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Appunti di Letteratura greca - 1, Appunti di Letteratura

appunti di letteratura greca - 1 parte

Tipologia: Appunti

2014/2015

In vendita dal 18/07/2015

silvana_ruggeri
silvana_ruggeri 🇮🇹

4.8

(6)

29 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti di Letteratura greca - 1 e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! Letteratura Greca Esiodo Già nell’antichità si dubitava se Omero fosse più antico di Esiodo o viceversa ed Erodoto risolse il problema considerandoli contemporanei. La critica moderna propende a ritenere che Esiodo sia posteriore ai poemi omerici, anche se alcuni studiosi preferiscono inserirlo tra Iliade ed Odissea e recentemente si è proposta l’ipotesi di anteporlo alla stesura conclusiva di entrambe le opere. Resta comunque accertata una fondamentale diversità tra le due sfere poetiche, nonostante metro, lingua e stile si lascino ricondurre ad una matrice sostanzialmente analoga. Con Esiodo la figura del poeta si introduce perentoriamente nell’opera, sia perché egli riferisce esperienze vissute nel concreto della propria biografia, sia perché esprime concetti permeati di una personale meditazione. Questa dimensione individuale e soggettiva sembra rivelare una fase successiva rispetto all’obiettività assoluta dei poemi omerici. Esiodo vive in Beozia, una regione appartata dal continente ellenico ed estranea alle rotte marittime di comunicazione, ma dotata di un sostrato fertile di antichissime tradizioni. La sua attività poetica appare quella di un isolato che individua il suo interesse nel presente e nella concretezza del quotidiano; e anche quando nella Teogonia si rivolge al mito, lo organizza secondo una prospettiva che si risolve nell’attualità del regno di Zeus. Rivendicando con energia una nuova funzione e una diretta responsabilità dell’attività del poeta, al tempo stesso, affiorano in Esiodo le tracce di antichissime tradizioni, addirittura estranee al modo greco; e ci si può chiedere se ne avesse conoscenza grazie all’origine della sua famiglia venuta in Grecia dall’Asia Minore o se le rinvenisse nel sostrato beotico come traccia di una preistorica comunanza culturale con il mondo orientale. Recenti scoperte hanno, infatti, accertato che la successione Urano-Crono-Zeus che costituisce l’ossatura del sistema esposto nella Teogonia riproduce un’analoga serie che compare in testi ugaritici ed ittiti ed anche pressoché concorde nel ritenere che la composizione della Teogonia sia cronologicamente anteriore a quella delle Opere. Le vicende della trasmissione hanno introdotto in entrambi i poemi un certo numero di interpolazioni sulla cui entità si scatenò nella filologia dell’’800 una vera e propria “questione esiodea”; oggi si propende a ritenere autentica la maggior parte dei testi conservati. E’ invece spurio un poemetto tradito nel corpus esiodeo che porta il titolo di “Scudo” che innesta sui primo 56 versi, tratti dal Catalogo delle donne e relativi ad Alcmena e alla sua notte d’amore con Zeus da cui nacque Eracle, il racconto della lotta dell’eroe contro il mostro Cicno. Nell’antichità era considerato sicuramente esiodeo un altro poema, andato perduto nella tradizione medievale, di cui si sono conservati estesi frammenti su papiri che confermano l’autenticità. Si tratta del “Catalogo delle donne”, detto anche “Eoiai”, contenente una serie di genealogie derivanti da una donna mortale e un dio, rovesciando così lo schema dell’ultima parte della Teogonia dove sono elencate le dee che generarono figli da mortali. L’opera era suddivisa in 5 libri, come documentano i frammenti conservati; da menzionare il prologo, in cui si diceva come nel tempo antico uomini e dei avessero in comune le mense e le sedi, e un’ampia elencazione dei pretendenti di Elena. Teogonia Il proposito della Teogonia è eminentemente pragmatica: sistemare il materiale circolante nelle credenze popolari, nella poesia eroica e nelle tradizioni religiose che aveva dato origine ad una congerie di figure e di storie divine, da cui riusciva arduo ricavare una coerente teologia. Ed Esiodo si proclama banditore di verità, Gli intenti dell’opera non sono religiosi o devozionali, piuttosto rispondono ad un ingenuo razionalismo che si vorrebbe definire embrionalmente storico. Al Prologo segue un’ampia invocazione alle Muse; poi ha inizio l’esposizione. In principio era il Caos, inteso come il vuoto indifferenziato ed aperto ad ogni possibilità. Esso produce la Terra ed Eros, poi Erebo (le Tenebre, forse l’oltretomba?) e la Notte. Da quest’ultima hanno origine i suoi contrari, Etere (l’aria luminosa) e Giorno; dalla Terra si formano il Cielo, i Monti e il Mare. Per azione di Eros ha, quindi, inizio la serie degli accoppiamenti e delle generazioni lungo tre linee che risalgono alla Notte, all’unione di Cielo e Terra, e al Mare. L’iniziale cosmogonia si trasforma, così, in una descrizione delle cose e delle forze presenti ed operanti nel mondo, dove la realtà viene interpretata secondo la dimensione del mito. Ad esprimere questa interpretazione concorrono più di 300 figure divine in cui si devono riconoscere non tanto delle personificazioni allegoriche, quanto le immagini attribuite alla presenza del divino in tutti i fenomeni dell’universo. L’epicentro di questa concezione è rappresentato dal racconto della successione dei re divini, che parte dalla coppia formata da Cielo e Terra, ossia Urano e Gea. Urano odia i figli nati da Gea e, immediatamente dopo la nascita, li nasconde nelle viscere enormi