ambienti di corte grazie allo zio Seneca, fu chiamato a Roma da Nerone stesso, che lo fece entrare nella propria cerchia e gli conferì, nonostante la giovane età, l’onore della questura. Nel 60 d.C. vennero organizzati dei giochi pubblici all’interno dei quali cantò le Laudes Neronis. La carriera poetica di Lucano ebbe una brusca svolta quando il favore del princeps lo abbandonò, trasformandosi in aperta ostilità, al punto che al poeta fu vietato di pubblicare i suoi versi. I biografi antichi danno di tale rottura motivazioni personali e letterarie: la gelosia di Nerone, anch’esso scrittore di carmi, però poco apprezzati, rispetto a quelli di Lucano. I latini avevano l’idea che le cause degli eventi storici fossero da ricercare nella morale (storiografia morale). Molto probabilmente le cause erano ben altre: - nel 62 d.C. quando Seneca venne allontanato dalla corte di Nerone, chiaramente anche il nipote risentì di questo astio verso la famiglia degli Annei; - Lucano, soprattutto nell’ultima parte della sua vita, aveva delle posizioni filorepubblicane (in contrasto col pensiero di Nerone), quindi voleva un ritorno alla res publica e ai consoli eletti dal popolo; Infine nel 65 d.C. aderì alla congiura di Pisoni (secondo Svetonio era uno dei promotori, a differenza di Seneca), e per questo condannato e costretto a darsi la morte quando non aveva ancora compiuto ventisei anni. PHARSALIA: Di Lucano ci rimane un’opera intitolata Pharsalia che significa “Cose relative alla battaglia di Farsalo”. Il titolo deriva da una definizione del poeta stesso: “la nostra Farsaglia vivrà e nessuna età ci condannerà alle tenebre”. Però i manoscritti che riportavano informazioni su quest’opera e gli scritti di Svetonio che parlavano della vita di Lucano, non chiamavano questa opera Pharsalia ma Bellum civile. È un poema epico-storico perché il tema è la battaglia di Farsalo, e in generale la guerra civile da Giulio Cesare e Pompeo. È un’opera in dieci libri (nel settimo viene raccontata la battaglia di Farsalo), ma molto probabilmente doveva essere una esade, per un totale di 12 libri, rimasta però incompleta (ci sono giunti nove libri, più il decimo non finito). La morte impedì a Lucano di completare il poema, interrotto all’inizio della rivolta contro Cesare scoppiata ad Alessandria d’Egitto (48 a.C.). I personaggi: nel poema troviamo personaggi che hanno atteggiamenti estremi ed eccessivi e modi di esprimersi solenni ed enfatici. Il carattere cupamente negativo del tema scelto esclude la possibilità di un personaggio positivo che si ponga come protagonista della vicenda dall’inizio alla fine, come avviene per Enea: è questa un’altra vistosa differenza rispetto all’epos virgiliano, per la quale alcuni studiosi hanno definito il Bellum civile un poema senza eroe. Cesare, promotore e vincitore della guerra, è sempre presentato in una luce sfavorevole dal narratore, che pronuncia su lui giudizi fortemente negativi. Egli viene raffigurato come un genio del male, animato da una sorta di smania distruttiva che lo spinge a sovvertire ogni legge umana e divina per inseguire senza sosta i suoi scopi tanto grandiosi quanti criminosi. Nel costruire il ritratto di Cesare, Lucano adotta un procedimento tipicamente epico, la similitudine: l’antieroe è paragonato a un fulmine per la sua rapidità e per la sua forza distruttiva. Un tratto su cui più volte Lucano insiste è inoltre la sua empietà verso la patria e gli dei, che fa di lui un personaggio antitetico rispetto al pio Enea. Ad esempio Cesare varca preposte mente il Rubicone nonostante il divieto della patria, e quando i suoi soldati esitano a eseguire il suo ordine di abbattere un bosco sacro, presso Marsiglia, pone egli stesso la mano alla scure e rivendica la responsabilità del sacrilegio. I valori positivi sono affidati alle figure dei due antagonisti, Pompeo e Catone. Pompeo, benché sia presentato come il difensore della legalità repubblicana, non ha una statura propriamente eroica. Egli appare, fin dal ritratto iniziale, un guerriero in declino, ormai abbandonato dalla Fortuna; nel corso dell’azione risulta poi debole, passivo, incerto, timoroso, privo di fiducia in sé e nei suoi soldati, destinato inevitabilmente alla sconfitta. Completamente positiva è la figura di Catone, che per Lucano rappresenta al tempo stesso il campione della legalità repubblicana e l’incarnazione del sapiente stoico. Egli tuttavia non occupa nel poema una posizione da vero protagonista, d’altra parte, la morte prematura ha impedito a Lucano di descrivere il suo momento di maggior gloria: il suicidio eroico. Struttura e contenuti: la centralità tematica dei libri VI e VII rafforza l’ipotesi di un’opera incompiuta e, secondo il progetto originario, articolata in dodici libri, divisibili in due esami (sezioni di libri) secondo il modello virgiliano. Nel Bellum civile, invece, all’esaltante celebrazione della nascita di Roma si sostituiscono l’invettiva del poeta conto i concittadini (vv. 8-23) e la triste rappresentazione di un quadro di desolante decadenza e devastazione che coinvolge tutta l’Italia (vv. 24-29). La guerra non è sinonimo di res gestae e di virtus romana, come in Virgilio, ma è l’espressione di una corruzione dei costumi che ha portato al rovesciamento delle normali regole della convivenza civile: il poeta si accinge a narrare un’assurda realtà, sostituendo i toni celebrativi dell’eros tradizionale con il biasimo e l’invettiva. 🖌 La partecipazione del poeta ai fatti narrati: il tono generale del proemio e di tutta l’opera è lontano dall’oggettività omerica: accentuando un elemento già presente, in misura minore, in Virgilio, Lucano partecipa ai fatti narrati, esprimendo con enfasi le sue emozioni. L’esordiente con cui sovente l’io narrante irrompe nella scena è l’apostrofe, che nel proemio ricorre più volte. 📚 La maga Eritto: una funesta profezia ( Il libro VI del Bellum civile mette in luce la tecnica di Lucano, che spesso si rifà agli schemi del modello virgiliano per capovolgerne il messaggio. In entrambi i poemi, infatti, il libro VI contiene una descrizione dell’oltretomba. Nell’Eneide Enea incontra nei Campi Elisi l’anima del padre Anchise, che gli mostra le anime dei più importanti personaggi che contribuiranno alla grandezza di Roma. Nel poema di Lucano, Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno, consulta l’anima di un soldato morto in un recente combattimento per conoscere l’esito della battaglia di Farsalo. Chiare sono le analogie, ma ancora più significative le differenze. Al posto del pio Enea, protagonista dell’episodio è l’empio Sesto Pompeo, “figlio indegno del Magno”. Costui, per conoscere il proprio futuro, non consulta l’ora colo di Apollo, come aveva fatto l’eroe troiano recandosi dalla Sibilla, ma si affida alla maga tessala Eritto, che ricorre a pratiche crudeli. Visto il gusto del tempo per il macabro (si pensi a Seneca), Lucano propri è una raccapricciante descrizione della terribile megera e delle nefandezze da lei compiute nel rituale necromatico (cioè, nell’evocazione degli spiriti dei defunti). Inoltre, alla rassegna virgiliana delle grandi personalità della storia romana, si contrappone in questo brano una rappresentazione “capovolta” degli inferi, dove le anime dei malvagi si rallegrano e le anime giuste assistono disperate al crollo dei valori tradizionali e agli assurdi scontri fra concittadini. Infine, mentre a Enea era profetizzato un futuro glorioso, una morte cruenta attende Pompeo e i suoi figli; lo stesso Cesare, vincitore della guerra, è vicino alla fine. La necromanzia è presenta come un atto magico terribile che provoca dolore, sdegno e disonore per l’anima che viene riportata in vita. Inoltre il soldato resuscitato dovrà morire una seconda volta dopo la profezia. Difronte a questo atto Sesto è spaventato. Il terrore di Sesto è contrapposto all’erotismo di Ena, il quale, di fronte ai precetti della Sibilla, rispose contenendo il proprio Travaglio interiore. Il cadavere richiamato alla vita dalla maga Eritto afferma che, non avendo ancora passato l’Acheronte, non ha conosciuto il futuro, ma può intuire cosa sta succedendo dall’atteggiamento dei Romani che si trovano nell’oltretomba (“I Mani”). Le anime provenienti dai Campi Elisi (il luogo dove soggiornano le anime dei beati) e le anime provenienti dal Tartaro (dove sono punti i grandi colpevoli della storia) sono giunti negli Inferi e hanno rivelato cosa stava accadendo. Egli ha capito che sulla terra sta avvenendo la guerra civile. Le anime beate (Silla, Catone il Censore, padre di Catone il giovane, Scipione ecc.) piangono per le sorti dei pompeiani, per l'imminente fine della libertà repubblicana, per la quale tanto loro stessi hanno lottato ma che è destinata a morire. Il cadavere afferma anche di aver visto esultare le anime dei morti vicine alla fazione popolare e quindi cesariana (Mario, Druso, i Gracchi ecc.): evidente è l'ironia con la quale Lucano accompagna la descrizione dei sostenitori di Cesare. Poi giunge implacabile la profezia: un destino di morte attende Pompeo, ma prima o poi esso attende tutti i condottieri. Una cruenta fine attende i triumviri: dopo la morte di Crasso a Carre (53 a.C.), ci sarà la sconfitta di Pompeo a Farsalo e la sua uccisione in Egitto, e successivamente la morte di Cesare nel 44 a.C. per mano di una congiura. Dritto profetizza anche la sconfitta di Sesto Pompeo per mano di Ottaviano e la sua morte a Mileto, in Asia Minore nel 35 a.C. Morirà anche l’altro figlio di Pompeo Magno, nella battaglia di Munda in Spagna nel 45 a.C. La profezia si conclude con due sentenze che evidenziano l’ironia del destino: i luoghi dei trionfi di Pompeo (Africa, Spagna e Asia) si trasformeranno in sepolcri per lui e la sua famiglia, invece la Tessaglia, teatro della disfatta di Farsalo, sarà il luogo più sicuro perché non è li che essi troveranno la morte. GAIO PETRONIO ARBITRIO: Una serie di codici ci ha tramandato degli estratti di un’opera narrativa, mista di prosa e di versi, intitolata Satyricon e attribuita a un autore chiamato Petronio Arbitro. Il problema dell’identificazione di tale personaggio e della datazione dell’opera ha dato luogo a un vivace dibattito critico. Oggi la stragrande maggioranza degli studiosi concorda nel collocare il Satyricon nel I secoli d.C. e nel riconoscere nel suo autore il Petronio di cui parla Tacito, presentandolo come un personaggio molto in vista alla corte di Nerone, che nel 66 fu condannato a morte dal principe. Qui il ritratto che ne traccia lo storico: Tacito descrive Petronio come un uomo dedicato all’otium e ai piaceri. Con i suoi raffinati modi da esteta e l’acume del suo ingegno, Petronio affascinò l’imperatore Nerone ed entrò a far parte della sua corte. Però a differenza della maggior parte di coloro che sprecavano la propria vita, non veniva considerato un libertino/dissipatore, ma una persona di lusso raffinato (arbiter elegantiae), era quindi ben visto. Inoltre non era una persona stolta, fu un ottimo uomo politico: fu prima proconsole in Bitinia e poi console e si mostrò sempre all’altezza del proprio compito. Tacito prosegue affermando che questa posizione di favore e di privilegio suscitò la gelosia e l’odio di Tigellino (prefetto del pretorio), che lo accusò di essere amico di uno dei promotori della congiura pisoniana, stroncata nel sangue da Nerone nel 65: Petronio fu pertanto costretto a darsi la morte. Tacito aggiunge che nel suo testamento Petronio, lungi dall’adulare Nerone o Tigellino (come facevano di solito i condannati), “descrisse filo e per segno le turpitudini del principe, sigillò il testamento e lo inviò a Nerone”. come “racconto” o “storie”. Inoltre si trattava di