Scarica LETTERATURA GRECA V anno e più Appunti in PDF di Lingue e letterature classiche solo su Docsity! Appunti greco – V BC - sistemazione globale Retorica - generalità Diversi significati tra latino e greco: in latino, abbiamo i due termini ORATOR (con cui si designa chi scrive e poi tiene un discorso in pubblico) e RHETOR (termine tecnico che indica il maestro che padroneggia le tecniche di composizione dei discorsi); in greco, invece, il solo termine comprende entrambi questi significati, più quello di politico, dovuto alla strettissima connessione tra l’abilità di parola e l’attività politica. Oggi, col termine retorica si intende la tecnica della comunicazione volta alla persuasione, tanto che a volte è usato in senso dispregiativo come sinonimo di sofistica. L’oratoria greca era fondamentalmente di tre tipi: - Giudiziaria: era praticata nei tribunali, e serviva sia ad accusare che a difendersi, dal momento che non c’erano avvocati; un esempio lampante è Lisia; - Deliberativa/Politica: discorsi pronunciati durante le assemblee, miravano a convincere i cittadini delle proposte politiche. es. Demostene; - Epidittica: oratoria di stampo celebrativo; praticata in occasione di giochi, epitaffi, feste ed eventi pubblici in generale, oppure utilizzata come esercitazione nelle scuole; es. Isocrate (che fonderà, per l’appunto, una scuola); Il primo ed il secondo tipo di retorica condividono l’aspetto pratico e la natura agonale, mentre l’oratoria epidittica è meno legata all’attualità e alla vita ‘vera’, pratica: infatti, quando il sistema delle pòleis verrà sostituito dalla monarchia macedone, i primi due scompariranno, mentre l’ultimo sopravvivrà a lungo e, in un certo, senso, fino ai giorni nostri (soprattutto per quanto riguarda la formazione retorica sostenuta da Isocrate). Già nell’antichità si distinguevano, inoltre, tre tipi di stile oratorio: - Elevato: ricco di figure retoriche, effetti di equilibrio ed armonia, molto simile alla poesia; es. Gorgia - Medio: obiettivo: emozionare il pubblico, fare leva sull’emotività; psicagogico; es. Trasìmaco (retore sofista del V sec. a.C.) - Tenue: sobrio, elegante misurato, prosa fluida; es. Lisia In generale, l’importanza della retorica si può dedurre dal ruolo fondamentale che gli antichi attribuivano alla parola (λόγος/ ρήμα) in quanto espressione della parte razionale dell’uomo ed esposizione del pensiero, che in tal modo viene condiviso. Per i Greci, infatti, vi era un nesso tra pensiero e parola, e quest’ultima assumeva quasi una funzione magica (ma questo del resto è comprensibile, se si pensa che i Greci avevano sviluppato una secolare cultura orale). Già nei poemi omerici, infatti, l’abilità persuasiva è considerata una parte fondamentale dell’educazione dell’eroe-tipo, insieme al vigore fisico, e anzi, col passare degli anni, quando quest’ultimo svanisce, la parola diventa la nostra arma più potente. Per quanto riguarda le origini dell’oratoria, se ne hanno tracce già nei poemi omerici (ad esempio nell’agone tra Achille e Agamennone, o nella scena del concilio degli dèi, ecc.), seppur sotto forma di abbozzi, discorsi inseriti in un contesto epico- narrativo (vediamo soprattutto discorsi epidittici e deliberativi). Gli antichi, tuttavia, consideravano Omero l’inventore (s) di questo genere (come di molti altri, del resto), mentre in realtà egli (o meglio, i suoi poemi) è piuttosto una testimonianza della pratica retorica in epoca arcaica. Storicamente parlando, le prime attestazioni della pratica retorica ‘categorizzata’ le abbiamo a Siracusa, in Sicilia, con Còrace e il suo allievo Tisia. Nel 465 a.C., infatti, con la cacciata del tiranno Trasibùlo e l’avvento della democrazia moderata, vennero allestiti numerosi processi col fine di recuperare i