della sposa, che soffre immani dolori. Essa allora produce il ferro e fabbrica una falce che consegna al figlio Crono. Costui evira il padre mentre si accinge a congiungersi con Gea; dai testicoli amputati e caduti in mare si forma una schiuma da cui nasce Afrodite. Crono si unisce a Rea e, man mano che nascono i figli li inghiotte, poiché sa che verrà detronizzato da uno di loro. A compiere questa impresa è Zeus, salvato dalla madre che, in sua vece, presenta a Crono una pietra perché la divori, nascondendo il neonato, con la complicità di Gea, in una caverna di Creta. Una volta cresciuto, Zeus vince il padre e lo costringe a vomitare i figli nati in precedenza, tra cui sono Ade e Poseidon che diventeranno rispettivamente signori dell’oltretomba e del mare. Così, Zeus può istituire il suo regno, destinato a durate per tutti i tempi, al quale sono soggetti i mortali e gli immortali. Dopo avere sconfitto i Titani, figli di Urano, con l’aiuto dei giganteschi Centimani, gli dei della terza generazione creano a loro volta, unendosi con dee e donne, una stirpe divina di cui fanno parte Atena ed Apollo, Ermes ed Artemide e molti altri e, in concordia, tutti abitano l’Olimpo. Infine, il poema si conclude con il catalogo delle dee che si unirono a uomini mortali. Le Opere e i giorni Nelle Opere e i giorni l’intenzione pragmatica e didascalica è ancora più evidente e dichiarata che nella Teogonia. Anche qui il tessuto connettivo è offerto dall’organizzazione di un tipo di sapere che, in questo caso, si trova in diretta connessione con le necessità della vita pratica. L’argomento abbraccia le concrete esperienze dell’uditorio contadino della Beozia e ne garantisce la conservazione. Addirittura Esiodo le tramuta in un sistema organico di conoscenze, inserendole in una tradizione di alto livello come quella garantita dal poema di forma epica. Grazie a questa dimensione artistica, il pubblico sentiva nobilitata la propria forma di vita, in risposta ad una sempre crescente consapevolezza del valore intrinseco a qualsivoglia condizione umana. Tale condizione, già palese nel Proemio che celebra Zeus garante di misura e giustizia, si precisa nella distinzione tra due forme di έρiѕ (discordia): che è contesa nociva quando induce alla guerra e alla discordia, ma è veicolo di bene allorché stimola all’onesta competizione, in cui il lavoro fa progredire la condizione dell’uomo. Il lavoro è una necessità etica imposta dagli dei che non hanno voluto concedere agli uomini la facilità dell’esistenza. Due miti confermano questa concezione. Il primo riprende la vendetta presa da Zeus contro l’ardimento di Prometeo che gli aveva sottratto il fuoco, per consegnarlo agli uomini. Zeus dona al genere umano una creatura bellissima, Pandora – prototipo della donna – con un vaso ed essa lo schiude diffondendo così per la terra tutti i mali e lasciando all’interno solo la speranza. Il secondo mito rovescia l’evoluzionismo ottimistico della Teogonia per sostituire l’idea di una progressiva decadenza, simboleggiata dalla successione di Cinque età: alle origini vi fu “l’età dell’oro”, allorchè gli uomini vivevano beati come dei; vennero poi “l’età dell’argento”, caratterizzata da una stolta empietà, e “l’età del bronzo”, dedita alla guerra e alla violenza; con “l’età degli eroi” si ha un’improvvisa inversione parti, prodotto dalla consapevolezza di una legge che è al tempo stesso superiore ed immanente. In tale prospettiva anche l’intento propriamente didascalico della poesia esiodea non si limita alla sistemazione e alla trasmissione di un patrimonio di conoscenze, anzi questo diviene lo strumento per realizzare una struttura sociale che rivendichi l’intrinseca dignità del lavoro; ed appunto il lavoro risulta l’elemento costitutivo fondamentale di un mondo edificato su valori reali. Esiodo ha consapevolezza dell’impegno innovativo che la sua attività poetica si propone. Da ciò deriva la sua polemica più esplicita contro la tradizione rapsodica. Questa non si poneva il problema della verità del proprio canto, valutando in primo piano la novità e la qualità artistica della composizione. Esiodo non è più l’aedo o il rapsodo che inventa la storia bella per allietare l’uditorio; egli diventa il vate, l’araldo di una sapienza che si professa assoluta. Il poeta riconosce come propria missione il dovere di proclamare la verità dei valori che gli dei impongono agli uomini, come norma di una vita in cui ad ognuno sia dato di realizzare la propria dignità. Nei suoi caratteri formali, l’opera esiodea presenta una tipologia spiccatamente orale, così come avvenne certamente la sua diffusione. E’ tuttavia probabile che la scrittura fosse adibita come base per la memorizzazione e la trasmissione data anche l’impronta fortemente innovativa e personale dell’argomento. I temi di Esiodo risultano estranei alla tradizione rapsodica, ma l’influsso della poesia epica risulta fondamentale nella lingua, che è sostanzialmente la medesima dei poemi omerici, con sporadici aspetti beotici e con l’accentuazione di qualche tratto più recente. Pure di stampo epico è il tono generale dello stile, in cui predomina la formula, sovente attinta fedelmente alla tradizione rapsodica, altre volte variegata per esprimere i nuovi contenuti. Ma Esiodo introduce anche elementi personali della sua dizione, soprattutto quando ricorre a moduli appartenenti al sostrato popolare. Nell’architettura dell’assieme, i poemi esiodei dimostrano un’elaborazione artistica assai arcaica ed ingenua, nulla del calcolo che ispira la poderosa