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Appunti di Letteratura greca - 3, Appunti di Letteratura

appunti di letteratura greca - 3° parte

Tipologia: Appunti

2014/2015

In vendita dal 18/07/2015

silvana_ruggeri
silvana_ruggeri 🇮🇹

4.8

(6)

29 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti di Letteratura greca - 3 e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! La Tragedia L’invenzione del teatro rappresenta uno degli apporti più importanti trasmessi dall’antica Grecia alla civiltà europea. La rappresentazione teatrale era soggetta ad un complesso di condizionamenti a cui gli autori adattavano la composizione delle loro opere, sia per quanto riguarda le situazioni pratiche dell’evento teatrale, sia rispetto al rapporto con il pubblico e le sue aspettative. Questo rapporto implica due caratteristiche fondamentali: il teatro si rivolge ad una collettività e non al singolo individuo; inoltre, presuppone una fruizione diretta del testo, ossia fondata su un’esperienza visivo-auditiva, anziché mediata dalla lettura. Il teatro greco raggiunse una forma e una produttività originali ed universali ad Atene. Qui, fin dai suoi primordi, la rappresentazione teatrale fu un fenomeno innanzitutto religioso, che aveva luogo nel contesto delle celebrazioni festive in onore del dio Dioniso. In origine, i Greci a teatro sentivano non soltanto di assistere ad uno spettacolo, quanto soprattutto di partecipare a un rito. Quest’intensa consapevolezza della sua natura religiosa esercitava un influsso determinante anche nella composizione del dramma: in genere i soggetti tragici sono ispirati al mito, ossia rappresentano episodi appartenenti alla storia sacra del popolo greco; e la tragedia tende a configurarsi come un’indagine sulla problematica natura della divinità. In secondo luogo, gli spettacoli teatrali erano anche un fatto politico di grande rilievo. La loro organizzazione era gestita dallo stato, ma l’interesse della collettività aveva una portata ben più generale. Ciò è da ricercare nella funzione educativa che i Greci ritenevano connaturata ad ogni manifestazione artistica; ma trova la sua ragione primaria nella struttura politica di Atene nel V sec; stante la sua costituzione democratica, la rappresentazione teatrale costituiva un’occasione esemplare di esperienza e di vita collettiva. Un terzo elemento tipico del fatto teatrale è il suo carattere agonistico, connaturato alla mentalità greca. Nella gara, inserita in un rituale divino e sanzionata da un sito pubblico, aveva sfogo, oltre che una ratifica religiosa e civile, la competitività endemica della società greca. In Atene si svolgeva un concorso tra gli autori delle opere rappresentate nelle feste drammatiche; un collegio di giudici, scelto in tutta la cittadinanza con un complicato sistema di sorteggio che avrebbe dovuto escludere qualsiasi sospetto di parzialità, stabiliva tra i concorrenti una graduatoria, in base alla quale si assegnavano dei premi. Il teatro era dunque l’ideale punto di fusione di 3 momenti: religioso, politico e da agonistico; la rappresentazione era al tempo stesso rito, assemblea e gara. Le rappresentazioni teatrali in Atene erano concentrate nel periodo di due festività dionisiache. Le Lenee avevano luogo nel mese di Gamalione (gennaio-febbraio) alla presenza di un pubblico esclusivamente ateniese e duravano 3-4 giorni; in questo ciclo di spettacoli l’epicentro era costituito dalla commedia, mentre alla tragedia era riservato un ruolo marginale. Di gran lunga più importanti erano le Grandi Dionisie, o Dionisie Urbane, che si svolgevano durante 7 giorni nel mese di Elafebolione (marzo-aprile), quando l’inizio della primavera richiamava nella città una folla di forestieri da ogni parte del mondo greco. Tutta al collettività era assorbita in una sfera diversa dal quotidiano e diventava in un certo senso parte dello spettacolo; entrava così in una dimensione mimetica ce che contribuiva ad abolire ogni soluzione di continuità tra spettacolo e spettatori. Le rappresentazioni duravano dalla mattina al tramonto. Gli autori erano selezionati da un magistrato, l’arconte eponimo, tra quanti avevano sottoposto i loro drammi a un esame preliminare. Al concorso tragico erano ammessi tre poeti, che presentavano uno per giorno un complesso formato da 3 tragedie e 1 dramma satiresco; un altro giorno era dedicato alla rappresentazione delle commedie, una per ciascuno degli autori ammessi, in origine pure 3, portati a 5 epoca più tarda. lo è la realtà abbandonata provvisoriamente all’atto di partecipare alla festa teatrale. L’identificazione totale del pubblico con l’evento scenico rappresenta l’atteggia-mento originario dei Greci nei confronti dell’esperienza teatrale e solo in un’epoca più avanzata il teatro divenne per loro un’occasione di intrattenimento, sia pure di alta qualità intellettuale. Il problema delle origini della tragedia è una delle controversie cruciali della filologia classica; e non sembra ammettere una soluzione certa, anche per la contraddittorietà delle fonti. In quest’indagine bisogna poi distinguere due piani diversi; il primo è costituito dai precedenti che concorsero alla creazione del genere tragico e che tuttavia non sono ancora la “tragedia”; il secondo e più importante livello riguarda l’invenzione e la rappresentazione della “prima” tragedia, in quanto contraddistinta da un sistema di caratteristiche peculiari ed innovatrici, che vennero richiamate nelle fasi della successiva evoluzione del genere tragico come elementi fondamentali della sua identità. Queste caratteristiche sono l’assunzione di un’identità alternativa, ossia propriamente “teatrale” da parte dell’attore, la struttura dell’organismo drammatico, l’idea del tragico. Quale fu la prima tragedia e quando fu rappresentata? La data intorno al 534 a.C., in cui Tespi avrebbe messo in scena la prima rappresentazione tragica ad Atene, è evidentemente una convenzione, sia che riposi o meno su una realtà storica. L’invenzione della tragedia si ha quando per la prima volta un uomo che espone una storia esce dalla propria identità anagrafica e riveste quella di un personaggio, storico o mitico. In tale nuova condizione, che è già quella dell’attore, egli si contrappone al coro, attraendo anche questo fuori dalla sua identità. Accade così che, in una dimensione temporale che identifica il passato con il presente, l’attore e il coro si propongano come protagonisti di una nuova realtà la cui forza mimetica attira pure quanti vi assistono. Grazie a questa trasformazione, che da individuale diviene collettiva, può prodursi il passaggio fondamentale dal racconto all’azione, sì che l’evento non sia più narrato ma vissuto; e questo passaggio è l’operazione magica che si deve considerare una delle componenti primarie del teatro. Nel teatro esiste sempre una mediazione tra racconto ed azione e tale mediazione è rappresentata dalla parola che può articolarsi nel discorso o nel canto; in seguito si sperimenteranno alcune invenzioni capitali (articolazione dell’azione attraverso gli interventi dell’attore, scansione delle parti cantate e di quelle recitate distribuite lungo la sceneggiatura, introduzione di altri attori), ma i connotati della tragedia rimarranno quelli fissati dalla sua prima fondamentale apparizione. Momento concettuale della tragedia è quando l’uomo si trova di fronte alla folgorante rivelazione della dimensione tragica che è connaturata alla sua esistenza, allorché intuisce la legge di un contrasto insanabile che mina alla base la vita umana. Questa scoperta trova nell’azione, ossia