beni confiscati durante il periodo della tirannide. In particolare, abbiamo delle τεχναι, su cui gli storici sono discordanti. Alcuni, infatti, pensano che esse siano dei manuali di retorica con tanto di informazioni sulla legislazione, mentre altri le ritengono degli exempla, dei modelli di orazioni da imitare (quest’ultima è l’opinione generalmente accettata oggi). Addirittura, secondo lo studioso Thomas Cole (1801-1848), tutte le technai antiche sarebbero dei modelli. Ma la sua tesi non è credibile, dal momento che Aristotele, nella sua Poetica, critica dei manuali, pertanto è impossibile che non circolassero che modelli. In conclusione, le technai, salvo quelle di Corace e Tisia, che probabilmente erano modelli, erano manuali in cui venivano dati consigli di composizione, metodi di persuasione e modalità di espressione. (ERGO: Corace+Tisia=modelli VS. tutte le altre technai = manuali). Ad ogni modo, le orazioni, ovviamente, influenzavano i manuali, i quali a loro volta davano consigli per scrivere discorsi. Nel caso di uomini politici, poi, soprattutto se molto in vista, i discorsi non venivano nemmeno scritti, perché i politici temevano poi di essere scambiati per logografi. Inoltre, non dovevano essere pronunciati di nuovo, poiché erano scritti per occasioni specifiche e contingenti. Ad Atene, la retorica fu introdotta dal sofista Gorgia da Lentini (località, non a caso, siciliana), che, nel 427a.C., si recò ad Atene in qualità di ambasciatore per chiedere aiuto nel conflitto contro Siracusa. Con Gorgia, la retorica effettua un salto di qualità, dal momento che, oltre ad essere un’arte, una tecnica, essa acquisiva per lui una valenza gnoseologica (in altre parole, era un modo per conoscere). Con Gorgia, si diffonde il concetto dell’ s , ossia del verosimile, che prevale sull’, la conoscenza assolutamente certa. In sostanza, non era più necessario essere effettivamente dalla parte della ragione, bastava essere tanto convincenti da sembrare nel giusto. Questa visione, ovviamente, era pericolosa, dal momento che metteva tutto in discussione, e permetteva al discorso più forte (anche se falso) di prevalere sul più debole: nasce la sofistica. La parola, infatti, era ritenuta (ed effettivamente è) piccola, ma potente, in grado di cambiare la realtà; i giudici, inoltre, erano cittadini estratti a sorte, e non esperti di diritto: essi erano, perciò, persuasi facilmente, soprattutto facendo leva sull’emotività. Gorgia introdusse anche le prime figure retoriche, chiamate anche figure gorgiane (in greco ) , quali isocolia (frasi simmetriche e di uguale lunghezza), parallelismo, antitesi e omoteleuto, tanto che alcuni studiosi parlano di prosa musicale. Altro insigne retore fu Protagora di Abdera, che può essere inserito nella corrente dei sofisti, insegnanti a pagamento, che istruivano i loro ricchi ed aristocratici allievi a convincere, anche a scapito della verità. Perché l’oratoria si affermi come genere scritto, però, c’è bisogno di un pubblico che la ascolti/legga; l’oratoria deliberativa ed epidittica si affermarono, infatti, come genere letterario alla fine del V secolo a.C., quando iniziò ad essere insegnata nelle scuole. In età alessandrina, Cecilio di Calatte (un retore siciliano di età augustea), o più in generale i filologi alessandrini, stilarono un canone dei dieci oratori più illustri (una sorta di top ten), in cui figuravano, tra gli altri, Lisia, Isocrate, Demostene, e lo storico avversario di quest’ultimo, Eschine. In età latina e medievale, poi, vennero dati a quest’arte numerosi contributi ed attenzioni. Tra le altre cose, l’oratoria influenzò profondamente anche il teatro (sia greco che romano), soprattutto in alcuni casi di sticomitia e nell’uso dei δισσοι λόγοι, che consistono nell’esposizione