struttura dell’Iliade e dell’Odissea. Il tono dell’esperienza personale risuona ancora in un altro nucleo tematico della poesia esiodea. Si tratta del gusto per la descrizione dei fenomeni della natura e dei ritmi che regolano la vita del contadino, aspra e faticosa ma anche prodiga di gioie sapide e spontanee: il riposo all’ombra che ripara dall’arsura estiva, il canto della cicala, cibi semplici e vino mescolato ad acqua di fonte; e contro il gelo spietato dell’inverno, il piacere di uno spesso mantello e il rifugio di una dimora calda. La qualità artistica di Esiodo sta nell’atteggiamento di confronto diretto ed appassionato con la realtà, sia nella dimensione in cui si manifestano gli aspetti del mondo naturale, sia nella prospettiva che vede opporsi le tendenze buone e cattive della società umana. Egli esprime la sua visione secondo gli atteggiamenti di una solenne responsabilità, di una vitalità strenua e fiera, di una religiosità vissuta come istanza morale; e la sua parola è limpida e concreta, come il suo pensiero. Alla sua poesia non è ignoto un umorismo ruvido e contadinesco, né lo sdegno del giusto che vede la follia e la corruzione degli altri; da tutto ciò nasce un’intonazione variegata ed intimamente personale che trasfigura certi limiti degli strumenti formali ed esprime un’individualità che perentoriamente si pone alla fine di un’epoca e all’inizio di un’altra. Sebbene non paragonabile alla risonanza dei poemi omerici, l’opera di Esiodo lasciò tracce significative nella letteratura dei secoli immediatamente successivi. Al modello esiodeo risalgono le frequenti teogonie e cosmogonie in versi e in prosa, sia di ambiente orfico, sia prodotte da un’intenzione erudita. Ma è soprattutto come maestro di etica che Esiodo rivive nella poesia di altri generi; da lui Solone riprende l’energica esortazione all’equità sociale e il rifiuto della ricchezza smodata ed Eschilo attinge il tema di Prometeo. La grande epoca della fortuna esiodea è l’Ellenismo: i poeti alessandrini apprezzano le ridotte dimensioni dei suoi poemi, la minuziosa attenzione per gli aspetti quotidiani della realtà. Da Alessandria la suggestione di Esiodo penetra presto nella letteratura latina. E’ ancora il prologo della Teogonia che presta ad Ennio il motivo del poeta consacrato da un’investitura soprannaturale. L’influsso esiodeo a Roma rivive soprattutto nell’ambito del poema didascalico; Lucrezio recupera da Esiodo il programma di rifondare un nuovo sistema di valori attraverso il sapere, mentre nelle Georgiche di Virgilio il poema didascalico ritorna alla tematica originaria, la vita e l’attività dei campi, dove il lavoro dell’uomo trova un’autentica corrispondenza con i cicli e l’azione della natura. Pure l’elegiaco Tibullo presenta collegamenti con le Opere e i giorni, evocati dall’elogio della vita agreste e della pace. Nell’età imperiale, Esiodo è uno degli autori più amati e citati; con la fine dell’età antica, la sua fortuna declina e i suoi poemi riemergono a Bisanzio solo nell’XI secolo. Ciò va inteso non come una dimensione autobiografica, ma come la scelta di un punto di vista. Quando l’autore dice <<io>>, ciò non significa necessariamente che traduce in parole poetiche un’esperienza da lui realmente vissuta, ma tratta una situazione che può anche essere immaginaria secondo la dimensione intellettuale e sentimentale che ha scoperto in se stesso. In questa concretezza di riferimenti personale si determina la scala di valori che il poeta intende istituire, dando alla sua opera quella funzione “educativa” che è caratteristica di ogni attività poetica nel mondo greco. Il poeta ammaestra il suo uditorio sulla nuova percezione ed interpretazione del reale e, nel nuovo rapporto tra individuo e collettività, rappresenta l’espressione di una consapevolezza dinamica e sempre più matura riguardo alla forma e ai significati dell’esistenza. Il livello di elaborazione formale con cui i vari generi della poesia lirica compaiono all’inizio del loro corso storico fa pensare ad una lunga preistoria in cui tali forme si costituirono, si affermarono, si affinarono. Erano per lo più inni cultuali e rituali (tra cui le lamentazioni funebri), in una parola quella che si definisce poesia popolare. Le strutture sociali che costituiscono la sede privilegiata di quest’attività poetica e della sua esecuzione sono l’eteria maschile e il tiaso femminile. L’eteria è un’associazione di cittadini che poteva avere origine militare o professionale, a rappresentare un gruppo di cittadini di un medesimo ceto o collegati da comunanza di tradizioni familiari e scopi politici. Il tiaso è, invece, raccolto intorno al culto di una particolare divinità; può essere formato sia da uomini che da donne, ma è soprattutto nella forma femminile che ha rilevanza nella poesia lirica, come circolo di giovani che vengono istruite ed iniziate alla vita adulta da una compagna più anziana. Nell’ambito di questi gruppi, la poesia lirica viene recitata in due occasioni: la prima di queste è il simposio, esclusivamente maschile, dove i membri dell’eteria si raccolgono in un momento di vita consociata che costituisce circostanza di festa e di solidarietà in cui la poesia è espressione di bellezza; l’altra occasione è il rito, in cui la poesia è omaggio alla divinità. In funzione della struttura, nella poesia lirica si possono distinguere diversi generi: il giambo, l’elegia, la lirica monodica e la lirica corale. I primi tre sono generalmente riservati all’espressione di pensieri e sentimenti personali, mentre nella