nel dramma, il proprio naturale veicolo d’espressione e la tragedia nasce quando l’uomo scopre che nell’azione teatrale gli è dato di vivere un’altra realtà e che in questa realtà egli può manifestare la grande terribile verità che gli è stata rivelata: che la vita è un in espiabile dolore, La più nota delle fonti intorno alla preistoria della tragedia è un passo della Poetica di Aristotele, dove si dice che la tragedia sarebbe nata da ditirambo, più precisamente dal coloro che lo guidavano, che si sarebbero contrapposti al coro con una embrionale funzione di attori. Questa informazione è integrata da altre testimonianze di Erodoto e di epoca più tarda; da queste notizie si ricava che il lirico Arione è considerato inventore della tragedia; a lui risalirebbe l’introduzione dei satiri che <<pronunciavano parole in metro>> recitato, ossia giambico o trocaico, in contrapposizione al canto. In un secondo filone di fonti, i “cori tragici” appaiono originariamente adibiti a celebrare i patimenti (παθεα) di un eroe e trasferiti, solo secondariamente, alla sfera dionisiaca. Altrettanto secondaria è la discordanza dei dati intorno alla localizzazione di questi primordi. In genere riportano la preistoria della tragedia all’ambiente dorico; lo stesso Aristotele afferma che il nome δραμα deriva dalla circostanza che i Dori usavano il verbo δραν, laddove gli Ateniesi dicevano πραττειν (<<fare>>, <<agire>>). La contrapposizione si risolve negli stessi testi tragici: per gli autori del genere, la tragedia appartiene esclusivamente ad Atene, nella forma e nell’ispirazione concettuale. La tragedia costituisce dunque un genere letterario caratterizzato da certi presupposti culturali, cioè ”l’idea del tragico”, dal ricorso ad uno specifico ambito tematico e da un complesso di regole strutturali. A queste norme si adeguano gli autori, pur conservando la libertà di operare adattamenti ed innovazioni. La tragedia si rivolge ad una collettività di uomini per via visivo-auditiva e questo fatto esige uno specifico sistema di riferimenti che agevolino la ricezione e la comprensione del messaggio scenico, sia a livello semantico, sia ad un superiore livello concettuale. Inoltre, la tragedia, nella sua dimensione di spettacolo, è vincolata a condizionamenti imposti dalle necessità pratiche della rappresentazione. La tragedia si pone, dunque, come un prodotto che risponde a un sistema di norme e i poeti tragici sono artisti che compongono opere adeguandosi alle esigenze e al gusto del committente: il pubblico ateniese. Autori e pubblico “convenivano“ sui modi in cui dovesse svolgersi una tragedia, nella sua organizzazione formale, che si articolava lungo una successione significativa di parti sostanzialmente fisse, a ciascuna delle quali erano attribuite precise caratteristiche e funzioni. Ogni drammaturgo presentava al concorso tre tragedie: queste potevano collegarsi in un omogeneo complesso tematico, in cui i destini di un eroe o di una stirpe erano scanditi lungo i loro momenti più significativi, in una “trilogia” nel senso proprio del termine, come accade per lo più in Eschilo. Altrimenti le tre opere potevano essere indipendenti una dall’altra, secondo l’uso preferito da Sofocle ed Euripide. perentoriamente su di sé la responsabilità della propria sorte; vive nell’isolamento, si misura da solo con il proprio destino e, anche quando tra i protagonisti di una medesima tragedia sussistono rapporti interpersonali, ognuno di loro vive in fondo un suo particolare fato che si incrocia con quello degli altri, ma non ne è determinato se non nelle circostanze esteriori. La legge suprema della necessità imposta dagli dei è l’arbitrio: e può accadere che,a conclusione dello scontro tra la volontà dell’eroe e la costrizione che gli è opposta, la vicenda si chiuda con una conciliazione che sembra premiare l’uomo, mettendo in dubbio la concezione di una tragedia necessariamente conclusa dalla sua rovina. Ma pure in questo caso, il conflitto tragico rimane; la necessità divina può imporsi anche assecondando i progetti umani, in modo che tuttavia l’uomo abbia dovuto subire la propria impotenza di fronte all’ignoto e provare il presentimento della sconfitta. Ci si può chiedere se lo scopo della tragedia fosse didascalico-etico. Aristotele parla di purificazione della pietà e del terrore, la καταρσις tragica ha funzione di risanare l’uomo; la tragedia, afferma Aristotele, <<è più filosofica della storia>> in quanto consente una conoscenza più profonda, che trascende il particolare per attingere all’universale. Eschilo Dopo la vittoria sui Persiani, la posizione egemone raggiunta da Atene grazie anche ad un’accorta politica economica, l’aveva arricchita, alleviando i cittadini dalle più urgenti necessità di sostentamento e favorendo la costruzione di monumenti di straordinario prestigio. La vita politica, sociale e culturale era improntata ad uno straordinario dinamismo, urgeva l’esigenza di affrontare secondo un’ottica nuova le problematiche relative alla natura e al destino dell’uomo e al suo esistere nel mondo. La tragedia, grazie al suo carattere di esperienza collettiva in cui trovavano un punto di fusione le istanze religiose e quelle in senso lato politiche, costituiva la sede ideale per una meditazione sulla realtà, che coinvolgesse non più i singoli o un gruppo, ma l’intero corpo della comunità. In questo contesto si inserisce la personalità di Eschilo, alla cui genialità si devono sostanziali innovazioni che consentirono alla tragedia di sviluppare tutte le sue potenzialità concettuali, artistiche e spettacolari. Si devono ad Eschilo l’aumento del numero degli attori da uno a due, grazie al quale divenne possibile introdurre il confronto e l’opposizione di individui ed idee; e l’incremento delle sezioni riservate al dialogo, con conseguente riduzione delle parti corali. Eschilo nacque, da nobile famiglia, intorno al 525 a.C., nel demo attico di Eleusi, sede di più famosi misteri del mondo greco; figlio di Euforione, cominciò in giovane età a comporre per il teatro, segnalandosi fin dall’inizio, non soltanto per l’altezza dell’ispirazione, ma anche per la grandiosità dell’apparato scenico e il fasto dei costumi, nonché per le cure rivolte alla coreografia e all’interpretazione degli attori; egli stesso era solito recitare nei suoi drammi. Prese parte alle guerre persiane nel 490 e nel 480; l’epigramma inciso sulla sua tomba, che la tradizione vuole composto da lui stesso, celebrava il valore di Eschilo nella battaglia di Maratona, dove cadde il fratello Cinegiro. La prima vittoria di Eschilo nei concorsi tragici risale al 484 con un’opera ignota; secondo le fonti vinse tanti altri concorsi, 13 in vita e 15 postumi, dato l’omaggio che gli Ateniesi vollero attribuirgli rappresentando sue tragedie anche dopo la morte. L’ultima vittoria in vita fu nel 458 con l’Orestea. Fu 2 volte in Sicilia e qui, precisamente a Gela, morì nel 456 intorno ai settant’anni. Una scelta formatasi nella tarda età imperiale, tra il III e il IV sec d.C., ha conservato 7 tragedie di Eschilo, ma sono solo una minima parte della sua produzione che si aggirava intorno a 90 opere, tra tragedie e drammi satireschi. Di questo complesso rimangono la maggior parte dei titoli, qualche centinaio di frammenti e, recentemente, alcuni testi papiracei. Persiani Rappresentati nel 472, hanno per soggetto un evento contemporaneo; la disfatta dell’armata di Serse, costituiscono la prima tragedia greca conservata in forma integrale, con pronunciati caratteri arcaici nella staticità della situazione, nell’estensione delle