di due tesi opposte, ma altrettanto valide (basti pensare a Medea e Giasone, o anche Antigone-Caronte). Le orazioni erano strutturate in 5 parti: - EXORDIUM; - NARRATIO; - ARGUMENTATIO; - PERORATIO. Oratoria giudiziaria e Lisia Sistema giudiziario ateniese l’orazione al carattere dell’interessato, ma anche la facoltà di creare dettagli e qualità caratteriali che potessero mettere il cliente in buona luce agli occhi dei giudici. Isocrate e il suo tempo – il pacificatore delle pòleis che diede fiducia a Filippo Isocrate visse, come Demostene, nell’ultimo periodo della democrazia ateniese, e assistette alla perdita di libertà da parte delle pòleis a causa dell’invasione macedone. In particolare, nel 399 Socrate viene ucciso, Sparta viene vista come pedina della Persia durante il periodo della sua egemonia, la quale termina con la battaglia di Leuttra (371 a.C.), che inaugura l’inizio dell’egemonia tebana. Ma neanche questa dura. Tebe andrà incontro ad un progressivo decadimento in seguito alla battaglia di Mantinea del 362, in cui morì Epaminonda, il suo ‘campione’. Nessuna delle due città aveva, comunque, le carte giuste per poter avere un’influenza sull’Ellade come quella che Atene aveva avuto: sparta non aveva il prestigio culturale, e Tebe non era abbastanza forte economicamente. Per quanto riguarda A., invece, essa formò una seconda lega delio-attica nel 378, che non avrà però seguito, in quanto, nel 355, il comportamento aggressivo e vessatorio di A. farà scoppiare una guerra e sciogliere la lega (da questo momento in poi, infatti, I. stesso dirà che A. deve abbandonare l’imperialismo ed adottare una politica conservatrice e terriera). In generale, infatti, si può dire che il sistema delle pòleis era ormai inadeguato ai tempi. Nemmeno le filosofie dell’epoca hanno più fiducia nella politica cittadina: basti pensare all’utopia formulata da Platone. Effettivamente, la pace e la stabilità furono riportate solamente dal conquistatore Filippo, con la battaglia di Cheronea del 338 a.c. In questo periodo, sono praticate soprattutto oratoria deliberativa (Demostene, che metterà Atene in guardia contro Filippo) ed epidittica (Isocrate, che invece vedrà in Filippo l’unico possibile pacificatore e leader delle pòleis divise). Inoltre, questo periodo vede la crisi del teatro, che, oltre ad avere funzioni d’intrattenimento, era un luogo di dibattito pubblico (basti pensare al contenuto politico delle commedi e aristofanee). Ora, invece, restano solo le orazioni ad influenzare l’opinione pubblica. Biography Isocrate nacque nel 436 a.C. (fu dunque contemporaneo di Lisia, anche se visse molto di più). Il padre era un ricco fabbricante di flauti (), ed ebbe perciò una buona educazione. Il padre, però, perse la propria ricchezza a causa delle troppe liturgie cui attendeva, quindi Isocrate, ad un certo punto, fu costretto ad intraprendere la ‘carriera’ di logografo (fonte: Aristotele), anche se non pubblicamente (ricordiamo la poca fama di cui godevano i logografi). Ebbe comunque grande fortuna, soprattutto grazie alla sua scuola, che egli fondò nel 390, e in cui insegnava l’arte retorica in sé, ma in cui proponeva anche una sorta di progetto politico (ricordiamo la sua posizione nei confronti di Filippo). La scuola isocratica era in polemica con i sofisti, gli eristici (filosofi/oratori che dissertavano su ragionamenti sottili e futili, esagerati, e che ritenevano che la retorica potesse condurre alla felicità e alla ricchezza) e, in particolar modo, con Platone, dal momento che per Isocrate la filosofia doveva avere fini pratici, di utilità pubblica (infatti, storicamente, i più grandi politici del tempo uscirono dalla sua scuola, e non da quella platonica), mentre Platone, con le sue utopie, filosofeggiava