lirica corale è la collettività ad offrire lo sfondo per una grande varietà di forme accomunate da omogeneità di condizioni e di destinatari. La poesia giambica Il nome “giambo” designa sia un metro che ha per base l’omonimo piede formato da una breve e una lunga sia il genere letterario caratterizzato da tale schema metrico. Archiloco Gli antichi consideravano Archicolo poeta sommo allo stesso livello di Omero e i grammatici alessandrini curarono l’edizione critica della sua opera che però non sopravvisse alla fine della civiltà antica e della quale si posseggono circa 300 frammenti. Archiloco usa quali forme metriche tetrametri trocaici che hanno una dimensione più narrativa e distesa; giambi ed epodi nei passi più accesamente polemici e derisori e in quelli di carattere erotico, mentre le elegie evitano ogni oscenità e trattano motivi autobiografici. La radicale novità di Archiloco consiste nell’attingere la materia della creazione poetica dalla propria personale esperienza anziché dalla tradizione, come avveniva nell’epica; ed è per questo carattere di assoluta originalità che il giudizio dei moderni concorda con la suprema considerazione che gli attribuì la critica antica. I dati della biografia archilochea si desumono dalle sue opere, da interpretare tuttavia con una cautela, tenendo presente che l’io poetico non necessariamente coincide con l’io personale. Altre notizie si ricavano da riferimenti di autori antichi; in uno di questi è ricordata un’eclissi totale di sole che ebbe luogo nel 648 a.C., in un altro si parla della smisurata ricchezza di Gige, che regnò sulla Lidia dal 687 al 652 a.C. E’ possibile allora collocare la maturità del poeta intorno alla metà del VII sec. a.C.; la sua patria fu Paro, una delle Cicladi più grandi ed importanti. Il padre Telesicle apparteneva a nobile famiglia, ma la tradizione antica vuole che la madre Enipe fosse una schiava. Il bastardo era escluso dall’eredità paterna e forse per questa ragione Archiloco si trasferì nell’isola di Taso, dove militò contro i Traci; in seguito, fece ritorno a Paro e combatté contro gli abitanti di Nasso. Fu uno di questi, Calonda, ad ucciderlo in battaglia. La sua produzione presuppone un pubblico circoscritto e un’occasione specifica e ha una funzione pragmatica; il simposio o la riunione di un gruppo formato sulla base di una comunanza di cultura e di interessi appare la sede privilegiata per la diffusione di questa poesia. Se Archiloco risulta per un certo aspetto integrato nella società cui rivolge i suoi versi, è probabile che la sua iniziale condizione di escluso dall’aristocrazia lo avesse sollecitato a rivedere criticamente i valori tradizionali, contrapponendo ad essi una spregiudicata ed autonoma interpretazione dell’esistenza. Di fronte ad un sistema che si richiama ad un’immobile continuità di convenzioni, Archiloco rivendica il valore assoluto del presente e della circostanza. Il reale si rivela nella concretezza della situazione singola e solo dall’occasione l’uomo deve trarre le regole del proprio comportamento. Contrassegno della condizione umana è una fondamentale precarietà che non consente di prevedere e progettare il futuro; l’uomo deve salvare il proprio giorno esplorandone a fondo i significati, deve trovare in sé la sapienza di conoscere il ritmo che regola il destino suo e della collettività, sia la misura necessaria per fronteggiare gli eventi tristi e lieti senza un eccesso di disperazione o di esaltazione. L’esistenza vale la pena di essere vissuta con la gioia di saper gustare ogni attimo e con la consapevolezza che nella sua multiforme realtà risiede il valore frequenti nell’opera di Semonide il cui stile risulta troppo spesso sbiadito ed approssimativo. Ipponatte La storia del giambo arcaico si conclude con un poeta vissuto verso lo scorcio del VI sec., più di un secolo dopo Archiloco: si tratta di Ipponatte di Efeso. I mutamenti politici e sociali intercorsi in questo periodo incidono anche sulle trasformazioni subite dal genere, che non coinvolgono tanto le forme e i temi, quanto l’attitudine mentale dell’autore. L’aristocrazia è sulla via del tramonto, si afferma la tirannide e monta l’ondata dei nuovi ricchi. Grazie all’incremento delle attività commerciali, il nucleo cittadino si allarga, dando origine a una sorta di embrionale urbanesimo; l’economia monetaria allarga la divaricazione tra ricchezza e povertà e si può già parlare di bassifondi della città. Ipponatte è il poeta di questi bassifondi. Per motivi politici, dovette abbandonare la sua città e trascorse la vita a Clazomene dove finì per condurre la miserevole vita dell’esule. La recriminazione della propria povertà è in effetti uno dei temi portanti della sua poesia: Ipponatte rimprovera il dio della ricchezza Pluto di non essere mai entrato nella sua casa ed invoca Ermes di procurargli un mantello caldo ed altri indumenti perché è intirizzito dal freddo. Una parte della critica ha ricavato l’immagine di Ipponatte come poeta pitocco, protagonista di una vita picaresca, quasi un precursore dei poeti maledetti. In effetti l’ambiente che Ipponatte suole collocare sullo sfondo della sua poesia è una brulicante società di diseredati e di emarginati, fitta di violenza e di sesso; risse e botte, vanterie erotiche, truci minacce si inquadrano in una cornice di miseria, amaramente accusata, ma anche esibita con una sorte di ribelle ostentazione. Della produzione di Ipponatte restano poco meno di 200 frammenti, comunque sufficienti a dare l’idea di un artista dotato di multiformi capacità