parti corali. L’evento, ossia la rovina dell’esercito persiano, è dapprima presagito nell’ansia dei consiglieri di corte e dal sogno angoscioso della regina Atossa; quindi, la catastrofe è annunciata nella sua effettiva realtà dal racconto del messaggero, che porta la notizia del disastro di Salamina. Il nucleo della tragedia è l’elogio di Atene, in cui il pubblico e lo stesso autore dovettero esaltarsi al fresco ricordo del valore degli uomini e nel vanto di una struttura politica che garantiva la libertà e l’uguaglianza dell’individuo. Ma il senso del tragico ispira il rovesciamento di prospettiva, per cui Eschilo – come Frinico – subordina la glorificazione della propria città al dolore dei vinti, facendo di questi i protagonisti del dramma e concentrando la maggiore tensione nella loro afflizione. La sconfitta di Serse è punizione ma soprattutto constatazione disperata della precarietà della condizione umana; e sul patriottico compiacimento del vincitore finisce per prevalere la pietosa meditazione sull’atrocità della guerra, che ha stroncato tanti valorosi guerrieri, i cui nomi erano risuonati con esotico fasto nell’introduzione del coro. Sette a Tebe Costituiscono la tragedia conclusiva di una trilogia organica che ottenne la vittoria nel 467 e di cui facevano parte Laio, Edipo e il dramma Sfinge. Tema complesso era dunque il destino che si abbatté sulla casa dei Labdacidi, fino a condurla all’estinzione nel giro di 3 generazioni; i due figli di Edipo giungono al fatale scontro che li vedrà uccidersi a vicenda. Anche qui la tragedia è vista secondo una prospettiva unica, quella di Eteocle, re di Tebe, contro cui il fratello Polinice ha mosso un potente esercito, che si addossa il ruolo di difensore della città, di fronte al coro delle donne atterrite. Prometeo incatenato Sono ignote sia la data sia le contingenze della rappresentazione; ma più gravi incertezze coinvolgono l’attribuzione stessa dell’opera ad Eschilo, sia per ragioni stilistiche, sia per la fragilità di una drammaturgia estremamente patetica, sia per la denigratoria raffigurazione di Zeus. Il Titano Prometeo è punito da Zeus per i benefici che ha donato agli uomini; due scherani del re degli dei, Kratos e Bia (Violenza e Forza) lo incatenano ad una rupe ai limiti del mondo, esposto ad ogni tempesta e un avvoltoio gli divorerà in eterno il fegato, che sempre si rigenera. Prometeo è il protagonista positivo della lotto contro un antagonista ostile a lui e alla razza umana, il sovrano dell’ultima generazione divina, Zeus. Costui si vale del suo potere assoluto, di recente conquistato, per violare ogni principio di riconoscenza (Prometeo lo aveva aiutato nella lotta contro i Titani), di giustizia, di solidarietà con il genere umano. Ma Prometeo conosce un segreto, in cui può consistere la rovina di Zeus: sa che Teti, al cui amore Zeus aspira, è destinata a generare un figlio più potente del padre; Zeus tenta di estorcergli questo segreto in cambio della liberazione, ma Prometeo rifiuta; egli non rinnega il suo ruolo di protettore degli uomini e si rivela il campione della propria libertà interiore e dell’opposizione al dispotismo. La tragedia conquista un altro dei suoi significati fondamentali: la superiore dignità dell’eroe, che sa scontare l’autonomia del proprio destino con le sofferenze più atroci e resiste alle seduzioni del vivere comune. Orestea-Agamennone La carriera drammaturgia di Eschilo ci conclude con l’Orestea, che ottenne al vittoria nel 458 ed è l’unica trilogia conservata per intero: Agamennone, Coefore, Eumenidi sono i titoli delle tragedie che la compongono. I tre drammi portano rispettivamente sulla scena l’uccisione di Agamennnone, al suo ritorno da Troia, per mano della moglie Clitemnestra istigata dall’amante Egisto; la vendetta che su entrambi prenderà Oreste, figlio di Agamennone, la persecuzione del matricida Oreste ad opera delle Erinni e la sua assoluzione da parte del tribunale ateniese dell’Aeropago, istituito da Atena. Ma sugli eventi scenici gravano due angosciosi precedenti che fanno di Agamennone un colpevole e un predestinato, dando origine alla catena degli avvenimenti rappresentati nella trilogia. Suo padre Atreo aveva ucciso i figli del fratello Tieste dandogli poi in pasto le loro carni, e il solo Egisto si era salvato; lo stesso Agamennone aveva sacrificato in Aulide la figlia Ifigenia alla dea Artemide, perché consentisse alla flotta greca di salpare verso Troia. D’altra parte, anche la guerra troiana è stata un’ampia strage, che il ratto d Elena da parte di Paride non basta a giustificare: i Greci alla fine hanno vinto, ma troppe case sono rimaste deserte dei loro uomini. Il senso di questo dolore e della misteriosa attesa di altre rovine incombe sul grandioso inizio dell’Agamennone: sul tetto della reggia di Argo una vedetta avvista i fuochi che da Troia, in una fantastica staffetta da un monte all’altro, annunciano la caduta della città nemica; e in una parodo di dimensioni inusitate, il coro degli anziani argivi sente prevalere sull’esultanza per la vittoria lo sgomento del sangue versato e il timore che sul capo del re debba cadere lo sdegno degli dei. Il canto del coro suona come impressionante segnale del clima di attesa e di orrore che domina la tragedia. In questa atmosfera di ansiosa sospensione fa la sua entrata Clitemnestra, la vera protagonista del dramma. Eschilo la tratteggia con un’inedita notevole profondità psicologica; nella donna si agita una tensione spasmodica della volontà, che nel ritorno di Agamennone vede l’occasione per scatenarsi in azione: rancore verso il marito che le ha ucciso la figlia, dedizione all’amante Egisto che vuole vendicare su Agamennone i misfatti del padre. Il compimento del piano di Clitemnestra si prepara attraverso tre scene: dapprima dialoga con il coro, poi con un messaggero dell’esercito che le racconta la vittoria e il prezzo di sofferenze che è costata; infine con Agamennone, l’eroe stanco delle sue imprese e della sua stessa gloria, che anela al riposo della sua casa, al ritorno nella normalità. La sottile persuasione di Clitemnestra lo forza ad entrare nella reggia su un tappeto purpureo. Sulla scena rimane la sola Cassandra, la profetessa dannata a non essere creduta; dopo un dialogo col coro, raggiunge il re nella casa: Dall’interno si ode improvviso il grido di Agamennone colpito a morte e irrompe sulla scena Clitemnestra, madida di sangue, esultante di ferocia. Di fronte al coro sgomento, essa rivendica crudamente il proprio diritto alla vendetta; in lei ha preso corpo il demone antico della casa di Atreo ed Agamennone ha scontato i delitti che si erano accumulati sul suo destino, le colpe del padre e le sue. Allorché Egisto si presenta a condividere il suo trionfo, il coro accenna un’impotente ribellione, aborrendo la tirannide di cui paventa l’avvento. L’epilogo è di un’intensità umana assoluta: ora è Clitemnestra a placare il compagno che vorrebbe fare strage dei vecchi. Coefore Grazie alla concentrazione temporale che è prerogativa del teatro, all’inizio delle Coefore sono passati alcuni anni. Oreste, il figlio di Agamennone, che la sorella Elettra aveva sottratto alla furia di Egisto e messo in salvo presso un amico ospite, ritorna ad Argo. Lo accompagna Pilade, figlio dell’ospite e la tempo stesso garante del volere di Apollo, che ha imposto ad Oreste di vendicare il padre. All’alba egli si presenta alla tomba regale e vi depone come offerta una ciocca di capelli. Sopraggiunge il coro di prigioniere troiane a cui Clitemnestra, atterrita da un sogno, ha dato ordine di portare