inutilmente. Inoltre, politicamente, Platone era disilluso, si rifugiò nell’utopia della Repubblica, mentre Isocrate, come vedremo, credeva ancora nella politica. Al di là delle differenze, comunque, entrambi criticavano gli eristici (anche perché entrambi ritenevano di fare del bene alla società con la propria filosofia, dunque non potevano apprezzare dei retori che sfruttavano la parola per il semplice gusto di vincere un agone o a solo scopo di lucro), l’oratoria professionale (es, giudiziaria ecc, considerata avente fini bassi) e i filosofi fisici. Nel Fedro platonico, però, è presente un elogio di Isocrate: vero o ironico? Non si sa. Nel 356 a.C. Isocrate affrontò un processo di αντιδωσιs, che perse perché effettivamente era molto ricco (questo dimostra il successo che ebbe la sua scuola). Morì nel 338a.C., stesso anno della battaglia di Cheronea, secondo la leggenda lasciatosi morire di fame dopo che la Grecia aveva perso la libertà (in realtà perché era ultraottantenne). Di Isocrate ci restano 21 orazioni di certa attribuzione, di cui 6 giudiziarie (testimonianza della sua attività di logografo) e 15 epidittiche (che furono però solo scritte, e mai pronunciate, a detta di Isocrate per il suo carattere timido e la mancanza di voce). Inoltre, abbiamo 9 lettere. Ovviamente, non si possono eliminare totalmente i dubbi sull’autenticità delle opere, nonostante Isocrate si occupasse personalmente e con grande cura della loro pubblicazione, e i suoi allievi controllassero che non circolassero opere spurie. Inoltre, permane il dubbio che esse fossero solo delle esercitazioni per gli allievi, dei modelli per mostrare come comporre (in particolare Isocrate tendeva ad insegnare un genere retorico per esempi negativi). Proprio per il fatto di essere scritte, queste orazioni non furono composte ‘a caldo’, bensì a volte anche molto tempo dopo l’occasione contingente che le aveva causate. Ciò causa problemi di datazione. 1) Ad ogni modo, l’orazione più importante per comprendere Isocrate è Contro i sofisti, una sorta di testo programmatico, in cui sono espresse le sue idee e i suoi intenti pedagogici. Egli condanna l’oratoria- spettacolo, ed afferma che l’eloquenza è una qualità naturale, che sicuramente può essere affinata con l’esercizio, ma che, a meno che non ci sia un’inclinazione particolare, non potrà mai svilupparsi. Inoltre, cosa ancora più importante, afferma che la retorica deve avere per fine l’utilità alla comunità, e non la spettacolarità, il lucro, o il successo. 2) Altre orazioni sono l’Elogio di Elena, che sappiamo essere un’esercitazione scolastica (lo definì egli stesso παιδιον ). Egli parte da un altro elogio, forse di Gorgia (ma non ne siamo sicuri), facendo un esempio negativo (l’opera con cui egli fa il confronto, infatti, era un’apologia, e non un elogio). Parlando di elogi, poi, c’è da dire che essi erano un modo per esprimere il proprio pensiero politico, poiché, ovviamente, egli elogiava coloro di cui condivideva la linea politica. 3) Abbiamo poi Busiride, risposta al Busiride di Policrate, per insegnare anche come contrattaccare l’avversario. Busiride era un re immaginario egiziano, che uccide tutti gli stranieri, e che fu ucciso da Eracle. In quest’opera, paradossalmente Isocrate lo difende. Un'altra caratteristica di Isocrate è la differenza che egli fa tra δόξα e επιστήμη, ossia l’opinione e la conoscenza, la verità assoluta. In particolare, Isocrate dice che è la quella di cui si ha bisogno per vivere ed avere successo nel χαιροs, ossia nel momento opportuno. L’episteme non si può conoscere, ed è inutile cercarla, cosa che invece fa, vanamente, Platone. Altre orazioni di Isocrate sono: - Il Panegirico (380 a.C.): fu il primo discorso politico di Isocrate, ma venne scritta 10-15 anni dopo