espressive e in possesso di un consumato bagaglio letterario. La sua originalità formale si rivela già nell’invenzione di un particolare metro, detto <<scazonte>> o <<coliambo>> ossia <<giambo zoppo>>. La sua lingua tende ad ignorare il modello epico; solo un passo è tutto costruito con formule omeriche, peraltro in chiave di parodia. E’ naturalmente da escludere che la sua opera vada intesa come “lirica pura” in senso moderno: ossia come un momento di ispirazione personale e non finalizzata ad un’occasione specifica. Il carattere preponderante di questa poesia è uno sfrenato estro comico: Ipponatte fa la caricatura di sé stesso e dei suoi personaggi, coinvolgendo il pubblico in un divertimento comune, data la libertà dell’insulto, in una performance che presenta in embrione caratteri affini a quella in cui si svilupperà la commedia. La poesia di Ipponatte nasce dall’istante e dalla situazione, come quella di Archiloco, ma la realtà non si trasforma in verità e questo è il limite del realismo ipponatteo. La sua straordinaria capacità di esasperare caratteri e situazioni fino al limite del paradosso, l’invettiva verbale imprevedibile e rivelatrice, la libertà della fantasia e, insieme, il controllo di un inflessibile rigore formale fanno di lui il modello e l’archetipo della commedia, l’avanguardia verso la scoperta del ridere come elemento proprio della condizione umana e come strumento per denunciare le aberrazioni di una società. La poesia elegiaca Il genere dell’elegia è caratterizzato dall’impiego esclusivo del metro detto appunto elegiaco, ovvero una breve strofa formata da un esametro epico e da 2 hemiepe (= la prima metà dell’esametro epico fino alla cesura semiquinaria) che nella forma grafica risultano raccolti in un unico verso, chiamato “pentametro”. Questa denominazione appare peraltro impropria, dato che nel cosiddetto pentametro cadono 6 accenti. Sull’etimologia e significato del termine “elegia” non esiste certezza; gli antichi lo collegavano con ελεγος <<canto di lamento>> o con il ritornello tipico delle lamentazioni; ma esiste anche la possibilità di metterlo in relazione con una parola non greca, che significava <<canna>> e poi <<flauto>>. Altrettanto oscura è la distinzione originaria di questo metro; sempre secondo i grammatici antichi, venne inizialmente usato per la lamentazione funebre. L’elegia veniva recitata con l’accompagnamento del flauto, richiedeva dunque 2 interpreti, a differenza della poesia accompagnata da strumento a corda. La sua struttura tende a favorire una forma chiusa che risultava funzionale all’originaria natura dell’epigramma, propriamente un’iscrizione su un oggetto di limitate dimensioni. La forma chiusa dell’elegia rappresenta una sostanziale modificazione rispetto alla continuità dell’epos; riusciva dunque idonea alla dimensione lirica che non ha come fine il racconto esteso ma l’esposizione incisiva ed essenziale di un pensiero o di uno stato d’animo. Eppure lo stile dell’elegia è quello che maggiormente risente dell’influsso dell’epos, da cui riceve lessico e formule e la sua base linguistica è il medesimo ionico dei poemi omerici. Sia i poeti giambici che elegiaci si rivolgono a un pubblico circoscritto, interpretano il rapporto con la comunità come l’espressione di atteggiamenti ed esperienze essenzialmente individuali. All’elegia restano estranei la tematica scoptica, beffarda e derisoria, e la veemenza dell’attacco personale, tipici del giambo. Callino Di poco anteriore ad Archiloco, è il primo poeta lirico di cui sia rimasta una traccia diretta: un’elegia di una ventina di versi e qualche altro brevissimo frammento. Nativo di Efeso, in Asia Minore, visse le invasioni dei Cimmeri e di altri popoli barbari che, nella prima metà del VII sec. a.C., calarono sulla costa ionica, devastando le colonie greche ivi insediate. Callino rimprovera i giovani della città, impreparati alla guerra che incombe; non La grandezza poetica di Mimnermo è nella descrizione delle reazioni fisiche in cui si manifesta l’emozione che lo coglie alla vista della bellezza dei giovani; ma tosto subentra la riflessone che questo fiore è di breve durata e che la vecchiaia triste e brutta incombe sul destino degli uomini. Questo motivo si trova ossessivamente ripetuto, come un’afflizione fatale che grava sul breve scorcio di felicità concesso dagli dei alla giovinezza. In un altro famoso passo, Mimnermo si augura di morire a sessant’anni, prima di soffrire malattie ed affanni; e Solone gli risponde con un sereno apprezzamento dei vantaggi della vecchiaia, protraendo il termine della vita agli ottant’anni. L’originalità di Mimnermo si afferma perentoriamente nell’inedita dimensione che egli dà alla scoperta dell’individualità umana. Il prepotente soggettivismo di Archiloco si trasforma in una considerazione generale sul destino degli uomini, anche se l’esperienza personale conferisce a questo pensiero il sapore di un’appassionante concretezza; diverso è l’atteggiamento del poeta davanti alla condizione umana; la rilevanza attribuita al momento non vale come spunto e fondamento dell’azione, bensì è passiva constatazione dell’inconciliabilità tra il presente e la durata. Il momento è vissuto non per il suo intrinseco valore, ma come lancinante sentimento di una precarietà che lo travolgerà in qualcosa di mutato e di peggiore. La trasformazione diventa la legge dell’esistenza e guida a scoprire la molteplice dimensione del tempo. La vecchiaia sarà memoria e rimpianto della giovinezza, la giovinezza è attesa e sgomento di fronte alla