offerte lustrali sul sepolcro del marito. Elettra le accompagna. L’incontro tra i due fratelli segna un primo momento di tensione; dapprima Elettra confronta i capelli di Orette con i propri e il suo cuore si apre alla speranza. Ma quando il fratello appare, essa non gli vuole credere; ed è lo stesso Oreste a sottolineare l’inverosimiglianza del suo comportamento. Vinti, infine, i dubbi della sorella, l’abbraccio tra i due è tenerissimo; ma presto viene sciolto dall’immagine della vendetta che grava su di loro. Infatti, Apollo ha minacciato a Oreste una terribile lebbra, se non ricambierà di morte gli uccisori di suo padre. ma il trasferimento del suo regno ad Argo consentiva che Oreste, nel finale delle Eumenidi, potesse garantire agli Ateniesi la solidarietà eterna della sua città. Inoltre, la tradizione attribuiva esclusivamente ad Apollo e all’oracolo delfico la legittimazione dell’atto di Oreste; ed è innovazione eschilea la sua assoluzione da parte dell’Aeropago, che coincide con l’investitura dello stesso tribunale da parte della dea protettrice della città, Atene. Il ruolo dell’Aeropago assume un carattere più alto e generale; è simbolo dell’autorità statale, è garante dell’ordine e della legalità, che sono condizione essenziale per l’esistenza stessa della comunità. Ma il significato impresso da Eschilo nella storia degli Atridi nell’Orestea coinvolge principi giuridici, etici e religiosi di ben più ampia portata, in cui si riflette un processo secolare della civiltà greca.. Un primo campo di idee attiene a un livello socilogico-giuridico; qui si discutono le strutture stesse della società, il diritto esclusivo della comunità di amministrare in proprio la giustizia e, inoltre, il principio dell’ereditarietà della colpa e della responsabilità individuale. Nel dilemma di lasciare invendicato il padre o uccidere la madre, Oreste sceglie la seconda alternativa: obbedisce ad Apollo, violando lo statuto delle Erinni. Ma nell’antinomia divina si riflette un’originaria ragione storico-sociologica: le nuove divinità dell’Olimpo, ossia del cielo, hanno determinato il prevalere della struttura patriarcale sul matriarcato, soppiantando le dee che traggono il potere dalla terra, in cui consistono il regno e il segno della fecondità materna. Anche la catena di delitti degli Atridi è memoria di una remota dinamica storica. Quando il delitto di sangue veniva scontato con il pagamento di beni alla famiglia dell’ucciso, essa rimaneva nell’ambito di una dimensione privata, preesistente o comunque esterna alla comunità. Questa rivendica il proprio diritto ad occuparsi del crimine allorché delega il parente più stretto dell’ucciso ad esigere la pena, ossia a compiere la vendetta, sotto minaccia di escluderlo dal proprio ambito come portatore della contaminazione. E’ il principio del taglione che costituisce una difesa della comunità contro chi ne viola le leggi, a anche un pericolo per la medesima in quanto provoca una catena inarrestabile di stragi. Agamennone deve morire perché è colpevole, ma è anche condannato alla colpa, perché deve scontare il delitto del padre Atreo; ne è responsabile in quanto la colpa è ereditaria. Si tratta di un principio che ha sconvolgenti implicazioni metafisiche. Il libero arbitrio dell’uomo è un’apparenza; su di lui grava un destino inesorabile, che non gli concede scampo. Il concetto dell’ereditarietà della colpa diventa il simbolo dell’irrazionalità delle umane sorti, di fronte a cui l’unica via di redenzione per l’uomo è contrassegnata dal dolore. La salvazione viene sancita dalla divinità. L’istanza definitiva sono gli dei. Ma chi – o che cosa – sono gli dei? Le Erinni, che si ribellano alla giustizia degli Olimpi, vengono convinte da Atena a diventare Eumenidi; la contesa tra gli dei cessa quando gli dei tradizionali accettano di perdere la loro identità. A questo punto sarà la divinità stessa ad identificarsi con la giustizia: gli dei non sono che nomi e conveniamo di chiamare Zeus la norma superiore che regola l’universo, di fronte alla sua legge la ragione e la volontà umane si annullano. Eschilo attribuisce rilevanza e attenzione agli aspetti registici e scenografici dello spettacolo, concepiti secondo schemi di impressionante imponenza. L’architettura della sua tragedia è accentrata in vigorosi sincronismi, che concedono alla successione degli avvenimenti appena quel tanto che è indispensabile. Ma in essa la vita degli uomini è considerata come un insieme di momenti significativi ciascuno per se stesso. Accade così che nel presente dell’azione scenica coincidano e ricevano senso il passato e il futuro, il ricordo e la profezia. Il protagonista tragico ignora la sottile investigazione psicologica di epoche posteriori, irrigidito com’è in atteggiamenti immani e definitivi: soltanto con Euripide esso tenderà a proiettare nei singoli momenti della vicenda le passioni che volta per volta insorgono in lui. Tuttavia già in Eschilo i personaggi riflettono in una sobria trasformazione del loro atteggiamento il mutarsi delle situazioni. La Clitemnestra prostata alla conclusione dell’Agamennone è diversa da quella dell’inizio, invasata dalla smania di vendetta. Nelle Coefore un’analoga evoluzione suggerisce il passaggio di Oreste da esecutore dell’ordine di Apollo a consapevole autore del matricidio, infine ad ossessionata vittima delle Erinni. Una funzione decisiva è affidata al coro, il che indica che il tessuto connettivo si esprime fuori dai fatti della trama. Alla vicenda tragica è sottesa un’interpretazione esistenziale, la cui manifestazione è prevalentemente affidata al coro che partecipa ai casi degli eroi individuandone la portata universale per cui la sua riflessione diventa un’indagine del destino che regge le sorti dell’umanità tutta. L’evento teatrale costituisce dunque il microcosmo in cui si rappresenta simbolicamente la problematica vicenda dell’umanità e la parola è il suo strumento d’espressione. La realtà ha per trama un mistero insondabile, l’enigma della divinità e la storia dell’uomo è la tensione volta a svelarlo. Il linguaggio è ispirato da un’inesausta creatività verbale, che forza all’estremo le possibilità semantiche e sintattiche della lingua per raffigurare mediante gli strumenti dell’allusione e dell’analogia la controversa essenza della realtà. Ogni parola di Eschilo non vale per se stessa, ma riceve il suo significato dal contesto in cui è inserita. Grazie soprattutto alla metafora e all’immagine, lo stile di Eschilo può intraprendere anche una raffigurazione realistica dell’universo e della vita umana. Ogni tragedia ha la propria tematica; ma il problema che domina l’intera opera drammatica di Eschilo è il rapporto tra l’ineluttabilità del destino e la responsabilità dell’uomo, in cui si manifesta l’esito di uno scontro storico, che l’epoca di Eschilo vive on tutta la sua drammaticità. L’operato della divinità è diretto dalla giustizia e punisce la colpa di chi ha trasgredito le leggi. Il destino non è altro che l’irrevocabilità della sanzione divina, che presto o tardi s’abbatte sul colpevole. L’uomo sceglie volontariamente la propria sorte: fato e responsabilità finiscono per coincidere. esaltante della grandezza, che esclusivamente appartiene all’uomo capace di reggere il peso della condizione umana. Sofocle nacque intorno al 496 a.C. nel demo agreste di Colono, tra Atene ed Eleusi; il padre Sobillo doveva la proprio lavoro di imprenditore una notevole agiatezza e il giovane Soflocle godette della migliore formazione, culturale e sportiva, che poteva fornirgli l’Atene contemporanea al culmine