l’evento, e non per la recitazione immediata. Imita i discorsi d’apparato (ufficiali) delle feste, chiamati s. In questo discorso, tenta di ristabilire la concordia tra le pòleis, sotto la guida di Atene, dal momento che questa città ha primato culturale e prestigio storico, in funzione antipersiana (Isocrate insiste soprattutto sul fatto che Atene ha già sconfitto la Persia, che I. considera il nemico della Grecia per eccellenza). L’argomento, inutile dirlo, era trito e ritrito, sentito mille volte nel corso di cento anni, e forse proprio per giustificare la banalità delle argomentazioni, Isocrate afferma in questo testo che non conta tanto cosa si dice, quanto, piuttosto, la forma in cui si pongono i concetti, e il modo in cui si parla. Grande spazio è dedicato all’elogio di Atene, fortemente polemico verso Sparta, che, tra l’altro, nel 376 Atene aveva sconfitto in una battaglia navale. Inoltre, I. ribadisce l’associazione della schiavitù allo stato persiano, contrapposto alla libertà politica tipica dei Greci (GRECI=LIBERTA’ vs PERSIA = SUDDITANZA). Dice, inoltre, che gli Elleni, i Greci, sono tali non da un punto di vista politico (non sono un unico stato), bensì culturale. Comunque (e questo vale in generale per le opere isocratiche), I. non dà una soluzione immediata alle questioni di attualità, ma vuole esprimere il suo progetto politico da attuare su larga scala, alla lunga. - Areopagitico: discorso sull’areopago, che in tempi antichi aveva avuto anche poteri decisionali, ma che ai tempi di I. era stato ‘degradato’ a semplice tribunale. Da questa proposta emerge la visione conservatrice di Isocrate, che mira ad un ritorno alla πάτριος πολιτεία, ossia alla costituzione dei padri. Infatti, si pensava che ai tempi della p.p. ci fosse la pace grazie all’azione dell’Areopago. Ma non si può far regredire una società; in questa proposta I. è stato un po’ ingenuo; - Sulla pace: crolla il sogno della concordia tra pòleis auspicato da I. nel Panegirico, poiché questa orazione risale al periodo della guerra tra A. e le pòleis alleate. Qui I. fa un elogio della pace, dicendo che dapprima occorre risolvere i problemi interni, e poi creare una lega panellenica antipersiana, collaborando con le altre pòleis, non assumendo un atteggiamento tirannico; - Αντιδωσιs: 354 a.C., orazione scritta per difendersi in un processo di antidosis (che poi perderà, ma l’esito del processo non è importante ai fini letterari), perché Megàclide citò in giudizio I. per la liturgia di una trireme (trierarchia). I. scrive questa orazione soprattutto per difendersi dall’accusa di essersi arricchito con la sua scuola, e lo fa difendendo il proprio operato da maestro. È un’orazione lunghissima (fu, dunque, probabilmente rimaneggiata, e questo dimostra anche quanto fosse importante per I.), in cui Isocrate non nega di essere ricco, ma si difende dall’accusa di logografia e ribadisce i suoi principî, per i quali la formazione su base retorica è l’unica che sia utile praticamente alla società, e anche ai singoli individui, mentre le altre discipline (le arti o , come le denominerà lui stesso, e matematica, scienze, ecc.) sono inutili agli adulti. Insomma, è qui che nascono gli studia humanitatis, e la concezione dell’oratoria come unione di inclinazione naturale ed esercizio (poi condensata da Cicerone nell’espressione vir bonus dicendi peritus). Egli parla infine della , unico modo per sopravvivere ed avere successo nel mondo dei . - Filippo: 340 a.C. è un’orazione di contenuto politico; Filippo (salito al trono nel 359) è l’unico in grado di unire la Grecia contro la Persia e di portare la pace. Si tratta, ovviamente, di un ritratto molto idealizzato del macedone, ma quest’opera presenta una novità retorica: per la prima volta, I. non