un genere che rimase ai margini della cultura elevata, tanto che la critica letteraria su ne disinteressò completamente. Questo genere nacque con buona probabilità in età ellenistica, quando la prosa, che fino ad allora era stata usata per l’informazione oggettiva (oratoria, storia, filosofia…), fu impiegata anche per l’invenzione fantastica. I cinque romanzi conservati per intero sono di età ellenistica e romana. Sono tutti romanzi d’amore e presentano uno schema fisso: due giovani si incontrano e si innamorano, ma vengono separati e costretti ad affrontare una serie di traversie, volute dagli dei o dalla Fortuna. Il Satyricon ha in comune con i romanzi greci la loro principale caratteristica, che è quella di raccontare vicende complesse e avventurose, ma se nei romanzi greci che conosciamo gli innamorati sono un giovane e una ragazza, il rapporto amoroso tra Encolpio e Gitone è di tipo omosessuale e soprattutto soggetto al tradimento. In questa differenza dai romanzi greci si è visto un intento parodico di un genere in cui l’amore era idealizzato e nobilitato sentimentalmente. I rapporti con la novella milesia: Il Satyricon venne influenzato anche dalla novella milesia, chiamata così da Aristide di Mileto, scrittore greco del II secolo a.C., che aveva dato dignità letteraria alla novellistica popolare mettendo alcuni testi all’interno di un’antologia. Sono infatti presenti nel romanzo cinque novelle, raccontate da diversi personaggi, tre di argomento magico/ folclorico, e due si argomento erotico. Le altre due, attribuite ad Eumolpo, sono storielle erotiche. Un testo apprezzato: Il Satyricon non è un testo moralistico e con un fine morale (come potrebbe essere la satira), ma Petronio si è proposto unicamente il divertimento proprio e del pubblico per cui scriveva, che possiamo identificare con gli aristocratici romani suoi contemporanei e forse con Nerone stesso e la sua corte. Infine il Satyricon venne molto apprezzato perché oltre a essere un testo comico porta con sè un senso di precarietà, di timore della morte, insicurezza. È un lusso comico che però nasconde un profondo senso di precarietà. IL REALISMO COMICO E LINGUISTICO: Il Satyricon si presenta come un capolavoro di comicità e occupa un posto peculiare nella tradizione del realismo comico in quanto Petronio descrive il mondo romano senza le convenzioni tipiche della commedia e il moralismo della satira, ma con un’immediatezza e una concretezza uniche e insuperabili. Petronio mantiene un atteggiamento di superiore e signorile distacco, senza alcun compiacimento o coinvolgimento: egli osserva e descrive tutti con assoluta spregiudicatezza. Nel testo emergono notevoli differenze di esprimersi dei vari personaggi: lo stile del narratore (Encolpio) è semplice e disinvolto, con rare intrusioni di volgarismi. In certi casi il linguaggio del narratore e di alcuni personaggio si eleva notevolmente. Dall’altra parte, però, vi è il linguaggio basso dei personaggi incolti, o dotati, come Trimalchione, di una cultura superficiale. Il loro è un linguaggio colloquiale è fortemente espressivo, ricco di irregolarità e volgarismi. Questa lingua diviene così strumento finissimo della derisione e della caricatura impietosa cui Petronio sottopone i ceti emergenti, che egli guarda con il disprezzo del gran signore disgustato dalla volgarità. 📚 Un’opera di originale schiettezza (Satyricon, 132, 13-15,5): “Ma poi, dopo una lunga grattata di testa, mi dissi: Ma, in fin dei conti, che male c'è se ho sfogato la mia rabbia con un po' di parolacce. Non è forse la stessa cosa quando, sempre accanendoci col nostro corpo, imprechiamo contro la pancia o la gola o la testa, quando ci fanno male troppo spesso? Ulisse non litiga forse col proprio cuore, e certi personaggi della tragedia non se la prendono con gli occhi, come se quelli potessero starli a sentire? I gottosi poi maledicono i piedi, gli artritici le mani, i cisposi gli occhi, mentre quelli che prendono una botta al dito, scaricano la rabbia contro i piedi, come se fosse tutta colpa loro: Perché mai mi squadrate con la fronte accigliata, o Catoni, e condannate un'opera fresca come i tempi che corrono? Sorride serena la grazia di uno stile spontaneo, e quello che il popolo fa, chiara la lingua lo dice. Chi è all'oscuro del sesso, e chi ignora le gioie di Venere? Chi mai nega che i corpi si incendino nel caldo del letto? Anche il padre del Vero, il saggio Epicuro, lo ingiunse,e disse che questo è lo scopo finale della vita” Encolpio, dopo aver rivolto un lungo rimprovero alle proprie parti intime colpevoli di impotenza, attacca in un epigramma ipotetici moralisti per difendere le proprie scelte di contenuto e di stile. In questo testo è da vedere probabilmente il “manifesto programmatico” del Satyricon, una sorta di “a parte” rivolto al lettore dall’autore stesso, che rivendica, appellandosi alla dottrina epicurea del piacere come scopo supremo, il “diritto” a una trattazione schiera e disinibita degli aspetti sessuali della vita di contro alla meschina ipocrisia dei Catoni di ogni tempo. C’è un richiamo provocatorio e ironico ai testi alti, quali l’epica e la tragedia, in cui dice che anche in questi casi i protagonisti se la prendono con le proprie parti del corpo (nel canto XX dell’Odissea Ulisse si rivolge al suo cuore perché non ceda all’irà di fronte al comportamento delle serve di casa e dei Proci). Petronio definisce la sua opera con il termine “schiettezza nuova”, in quanto nell’opera egli ha un atteggiamento di sincerità e di schiettezza, con il quale descrive la vita vera della gente comune. pieno di termini comuni e non tecnici. Ci sono numerose figure retoriche che innalzano lo stile: iperbati, anastrofi, chiasmi, anafore e parallelismi. Infatti ha un linguaggio realistico (per esempio nella parte in cui utilizza un lessico “medico” per parlare delle parti del corpo e delle malattie) ma elegante, Petronio sottolinea i pregi stilistici dell’opera, redatta in una lingua semplice e realistica, ma piacevole. Infine egli aderisce alla dottrina di Epicuro e critica i moralisti, di cui Catone il Censore è l’esempio storico più noto. 📚 Il fantoccio di paglia: Dopo la storia del lupo mannaro raccontata da Nicerote prende la parola Trimalchione per narrare un altro fatto incredibile, di cui egli stesso era stato testimone durante la sua giovinezza. La vicenda ha i tratti di una tipica novella folclorica che affonda le sue radici nelle credenze popolari sulle streghe, figure femminili con poteri soprannaturali messi al servizio degli scopi più turpi. Come la maga Eritto di Lucano, le streghe di Petronio vanno a caccia di cadaveri, che utilizzano nei riti magici. La loro vittima è un fanciullo defunto, che durante la veglia funebre sottraggono e sostituiscono con un fantoccio di paglia, dopo un vano tentativo di difesa da parte di un fortissimo cappadoce, che avrebbe potuto «sollevare un bue inferocito». tende a presentarlo come una delle sue vittime innocenti: a tale scopo insiste sulla gelosia che i successi militare di agricola avrebbero suscitato nel principe e riporta la diceria secondo cui la sua morte sarebbe stata causata dal veleno, fattogli somministrare dall’imperatore. Tacito si premura di dichiarare che si trattava solo di un rumor, di una “voce”, tuttavia il racconto è costruito in modo da gettare sul principe i più neri sospetti. Concludono l’opera un bilancio complessivo della vita del defunto. GERMANIA: Poco dopo l’Agricola, nel 98 d.C. Tacito pubblicò la seconda opera, la Germania. La data si deduce da un accenno, nel capitolo 37, al secondo consolato di Traiano, che è appunto di quell’anno. Il titolo esatto sarebbe L’origine e la regione dei Germani, si tratta di uno scritto di carattere etnografico, che non differisce, se non per la maggior estensione, dagli excursus su paesi e popoli stranieri spesso inseriti nelle opere storiografiche sia greche sia latine. La Germania appartiene dunque a un filone largamente coltivato nell’antichità, anche se costituisce l’unico esempio latino di opera esclusivamente etnografica giunto fino a noi. Il testo si compone di due parti: una descrizione complessiva della Germania transrenana, indipendente da Roma, dei suoi abitanti e dei loro costumi (capitoli 1-27), una rassegna più specifica delle singole popolazioni e delle loro specificità (capitoli 28-46). Non è un’opera che nasce dall’esperienza di Tacito, egli non visitò ma la Germania, le notizie che ci riporta derivano da fonti letterarie (si pensi al De bello Gallico di Cesare e forse un’opera di Plinio il Vecchio) e da testimonianze dirette, soprattutto da parte dei soldati che combattevano sul confine. Nella sua indagine sui Germani, Tacito, con un atteggiamento peraltro molto comune tra gli scrittori rimani, non appare mosso da una curiosità autentica e disinteressata per la vita e le usanze di un popolo straniero: è Roma il suo punto di riferimento fisso, la sua preoccupazione costante è quasi ossessiva. Per questo motivo l’opera appare come un costante e polemico confronto tra le abitudini di vita semplici e dure dei barbari, per le quali lo scrittore manifesta una sincera ammirazione, e i corrotti costumi romani contemporanei. Questo loro essere primitivi, il loro condurre una vita semplice basata sulla vicinanza alla natura è sottolineato da Tacito come un aspetto positivo, mentre i romani erano corrotti dal lusso ellenistico e avevano ormai dei costumi corrotti, rischiando di indebolirsi. I barbari erano una forza positiva e per questo andavano conosciuti e anche temuti. Affiora però (soprattutto nella seconda parte dell’opera), in contrasto con l’ammirazione per le molte virtù che pongono i barbari al di sopra del civilizzato e corrotto mondo romano, un atteggiamento di superiorità e a volte di ripugnanza e di disprezzo per sistemi di vita ancora tanto rozzi e primitivi. DIALOGUS DE ORATORIBUS: Il Dialogo sugli oratori, dedicato al tema della decadenza dell’oratoria, si distingue dalle altre opere tacitiane non solo per il genere letterario, ma anche per lo stile e soprattutto perché l’attribuzione a Tacito è stata ed è tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi (dallo stile sembrava un’opera ciceroniana). Molto incerta è pure la data di composizione: la più probabile è il 102 d.C., in cui fu console il dedicatario dell’opera, Fabio Giusto. Il dialogo ambientato nel 75 d.C., ha come protagonisti quattro oratori: Marco Apro e Giulio Secondo, maestri e modelli del giovane Tacito che li accompagna, si recano a far visita a Curiazio Materno, che ha da poco abbandonato l’oratoria per dedicarsi alla poesia tragica. L’arrivo di un quarto personaggio, Vipstano Messalla, crea una breve pausa che serve a impostare l’argomento centrale: i motivi delle differenze tra l’oratoria antica e quella moderna, considerata da tutti, tranne che da Apro, come manifestazioni di un declino. Il dialogo quindi si incentra sulla decadenza dell’eloquenza come già si era visto in Quintiliano, da Seneca Padre e Petronio. La tesi di Apro: la sua tesi è che nell’età contemporanea non c’è decadenza, ma evoluzione e trasformazione dell’arte oratoria, in armonia con il mutare dei tempi, delle procedure giudiziarie, dei gusti e della competenza del pubblico. Ai tempi moderni è adatto uno stile rapido e brillante, in grado di destare l’interesse e il diletto di un uditorio assai più raffinato ed esigente che in passato. La tesi di Messalla: egli afferma che la decadenza dell’oratoria contemporanea, passando un rassegna le cause cui tradizionalmente se ne attribuiva la responsabilità, la negligenza dei genitori nell’educare i figli; il livello scadente delle scuole; la futilità dei temi delle