del suo splendore. Secondo le fonti, mise a profitto inizialmente le proprie doti musicali e ginniche nell’attività di attore, affermandosi sul Tamiri come suonatore di cetra e nella Nausicaa (entrambe tragedie andate perdute) come giocatore di palla; ma poi, per la debolezza della voce, dovette rinunciare alla recitazione. Già al suo esordio negli agoni drammatici, avvenuto nel 468, gli era toccata la vittoria, sebbene tra i contendenti vi fosse pure Eschilo, e a decretarla fu un eccezionale collegio di giudici. In seguito, il favore degli Ateniesi non abbandonò mai Sofocle, sia nei concorsi drammatici, dove ottenne 24 vittorie, di cui 18 alle Dionisie, sia nella vita politica, che lo vide stratego insieme a Pericle nella guerra di Samo (441/440); inoltre fu ellenotamo (un’alta carica finanziaria) nel 443/442 e membro del collegio dei probuli nel 413. Insigne anche per la sincera cura rivolta alle cose religiose, rivestì le funzioni di sacerdote di una divinità locale della salute a nome Halon e, quando nel 420 il simulacro del dio Asclepio venne traslato da Epidauro ad Atene, Sofocle fu designato ad ospitarlo nella propria casa durante la costruzione del santuario che l’avrebbe accolto; questo atto gli valse, dopo la morte, onori di eroe patrio. Una notizia antica secondo cui Sofocle all’annuncio della morte di Euripide avrebbe presentato nel proagone del 406 il coro in abiti da lutto e senza corona e un passo delle Rane di Aristofane, messe in scena nel 405, che lo dice ormai nell’oltretomba, consentono di collocare tra le due date la morte del vecchissimo poeta. Secondo varie notizie questa avvenne per la gioia di una vittoria, oppure per la fatica di leggere ad alta voce un passo dell’Antigone, oppure per soffocamento prodotto da un acino d’uva. Lasciava un’opera postuma, l’Edipo a Colono, di cui aveva letto alcune parti ai giudici per dimostrare la propria integrità mentale in un processo di interdizione che gli era stato mosso da un figlio. La tragedia fu poi rappresentata nel 401, a cura del nipote che portava il suo stesso nome. Una selezione antica ha salvato in forma integrale 7 tragedie di Sofocle: oltre che dell’Edipo a Colono, si conosce la data di altre due: L’Antigone risale al 442, e il Filottete al 409. Per le restanti 4 la datazione è congetturale; opinione pressoché comune è che l’Aiace sia la più antica, risalente agli anni intorno al 450, e che l’Edipo Re sia anteriore al 425; delle Trachinie si può dire che precedettero l’Edipo Re e dell’Elettra che venne dopo la medesima tragedia. Gli alessandrini possedevano ben 130 drammi di Sofocle; ne rimangono numerosi frammenti nella tradizione indiretta e qualche sezione nei papiri. Aiace Già nell’Aiace, da considerarsi dunque la più antica tragedia conservata di Sofocle, compaiono alcuni grandi temi del suo teatro: la grandezza e la vulnerabilità dell’uomo d’eccezione, la solitudine che è il suo fatale retaggio, l’impossibilità di sottrarsi alla miseria dell’esistenza se non con la morte, l’insondabile violenza dell’azione divina. I dati dinamici dell’azione sono confinati all’antefatto e al prologo, secondo uno schema ancora arcaico: gli Atridi hanno giudicato Odisseo e non Aiace il guerriero più valoroso tra i Greci e gli hanno attribuito le armi di Achille. Aiace, offeso nel profondo dell’anima, e progetta di sterminare i suoi giudici, il rivale e tutto l’esercito. Ma nella presunzione della sua forza straordinaria, aveva rifiutato in battaglia l’aiuto degli dei ed Atena ha deciso di punirlo atrocemente, proprio nell’onore che è il suo vanto. Così, per inganno della dea, il grande eroe ha fatto strage delle greggi dei Greci e nel prologo Atena lo mostra con irrisione ad Odisseo, mentre in preda alla follia tortura le pecore che scambia per i capi dell’esercito. Ma Odisseo non condivide il gusto della dea per la vendetta del nemico; il suo sentimento è una profonda pietà e, ponendosi nella prospettiva dello spettatore, vede nell’umiliazione del suo rivale soltanto l’indizio della labilità delle umane sorti. Quando Aiace, in presenza del coro formato dai suoi marinai di Salamina e della moglie Tecmessa, ritorna in senno, comprende di essersi macchiato di un disonore inestinguibile. Per lui non c’è più spazio tra gli uomini, neppure tra chi lo ama; la sua tragedia è quella di un’immedicabile emarginazione e, in tre successivi monologhi, discute con se stesso la sua esperienza e il suo destino; non gli rimane che morire. Un movimento esteriore è provocato dalla notizia che l’ira di Atena durerà soltanto quel giorno; se Aiace riuscirà a superarlo, sarà salvo. Ma i suoi amici non arrivano in tempo; solo, in riva al mare, dopo l’ultimo appello al sole, ai fiumi della patria, ai campi troiani che hanno visto il suo valore, si trafigge con la spada. Il cammino terreno di Aiace è così compiuto, ma la tragedia è solo poco oltre la sua metà. Il resto è occupato da un dibattito tra il suo fratellastro Teucro, che vuole attribuirgli solenni onori funebri, e i due Atridi, il cui livido odio non conosce remissione neppure nella morte ma, alla fine, sarà ancora Odisseo a pronunciare un’ultima parola di pietà. Il cadavere immane di Aiace incombe sulla scena per tutto il resto del dramma, quasi a simboleggiare che il destino dell’eroe non si compie con la fine fisica; la sua sofferenza ha saputo trovare una luce di riflessione e questa gli merita una redenzione, ora sono gli uomini a sancire questo riscatto, con una gloriosa sepoltura. Antigone Protagonista del dramma è la figlia di Edipo, che ha visto i fratelli Polinice ed Eteocle trucidarsi reciprocamente, il primo all’assalto di Tebe, il secondo in difesa della medesima città, sulla quale regnava. Ora sovrano della città contesa è divenuto Creonte, fratello della loro madre Giocasta, ed egli ha ordinato che il corpo del traditore Polinice rimanga insepolto, in pasto alle fiere, un abominio esecrando per le convinzioni dei Greci. Ma Antigone non accetta il bando; se Creonte agisce così per proteggere lo stato della donna ormai sfiorita e sempre innamorata del suo uomo, che si vede soppiantata da una più fresca rivale. A Deianira tuttavia resta un rimedio: Nesso morendo le aveva donato un filtro magico, formato dal suo stesso sangue, assicurandole che grazie a questo Eracle non avrebbe mai amato un’altra donna in vece sua. Ed essa ne intride una veste che invia al marito, ritrovando una breve accensione di speranza, secondo una maniera tipica della sceneggiatura sofoclea. Questa speranza risulta, infatti, delusa da un meccanismo altrettanto caratteristico della tragedia di Sofocle e della sua concezione dell’esistenza; l’ironia atroce per cui un’azione rivolta ad ottenere un risultato positivo si converte nel suo opposto, provocando irrimediabile rovina. A ciò si aggiunge l’inganno, che la predizione del futuro porta con sé quando gli dei vogliono travolgere la pretesa umana di correggere il proprio fato. Il sangue di Nesso era avvelenato dalle frecce medesime di Eracle, bagnate nel sangue dell’Idra, uno dei mostri da lui uccisi. Il giovane Illo, che la madre Deianira aveva inviato alla ricerca del padre, ritorna annunciando che l’eroe, indossata la veste, è stato colto da orribili sofferenze, poiché essa gli divora le carni e le ossa. Egli maledice la madre e Deianira, senza pronunciare parola, si ritira nella reggia per darsi la morte. Viene introdotto su una barella Eracle, prostrato dalla tortura del morbo; la seconda parte del dramma è la sua tragedia. Sofocle non interpreta la sventura di Eracle come un castigo per la colpa di avere distrutto