si concentra prettamente sulla forma, poiché vi è l’urgenza di trovare un ‘tutore’ per la Grecia. Si passa dal discorso epidittico a protrettico (esortazione), in questo caso in forma di epistola . Storicamente, però, avrà ragione Demostene; - Panatenaico: 339 a.C. un altro discorso fittizio (come il panegirico), collocato nello scenario delle panatenee. C’è una celebrazione molto idealizzata di Atene, la cui immagine e il cui glorioso passato diventano quasi un’utopia in cui rifugiarsi. Alcuni studiosi ritengono questa orazione una sorta di difesa dall’accusa di “pro-filippismo”, seguita al discorso Filippo. Inoltre, I. si difende dalla sua lontananza dalla vita politica, dicendo che, se non altro, egli ha scritto, insegnato e filosofeggiato per il bene pratico della comunità (non lontano dal rapporto tra politica e otium in Seneca). L’originalità di questo discorso sta nella forma: esso si presenta, infatti, in una cornice particolare: I. finge di sottoporre questo discorso al giudizio di un suo ex-allievo filo-spartano (di vedute quindi opposte a quelle isocratiche), tanto che l’orazione assume la forma di un dialogo: come Seneca nelle epistulae, Isocrate accetta il dibattito e non impone più il proprio sapere. Per quanto riguarda l’epistolario (9 lettere), c’è il problema di stabilire se esse siano vere oppure modelli per la scuola. Il pensiero politico di Isocrate è altamente dibattuto, dal momento che, a seconda dell’orazione che si prende in considerazione, esso risulta ora conservatore, ora progressista, tutto volto al panellenismo. Alcuni lo avvicinano al pensiero moderato di Teràmene, ma in realtà, non si può condensare il pensiero isocratico in termini di stretta attualità, e l’anacronismo delle opere ne è la prova: I., come già detto, sfruttava l’oratoria come strumento politico, per attuare i suoi progetti in futuro, quando i tempi sarebbero a Filippo, composta da Demostene stesso (che però, si dice, non riuscì a parlare di fronte a Filippo), Eschine, un oratore del partito moderato e nemico di D., e Filocrate, da cui la pace che seguì prese il nome. Sostanzialmente, A. si piegava in parte a Filippo, poiché gli concedeva la supremazia sull’anfizionia delfica. In questo stesso anno, D. scrive l’orazione SULLA PACE, in cui afferma che questa pace è solo una tregua, che deve servire ad A. per prendere i dovuti provvedimenti contro Filippo. Nel 344 Demostene scrisse la SECONDA FILIPPICA, in cui accusa Filippo di non aver rispettato la pace, e in cui attacca i concittadini filo-macedoni e filo-spartani (con un’evidente allusione ad Eschine). Inoltre, D. rivendica Anfipoli, ma F. la tira per le lunghe a questo proposito, poiché vuole prendere tempo per rafforzare l’esercito e trattare in questo modo da una posizione più forte: D. lo capisce, e lo dice in questa orazione. Al 343, invece, risale SULLA CORROTTA AMBASCERIA, in cui, in un processo, D. accusa Eschine di aver favorito F. nelle trattative a scapito di A., iniziando le trattative troppo tardi (50 giorni dopo l’arrivo) e di avere così dato modo a F. di temporeggiare. In questo discorso sono presenti numerosi attacchi personali contro Eschine, il quale, però, anche grazie all’aiuto di Eubulo e per pochi voti, fu assolto. Nel 341, D. scrisse poi la TERZA FILIPPICA, il discorso più veemente di tutti, per esortare tutte le città greche a combattere contro Filippo in una lega panellenica (stesso progetto della I FILIPPICA). Ci sono due redazioni di questa orazione, segno del fatto che fu rimaneggiata, e poi ampliata di molto, quindi è la più curata, e di conseguenza la più importante, del corpus demosteneo. Abbiamo poi un testo tramandato col nome di IV FILIPPICA, ma in realtà si tratta di 10 testi uniti da un autore antico più tardo di