vecchiaia. Quest’intuizione si risolve in un accorato pessimismo parallelo agli accenni riscontati in Semonide, ma la voce di Mimnermo è di gran lunga più intensa. Solone La poesia di Solone non si rivolge a circoli privilegiati ma all’intera cittadinanza ed acquista una dimensione pubblica nel senso più lato del termine. E’ la voce di un’esigenza comune, non di un partito. Con Solone la società ateniese diviene consapevole della funzione politica che può avere la poesia, come dibattito collettivo sui problemi che coinvolgono lo stato e le norme etiche che ne garantiscono la prosperità. Si tratta di un’interpretazione del fatto artistico che rimarrà fondamentale per la cultura di Atene e che costituirà il carattere del suo maggior prodotto, il teatro. Alla sua base sta la convinzione che l’elemento estetico debba rientrare in ogni aspetto della vita pubblica. Testimoni antichi accertano la ragguardevole ampiezza della sua produzione, le cui elegie assommavano a circa 5000 versi, ma compose anche in giambi e tetrametri trocaici. Di questi rimangono circa una ventina di frammenti, mentre più di 200 sono i versi elegiaci tramandati dalle fonti indirette. Per quanto si può desumere dai resti, sembrava che le elegie fossero soprattutto dedicate alla tematica politica ed etica e che alle forme giambiche ed affini venissero riservati i contenuti personali. Solone nacque intorno al 640 a.C. da nobile famiglia. Atene stava attraversando un periodo di rapida e tumultuosa espansione politica ed economica; pare che tra i primi interventi pubblici del poeta rientrasse un’elegia in cui esortava i concittadini alla conquista di Salamina, contesa da Megara. In seguito alle sconfitte subite, gli Ateniesi avevano abbandonato il progetto di annetterla, decretando la condanna a morte per chi l’avesse riproposto; Solone aggirò la minaccia fingendosi pazzo e la sua elegia costituì l’incentivo per la ripresa delle ostilità, nella maniera dell’esortazione bellica di Callino e Tirteo. Incisivo fu l’intervento di Solone sulla politica interna della città; la soverchiante potenza economica dei latifondisti aveva ridotto i salariati e i piccoli contadini in uno stato di perenne indebitamento che ne provocava l’esproprio e la schiavitù. Solone fu delegato a risolvere questa crisi che esponeva la città al rischio di rivolta e promulgò un provvedimento che impediva la schiavitù per debiti e le ipoteche sui campi, fissando i termini di una più vasta riforma istituzionale. Il centro dell’insegnamento etico di Solone, che si risolve in un’armoniosa integrazione con la vita sociale, è la maestosa elegia “Alle Muse” in 76 versi; ha la forma di una preghiera alle divinità dell’arte, come segno dell’ideale estetico assunto a norma dell’esistenza civile. Solone si augura di godere delle gioia della vita, ma rifiuta di ottenerle per mezzo dell’ingiustizia e della violenza; il suo sostanziale vitalismo lo porta a prendere interesse per ogni aspetto della vita umana, perché l’uomo non si esalti troppo per il successo né si opprima per l’insuccesso e, soprattutto, conosca che ad υβρις, la <<tracotanza>>, segua inevitabilmente ατη, la <<rovina>>. Dopo aver promulgato le sue leggi, Solone scelse di partire da Atene per un lungo viaggio fino all’Egitto e Cipro. La tradizione vuole che decidesse di restare lontano dalla città per non trovarsi costretto a revocare i suoi provvedimenti. Certo non gli mancarono critiche. Solone chiama a testimone la terra patria: è opera sua se i cittadini, venduti come schiavi o ridotti all’esilio tanto da dimenticare persino l’idioma attico, sono restituiti alla patria e alla libertà. La legge di un’armonia che da qualità interiore diviene solidarietà con gli altri uomini ispirò anche la vita privata di Solone. Un frammento definisce felice l’uomo che ha giovani che lo amano, veloci cavalli, cani per la caccia e un ospite straniero; un altro proclama la gioia dell’amore, del vino e della poesia e, rispondendo a Mimnermo, Solone confuta il desiderio di morire prima del decadimento della vecchiaia con l’esortazione a godere la vita fino agli ottant’anni. Il panorama etico di Solone può essere accostato alla fiducia esiodea in una superiore legge di giustizia; ma Solone trova una forte originalità nella stretta interrelazione di questa moralità con le situazioni politiche e pubbliche, da cui trae motivo la sua poesia. L’uditorio di Solone è la totalità della cittadinanza e pertanto è portato ad esprimersi con la massima evidenza e pragmaticità. Anche quando tendono all’universalità e all’astrazione, i suoi concetti sono manifestati in immagini di impressionante realismo: la sua lingua è lo ionico della tradizione epica ed elegiaca, melodia anziché quella del semplice recitativo; inoltre, la struttura del carme risultava caratterizzata dall’impiego di vari tipi di strofe o stanze che si ripetono identiche all’interno di ogni singolo componimento. La più antica ed importante fase della lirica monodica si esprime nell’attività di 2 grandi poeti, Saffo ed Alceo, che vissero entrambi nell’isola di Lesbo, nella parte N-occidentale dell’Egeo, in prossimità della costa asiatica, ed abitata da una popolazione di stirpe eolica. La raffinatezza formale di questa poesia fa supporre che essa fosse preceduta da una lunga fase di elaborazione che verosimilmente traeva le sue origini remote dal canto popolare. Le fonti attribuiscono particolare rilievo nello sviluppo della lirica a due poeti vissuti in precedenza e pure originari di Lesbo, ma attivi poi in altre parti della