una città per amore di una donna, anche se l’ossessione erotica è uno dei temi portanti della tragedia. Neppure allude alla futura glorificazione che attende l’eroe figlio di Zeus dopo la morte. Eracle è il simbolo dell’uomo grande e provvidenziale, che ha posto fine all’era dei mostri e dischiuso una nuova epoca per la civiltà umana; e tuttavia egli deve morire, come Deianira, perché gli uomini sono impotenti di fronte all’oscuro progetto degli dei e sono condannati a percorrere la propria strada nell’ignoranza delle molteplici circostanze che la determinano e che, alla fine, coincidono nel provocare la loro rovina. Al più grande eroe della Grecia, al migliore degli uomini non resta che ordinare ad Illo, pure lui vittima dell’errore che gli ha fatto giudicare colpevole la madre, di portarlo in vetta al monte Eeta e di collocarlo sopra una pira, ala quale appiccherà egli stesso il fuoco. Poi Illo dovrà sposare Iole e far da padre al figlio che essa ha concepito da Eracle. E’ forse questo un estremo messaggio di pacificazione, l’avvento di un mondo in cui i giovani potranno vivere liberi dall’orrida presenza di esseri sovrumani e la morte di Eracle e Deianira, testimoni di questo passato di ferina dismisura, è il riscatto necessario per la palingenesi e la tragedia si chiude sull’esecrazione rivolta da Illo agli dei, a cui il coro risponde con l’ammonimento a riconoscere il loro arcano potere. Edipo Re L’ironia dell’azione che genera rovina invece del bene a cui era rivolta; la fatale ignoranza dell’uomo, che coinvolge persino la sua stessa identità; l’inganno che nasce dalla pretesa umana di decifrare gli oracoli in cui la parola divina occulta l’ambiguità del reale costituiscono la trama concettuale dell’Edipo Re, opera considerata dalla tradizione antica e dalla critica moderna l’esempio sommo dell’arte tragica greca. Il pubblico viene potentemente coinvolto nel suo svolgimento dalla rispondenza del ritmo teatrale al significato profondo della vicenda, dall’inesorabile progressione degli avvenimenti, dall’evocazione di un’atmosfera d’angoscia sempre crescente fino alla catastrofe finale. L’intero dramma si svolge secondo la dimensione dell’enigma. Edipo è stato eletto re di Tebe dopo avere risolto l’indovinello della Sfinge, liberando così la città dalla sua oppressione. Ma ora Tebe è devastata da un’implacabile pestilenza e i suoi sudditi ricorrono a lui, il più sapiente degli uomini, per trovare salvezza. Sollecito della loro sorte, ha inviato il cognato Creonte all’oracolo di Delfi per sapere la causa del male e il dio risponde che la città è contaminata dalla presenza dell’assassino del precedente re Laio, la cui vedova Giocata è ora moglie di Edipo. Subito Edipo inizia un’inchiesta per scoprire il colpevole ed interroga il vecchissimo indovino Tiresia; questi dapprima rifiuta di rivelargli ciò che sa, ma Edipo lo minaccia e Tiresia proclama un terribile responso: Edipo stesso è l’uccisore di Laio e il futuro lo denuncerà marito della propria madre, fratello dei suoi stessi figli. Edipo lo accusa di congiurare ai suoi danni, d’accordo con Creonte, ma un dubbio angosciante si insinua inconsapevolmente nella sua anima. Giocasta tenta di tranquillizzarlo; oracoli e profeti possono essere fallaci; infatti, a Laio era stato predetto che sarebbe morto per mano del figlio, ed egli aveva fatto esporre su un’alta montagna il bimbo nato dalla loro unione, con i piedi avvinti da una fune; invece, racconta Giocasta, il re fu ucciso in un agguato di predoni alla convergenza di tre strade. Uno spaventoso ricordo si impossessa della mente di Edipo che, a sua volta, narra la propria storia. Cresciuto da Polibo, re di Corinto, aveva sempre creduto di essere suo figlio, ma dall’ingiuria di un coetaneo, che l’aveva chiamato bastardo, era stato indotto ad interrogare l’oracolo di Apollo. Questo aveva eluso la domanda e, invece, gli aveva annunciato che sarebbe divenuto l’uccisore del proprio padre e il marito della propria madre. Per scampare alla profezia, Edipo è fuggito lontano da Corinto; ma ad un trivio ha incontrato un uomo che l’ha offeso ed egli l’ha colpito a morte. Non sarà dunque vera l’accusa di Tiresia? Per sapere la verità, chiede a Giocasta di convocare l’unico testimone sopravvissuto del fatto. Arriva un messo da Corinto, con una notizia mesta e lieta allo stesso tempo. Polibo è morto e la città attende Edipo per proclamarlo re. Giocasta esulta: dunque, non è stato Edipo ad uccidere suo padre. Una volta di più gli oracoli hanno detto il falso e neppure egli deve temere di unirsi alla madre. E, d’altronde, aggiunge l’uomo di Corinto, Edipo non è figlio della moglie di Polibo: è un trovatello, che lui stesso aveva ricevuto dall’uomo incaricato di esporlo sul Monte Cicerone. D’improvviso Giocasta comprende la verità in tutto il suo orrore; tenta di tacitare il vecchio, poi scompare nel palazzo. unicamente da tre personaggi. Ma l’autore articola una sceneggiatura che, nell’estrema economia dei mezzi, realizza comunque una tensione emozionale continua. Il suo epicentro è ancora un carattere posseduto dall’odio, Filottete stesso; ma nel suo destino, a differenza dell’Elettra, si trova mirabilmente fusa un’idea propriamente tragica che si estende lungo tutta la vicenda scenica e alla fine trova una soluzione. La tragedia ha un esito positivo e tuttavia questo è determinato dall’arbitrio del trascendente, ossia dall’irrazionalità del reale. Da dieci anni Filottete, partito insieme agli altri Greci per Troia, vive solitario nell’isola di Lemno. Un serpente l’aveva morso ad un piede e i suoi compagni l’hanno abbandonato perché la sua piaga appestava l’aria e i suoi lamenti affliggevano l’esercito in modo insopportabile. Ma per conquistare Troia un oracolo ha, infine, rivelato che è indispensabile l’arco prodigioso che a Filottete fu donato da Eracle. Alla sua isola giungono dunque Odisseo e il ragazzo Neottolemo, figlio di Achille, per forzarlo a raggiungere la spedizione o per sottrargli l’arco. Ma per conseguire lo scopo dovranno ricorrere all’inganno; nella lunga solitudine Filottete ha maturato un odio rovente contro gli Atridi e lo stesso Odisseo, responsabili del suo abbandono. La tragedia si svolge tutta nella dialettica di sentimenti e di intenzioni che agita i tre personaggi. Odisseo non è più quello dell’Aiace, è un politico corrotto dal gusto dell’ambizione e del successo, orgoglioso della propria intelligenza, pronto ad adeguare il proprio atteggiamento secondo ogni circostanza. Di fronte al suo spietato pragmatismo sta Filottete. Lo strazio della ferita immedicabile lo fa soffrire ed urlare fino al limite della dignità umana; ma il male gli conferisce una dignità superiore, poiché la sua sofferenza non attenua la forza del suo animo. Dopo 10 anni rivede il volto degli uomini e prova immediato affetto per Neottolemo; ma non esita a ripudiarlo quando comprende che tiene mano all’inganno di Odisseo e, allorchè gli viene detto che secondo la garanzia dell’oracolo la sua andata a Troia lo risanerà, trova l’energia interiore di rimanere fedele a se stesso e di perseverare nel suo rifiuto. Pure Neottolemo ha sentito un’istintiva attrazione per Filottete; a lungo ondeggia tra la fedeltà all’impegno preso con i Greci e l’immagine di gloria che la conquista di Troia gli prospetta da un alto e, dall’altro, la naturale ripugnanza verso l’inganno che priverà il recluso del suo unico mezzo di sostentamento. Alla fine la sua autenticità viene salvata: è lo spettacolo della grandezza e della miseria di Filottete a farlo diventare un uomo libero di scegliere