declamazioni. La tesi di Materno: egli propone una ragione politica del declino della grande oratoria. L’eloquenza è paragonata a una fiamma che per bruciare e splendere deve essere alimentata; nell’età repubblicana essa trovava alimento e stimolo nella violenta competizione politica, con i dibattiti in Senato e i discorsi davanti al popolo, di cui ciascuno cerva di guadagnarsi il favore in occasione dei processi e nel corso delle accanite lotte civili. Dopo aver individuato con estrema acutezza nella perdita della libertà politica la causa più profonda e più vera del declino dell’eloquenza, l’autore fa esprimere al personaggio di Materno una pacata e positiva accettazione della realtà contemporanea. In parole semplici in un mondo in cui il potere era nelle mani di un solo princeps, l’arte di saper costruire un discorso convincente non serviva più in ambito politica, in quanto non si facevano più discorsi in Senato. HISTORIAE E ANNALES: Le Historiae e gli Annales sono le due più grandi opere di Tacito. Egli dedicò le Historiae alla di astio dei Flavi, comprendendo nel racconto anche la guerra civile del 69, dalla quale era uscito vincitore il fondatore della dinastia, Vespasiano: un tema, dunque che abbracciava gli anni dal 69 al 96. In quella successiva, gli Annales, l’autore narrò il periodo della dinastia giulio-claudia, dalla morte di Augusto a quella di Nerone (14-68). Le due opere comprendevano nell’insieme trenta libri, molti dei quali, tuttavia, andati perduti. Non sappiamo come erano divisi, forse le 14 libri di Historiae e 16 di Annales, (alcuni dicono 12 e 18). Nonostante gli Annales parlassero di un periodo più antico, scrisse prima le Historiae, quindi prima scrisse un’opera contemporanea e poi un’opera più antica. Delle Historiae iniziano con l’anno dei quattro imperatori, 69 d.C., abbiamo i primi quattro libri e una parte del quinto, che trattano di un periodo di tempo molto breve, circa due anni. Le Historiae si con concluse nel 96, morte di Domiziano. LE HISTORIAE: Si aprono con un’ampia prefazione della quale l’autore, dopo aver lodato gli storici del periodo repubblicano, condanna complessivamente gli storiografi del principato, inaffidabili o per servilismo o per ostilità infondata contro i potenti. Ne consegue la necessità di una nuova storiografia onesta e obiettiva, come quella appunto che l’autore si prefigge di attuare. L’autore offre infine una rapida panoramica della situazione di Roma e delle province all’inizio del 69, per individuare i fattori di crisi che condussero alla guerra civile, narrata nei primi tre libri (fino alla sconfitta di Vespasiano). Materia nel IV libro sono il consolidamento a roma del regime flavio e la grave rivolta dei Batavi, capeggiati da Giulio Civile, in Germania. Nella parte conservata del libro V si narrano i preparativi, all’inizio del 70, per l’assedio di Gerusalemme da parte di Tito, figlio di Vespasiano, un ampio excursus etnografico sui Giudei è animato da viva ostilità per questo popolo. defigere = inchiodare). I reperti a noi giunti, circa 1600 tabellae, appartengono a un arco di tempo molto ampio (dal V sec. a. C. fino al V d.C.), e a luoghi molto diversi e lontani (Grecia, Magna Grecia, Lazio, Britannia, Africa…); inoltre, le defixiones sono una pratica già attestata nel mondo greco, probabilmente trasmessa al mondo latino attraverso la mediazione degli Osci. Queste tavolette venivano deposte in speciali contesti, fortemente vincolati con le divinità invocate o con il soggetto che doveva essere colpito dal maleficio: l’ambito funerario (tombe e necropoli), lo spazio acquatico (mari, pozzi, sorgenti, ecc.), i santuari (ad esempio, ben 130 tabellae sono state rinvenute a Bath, presso il tempio della dea Sulis-Minerva), oppure luoghi legati alla vittima dell’incantesimo (come l’abitazione, o il posto di lavoro). A livello tematico, le defixiones possono essere divise in cinque categorie: 1. Le defixiones erotiche, destinate a distruggere un rapporto amoroso o ad attrarre la persona amata; 2. Le tabellae di carattere giuridico, che hanno lo scopo di rendere gli avversari inabili a comparire in tribunale e quindi a testimoniare; 3. Le maledizioni contro i ladri, redatte normalmente a seguito di un furto, che si prefiggono il recupero dei beni sottratti e/o la punizione del colpevole; 4. Le defixiones agonistiche, in cui i tifosi tentavano di favorire la vittoria dei propri beniamini, o di propiziare la sconfitta dei rivali; 5. Defixiones non specifiche, che non contengono la ragione della maledizione; 📚 ANNALES XIV, LA MORTE DI AGRIPPINA: “Frattanto si era sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, che si credeva del tutto accidentale, e ognuno si precipitava alla spiaggia a mano a mano che apprendeva la notizia; alcuni salivano sui moli, altri sulle barche che si trovavano a portata di mano; chi si inoltrava nel mare fin dove per la sua statura riusciva a toccare il fondo, chi tendeva le braccia; tutta la spiaggia era piena di lamenti, di invocazioni, di un vocio confuso in cui si intrecciavano domande contrastanti e risposte incerte: si andava radunando una folla immensa con le torce accese, quando giunse la notizia che Agrippina era salva, e tutti allora si avviarono per andare a congratularsi con lei, ma la vista di una minacciosa schiera di armati li costrinse a disperdersi. 2. Aniceto circondò la villa con un cordone di uomini, quindi, sfondata la porta, fece trascinare via tutti i servi che gli si facevano incontro finché giunse davanti alla porta della stanza da letto: qui stava di guardia uno sparuto gruppo di domestici, perché tutti gli altri si erano dileguati atterriti dall’irruzione dei soldati. 3. Nella camera, illuminata da una luce fioca, si trovava una sola ancella, mentre Agrippina era sempre più in ansia perché non arrivava nessun messo da parte del figlio e non ritornava neppure Agermo: le cose sarebbero state ben diverse, all’intorno, se gli eventi avessero preso una piega favorevole; ora invece non vi era che solitudine, un silenzio rotto da grida improvvise e tutti gli indizi di una irrimediabile sciagura. 4. Poiché l’ancella stava per andarsene, Agrippina si volse verso di lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», e allora vide Aniceto accompagnato dal trierarco Erculeio e dal centurione navale Obarito. E subito gli disse che, se era venuto per farle visita, poteva riferire a Nerone che si era ristabilita; se invece era lì per compiere un delitto, ella non poteva credere che ubbidisse a un ordine del figlio: era certa che egli non aveva comandato il matricidio. 5. I sicari circondarono il letto e il trierarca per primo colpì al capo con un bastone; quindi il centurione impugnò la spada per finirla, e allora Agrippina, protendendo il ventre, esclamò: «Colpisci qui», e spirò trafitta da più colpi.” Nel 59 d.C. Nerone decise di uccidere la madre perché rappresentava un ostacolo per la sua libertà e per la sua relazione con l’amante Poppea. Nerone pensava di ucciderla facendo affondare la nave con cui la madre raggiungeva la sua domus, ma Agrippina, temendo che il figlio potesse ucciderla, decise di andarci via terra. Simulando un desiderio di riconciliazione, invita la madre nella villa imperiale a Baia, nel golfo di Napoli: la donna, sospettosa, si fa portare da lui via terra, ma al momento del congedo, tranquillizzata dal suo atteggiamento affettuoso, sale sulla nave allestita per lei. Le cose, però, vanno diversamente da quanto previsto da Nerone: muoiono i due amici al seguito di Agrippina, Acerronia e Crepereio, ma la madre riesce a salvarsi e, fingendo di non sospettare del figlio, manda il liberto Agermo a informarlo dello scampato pericolo. Nerone, temendo la sua vendetta, decide di correre ai ripari: su consiglio di Burro e Seneca, affida ad Aniceto l’incarico di ucciderla. ENNIO: Fu originario della Magna Grecia, nacque nel 239 a.C. a pochi chilometri dall’odierna Lecce. Conosceva tre lingue, il greco, il latino e l’osco (una lingua italica molto diffusa nell’Italia Meridionale). Durante la Seconda Guerra punica combatté in Sardegna e da qui Catone il Censore, che ne aveva riconosciuto e apprezzato le doti intellettuali, lo portò a Roma con sè. Qui a Roma Ennio conquistò il favore di illustri personaggi schierati su posizioni diverse da quelle di Catone. Sappiamo che fu legato da profonda amicizia a Scipione l’Africano, l’eroe della Seconda guerra punica, di cui celebrò le imprese sia nel grande poema epico- storico Annales sia in un apposito poemetto intitolato Scipio; ebbe inoltre tra i suoi protettori Marco Fulvio Nobiliore, importante uomo politico e promotore della cultura greca, il quale lo volle con sé nella campagna militare contro gli Etòli. Morì nel 169 a.C. GLI ANNALES: La sua opera principale sono gli Annales, un poema in 18 libri, composto nel corso di molti anni e pubblicato dall’autore stesso, probabilmente a gruppi di libri, a mano a mano che veniva scritto. Di esso si conserva solo qualche frammento, per un totale di circa 600 versi. Si tratta di un poema epico-storico d’argomento romano: egli sceglie come titolo Annales, che indica l’ordine cronologico della narrazione e insieme l’intenzione di non raccontare soltanto un episodio della storia romana (come aveva fatto Nevio, incentrando il suo poema sulla Prima guerra punica), ma tutta la storia di Roma, dalle origine all’età contemporanea. Il titolo rimanda infatti sia ai documenti ufficiali in cui i pontefici registravano, anno per anno, i principali avvenimenti politico-militari. È scritto in esametri, il metro dell’epos greco. Il contenuto: la narrazione della storia di Roma aveva inizio dalla caduta di Troia (il poeta collegava il racconto delle origini di Roma con la saga troiana, argomento dei poemi omerici). 📚 libro I: caduta di Troia e arrivo nel Lazio di Enea, storia di Romolo e Remo e fondazione di Roma; 📚 libri II e III: storia dei re di Roma fino alla caduta della monarchia 📚 libri dal IV al XVIII: età repubblicana, con l’espansione di Roma; L’opera costituisce una grandiosa celebrazione della potenza e della gloria romana. L’estensione del dominio di Roma sui popoli via via assoggettai era giustificata in riferimento ai valori politici e morali di cui i romani era portatori: l’egemonia sugli altri Nel lieto fine il giovane e i suoi aiutanti hanno la meglio sugli antagonisti, e l’adulescens realizza i suoi desideri amorosi, talora conquistando semplicemente la sua amata, in altri casi coronando il matrimonio. Tra le commedie più famose ci sono lo Pseudolus, le Bacchides, la Mostellaria e il Miles gloriosus. Anche se le trame ruotano intorno a una coppia di innamorati, il vero protagonista di queste commedie è lo schiavo, il personaggio che Plauto sente più congeniale e a cui affida più volentieri tutte le risorse della sua esuberante comicità: il servus callidus, che nella vicenda drammatica svolge il ruolo di aiutante del giovane innamorato, è in realtà l’eroe comico su cui si concentrano l’attenzione a la simpatia dell’autore e del pubblico. Non meno divertenti risultano gli antagonisti. In particolare personaggi esagerati e caricaturali, come il “soldato fanfarone” o il Ballione, incarnazione dell’arroganza e della spudoratezza proprie del lenone, sono capolavori di esagerazione grottesca, dotati di travolgente e irresistibile comicità. LE COMMEDIE “DI CARATTERE”, “DELLA BEFFA” E “DEGLI EQUIVOCI”: In altre commedie, nelle quali la comicità punta sulle caratteristiche psicologiche abnormi di un personaggio, vengono definite “commedie di carattere”. Nell’Aulularia è presente il consueto amore ostacolato che alla fine si realizza felicemente. Non manca la figura del serve, ma in