D. Essa, quindi, non esiste come unica orazione. Storicamente, alla fine, nel 338 a.C., nascerà una lega panellenica in occasione della battaglia di Cheronea, che verrà comunque vinta da Filippo. Demostene stesso combatté in questa battaglia, ma poi scappò (e venne preso molto in giro per questo). Nonostante ciò, D. fu incaricato di comporre l’epitaffio per i caduti di Cheronea, poiché egli viene comunque riconosciuto come difensore della libertà, in quanto per anni aveva cercato di impedire una simile disfatta. Nel 337, Demostene si trova a fronteggiare direttamente Eschine in tribunale. Ctesifonte aveva infatti proposto di dare una corona a D. in una cerimonia teatrale durante le Grandi Dionisie, ma E. si oppone perché D. è ancora un magistrato in carica (adibito alla protezione delle mura), quindi non si può ancora giudicare del suo operato. In questo processo, Eschine critica tutto di Demostene , sia la vita privata che il suo progetto politico. In tutta risposta D. si difese con l’orazione SULLA CORONA. Questa orazione è ritenuta la più bella di Demostene, anche perché è una sorta di testamento politico, in cui D. giustifica il suo operato (un po’ come Isocrate nell’A ntidosis ). Egli dice infatti, in una sorta di atteggiamento titanistico e tragico, che, anche se c’è il rischio di essere sconfitti (cosa che può accadere per τύχη, ossia per la sorte, di memoria tucididea), bisogna comunque agire in linea con i propri ideali, che nel suo caso si riducevano alla libertà delle pòleis. Fu un discorso molto accalorato, e, infatti, vinse. Il processo, tuttavia, si svolse solo nel 330 a.C., perché nel 336 muore Filippo e il partito di Demostene tornano in auge, mentre quello filo-macedone cala, anche perché il Gran Re manda denaro alle pòleis per aiutarlo contro Alessandro (si ricordi che Filippo aveva iniziato un’impresa contro la Persia, che sarà poi continuata dal figlio). Quest’ultimo, però, come monito alle città greche, rade al suolo Tebe (tranne la casa di Pindaro, stando alla leggenda), che si era ribellata. La storia avrebbe dato ragione ai filo-macedoni, ma D. fu il vincitore morale, poiché mantenne vivi fino all’ultimo i valori di libertà e indipendenza del cittadino greco. Non si pensi, però, che Demostene fosse un cittadino modello integerrimo e privo di debolezze e contraddizioni. È vero che rimase fedele ai suoi ideali, ma alla fine mostrò un segno di debolezza. Nel 324, infatti, era giunto ad Atene da Babilonia Àrpalo, tesoriere di Alessandro, che era partito per la spedizione in India. Egli aveva sperperato il tesoro del macedone, e quando apprese la notizia del rientro del re scappò ad Atene (perché lì era ancora attivo il partito anti-macedone, e perché vi aveva una cittadinanza onoraria per averli aiutati, con i soldi di Al., durante una carestia) con 700 talenti. Alessandro pretese il suo espatrio, ma gli Ateniesi lo trattennero in città per processarlo; in seguito, però, Àrpalo riuscì a fuggire (ma sarebbe stato catturato e ucciso poco dopo) anche con l’aiuto di Demostene, e, nel frattempo, il patrimonio di Al. si era dimezzato (probabilmente D. ne aveva ricevuta una parte). Riconosciuto colpevole, D. fu costretto a fuggire a Trezene, una città del Peloponneso, per non pagare l’enorme ammenda impostagli. Nel 323, però, morì Alessandro, così D. poté tornare ad Atene, anche perché i suoi concittadini gli avevano pagato la multa. Tra lo stesso anno e il 322 a.C., però, il diadoco Antìpatro sconfigge Atene a Crannone, in Tessaglia , e si impadronisce della Grecia. Chiede le teste degli anti-macedoni, tra cui, ovviamente, figura Demostene, che fugge sull’isola di Calaudia dove, rimanendo coerente ai propri principi, si suicida (morì lo stesso anno di Aristotele). Di Demostene abbiamo 61 discorsi , di