Grecia: Terpandro ed Arione. La strofa monodica è generalmente di ridotte dimensioni, fino ad un’estensione di quattro versi ed è probabile che in ciascuna strofa venisse ripetuta la medesima melodia. La metrica eolica è caratterizzata dal principio dell’isosillabismo, cosicché il verso consta sempre del medesimo numero di sillabe. La lingua è il dialetto di Lesbo per Saffo ed Alceo, Anacreonte usa, invece, lo ionico. La poesia monodica si rivolge solitamente ad ambienti circoscritti e specifici che condividevano le convinzioni etico-sociali, politiche e letterarie dell’autore, sia che questi gruppi fossero l’eteria di Alceo, il tiaso di Saffo o la corte dei tiranni presso cui operò Anacreonte. La tematica si concentra sui motivi dell’amore, della politica e della situazione conviviale. Ma è soprattutto la temperie estatica della passione amorosa che trova naturale espressione in una forma artistica cui è connaturata la musica. Al tempo stesso, l’esperienza dell’amore si presenta come la sollecitazione primaria a scoprire se stessi in una dimensione unica ed irripetibile che indirizza il poeta alla profondità dell’introspezione e all’affermazione della propria individualità. Saffo La grande poesia di Saffo si svolge intorno a un solo tema che è anche uno dei fenomeni essenziali della vita dell’uomo e del cosmo: l’amore. Rispetto ad Archiloco, il maggiore tra i poeti lirici che l’hanno preceduta, Saffo punta programma-ticamente ad un obiettivo assai più ristretto. Carattere della sua arte non è più una potente capacità di adattare la propria condizione ad ogni evento; al contrario, Saffo sceglie un aspetto singolo della realtà come percorso in cui investigare dentro di sé la dimensione perenne della psiche e del sentimento. Non è un caso che ad interpretare il sentimento d’amore sia per la prima volta una donna, per diverse ragioni. In primo luogo, la donna è organicamente legata ai cicli della riproduzione e delle verità ultime della natura, di cui è parte essenziale il mistero dell’attrazione amorosa. Inoltre, a un livello più contingente, in Grecia la donna era esclusa sia dalle cure della guerra e della politica, sia dalle attività sociali ed economiche della comunità. Nell’ambiente femminile in cui si svolge la vita di Saffo risultano allentate l’aspra lotta per l’esistenza e l’oltranzosa competitività. L’agonismo connaturato allo spirito greco diventa in lei rivalità d’amore; una tra le tante manifestazioni di quella tensione dell’animo che Saffo contempla nell’ardore dei suoi sentimenti, per trasferirne la valenza assoluta nella poesia. Saffo nacque probabilmente ad Ereso, in Lesbo, ma trascorse la maggior parte della vita nella città più importante dell’isola, Mitilene, a cavallo tra il VII e il VI sec., contemporanea, dunque, del suo compatriota Alceo. Di famiglia aristocratica, sappiamo ebbe un marito, il mercante Cercila di Andro, e una figlia, Cleide. Un frammento ne paragona orgogliosamente la bellezza ai fiori d’oro e un altro le rivolge singolari quanto graziose istruzioni per l’acconciatura del capo. Una diffusa tradizione voleva che Saffo fosse morta gettandosi dalla Rupe di Leucade, perché il giovane Faone aveva respinto il suo amore; ma Faone era una figura mitica connessa con la cerchia di Afrodite e Saffo ne aveva fatto menzione nei suoi canti; ed è probabile che da qui i poeti della commedia avessero tratto lo spunto per tale irrisoria deformazione. Non si può escludere che sempre ai medesimi estri comici risalisse la diceria che le negava ogni fascino dell’aspetto, descrivendola bassa di statura e scura di carnagione, ma Platone definì Saffo <<la bella>>. Su un altro aspetto della biografia di Saffo si accanirono le maldicenze dei comici; oggetto esclusivo dell’amore di Saffo è una schiera di giovani donne, alle quali essa rivolge i suoi canti. Sulla natura di questo legame si è a lungo discusso fin dall’antichità, secondo una concezione moralistica che riluttava a far gravare sulla sua grandezza poetica il sospetto dell’omosessualità. La questione va risolta alla luce di una più matura conoscenza storica, che s’addentra sulla natura del tiaso lesbico e riconosce il carattere iniziatico che l’omosessualità, sia maschile che femminile, rivestiva nel costume greco. In senso lato, il tiaso è una comunità a sfondo religioso e culturale, devota ad una particolare divinità. Nell’ambiente raffinato di Lesbo, a quest’istituzione era attribuita una più complessa funzione pedagogica, in cui, accanto alla pratica del culto per Afrodite, si sviluppa la formazione sia artistico-musicale sia sociale delle giovani. L’educazione dei sentimenti era parte integrante di questo apprendistato alla vita adulta ed all’esperienza del matrimonio e l’eros omosessuale tra Saffo, che fu a capo di un tiaso, e la fanciulla di volta in volta affidata alle sue cure rientrava in una realtà comunemente accettata e considerata normale. Nell’edizione curata dai grammatici alessandrini la copiosa produzione di Saffo era sistemata in 9 libri, suddivisi secondo i diversi schemi metrici. Il primo libro, verosimilmente il più esteso, comprendeva le odi in strofe saffiche; seguivano poi i libri dei carmi in pentametri eolici, in tetrametri ionici e quelli in metri misti; dei libri successivi non si sa nulla, ma il nono ed ultimo conteneva i carmi epitalami in In un’ode essa rievoca all’amica Atthis una compagna che ora si trova in Lidia e la notte lunare si trasforma nell’ambiente di una nostalgica rievocazione dell’amore che ancora la unisce alla donna lontana. Un’altra