questo caso lo spazio maggiore è occupato da Euclione, il vecchio padre avaro. Quest’ultimo pensa sembra che tutti vogliano privarlo del suo tesoro, ma esso non è soltanto una caricatura, ma rappresenta gli atteggiamenti presenti in tutti gli uomini: l’attaccamento al denaro, la paura di povertà, la diffidenza verso gli estranei. Anche nella Casina ritroviamo il giovane ostacolato nel suo amore e il lieto fine coincidente con il matrimonio. La vicenda del giovane innamorato rimane però in secondo piano perché il protagonista è il vecchio innamorato, che si fa rivale del figlio per la conquista della stessa donna. Questa commedia rientra nel genere della commedia della beffa, in quanto caratterizzata da una comicità spiccatamente buffonesca. Le commedie Menaechmi e l’Amphitruo sono le cosiddette “commedie degli equivoci” in quanto incentrate sullo scambio di persona. LA RIELABORAZIONE DEI MODELLI GRECI: Plauto riprese i modelli greci nelle sue commedie: conservò le ambientazioni greche e riprese in parte le trame, ma chiaramente apportò delle modifiche, anche notevoli, laddove gli sembrava necessario. Sappiamo che Plauto fece uso della “contaminazione”, termine tecnico che indicava l’interazione di una commedia, derivata da un determinato originale greco, di una o più scene, talora anche di uno o più personaggi, tratta da un’altra commedia, anch’essa greca. La contaminazione implicava un trattamento piuttosto libero dei modelli. TERENZIO: È il primo poeta di cui possediamo una biografia, scritta dallo storico Svetonio all’inizio del II secolo d.C.. Nacque a Cartagine, forse nel 185 o 184 a.C., venne a Roma come schiavo di un senatore di nome Terenzio Lucano il quale, per la sua intelligenza e bellezza, lo rese un uomo libero e poi lo affrancò: il poeta assunse il nome del patrono e si fece chiamare Publio Terenzio Afro (quest’ultimo nome in quanto nacque in Africa). Ebbe come amici e protettori persone illustri, tra cui Lucio Emilio Paolo (vincitore della battaglia di Pidna), Scipione Emiliano e l’amico Gaio Lelio. Scrisse sei commedie, rappresentate tra il 166 e il 160 a.C., tutte conservate. La prima fu Andria (La ragazza di Andro), che venne accolta in modo positivo, la seconda Hecyra (La suocera), accolta invece in modo negativo, tant’è che gli spettatori lasciarono il teatro. Quest’ultima venne accolta positivamente solo quando venne presentata ai ludi Romani del 160 a.C. Le altre sono: Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso), Eunuchus (L'eunuco), Phormio (Formione) e Adelphoe (I fratelli). Poco dopo la rappresentazione dell’Adelphoe fece un viaggio in Grecia e in Asia Minore da cui non fece più ritorno. Le cause della morte sono incerte, nella biografia sono riportate varie ipotesi: malattia, naufragio, dolore per aver perduto un gran numero di nuove commedie tradotte dagli originali di Menandro. Secondo il biografò sarebbe morto intorno al 159 a.C. UN NUOVO TEATRO COMICO PER UNA REALTA’ CHE CAMBIA: Quando esordì con la sua prima commedia, Roma aveva appena vinto la terza (e ultima) guerra macedonica (168 a.C.), portando la Grecia sotto il dominio romano. I cambiamenti in atto alimentavano il bisogno di un rinnovamento profondo dell’economia, della società e della cultura, di cui si fecero portavoce alcuni esponenti della classe dirigente romana. Terenzio si fece interprete di questa esigenza, diffondendo a Roma alcuni valori maturati in Grecia (in primis quello della philanthropia) e proponendo una mentalità più aperta e tollerante, capace di dialogare con le altre culture. Questo suo pensiero lo inserì nelle sue commedie, che erano destinate a un pubblico vasto e “popolare”, fatto di gente comune, che si aspettava di assistere a spettacoli divertenti e prevedibili nei loro sviluppi. Egli nella sua scrittura si ispirò a Plauto ma per parlare anche di argomenti seri, Terenzio “reinventò” il modello plautino, togliendo quegli elementi cari al pubblico per inserirne di nuovi. L’operazione però non ebbe successo e lo dimostrano sia i ripetuti fallimenti CATULLO: Gaio Valerio Catullo il primo poeta lirico di cui si sia conservato un numero significativo di componimenti. Nacque a Verona, forse nell’87 a.C., da una famiglia di alto rango, tan’è che Cesare ne era talvolta ospite quando governava la provincia della Gallia Cisalpina. Morì forse nel 57 a.C., a circa trent’anni. Si trasferì a Roma giovane, ma non intraprese la carriera politica; ma formo un sodalizio, che era anche un cenacolo letterario, con alcuni brillanti letterati, come Licinio Calvo, che condividono i suoi gusti e i suoi orientamenti culturali: insieme con loro Catullo fece parte di quella cerchia di poeti, definiti da Cicerone poetae novi, che si ispiravano ai principi della poetica alessandrina. L’evento più importante della sua vita fu l’incontro con una donna di cui si innamorò e che nei suoi versi elogiò con lo pseudonimo di Lesbia. Il suo vero nome era Clodia, da identificare con la sorella di Clodio, tribuno della plebe nel 58 a.C., alleato di Cesare. Clodia era una donna bella, intelligente, colta e spregiudicata che fu moglie di Quinto Metello Celere. IL LIBER CATULLIANO: È una raccolta di poesie, organizzata sulla base dei metri usati nei vari componimenti. I 116 carmi si dividono in: 📗 1-60: metri vari (endecasillabi faleci, trimetri giambici…); 📗 61-68: metri vari 📗 69-116: distici elegiaci (quasi tutti epigrammi, alcune elegie); Il carme 1 che apre la raccolta è una dedica a Cornelio Nepote. Catullo definisce libellus l’operetta e nugae le sue poesie, cioè “poesiole leggere”. Il libellus inviato all’amico è definito infatti da Catullo nel primo verso con gli aggettivi “piacevole”, “amabile”, “spiritoso” e “nuovo” perché appena pubblicato, ma anche perché esprime una nuova visione della poesia, diversa da quella tradizionale. Le poesie sono ispirate alla convenzione alessandrina della poesia come gioco, ovvero si tratta di una poesia disimpegnata e leggera. Nelle sua poesia giambica ed epigrammatica attaccava i populares (anche perché lui essendo di estrazione elevate era un conservatore) come Giulio Cesare e gli uomini legati a lui, descritti come disonesti e corrotti. Ma nella sua poesia trovano posto anche gli insulti contro la corruzione dei potenti, e il rifiuto del tradizionalismo dei vecchi moralisti. Moltissimi componimenti catulliani prendevano spunto da concrete situazioni, che attestano un’intensa vita mondana, con le sue amicizie, pettegolezzi, rotture… Non si può non vedere anche una vena di provocatoria ed esibita oscenità che si vede nei frequenti riferimento alle abitudini sessuali degli avversari del poeta, definiti come pervertiti e incestuosi. LA POESIA D’AMORE PER LESBIA: Il fulcro del Liber è rappresentato dal gruppo di poesie dedicate a Lesbia. Esse non sono riunite tutte insieme ma si trovano nella prima e nella terza parte della raccolta, e raccontano si una complessa vicenda d’amore, la storia di una passione esaltante e tormentosa. Secondo un’ipotesi l’inizio di questa storia si ritrova al carme 51, modellato su una lirica di Saffo, che descrive gli effetti sconvolgenti destati nell’innamorato dalla vista dell’amata. Il carme 11, invece, contiene un amaro e disperato messaggio d’addio. Poiché si tratta degli unici componimenti scritti in strofa saffica, si è supposto che la corrispondenza non sia casuale: Catullo usò il metro tipico della poetessa greca per i due carmi che segnano, rispettivamente, l’inizio e la fine dell’amore. In alcuni componimenti, appartenenti con ogni probabilità alla fase iniziale della relazione, l’amore appagato divampa gioiosamente, ma subito la gioia è offuscata dalla gelosia e dalla dolorosa consapevolezza che la donna amata non contraccambia la totale dedizione dell’innamorato. La novità di Catullo è che propose l’amore con un’esperienza fondamentale nella vita di un uomo, tale che senza di esso l’esistenza stessa perderebbe ogni significato. Un altro aspetto era il tentativo di recuperare uno dei valori più sacri dell’antica morale romana, quello della fides (lealtà, fedeltà agli impegni), trasferito dalla sfera sociale a quella sentimentale. Catullo mostra di aver sperato, per un certo tempo, che quel rapporto potesse fondarsi, attraverso un patto liberamente accettato da entrambi, su un impegno responsabile e duraturo di affetto e di fedeltà reciproci. I CARMINA DOCTA: Sono i componimenti che occupano la parte centrale della raccolta, caratterizzati da una maggiore ampiezza, dalla presenza del mito e da una lingua più ricercata. Il carme 61 è un ampio canto nuziale, scritto per il matrimonio di un certo Manlio. Anche il canto 62 è un canto nuziale (in esametri), non composto però, come l’altro, per una determinata occasione, ma impostato come un contrasto tra un gruppo di ragazzi e uno di fanciulle, che si scambiano battute sul tema delle nozze. Il carme 63 è un epillio di cui è protagonista Attis, un giovane che si castra per consacrarsi al culto della dea Cibele, la seconda parte contiene il patetico lamento di Attis, che dopo la cerimonia si lente del gesto che ha compiuto. Il carme 64 è un epillio in esametri che narra le nozze di Peleo con la dea marina Tetide (dalla cui unione nasce Achille). Il carme 65 è un dedica del componimento successivo, il 66, al famoso oratore Quinto Ortensio Ortalo, amico del poeta. Il carme 66 è la traduzione di un’elegia di Callimaco, la Chioma di Berenice: ad Alessandria d’Egitto l’astronomia di corte individua nel cielo una costellazione corrispondente al ricciolo della regina Berenice, offerto in voto agli dei per propiziare il ritorno dalla guerra dello sposo. Il carme 67 è una breve elegia sugli scandali di una famiglia veronese; il carme 68, di carattere spiccatamente autobiografico si divide in due parti (68a e 68b). La prima è una lettera di Catullo a Manlio, che è rimasto privo della donna amata e vorrebbe ricevere conforto; nella seconda il poeta esprime la sua riconoscenza verso un amico di nome Allio, che gli era venuto in soccorso ai tempi del suo amore per Lesbia. RAFFINATEZZA DELLO STILE: Catullo viene considerato il poeta d’amore per antonomasia, e ciò corrisponde sostanzialmente a verità, ma non bisogna pensare che biografia e poesia coincidano perfettamente e che la sua poesia sia spontanea e “ingenua”. Con i poetae novi, e soprattutto con Catullo, irrompe nella letteratura latina la lirica soggettiva, cioè l’espressione diretta dei sentimenti personali e spesso privati dell’autore. Catullo ci appare schietto, sincero, immediato nell’espressione poetica dei suoi sentimenti, ma bisogna sapere che la realtà biografica è sempre rielaborata e trasfigurata alla luce della tradizione poetica. La lingua e lo stile suscitano l’impressione della massima immediatezza e spontaneità, soprattutto perché attingono abbondantemente al linguaggio colloquiale. L’apparente naturalezza si rivela frutto di una sapiente stilizzazione: ad esempio, sono spesso accostati termini dello stile alto a espressioni proprie della conversazione colta e anche del parlato della gente comune, per ricavarne effetti di contrasto. LUCREZIO, POETA DELLA RAGIONE: La lotta della ragione contro le tenebre dell’ignoranza e della religione per far prevalere la luce della verità è sempre stato uno degli obiettivi di Lucrezio. Egli condanna le persone che si affannano perseguendo falsi scopi, miraggi illusori. E non si accorgono che la natura non richiede altro che l’assenza di dolore fisico e spirituale: condizione che si può ottenere con la massima facilità, appagando semplicemente i bisogni elementari. Il piacere consistere infatti nell’assenza o nella cessazione del dolore e del desiderio, e coincide con l’atarassia, resa