ed egli sceglie di schierarsi dalla parte di chi è ingiustamente violentato. Alla conclusione della tragedia, compare Eracle imponendo a Filottete di cedere alla volontà degli dei che lo vogliono glorificare. Risanato, andrà a Troia ed i Greci conquisteranno la città. Si apre il quesito intorno al significato dell’azione divina; dove risiede il senso di tanto soffrire, se non nel mistero inaccessibile del volere degli dei? Nella sua desolata solitudine, Filottete ha imparato a comprendere le forme e le leggi della natura che lo circonda, ha conosciuto il respiro stesso dell’universo, l’energia della realtà naturale che circonda la vita dell’uomo. Come lui è stato indispensabile a Neottolemo perché questi raggiungesse la propria maturità di uomo, così Neottolemo gli è servito per comprendere la verità umana della solidarietà. E’ un’immagine splendida a concludere questa bellissima tragedia: i due si avviano abbracciati verso la nave che li porterà a Troia. La conquista della città, dopo il decennale travaglio, è una svolta decisiva nella storia della Grecia e dell’umanità, e sono due uomini nuovi ad iniziarla, portatori di valori genuini. Edipo a Colono L’arcano disegno, per cui il medesimo uomo segnato dalla miseria della carne piagata e dalla disperazione dell’animo è anche benedetto dagli dei che gli hanno imposto il dolore, costituisce il motivo pure dell’Edipo a Colono. Qual era il delitto di Edipo, autore ignaro e colpevole dei mali che l’avevano distrutto? E’ lo stesso Edipo, vecchio e cieco, prostrato da anni di vagabondaggio nella più cupa miseria, fuggito dagli uomini che vedono in lui un mostro contaminato dai delitti più orridi, a porsi con rabbiosa angoscia la domanda, in cui si riassume il male di vivere. La volontà degli dei è un vessatorio arbitrio? O gli dei non esistono e il loro nome è solo lo schermo tradizionale dietro cui si cela la precarietà assoluta dell’uomo di fronte all’irrazionale del mondo? Il profondo senso religioso di Sofocle preferisce spostare in un’altra direzione l’interpretazione del mistero. Edipo si trova al di là del dilemma dell’innocenza e colpa; è un reprobo e al tempo stesso un eletto; porta in sé il mistero della predestinazione. I suoi patimenti sono stati infiniti; ma gli dei hanno deciso che il suo corpo sia santo, destinato a prestare un’inviolabile protezione alla terra in cui sarà sepolto. E’ con questa garanzia che Edipo giunge a Colono, per chiedere alla terra dell’Attica l’ultimo asilo, nel poco che gli resta da vivere e dopo che sarà morto. Lo accompagna Antigone, pietosa compagna del suo miserevole errare. Il coro degli abitanti di Colono ha un atto di repulsione allo spettacolo squallido dei suoi cenci e delle sue orbite vuote; ma Teseo, il grande sovrano della mitica Atene, lo accoglie pietosamente e gli accorda la grazia tanto desiderata. Ma allorché le disgrazie di Edipo sembrano trovare il definitivo riposo, nuovi mali vengono ad assalirlo. L’altra figlia Ismene viene ad avvertirlo che il suo corpo è un ostaggio prezioso per le due parti che si contendono Tebe, poiché un vaticinio ha assicurato la supremazia a chi l’avrà con sé. Ma Edipo non reprime la fiera inflessibilità del suo carattere e si rifiuta ad entrambi i contendenti. Prima è Creonte, in nome di Eteocle, che detiene il regno della città, a tentare di strapparlo ai suoi nuovi protettori; e viene respinto da Teseo. Poi arriva l’altro figlio Polinice, il fuoriuscito che vuole riconquistare Tebe e che implora per questo scopo la solidarietà del padre. armonica perfezione, in cui si perpetuava un vicino passato che era parso il pegno di un lungo futuro. Sofocle è un maestro della parola poetica per l’eleganza naturale dell’espressione, la fantasia delle immagini, il nitore e la concentrazione con cui il pensiero si tramuta in linguaggio. Il suo stile è regolato da un’interiore armonia, in cui i concetti ricevono evidenza dalla struttura del periodo. Sofocle appare consapevole che la libertà non ha senso nell’assoluto, bensì in una scelta che contemperi i valori individuali e le regole generali. A questa convinzione egli conformò sia la sua vita, che fu felice, sia la sua arte della parola che appare fissata in una sorta di inalterabile perfezione a cui sono ignoti il travaglio e l’errore. Sofocle sentiva come il mondo fosse percorso e dominato da forze incomprensibili e prevaricanti, da un mistero insondabile; ma che all’irrazionalità del destino egli intendeva contrapporre un altro mondo, di cui centro e reggitore fosse l’uomo. Misura esclusiva di questo mondo è la ragione, nella quale l’uomo definisce il proprio carattere e la propria dignità. Il canone della ragione è applicato ed esaltato nello stile di Sofocle, illumina tutte le cose e pretende di comprendere in sé il tutto, assorbendo anche gli aspetti misteriosi, irrazionali, demonici dell’esistenza. La magnanimità degli eroi di Sofocle non vale a salvarli dal patimento; quanto essi sono grandi, altrettanto sono sventurati, perché questa è la necessità inerente alla loro natura di uomini, immersi in un mondo di contraddizioni insanabili, di conflitti con forze inevitabilmente tese a travolgerli. Di queste forze e di questa necessità gli dei sono il simbolo, non soltanto come funzione drammaturgica, ma come segno di una convinzione che vede nel loro operare il principio della condanna umana. Il dio di Eschilo è il garante di una giustizia superiore, che attraverso imperscrutabili percorsi tutela ed indirizza comunque la qualità etica del vivere umano. Ma negli dei la tragedia sofoclea svela impavidamente i responsabili del male di esistere; tuttavia, questa concezione non si risolve in una denuncia della prevaricazione divina, tanto meno in una professione di ateismo. Il sentimento religioso è l’accettazione suprema di quel mistero dell’essere, in cui l’uomo può trovare la miseria e il disastro più spietati, ma anche la ragione ultima di una grandezza insondabile. Gli stessi uomini che dal destino, ossia dagli dei, erano stati tremendamente puniti, si rivelano in pari tempo degli eletti; la loro orrenda caduta era anche un’esaltazione. La diversità, l’esclusione sono il tramite per il ritorno ad una condizione umana, addirittura più piena e perfetta di quella concessa alla generalità degli uomini. Essi meritano questa sorte d’eccezione per la forza dell’animo, che ha concesso loro di rimanere fedeli alla propria natura, nonostante tutto. Attraverso arcani itinerari, gli dei hanno provveduto alla sorte dell’uomo predestinato, beatificandolo dopo averlo spinto oltre le soglie dell’orrore e della disperazione. Aristotele nella Poetica considera Edipo Re come l’esempio perfetto della tragedia; i suoi drammi figurano nelle riprese inaugurate alle Dionisie del 386 e in essi si cimentarono gli attori più illustri dell’epoca. Letterati e critici tendono ad assegnare a Sofocle la palma della tragedia, riconoscendogli il primato nello splendore e nella purezza della lingua, nella elevatezza del pensiero e nella nobiltà dei caratteri. Dopo l’edizione e i commentari alessandrini, i suoi testi entrano stabilmente nella consuetudine della lettura e nell’uso scolastico e vi rimangono fino all’avanzata antichità, come dimostrano i resti papiracei. Tra i modelli greci, i tragici di Roma gli preferiscono Euripide, ma da Cicerone a Virgilio, da Ovidio a Plinio il riconoscimento dell’eccellenza sofoclea è pressoché unanime. La selezione dell’età tardoantica salva 7 tragedie sofoclee che entrano nel patrimonio della cultura bizantina e nel 1423 Giovanni Aurispa introduce Sofocle nella circolazione