ode coglie lo strazio del distacco, che solo il ricordo delle trascorse gioie può attenuare, senza peraltro vincere il desiderio di morte che la separazione suscita in Saffo. Andamento più elaborato ha un terzo carme; ciò che si ama è la cosa più bella, come dimostrò Elena, abbandonando gli affetti della vita domestica, per seguire l’uomo che amava; e così, Saffo, più che i fulgidi carri di battaglia dei Lidii, vorrebbe rivedere il soave incedere e il volto radioso di Anattoria. Questa ribadita supremazia dell’amore non è soltanto lo sfogo di un’inclinazione individuale. Essa trae origine dal carattere iniziatico del tiaso, in cui l’esperienza omosessuale era vista come preparazione all’amore eterosessuale. I carmi di Saffo erano parte integrante di questo processo e per tale aspetto rivendicano quella funzione pragmatica ed educativa che per la civiltà greca è indissolubilmente legata all’attività poetica. Al tempo stesso, costituivano un’autentica dichiarazione amorosa, predisponendo le fanciulle a riconoscere nell’eros la fondamentale esperienza della loro vita presente e futura e a corrisponderlo nei riguardi di chi lo offriva con il prestigio della poesia. In tale quadro rientrano anche i passi in cui Saffo approfondisce la psicologia dell’amore. Sede dell’emozione amorosa è l’animo ma essa si riflette immediatamente in travolgenti reazioni fisiche. L’esito più alto di questa nativa sensibilità per la compenetrazione degli atti dell’interiore del corpo è un’ode di cui restano le 4 strofe iniziali e che fu ripetutamente imitata, tra l’altro in una celebre poesia di Catullo. A vedere una giovane che parla e sorride all’uomo che le sta di fronte, essa sente che quest’eletto è pari a un dio; non perché Saffo sia gelosa della sua sorte, ma perché egli è tanto forte da non provare turbamento. Invece a lei il cuore balza nel petto e le si arresta la voce, un brivido ardente scuote il corpo, gli occhi si accecano e rombano le orecchie, un gelido sudore la pervade e si sente prossima morire. La mirabile essenzialità e concretezza dei dettagli definisce il carattere primario dello stile di Saffo. La sua parola corre alla verità delle cose, risolve i fenomeni dell’esistenza nei dati di fatto. Al tempo stesso, Saffo possiede una straordinaria capacità di trasfigurare i fenomeni della realtà in un aura musicale, suscitata da una sapiente scelta di immagini, di vocaboli, di suoni che trasferisce i dati dell’esperienza in una sorta di incantato paradiso terreno, dove domina la legge dell’armonia e della bellezza. Saffo confuta esplicitamente il mondo dei valori dell’epos. Pure nella dimensione dello stile si manifesta questa volontà di reazione ed innovazione. Anche a lei era impossibile prescindere dal patrimonio della lingua poetica che avevano istituto i poemi omerici. Ma da essa Saffo si distacca energicamente nella propensione ad accentrare il discorso poetico sull’essenza dei fatti e dei sentimenti, secondo le norme di un’economia espressiva che diventerà il contrassegno della grande arte greca. L’universo artistico di Saffo è pervaso da una luminosità magica e reale al tempo stesso, in cui domina il senso della bellezza che Saffo orgogliosamente rivendica come garanzia dell’immortalità che le assicura la sua opera. Questo gusto del bello, che regola i fatti dell’esistenza quotidiana, poté essere influenzato dai rapporti con la cultura orientale, che riuscivano facilitati dalla prossimità con la Lidia. Ma l’atteggiamento di Saffo di fronte all’esistenza è tipicamente greco. Accade che l’amore sia tormentato, ma esso è soprattutto la manifestazione suprema della gioia di esistere, che nella mentalità ellenica coesiste con il dolore innato alla vita. L’attitudine estetica è la misura di ogni comportamento ma è soprattutto regola della vita comune. Per quell’aspetto della mentalità greca che si esprime nella poesia saffica, il bello appartiene ad ogni momento e ad ogni forma della vita, non deve essere l’eccezione ma la normalità dell’esperienza. Nell’aver intuito questa verità, esprimendola nei modi di un’arte, che comprende e trascende anche la sofferenza, sta la grandezza poetica di Saffo. Un vaso attico di V sec. rappresenta una donna che legge poesie di Saffo a un gruppo di ascoltatori: è il primo attestato sicuro della sua fama, insieme ad un riferimento di Erodoto. Nel IV sec. Platone ed Aristotele dimostrano che Saffo era comunemente ascritta nel novero dei poeti più famosi. Nell’età ellenistica la poetessa Nosside si vanta di essere l’erede di Saffo e Teocrito riecheggia più volte motivi saffici; ma soprattutto i poeti latini celebrano e riprendono la sua lirica. Catullo, che allusivamente dà alla sua amata il soprannome di Lesbia, introduce la strofa saffica nella poesia romana, compone su modello di Saffo epitalami, traduce uno dei suoi carmi più famosi. Orazio imita più volte spunti di Saffo, Ovidio ritorna sulla romanzesca tradizione dell’amore di Saffo per Faone. Per la critica della prima età imperiale Saffo rappresenta un valore assoluto, ma all’inizio del Medio Evo la tradizione diretta di Saffo scompare. A trarre ispirazione da Saffo sarà Racine per rappresentare la passione dell’eroina nella sua “Fedra” e ancora all’immagine tradizionali della poetessa frustrata dall’amore si ispirò Leopardi per uno dei suoi carmi più famosi “L’ultimo canto di Saffo”, elegiaco lamento sul valore arcano del vivere e sull’agonia delle speranze. All’amore e alla morte di Saffo allude anche il Foscolo nella penultima strofa dell’ode “All’amica risanata”.