possibile dall’eliminazione delle paure irrazionali e delle passioni perturbatrici (amore, odio, ira, cupidigia…). L’anticonformismo di Lucrezio si vede soprattutto nella condanna dell’ambizione politica e della lotta per il potere: la scelta salutare è vivere appartati, lasciando agli stolti vi affanni di una vita competitiva. Tra le passioni che impediscono di raggiungere l’atarassia e la voluptas, c’è l’amore, desiderio tormentoso e sempre insoddisfatto, dal cui effimero appagamento risorgeranno, ancora più intollerabili, nuovo dolore e disgusto. Ma le forme di stoltezza più gravi e pericolose sono la paura della morte e il timore degli dei. La prima nasce dalla credenza che l’anima sia immortale e che vi possano essere castighi ultraterreni per i malvagi; per quanto riguarda la seconda, Lucrezio afferma che gli dei vivono beati nelle loro sedi, e non si preoccupano delle vicende umane. Le gravi difficoltà che l’uomo incontra per riuscire a sopravvivere combattendo contro una natura ostile dimostrano che il mondo in cui viviamo non è stato fatto per l’essere umano. Proprio per questa sua visione del mondo, Lucrezio è stato definito come un pessimista, ma in verità il poeta intende confutare le tesi del finalismo e il provvidenzialismo degli stoici, convinti che un principio superiore imprimesse a tutta la realtà un senso e una fine. CESARE: Gaio Giulio Cesare nacque a Roma nel 100 a.C. Apparteneva alla gens Iulia, ma era anche legato da rapporti di parentela con Mario e Cinna, cioè con gli esponenti più importanti del partito dei populares. A tale partito egli diede tutto il suo appoggio, quando, dopo la morte di Silla, intraprese l’attività forense. Divenne questore nel 68 a.C., edile nel 65, nel 63 Cesare riuscì ad assicurarsi la carica, di pontefice massimo. Pretore nel 62, propretore nel 61 in Spagna, Cesare provvide egregiamente a “pacificare” la provincia con spedizioni vittoriose. Tornando a Roma stabilì con Pompeo e Crasso un accordo di collaborazione politica, il primo triumvirato, e fu eletto console per il 59 a.C., alla scadenza di questo incarico si fede assegnare per cinque anni il proconsolato delle Gallie e dell’Illirico (penisola balcanica). In Gallia Narbonese intraprese alcune spedizioni militari contro le tribù germaniche che minacciavano i confini, che si conclusero nel 52 a.C. con la sottomissione di tutta la Gallia. In Gallia mostrò non solo abilità strategiche, ma trasformò una massa di proletari disprezzati in un esercito formidabile e fedele al suo generale. Egli raddoppiò la paga giornaliera ai legionari, evitò l’eccesso nel ricorso delle punizioni corporali e concesse ai soldati la possibilità di fare razzie. Intanto a Roma l’ostilità contro il partito di Cesare acquistò maggior forza per l’improvvisa scomparsa di Crasso (sconfitto e ucciso a Carre) e l’uccisione di Clodio, nel 52 a.C. Poiché era evidente che Cesare mirava a un potere assoluto fondato sull’esercito, Pompeo si fece campione della legalità repubblicana e dell’autorità del Senato. E il Senato, ai primi di gennaio, intimò un ultimatum a Cesare: se non avesse congedato l’esercito, sarebbe stato considerato “nemico pubblico”. Cesare non ubbidì, attraversò il Rubicone con l’esercito, dando inizio alla guerra civile. Morì il 15 marzo del 44 a.C in una congiura organizzata dal Senato. I COMMENTARII: Le uniche opere che ci sono pervenute (i Commentarii, resoconti delle sue imprese belliche), furono scritte nel vivo della campagna di conquista della Gallia (Commentarii de bello Gallico) durante il conflitto civile (Commentarii de bello civili). Egli si servì della letteratura come strumento di promozione del consenso, per proporre un’immagine si sé quale generale vittorioso e politico incline alla riconciliazione. Le sole opere di Cesare conservate sono i sette libri di Commentarii de bello Gallico e i tre libri di Commentarii de bello civili, molto probabilmente denominati complessivamente dall’autore “Resoconto delle proprie imprese”. L’epoca di composizione è ignota: molto probabilmente la stesura de “La guerra gallica” avvenne intorno al 52-51 a.C., mentre “La guerra civile” è certamente incompiuto e fu pubblicata forse dopo la morte di Cesare. DE BELLO GALLICO: i sette libri contengono il resoconto delle operazioni militari compiute dal proconsole dal 58 al 52 a.C. (a ogni anno è dedicato un libro). Un libro, l’ottavo, fu aggiunto da un luogotenente di Cesare, dopo la sua morte per colmare l’intervallo tra i due libri: infatti contengono gli avvenimenti successi tra il 51 e il 50 a.C. DE BELLO CIVILI: i tre contengono i fatti dei primi due anni della guerra contro Pompeo, il 49 e il 48 a.C. Il corpus delle opere cesariane comprende anche tre opere che si propongono come continuazioni del De bello civili. Non che i Commentarii parlino di storia, non appartengono al genere storiografico vero e proprio, né l’autore aspirava a inserirsi in tale tradizione, che di norma utilizzava i termini historiae o annales. Ma commentarii indicava la raccolta di materiale non elaborato che costituiva la fase preparatoria alla stesura definitiva dell’opera storica. Il consapevole allentamento, sotto il profilo formale, dal modello storiografico è confermarono dalla mancanza di una prefazione, elemento caratteristico dell’opera storica. Per altri aspetti, tuttavia, Cesare non esita ad adottare consuetudini proprie del genere, come l’inserzione di digressioni di carattere etnografico e anche discorsi diretti. Caratteristica di questa opera è anche il fatto che lo scrittoria sia protagonista delle vicende narrate. GLI INTENTI DELL’AUTORE: Gli studiosi moderni hanno notato piccole inesattezze, confrontando l’opera con alcune fonti antiche che narrano i medesimi avvenimenti. Questo non stupisce: Cesare non si sarebbe certo esposto a facili smentite nel raccontare fatti contemporanei di cui molti erano stati testimoni. Se l’attendibilità di fondo dei Commentarii non sembra dunque da mettere in discussione, il modo in cui è scritta cerca di mettere sotto una buona luce il protagonista. Sotto certi aspetti si può notare un’autocelebrazione nel De bello Gallico e un’autodifesa nel De bello civili. L’autocelebrazione nel De bello gallico: la guerra gallica non richiedeva, per un pubblico romano, alcuna particolare giustificazione, tanto più dopo il suo esito vittorioso. A Cesare erano state mosse, dai suoi avversari politici, accuse di violazione dello ius belli, ma tutti spavento che si trattava di manovre per contrastare l’ascesa di un uomo che stava diventando troppo potente. Pertanto Cesare non appare eccessivamente - antefatto e sfondo del complotto; - prima fase della congiura; - excursus centrale; - seconda fase della congiura; L’excursus centrale divide l’opera in due parti: la prima si estende fino al momento in cui Catilina viene messo fuori legge; la seconda narra gli avvenimenti successivi, a Roma e in Etruria. In esso lo storico delinea la condizione della Roma ai tempi di Catilina in termini di corruzione e di degenerazione morbosa. Le manifestazioni e le cause di questo processo patologico vengono descritte nell’excursus posto all’inizio dell’opera. In esso Sallustio narra la storia di Roma dalle origini fino alla congiura. Egli non fa un resoconto sintetico, ma propone una valutazione complessiva del passato. Ne consegue un’amara e acuta riflessione moralistica, che ricostruisce le vicende della res publica per grandi fasi. Centrale in questo testo è la contrapposizione tra la corrotta età moderna e il buon tempo antico, visto come modello perfetto. La progressiva decadenza di Roma coincide con la distruzione di Cartagine al termine della Terza guerra punica (146 a.C.). La sicurezza di Roma ha provocato il cambiamento della mentalità e dei costumi tradizionali, caratterizzati dall’onestà, dalla concordia e dalla giustizia. Gli excursus rappresentano dunque importanti momenti di riflessione teorica che danno unità e coerenza all’opera, attribuendo un significato più profondo alla vicenda di Catilina. I personaggi: • Catilina, figura negativa ma vigorosa e potente, il cui ritratto, posto subito dopo il proemio, fissa il personaggio fin dall’inizio e inesorabilmente nella parte del “malvagio”. In effetti la figura di Catilina non presenta nel corso dell’opera alcuna evoluzione. Egli riassume in sé i termini del problema che appassiona lo storico: la crisi della res publica. Nella monografia egli gode di un’evidente centralità, come dimostra il fatto che gli viene data direttamente la parola in due ampi discorsi, all’inizio e alla fine del racconto, e in una lettera; • attorno a Catilina gravitano altri personaggi, i complici e gli avversari. Tra questi troviamo Cicerone, che non assume una statura paragonabile a quella del suo antagonista, anche perché non esprimerà mai il suo punto di vista in discorsi o lettere. Egli viene raffigurato come il magistrato che sa scoprire e reprimere le trame sovversive; • Cesare e Catone appaiono solo per pronunciare i loro ampi discorsi. Più che veri e propri personaggi, essi appaiono come figure emblematiche delle principali posizioni che si fronteggiano a Roma: il rigorismo della tradizione (Catone) e le nuove istante politiche (Cesare); LA GUERRA CONTRO GIUGURTA: Narra un evento antecedente all’argomento di prima: la guerra contro Giugurta sostenuta dai romani in Africa per sei anni, dal 111 al 105 a.C. Troviamo anche qui i due aspetti fondamentali della storiografia sallustiana: l’attenzione per l’evento importante e l’interesse più generale per le condizioni e le vicende etico-politiche dello Stato. Anche qui una riflessione di Sallustio si esprime in un ampio excursus, che interrompe racconto storico per indagare le cause della decadenza della res publica. Il punto di inizio della crisi è nuovamente identificato nella caduta di Cartagine e identiche sono le cause generali. Ma le cause della decadenza dello Stato romano ora vengono identificate nella discordia interna, ossia nei conflitti tra popolo e Senato. A questo excursus si aggiungono anche due digressioni, una geografica e una etnografica, che trattano della geografia e della storia leggendaria della città di Leptis. L’opera si divide 8 parti: - proemio; - antefatto; - excursus; - prima fase del conflitto; - excursus; - seconda fase del conflitto; - excursus; - terza fase del conflitto; Anche qui vi di trovano riferimenti a eventi di molti mesi o anni e ampi segmenti dedicati a un unico fatto. Ci sono lettere e discorsi, che consentono di esprime i punti di vista dei personaggi e diventano un essenziale strumento di approfondimento psicologico, ma soprattutto il mezzo privilegiato per svolgere la tematica politica. Anche qui c’è il personaggio negativo, che è Giugurta, che però non è come Catilina, fissato nel suo ruolo e nel suo tipo fin dall’inizio, ma si viene definendo nel corso dell’opera. Nel corso dell’opera prima si trasforma in un maestro dell’intrigo e della corruzione, poi in un nemico non tanto potente quanto astuto e ostinato, e infine nella sua ultima evoluzione diventa un perdente a causa della sconfitta. Vicino a Giugurta ci sono una pluralità di antagonisti, che sono espressione dello Stato romano. LE HISTORIAE: Dopo le due opere, Sallustio abbandonò lo schema monografico e si cimentò in una trattazione di più vasto respiro, di andamento annalistico. Riallacciandosi, all’opera di un predecessore, Lucio Cornelio Sisenna, ne proseguì il racconto, iniziando dal punto in cui quella si concludeva, cioè dalla morte di Silla (78 a.C.). Le Historiae sono andate perdute, con l’eccezione di una raccolta di quattro discorsi e di due lettere e di un buon numero di altri frammenti. Da ciò che