dell’Umanesimo occidentale. Con l’Edipo Re viene inaugurato nel 1585 il Teatro Olimpico di Vicenza, in uno spettacolo che consacra il recupero della tragedia greca sulle scene dell’Europa Euripide Nella successione generale dei 3 tragici greci Euripide è l’ultimo ed è anche quello la cui personalità di pensatore e di artista viene considerata elusiva e contraddittoria dal giudizio degli antichi e dalla critica moderna. La tragedia vive di una particolare fase della cultura greca, e nella fattispecie ateniese, che ne ispira sia le tensioni intellettuali sia l’impianto formale. Quando per questa fase si avvicina la crisi finale, la tragedia si rivela estranea ai nuovi fermenti che si vanno faticosamente cercando strada. Euripide intuisce lucidamente questo stato di cose e tenta di adeguare l’evento tragico all’evoluzione dei tempi, con l’apertura a nuove problematiche e con un’audace sperimentazione formale. Ma si preferì individuare in lui l’eversore della tragedia, anziché colui che en aveva presagito la fine. Con l’espansione dello stato ateniese si era infranto il mirabile equilibrio che costituiva il fertile terreno su cui fondare l’investigazione delle ragioni ultime dell’esistenza umana. Ora una più complessa organizzazione della vita sociale porta con sé una spinosa serie di problemi concreti: la condizione della donna, dello straniero e dell’emarginato; la mistificazione della parola in quanto strumento di potere; il ruolo dell’intellettuale che infrange l’omogeneità del tessuto sociale, isolandosi nella discussione e nella contestazione dei valori a cui la mentalità comune si adegua. Sono i rapporti tra gli uomini, nell’incidenza pratica del vivere quotidiano, a monopolizzare la riflessione della collettività, di cui la tragedia rimane comunque un’espressione fondamentale ed Euripide addita nella ragione umana sia il movente che determina la dinamica delle umane sorti, sia lo strumento idoneo a correggerne eventualmente le disfunzioni. Il confronto cruciale per l’uomo non è più con il volere arcano della divinità, bensì con le scelte degli altri uomini; le norme e le strutture del vivere sociale diventano Euripide verso la rottura dell’unità di azione approda ad una struttura “a pannello”, realizzata dall’accostamento di scene concluse in se stesse intorno a un comune nucleo tematico, di cui offrono esempio le Troiane. In seguito l’autore tende a privilegiare un intreccio sempre più complesso ed elaborato, con ripetuti colpi di scena che deviano continuamente la trama dal corso iniziale e pongono le premesse per nuovi ed imprevisti sviluppi. Tendenza comune a tutta la produzione di Euripide è un incessante proposito di sperimentazione, a cui il poeta era portato sia da un’intima irrequietezza spirituale, manifesta nella molteplice e contraddittoria problematica della sua opera, sia da un’attenta osservazione delle mutate esigenze dei tempi. La tragedia come istituzione cittadina era entrata in crisi ma il dramma euripideo non segna la dissoluzione della tragedia come si è preteso; esso intende piuttosto tentare nuove strade che avessero come risultato la salvezza della tragedia. Il marcato individualismo che si annuncia in quest’epoca ha il suo riflesso anche nella struttura interna del dramma. Questa non si regge più sull’eroe di sovrumana unicità, ma sull’alterno rispondersi delle azioni degli uomini che determinano gli avvenimenti con la loro volontà e i loro sentimenti; mentre il coro, relegato in secondo piano, è impegnato in canti altamente poetici ma avulsi dalla trama tragica. Dal mito Euripide ricava un generico spunto tematico che sviluppa secondo inediti accidenti che valorizzano un nuovo tipo di tensione drammatica. Questi avvenimenti coinvolgono i protagonisti nei meccanismi di un imprevisto che essi possono fronteggiare solo facendo ricorso alle loro prerogative umane, nel dialettico confronto con l’autonoma personalità di altri personaggi. La ricerca stilistica di Euripide è indirizzata verso un linguaggio che rifugge dall’atmosfera sublime dei suoi predecessori, per calarsi in una quotidianità in cui ogni uomo possa riconoscersi ed identificarsi. Il linguaggio con cui discutono i suoi personaggi si distende in frasi chiare e concrete, l’argomentare è nitido e coerente, la scelta lessicale si astiene dal fantastico, dall’astratto. I suoi personaggi dimenticano di essere eroi del mito, per vivere ed esprimere pensieri e sentimenti dell’uomo contemporaneo, rivendicando una nuova libertà. Euripide è comunque un grande poeta lirico, il canto scenico diventa metafora della funzione stessa della poesia, la verità ultima che l’immaginazione degli uomini ha scoperto per sottrarsi alla precarietà dell’esistenza. Euripide è uno scrittore di teatro e il teatro rigetta la coerenza assoluta del sistema filosofico; nella dimensione teatrale esercita la sua sperimentazione tecnica, e il teatro e la sede per la sua ricerca del vero. Il suo coraggio intellettuale sta nel paradosso di un ottimismo disperato: crede fermamente che all’individuo sia concesso di scoprire una propria dignità nell’autonoma realizzazione del proprio destino e tuttavia non riesce a sottrarsi del tutto al concetto, tipicamente greco, di un’inesorabile precarietà dell’uomo. Accade così che la nota dominante del suo dramma sia un’infinita compassione e partecipazione al dolore di vivere. Se un tratto unitario può comprendere la molteplice gamma delle posizione di Euripide, questo è la dialettica di un sentimento attratto potentemente dalla vita e dagli uomini, e di un intelletto che con spietata lucidità approda alla distruzione di ogni speranza. E di questa contraddizione vivono poeticamente i suoi drammi. Dei tre tragici Euripide fu senz’altro quello che ottenne la più ampia anche se controversa notorietà. Poco dopo la sua morte, le Rane attestano il favore che ormai circondava la sua opera e nel IV sec il suo teatro costituisce il repertorio delle Dionisie. Platone non ama il suo relativismo etico, ma il grande pubblico è attratto dalle seduzioni spettacolari dei suoi drammi, dalla saggezza pratica delle sue massime, dalla quotidianità della sua lingua, dall’intensità delle passioni umane che i suoi personaggi. Per la commedia “nuova” Euripide costituisce il modello fondamentale della struttura drammatica e Menandro mostra un ampio debito nei suoi confronti sia nel realismo delle raffigurazioni psicologiche, sia nel programma di una critica sociale, sia nella ricerca di un’espressione che riduca la distanza tra il parlato dei personaggi e quello del pubblico. La fortuna di Euripide continua in pieno Ellenismo, i suoi drammi sono editi e commentati dagli eruditi alessandrini, le sue tragedie rappresentate in tutti i teatri del mondo. Grande è la sua popolarità a Roma; Livio Andronico, Ennio, Accio e Pacuvio, Ovidio si ispirano ad Euripide e delle 9 tragedie di Seneca 5 riprendono drammi euripidei. In età imperiale, a favorire la fortuna di Euripide interviene la retorica e, dopo Omero, è l’autore più noto. Da sempre uno degli autori fondamentali dell’istruzione scolastica, anche presso i cristiani che ne apprezzavano l’atteggiamento critico verso le divinità pagane, Euripide sopravvive in forma pressoché integrale in tutta l’epoca tardoantica e quando nell’età umanistica la sua opera pervenne in occidente il suo successo fu immediato. La sua arte trova il suo erede d’elezione in Racine che, in alcune delle sue tragedie, ne riprende l’intensità problematica, i tratti umani della psicologia, l’indagine della passione amorosa, la razionale motivazione degli eventi.