resta si deduce che il testo abbracciava, in cinque libri, il periodo dal 78 al 67 a.C. Nel proemio Sallustio espresse una valutazione della storiografia Latina precedente (lodando Catone) e poi trattò nuovamente il tema della corruzione della res publica. Egli affermò che la decadenza di Roma iniziò ben prima della Seconda Guerra Punica, prima di essa esistevano gravi discordie interne: dalla generale corruzione si era salvati soltanto brevi periodi in cui i pericoli esterni avevano obbligato i Romani alla concordia e alla virtù. Mantenne sempre le stesse caratteristiche della monodia: la narrazione selettiva e drammatica, il grande rilievo conferito ai personaggi e alla loro psicologia, l’indagine dei fattori morali che determinavano le azioni umane. LO STILE: Vi è un abbondanza di arcaismi fonetici e morfologici, sono inoltre presenti termini desueti, vocaboli poetici e neologismi. Vi è la ricerca della brevitas e il gusto della variatio: la brevitas comporta e fonde insieme la concisione e la pregnanza, ai tratta di concentrare il massimo di significati nel minimo di parole. La prosa sallustiana è veloce, densa, talora brusca ed essenziale, deliberatamente lontana dall’uso comune. Per quanto riguarda la variatio, lo spinge a evitare ogni esito scontato e a rifiutare l’armonia troppo prevedibile, vi la tendenza a cambiare bruscamente argomento. LE FINALITA’ E I CARATTERI IDEOLOGICI DELL’OPERA: L’idea che Livio aveva dei compiti e dello scopo della storiografia si può vedere nella prefazione dell’opera: egli di augurava che ogni lettore potesse trarre dalla sua opera un insegnamento morale. Lo storico dedica la sua opera a dimostrare che la grandezza dello Stato romano è legata al possesso, soprattutto da parte degli uomini che lo guidato, di virtù troppo spesso trascurate. Da tale impostazione ideologica derivano le due caratteristiche più note e più criticate dell’opera: il suo carattere patriottico e celebrativo e l’idealizzazione del passato, che comportano talvolta consapevoli distorsioni dei fatti. Il pregiudizio patriottico fa si che Livio assegni per principio ai Romani nel loro complesso un costume di vita virtuoso, che spiega e giustifica benevolenza divina che di solito accompagna le loro imprese e che comprende tutte le qualità positive tradizionalmente sintetizzate nell’espressione mos maiorum: pietas, fides, libertas, concordia, iustitia… LE QUALITA’ LETTERARIE E LO STILE: L’autore si dedica a costruire un racconto vario, avvincente, drammatico, in cui la padronanza dei mezzi retorici ed espressivi, si unisce felicemente a un uso moderato delle tecniche della storiografia tragica. Il più importante mezzo impiegato da Livio per raggiungere questo fine è l’organizzazione accurata dei materiali in una serie di episodi artisticamente unitari, con un inizio, uno svolgimento è un finale. Per evitare la monotonia, vista la quantità di eventi simili, soprattutto battaglie, Livio cercò di introdurre anche qui elementi di varietà e interesse umano, come un duello nel corso del combattimento, l’improvviso calare della nebbia che avvolge le operazioni… Anche Livio inserisce dei discorsi: essi adempiono alla duplice funzione di illustrare una situazione e di caratterizzare il personaggio che parla. Frequento è poi l’uso del discorso indiretto, che ha la medesima funzione del discorso diretto, ma senza interrompere il flusso narrativo. CICERONE: Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. in una cittadina del Lazio, da una famiglia di possidenti terrieri appartenenti all’ordine equestre, era quindi una famiglia non nobile. Studiò a Roma con i migliori maestri greci di retorica e di filosofia e, fin da giovanissimo, frequentò il Foro, sotto la guida dei più autorevoli e illustri oratori del tempo. A venticinque anni egli sostenne la prima causa di cui conserviamo testimonianza. Poco dopo lascio Roma per un lungo soggiorno di studio in Grecia e in Asia Minore. Al ritorno a Roma intraprese la carriera politica: fu questore in Sicilia e successivamente entrò per la prima volta in Senato. La sua carriera culminò nell’elezione al consolato per l’anno 63 a.C. Durante il suo consolato, Cicerone si impegnò decisamente su posizioni conservatrici, a difesa della legalità repubblicana e degli interessi degli optimates, i ceti economicamente e socialmente più forti, contro i populares, sostenuti da Cesare. Sventò il tentativo di Catilina di prendere il potere e con la prima orazione “catilinaria” lo costrinse a lasciare Roma. Quando Publio Clodio Pulcro divenne tribuno della plebe con il sostegno di Cesare, fece condannare Cicerone all’esilio per aver mandato a morte i catilinari. L’esilio durò sedici mesi, trascorsi in Grecia in attesa del richiamo a Roma, che finalmente avvenne nel 57 a.C. grazie all’intervento di Pompeo. Dopo l’esilio, Cicerone decise di avvicinarsi a Pompeo e a Cesare. Durante la dittatura di Cesare, Cicerone cercò conforto nell’attività filosofica e letteraria. Alle amarezze della situazione politica si aggiunsero dispiaceri e sofferenze nella vita privata, infatti divorziò dalla moglie Terenzia e successivamente gli morì la figlia Tullia. Dopo l’uccisione di Cesare si schierò dalla parte dei cesaricidi e durnate la faida tra Antonio e Ottaviano, si schierò col secondo. Ma Ottaviano si avvalse della sua presenza solo per avere il favore del Senato e lo utilizzò come alleato nella lotta contro Antonio, che Cicerone attaccò con le Philippicae. Quando i due avversari si unirono per fronteggiare i cesaricidi nel secondo triumvirato, il no,e di Cicerone fu scritto per primo nella lista di prescrizione, scritta da Antonio e approvata da Ottaviano. Raggiunto dai sicari nei pressi della sua villa, fu ucciso nel 43 a.C. L’ELOQUENZA A ROMA E IL CORPUS DELLE ORAZIONI CICERONIANE: A Roma durante l’età repubblicana l’oratoria svolgeva una funzione essenziale nella vita sociale e politica: il potere decisionale era demandato in larga misura a istituzioni assembleari, come il Senato, i comizi e i concili della plebe, per cui l’eloquenza era una dote fondamentale per chi volesse intraprendere la carriera politica. Nel Brutus Cicerone afferma che la prima orazione trascritta e tramandata ai posteri fu quella pronunciata da Appio Claudio Cieco nel 280 a.C., mentre i primi documenti veramente significativi dell’oratoria romana erano ai suoi tempi le orazioni di Catone il Censore. Le orazioni di Cicerone conservate per intero sono 58. In molti casi l’autore stesso ne curò la pubblicazione. Gli scopi perseguiti con la pubblicazione erano molteplici: propaganda politica, difesa del proprio operato di fronte alle critiche e agli attacchi degli avversari, desiderio di ottenere gloria presso i contemporanei… LE ORAZIONI GIUDIZIARIE: 🗣 le Verrinae (70 a.C.) sono “discorsi contro Verre”, scritte nel 70 a.C. Sono sette orazioni (di cui solo le prime due effettivamente pronunciate) per il processo per concussione intentato dai Siciliani contro Gaio Verre, governatore in Sicilia dal 73 al 71 a.C. Dopo il primo dibattito Verre venne schiacciato dalle accuse e partì volontario in esilio; 🗣 Pro Archia poeta (62 a.C.) è un’orazione in difesa del poeta greco Archia; 🗣 Pro Sestio (56 a.C.) è un’orazione in cui Cicerone difende il tribuno della plebe Sestio, accusato di aver organizzato bande armate per combattere quelle di Clodio. Alla fine Sestio fu assolto; 🗣 Pro Caelio (56 a.C.) è un’orazione in difesa di Marco Celio Rufo, accusato, tra l’altro, di aver rubato dei gioielli a una sua ex amante, Clodia, sorella di Clodio, e di aver tentato di farla avvelenare. L’imputato fu assolto; 🗣 Pro Milone (52 a.C.) è un’orazione in difesa di Milione per la morte di Clodio. L’imputato, in questo caso fu accusato. LE ORAZIONI DELIBERATIVE: 🗣 Pro legge Manilia (66 a.C.) è la prima orazione deliberativa tenuta da Cicerone dinnanzi al popolo nel 66 a.C. a favore della proposta di legge che assegnava a Pompei poteri straordinari per una guerra in Oriente. 🗣 Le Catilinariae (63 a.C.) sono quattro discorsi pronunciati nei giorni drammatici della scoperta e della repressione della congiura di Catilina, tra il novembre è il dicembre del 63 a.C. 🗣 Le Philipphicae (44-43 a.C.) sono quattordici discorsi che Cicerone pronunciò tra il 44 e il 43 a.C. con l’intento di far dichiarare Antonio nemico pubblico. predetto le future imprese gloriose e la morte prematura, gli aveva mostrato lo spettacolo grandioso delle sfere celesti, rivelandogli che l’immortalità e una dimora in cielo, sono il premio riservato dagli dei alle anime dei grandi uomini politici. CICERONE FILOSOFO: Cicerone si dedicò alla stesura di opere dialogiche in senso stretto negli ultimi anni della sua esistenza (45-44 a.C.), quando fu costretto dalle vicende politiche a ritirarsi dalla vita pubblica. È l’autore stesso ad affermare che la scrittura di queste opere gli permette di giovare ancora ai concittadini, mettendo a loro disposizione in lingua latina il grande patrimonio del pensiero filosofico greco. Le prime due opere furono una Consolatio dedicato a se stesso, in occasione della morte della figlia Tullia, e un dialogo che era un’esortazione alla filosofia. Cicerone poi affrontò il problema della conoscenza, in un dialogo intitolato Academici, di cui restano due libri. Il titolo deriva dal fatto che l’autore aderì alla posizione della scuola accademica: secondo il pensiero di quest’ultima non esisteva un criterio oggettivo per distinguere con certezza assoluta ciò che è vero e ciò che è falso, ma era possibile avvicinarsi alla verità attenendosi a ciò che appariva “probabile”, cioè razionalmente “approvabile”. Un’altra opera è “Il sommo bene e il sommo male”, in cui Cicerone trattò la questione riguardante lo scopo supremo della vitamina che costituiva per l’essere il sommo bene, capace si assicurargli la vera felicità. In polemica con l’epicureismo, egli sosteneva che la felicità consisteva non nel piacere, ma nella virtù. IL METODO, L’IDEALE E LO STILE: Le opere filosofiche di Cicerone occupano un posto di grande rilievo nella storia della cultura perché consentono di ricostruire il pensiero di numerosissimi filosofi greci i cui testi roti al sono andati perduti. Infatti Cicerone segue nella maggior parte dei casi il caso “dossografico”, procede cioè alla discussione dei problemi mediante una rassegna delle diverse opinioni espresse al riguardo dai filosofi. L’ideale dell’humanitas, cioè la concezione dell’essere umano, che emerge dall’insieme della produzione ciceroniana, ci appare una sintesi complessa e originale del pensiero filosofico greco e dell’esperienza morale e politica romana. Tale concezione si può riassumere così: • l’uomo è superiore agli altri esseri viventi grazie al dono della ragione; • l’uomo degno assoggetta gli istinti naturali, i sentimenti e le passioni al dominio della ragione; • l’acquisizione, attraverso lo studio, di una vasta cultura enciclopedica è indispensabile per conoscere a fondo se stessi e il mondo; • verso gli altri simili, l’essere umano deve sempre essere rispettoso; • il dovere si rendersi utili alla società e alla patria è prioritario rispetto a tutti gli altri; • i riconoscimenti esteriori non sono da disprezzare (successo, gloria…), ma sono inferiori rispetto al riconoscimento provato dopo aver agito per il bene comune; GLI EPISTOLARI: Cicerone è autore delle prime lettere private latine che ci siano giunte, ma esse attestano un pratica antichissima. L’uso di scrivere lettere, a livello pubblico e privato, si diffuse infatti precocemente nelle varie civiltà in seguito all’introduzione della scrittura. Di Cicerone si è conservato un imponente corpus di epistole comprendente in totale 864 lettere, risalenti agli anni dal 68 al 43 a.C. e pubblicate tutte dopo la morte dell’autore. Quelle di Cicerone sono tutte epistole “reali” e non fittizie, furono cioè tutte spedite effettivamente a destinatari; esse rappresentano una fonte straordinariamente ricca e preziosa, una vera miniera di notizie di carattere storico e antiquario. Tuttavia esse non sempre rappresentano la diretta e spontanea espressione di ciò che l’autore pensava e faceva. Alcune lettere erano pubbliche o “aperte”, composte per sere divulgate e mandate a più persone. Inoltre Cicerone era sempre preoccupato della sua immagine pubblica, quindi quando scriveva ai suoi amici “non intimi”, controllava la forma e i contenuti. Il Cicerone intimo, vero e spontaneo, è quello delle epistole ad Attico, dove la confidenza piena e la fiducia totale fanno cadere ogni schermo e ogni maschera. Affiorano allora le insicurezze, le debolezze, i dubbi e le vanità dell’autore, la sua tendenza al lamento e all’autocompatimento, talvolta anche i cedimenti ai compromessi. I FRAMMENTI DELLE OPERE POETICHE: Cicerone fu autore anche di numerose opere in versi, che gli antichi non giudicarono all’altezza del suo valore e della sua fama di prosatore e che per questo motivo non ci sono state tramandate. Ne rimangono frammenti, perché citate dall’autore, nelle opere filosofiche. TIBULLO: Le testimonianze biografiche più importanti su Tibullo si ricavano dalle sue stesse elegie e si deducono dai rapporti del poeta con un eminente uomo politico, Messalla Corvino. Tibullo apparteneva a una famiglia di rango equestre, fece parte del seguito di Messalla durnate una sua vittoriosa spedizione nelle Gallie, nel 30 a.C., e in una missione in Asia Minore nel 28 a.C. Ciò significa che nel 30 il peta doveva avere almeno una ventina d’anni e che era nato quindi prima del 50 a.C. Morì alla fine del 19 o all’inizio del 18 a.C. Di Tibullo ci sono giunte una raccolta di poesie (tutte, tranne una, in distici elegiaci) suddivise in tre libri. Questa raccolta, chiamata dagli studiosi Corpus Tibullianum, include nel III libro componimenti che non si possono attribuire a Tibullo. Il libro I fu pubblicato poco dopo il 27 a.C., mentre il II dev’essere alquanto successivo. Nel complesso, la produzione del poeta può essere collocata tra il 30 e il 20 a.C. Il libro I contiene 10 elegie, il secondo 6 elegie e il terzo 20 elegie. Libro I: cinque elegie del I libro fanno riferimenti alla donna amata da Tibullo, che egli canta sotto lo pseudonimo di Delia; tre si riferiscono invece a un altro amore del poeta, un giovane di nome Marato; le due rimanenti non svolgono temi erotici. Tibullo si differenzia dagli altri elegiaci romani: mentre oggetto della passione di Properzio o di Ovidio è sempre soltanto la donna amata; quindi Tibullo scrive anche poesia pederotica, raccontando l’amore per un ragazzo. Nel carme che apre il libro e la raccolta, Tibullo affronta il problema topico della scelta di vita, contrapponendo la propria esistenza “povera”, cioè semplice e modesta, politicamente disimpegnata e confortata dall’amore, alla vita militare, che egli rifiuta in quanto inconciliabile con l’amore e con la tranquillità. Libro II: l’elogio della vita dei campi e l’amore sono temi presenti anche nel II libro. Nelle elegie amorose, il poeta si presenta innamorato di una nuova donna, Nèmesi. Anche questa passione è fonte d’inquietudine e di sofferenza. Libro III: raccoglie venti componimenti, ma solo gli ultimi due sono considerati tibulliani: il carme 19 è un’ardente dichiarazione d’amore, il 20 è un breve epigramma sul tema dell’infedeltà dell’amata. I CARATTERI DELLA POESIA TIBULLIANA: La poesia tibulliana è caratterizzata dalla presenza massiccia di situazioni, motivi, concetti e figure presenti anche in altri testi, greci e latini. Si rilevano in particolare inflessi di Callimaco e dell’epigramma ellenistico. Tra i temi comuni vi sono la schiavitù d’amore, potrebbe separare gli amanti. All’amore viene subordinata ogni altra esigenza, nel rifiuto totale dei valori morali, sociali e patriottici. Nel libro III, ai temi d’amore se ne affiancano altri: il poeta non è più esclusivamente dedito alla sua passione per Cinzia, ma si accosta a nuovi argomenti, forse per un certo esaurimento della topica amorosa, ma anche per le forti sollecitazioni, che gli vengono da Mecenate. Nel libro troviamo una celebrazione di Augusto e il compianto per la morte di Marcello, nipote del principe, celebrato anche da Virgilio nell’Eneide; descrive poi Cleopatra, esaltando la vittoria di Azio. Vediamo come la poetica di Properzio si stai adeguando alle richieste dei potenti protettori. Il libro si chiude con le due elegie dette della “rottura”, in cui il poeta da l’addio a Cinzia, dichiarandosi finalmente libero dalla schiavitù e dal tormento della passione. È evidente che con questi componimenti Properzio vuole comunicare ai lettori la sua intenzione di abbandonare la poesia d’amore. IL LIBRO IV DELLE ELEGIAE, TRA AMORE ED EZIOLOGIA: Nell’elegia proemiale del IV libro, Properzio enuncia solennemente il proposito di dedicarsi alla celebrazione di Roma e delle sue tradizioni, senza però abbandonare la sua poetica precedente: contrappone infatti ancora una volta il genere epico, che viene rifiutato, al genere elegiaco, rappresentato da Callimaco. La differenzia con le prime tre elegie sta nel fatto che quest’ultime erano definite nel poesia erotica, mentre la quarta viene definita poesia eziologica (cioè spiega le cause originarie di riti, feste, nomi…). Questo proemio bipartito corrisponde effettivamente alla situazione rispecchiata nel libro, in cui il programma di poesia eziologica enunciano all’inizio risulta realizzato soltanto in parte, mentre sono ancora presenti carmi erotici, e la stessa Cinzia, nonostante l’addio nel libro III, ricompare in due elegie. Al premio seguono dieci elegie, di cui soltanto cinque si possono considerare propriamente eziologiche: sono le cosiddette “elegie romane”, con cui Properzio paga il suo debito propagandistico a Mecenate e ad Augusto. Il carme più spiccatamente celebrativo è il sesto, che esalta la vittoria di Azio. Le altre elegie appartengono al filone erotico, ma presentano tutte importanti aspetti di novità e di originalità rispetto alle esperienze precedenti. La terza è una patetica lettera d’amore, la quinta contiene una violenta invettiva contro una ruffiana, personaggio derivato dalla commedia. Tra i capolavori di Properzio sono da citare due carmi: quello in cui compare in sogno al poeta il fantasma di Cinzia, che lo rimprovera di averla tradita è dimenticata; e quello in cui Cinzia ricompare viva e vegeta, impegnata in un’avventura amorosa fuori Roma, e per questo il poeta tenta di reagire organizzando una serata in compagnia di due cortigiana, ma il suo piano va a monte per il ritorno della donna. LE CARATTERISTICHE DELL’ARTE PROPERZIANA: Anche Properzio, come Tibullo, costudite nelle sue elegie un mondo in cui si mescolano e si confondono esperienze autentiche di vita vissuta e fantasie poetiche. Come poeta d’amore Properzio è più intenso e appassionato di Tibullo: nei primi libri la folle passione per Cinzia, pur fonte di sofferenza e infelicità, è presentata come l’unica ragione di vita per il poeta e fondamento della sua poesia. Anche il personaggio della donna è assai più vivo e concreto rispetto alle donne tibulliane. Per quanto riguarda la struttura compositiva delle elegie, ritroviamo, come in Tibullo, i passaggi da un tema all’altro per associazione di idee e gli improvvisi cambi di interlocutore. A tale complessità e difficoltà contribuisce in misura determinante la presenza massiccia dei riferimenti mitologici, in Tibullo quasi assenti. Properzio ricorre al mito non soltanto per fare sfoggio di erudizione, ma anche e soprattutto per proiettare la sua storia personale su un piano più alto, sottraendola alla banalità del quotidiano. VARRONE: Marco Terenzio Varrone nacque da una ricca e nobile famiglia di possidenti terrieri, nel 116 a.C., a Rieti. È anche chiamato Reatino, per distinguerlo da un altro autore con il suo stesso nome. Fece studi accurati sia a Roma sia ad Atene, dove frequentò le principali scuole filosofiche. Varrone intraprese la carriera politica aderendo al partito degli optimates e legandosi a Pompeo, dalla cui parte combatté nelle campagne militare. Dopo la sconfitta di Pompeo si legò a Cesare, il quale lo considerava un ottimo intellettuale visto la sua vasta conoscenza culturale, e per questo motivo lo mise a capo dell’organizzazione di due biblioteche pubbliche, una greca e una latina. Dopo l’uccisione di Cesare, riuscì a guadagnarsi il favore di Ottaviano con l’opera (perduta) De gente populi romani, in cui confermava l’origine divina della gens Iulia. Morì nel 27 a.C. Di Varrone le fonti antiche ricordano un numero imponente di opere, per un totale di seicento libri. Di esse una sola, il De re rustica, ci è pervenuta integralmente, parzialmente conservato vi è un trattato di grammatica e di altri solo frammenti. IL DE RE RUSTICA: È un dialogo in tre libri, pubblicati intorno al 37 a.C., in cui l’autore dà precetti e consigli relativi all’attività agricola, ponendosi sulla linea si una tradizione iniziata da Catone con il suo De agri cultura. Gli argomenti trattati sono i seguenti: 1) coltivazione dei campi; 2) allevamento del bestiame; 3) l’allevamento, nella villa, di animali da cortile e di altre specie pregiate; Già Catone aveva indicato nell’agricoltura l’attività economica socialmente e moralmente più degna, il mezzo per arricchirsi e il modo di impiegare il denaro più onorevole e conveniente per i cittadini appartenenti ai ceti superiori. Dunque con il suo trattato Varrone si inserisce nella tradizione, affermando valori genuinamente romani. Del resto il patriottismo, il nazionalismo e il richiamo alle usanze antiche sono gli ideali cui egli si ispira in tutta la sua produzione letteraria. Il tutto è esposto in uno stile semplice ed è improntato ad un pragmatismo tipicamente romano: essa rispecchia l’esperienza diretta del ricco possidente terriero, capace di apprezzare i vantaggi per la salute e i pregi estetici della vita di campagna ma anche molto attento agli aspetti economici, ovvero allo sfruttamento razionale della terra in modo da trarne il massimo profitto. Il possidente terriero per chi scrive Varrone non è più il medio o piccolo proprietario che coltiva direttamente il suo fondo, ma il latifondista, padrone di immensi poderi e di numerose ville. VITRUVIO: Nell’età di Augusto ebbe gran sviluppo anche la trattatistica d’argomento erudito, antiquario e tecnico. Appartenente a questo tipo ci è giunto il De architectura di Marco Vitruvio Pollione, in dieci libri, pubblicato intorno al 25 a.C., che ebbe un’enorme fortuna già nell’antichità e poi in età rinascimentale: fu infatti il testo basilare e il modello principale per i trattati di architettura del Quattrocento e del Cinquecento. Vitruvio era stato ufficiale preposto alla costruzione, alla manutenzione e alla riparazione delle macchine da guerra durante le campagne di Cesare in Gallia. Architetto e ingegnere aveva poi collaborato con Augusto. Ottenuta una pensione, si era dedicato alla stesura della sua opera, in un periodo in cui Ottaviano stava realizzando un programma di sviluppo edilizio. Il De Architectura ha dunque un carattere di viva attualità; Vitruvio del resto lo dedica proprio ad Augusto, al quale esprime la sua personale riconoscenza e la sua devota ammirazione nella prefazione dell’opera. Il testo è molto utile per farci comprendere quanto le scienze e le tecniche era importanti in quell’epoca: la mentalità aristocratica che si rispecchiava nella cultura ufficiale riteneva, infatti, indegna di un uomo libero ogni attività che comportasse una retribuzione e considerava addirittura indecorosi i mestieri e le professioni connessi con attività manuali. Nell’età di Augusto le competenze specialistiche furono valorizzate, in quanto il principe aveva bisogno di collaboratori capaci e fidati. Tuttavia la stima è il prestigio di cui godevano i tecnici continuavano a essere scarsi. Per rivendicare piena dignità sociale e culturale alla sua disciplina, egli si rende conto che non è sufficiente sottolinearne l’utilità e l’importanza pratica, e tenta quindi un’operazione più complessa e ambiziosa. Vitruvio precisa che l’architettura si basa sua sulla fabrica (cioè sulla tecnica) sia sulla ratiocinatio (ossia sulla teoria), sottolineando in questo modo lo stretto, anzi inscindibile, rapporto che deve legare, a suo avviso, la scienza teorica e quella applicata. Egli afferma inoltre che l’architetto eccellente deve non soltanto saper leggere, scrivere e disegnare, ma conoscere anche la geometria e la matematica, la storia, la filosofia, la musica, la medicina, il diritto, l’astrologia e l’astronomia. PLINIO IL VECCHIO: Gaio Plinio Secondo (detto “il Vecchio” per distinguerlo dal nipote) nacque nell’attuale Como nel 23 o nel 24 a.C. da una famiglia di rango equestre. Iniziò la carriera come funzionario imperiale sotto Claudio, prestando servizio in Germania; fece anche parte dell’esercito di Tito. Sotto gli imperatori flavi ebbe incarichi di procuratore imperiale in Spagna e nelle Gallie. Rientrato a Roma, gli venne affidato il comando della base navale di Miseno. Qui lo sorprese, il 25 agosto del 79, l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, Stabia ed Ercolano. Nelle lettere di Plinio il Giovane, dopo aver elencato le numerose opere scritte dello zio, spiega che con zelo instancabile egli impegnava ore e ore, di giorno e di notte, a leggere e a farsi leggere libri. Tra i suoi molti scritti perduti ricordiamo due opere storiografiche: venti libri sulle Guerre germaniche e una trattazione di storia contemporanea. L’unica opera pervenuta per intero è la Naturalis historia (“Storia naturale”), in 37 libri. Essa tratta di cosmologia, geografia, antropologia, zoologia, sostanze medicinali, metallurgia e mineralogia, riservando un’attenzione particolare al materiali impiegati nelle arti (pittura, architettura e scultura), delle quali traccia la storia. Nell’epistola dedicatoria a Tito, l’autore sottolinea la novità della sua impresa; afferma tuttavia che l’argomento scelto non gli permette di curare la veste letteraria, facendo riferimento agli innumerevoli termini tecnici che rendono il suo vocabolario eccezionalmente ricco, ma che il purismo classico escludeva dalla letteratura elevata. Egli sottolinea così il carattere tecnico-scientifico dell’opera e gli scopi pratici che essa persegue. L’imponente enciclopedia pliniana si rivela frutto di un lavoro di proporzioni eccezionali e si rivela per noi preziosa, in quanto ci ha conservato e trasmesso un quantità enorme di dati e di notizie ricavati da un gran numero di testi perduti. Nella sua esposizione Plinio accumula dati su dati: gran parte dell’opera è costituita da interminabili enumerazioni di informazioni. Piuttosto che indagare le cause dei fenomeni, egli sembra interessato a redigere con la maggior parte completezza possibile tale opera. Il suo atteggiamento, tuttavia, non è del tutto acritico: egli discute spesso le informazioni e le interpretazioni dei fenomeni naturali che trova nei suoi autori, esprime dubbi e respinge ciò che non gli pare accettabile sulla base del buon senso. L’interesse per tutti gli aspetti della natura si rivela anche nell’ampio spazio dato ai mirabilia, ai fatti e ai dati (veri o presunti) straordinari, eccezionali e paradossali. Nelle prefazioni e nelle digressioni, Plinio dedica a temi di carattere generale, affiora un accentuato moralismo, con la deplorazione della corruzione dei costumi che si accompagna ai progressi della scienza e della tecnica. La vita di quella figura debole e fragile che è l’essere umano può e deve essere migliorata, secondo Plinio, per mezzo dello studio della natura, ma senza che siano superati determinati limiti che la natura stessa ha fissato: per esempio le persone non devono salire sulle montagne o scavare le viscere della terra per estrane i metalli preziosi. Queste prese di posizione sono motivate in parte da timori di tipo superstizioso (è empio voler conoscere tutti i segreti della natura), in parte dal moralismo. MARZIALE: Nacque nella Spagna Tarragonese (Bilbili), intorno al 40 d.C.; successivamente si trasferì a Roma, dove visse esercitando l’attività poetica e cercando la protezione e il sostegno economico di patroni e mecenati: nella sua opera si presenta più volte nella condizione di “cliente”. I testi più antichi che di lui ci rimangono risalgono all’80, quando pubblicò una raccolta di epigrammi per l’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio, cioè il Colosseo. Nel 98 lasciò definitivamente Roma per tornare in Spagna con l’aiuto di Plinio il Giovane. Qui nel,a sua città di nascita una ricca signora, Marcella, gli donò una casa e un podere, dove visse gli ultimi anni della sua vita. A Bilbili morì tra il 102 o il 104 d.C. L’opera di Marziale comprende complessivamente quindici libri: • 80 d.C.: Liber spectaculorum; • 84-85 d.C.: Xenia e Apophoreta; • 86-98 d.C.: Epigrammata, libri I-XI; • 101-102 d.C.: Epigrammata, libro XII; Era contrario ai generi alti perché incentrati su miti truculenti, inverosimili e falsi, Marziale sostiene la necessità di una poesia radicata nella realtà quotidiana e concentrata sull’essere umano. Marziale identifica la realtà con i comportamenti umani e intende trattare con arguzia vivace i “costumi” dei suoi contemporanei. È così inevitabile il confronto con la satira, e in particolare con Persio, che aveva scelto come materia privilegiata i mores; come il satirico, inoltre, Marziale preferisce rivolgere i suoi attacchi contro la culpa piuttosto che contro i colpevoli. Però tra i due vi è una fondamentale differenza: se Persio si era proposto di correggere i costumi corrotti dell’umanità, questo intendimento è del tutto estranei ai comportamenti di Marziale, nei quali è esplicitamente esclusa ogni funzione moralistica e come unico scopo è indicato il piacevole intrattenimento del lettore. Inoltre Marziale rivendica il diritto di “parlar chiaro” e in modo schietto. Egli non esclude dunque l’uso di termini volgari e osceni, che garantiscono l’immediatezza espressiva tipica del genere epigrammatico. Marziale stesso ammette una disinvolta propensione verso contenuti spesso volgari e osceni. POESIE D’OCCASIONE: Il Liber spectaculorum comprende una trentina di farmi dedicati ai giochi che nell’80 d.C. inaugurarono l’Anfiteatro Flavio. In quest’opera la vita di Roma viene colta in un unico ma fondamentale aspetto: quello del divertimento rappresentato dai giochi del circo. Oltre al motivo celebrativo della figura dell’imperatore, è notevole in questi componimenti la volontà di registrare gli eventi cogliendone gli aspetti straordinari e inconsueti. Vi sono poi le raccolte degli Xenia (dal greco “dono ospitarle”) e degli Apophoreta (dal greco “da portar via”), collegate alla festa dei Saturnali che si celebrava dal 17 al 23 dicembre e durante le quali i Romani, si scambiavano doni. I componimenti di queste due opere si presentano come biglietti per accompagnare i regali: gli Xenia si riferiscono per lo più a doni di cibo e di bevande, mentre una maggior varietà di oggetti compare negli Apophoreta. Sotto certi aspetti possono essere considerate “poesie d’occasione” poiché traggono spunto da situazioni reali e specifiche. GLI EPIGRAMMATA: Gli Epigrammata sono dodici libri. Nel corso dei secoli Esso aveva subito un imponente arricchimento tematico, grazie al quale poteva spaziare dall’ambito funerario a quello erotico, da quello votivo a quello descrittivo. Marziale non rifiuta nessuna di queste esperienze, ma privilegia una poesia legata alla realtà. Inoltre i campi sono brevi e utilizzano anche metri diversi da quello tradizionalmente associato a questo genere (il distica elegiaco). Il poeta si rifà all’esperienza di alcuni predecessori, il più illustre dei quali è Catullo, che aveva interpretato i casi della vita quotidiana in modo giocoso, beffardo, mordace e osceno. Da lui Marziale riprende anche l’aggressività, rinunciando però all’attacco personale. L’evoluzione dell’epigramma aveva mostrato la tendenza a concentrare gli elementi comici nella parte finale dei componimenti, conclusi da una battuta, per lo più inaspettata. Esso è ripreso e originalmente applicato dal nostro autore: si può notare nei carmi una struttura bipartita, costituita da un momento di “attesa” e da una “conclusione”, con una battuta a sorpresa, il cosiddetta “fulmine nella conclusione”. Un carattere quasi costante degli epigrammi di Marziale è, infine, la presenza in funzione di voce recitante del personaggio del poeta: il carme tende così a presentarsi come un commento che l’autore, in determinate circostanze, rivolge a caldo a un interlocutore con cui sta intrattenendo una conversazione. LA VARIETA’ TEMATICA E LO STILE DEGLI EPIGRAMMATA: La tematica relativa alla vita quotidiana è svolta in circa la metà degli epigrammi. In essi il mondo reale non è rappresentato da Marziale obiettivamente, ma viene reinterpretato in modo brillante e spiritoso, non senza il ricorso alla deformazione grottesca, all’iperbole e al paradosso. Viene scelta come materia privilegiata l’esperienza quotidiana ai suoi livelli più semplici e bassi (come il mangiare, il bere, le funzioni fisiologiche, il sesso) che spesso si accompagna al gusto per i dettagli più crudamente fisici e per i particolari più concreti e squallidi. Altrettanto caratteristici sono i componimenti dotati di una carica aggressiva che conferisce loro un tono satirico e beffardo. L’atteggiamento comico-realistico raggiunge i risultati più originali quando i temi sono attinti concretamente dalla realtà contemporanea e il poeta deride situazioni, circostanze, abitudini, manie tipiche dei Romani. Accanto al filone comico-realistico ne troviamo molti altri: innanzitutto carmi celebrativi, rivolti ad amici o anche giovinetti e fanciulle, a famosi artisti, atleti e gladiatori. Una varietà di questo tipo di epigrammi è costituita dai componimenti encomiastici dedicati a personaggi potenti, a patroni e a protettori, e soprattutto ai principes regnanti, da Tito a Traiano. Compaiono anche epigrammi funerari, caratterizzati da un’intensa e commovente partecipazione affettiva. Numerosi sono anche gli epigrammi descrittivi, in cui sono tratteggiati vivacemente luoghi o oggetti (come ville, edifici, opere d’arte). Accanto a essi si pongono quelli narrativi incentrati su episodi del passato, fatti d’attualità o casi curiosi. La vena erotica è presente in numerosi carmi, in cui l’amore è sentito non come passione profonda, ma come desiderio fisico. Un gruppo di epigrammi è dedicato all’espressione di idee, convinzioni e gusti dell’autore. Un altro importante nucleo tematico è quello letterario: il poeta da ampio spazio anche alle polemiche contro i critici e alle riflessioni sulla condizione del letterato. La molteplicità degli argomenti e dei toni si riflette nello stile. Al livello più elevato ci sono le poesie encomiastiche, composte in lingua e stile sostenuti, e al limite inferiore i complimenti comico-realistici, nei quali il lessico presenta una forte componente di tipo colloquiale. Sono inoltre presenti vocaboli bassi e volgari di fino all’oscenità.