cui 42 giudiziari. Non tutti sono propriamente di Demostene: alcuni, ad esempio, sono attribuiti ad Apollodoro (un oratore della cerchia di D.). altre, invece, sono sospette. Sicuramente sue sono, invece, quelle che lo interessano di persone, ovviamente. Le restanti 19 si dividono in 17 demegorie e 2 epidittiche (l’epitaffio di Cheronea e un erotico, sicuramente spurio). Inoltre, abbiamo 56 brani chiamati proemi , che costituiscono degli esordi per delle orazioni. Probabilmente erano esordi standard che dovevano essere utilizzati in altri discorsi (ricordiamo che l’esordio era una delle parti più curate perché doveva rompere il ghiaccio, mentre il resto poteva anche essere improvvisato). Altri studiosi, invece, ritengono che fossero parti di discorsi, ma non necessariamente esordi. Abbiamo anche 6 epistole: per alcuni si tratta di demegorie apologetiche, ossia orazioni inviate all’assemblea, verosimilmente durante l’esilio. Una quaestio del corpus demosteneo consiste nel fatto che non necessariamente egli pronunciò ciò che aveva scritto, e per diversi motivi: - Le orazioni deliberative, a differenza delle giudiziarie, non venivano imparate a memoria, quindi qualche parte poteva essere improvvisata; - La III Filippica è troppo violenta (fu anche rimaneggiata per la pubblicazione in una seconda edizione); - Sulla corona è troppo lunga; - Alcune orazioni sono curatissime, altre invece no (ad es. Midiana, orazione giudiziaria contro il corego Midia, che aveva schiaffeggiato Demostene in pubblico; solo alcune parti sono scritte, probabilmente non fu mai pronunciata); La cura con cui componeva dipendeva ovviamente dall’occasione, dal tempo che aveva a disposizione e dalla reazione del popolo (ad esempio, riscriveva le orazioni dopo aver visto il ‘feedback’ dell’assemblea). In generale, le orazioni più curate sono le prime, poiché il giovane D. deve affermarsi sulla scena politica. Pensiero politico e stile Demostene è un caso molto particolare. Campione dell’ideale di libertà delle pòleis greche, non considerò mai, però, la Grecia come un’entità politica, ma solo culturale. Egli opera e pensa all’interno dell’ambito cittadino di Atene. Quanto alla sua posizione circa la democrazia, egli non è propriamente un democratico radicale, ma piuttosto un aristocratico che sfrutta le istituzioni democratiche per controllare le masse tramite le tecniche oratorie sfoggiabili nelle assemblee. Infatti, nonostante promuovesse la filantropia verso i poveri e un’eguaglianza sociale e fiscale, era comunque dalla parte dei possidenti terrieri, e non pensava minimamente a stravolgere la struttura sociale. Sostanzialmente, il suo progetto era quello di creare una lega panellenica guidata da Atene contro Filippo, come emerge dalla I e III filippica. Ma il prestigio ateniese era ormai passato, era un ideale irrealizzabile. Per questo, lo studioso Dnoyser (?) ritiene che Demostene si sia dimostrato ‘miope’, nel senso che non si è accorto che i tempi erano ormai cambiati e che Atene non era più una potenza. Ma in sulla corona egli lo dice espressamente che, pur col rischio di essere sconfitti, bisogna combattere per i propri ideali, e Atene non poteva rinnegare la propria παιδεία, ossia la propria vocazione, la propria tradizione. Inoltre, forse Filippo, all’inizio, non aspirava alla conquista di tutta la Grecia, ma solo al rafforzamento dei propri confini, e si è scontrato con Atene perché ha conquistato territori ricchi di risorse importanti per la città. Demostene, forse, questo non lo ha capito. Questo, in sostanza, è il grande dubbio che riguarda Demostene: credeva veramente che Filippo fosse un inetto, che guadagnava potere e territori per la sola inettitudine dei cittadini greci, o lo diceva solo per spronarli? NON SI SA. Nelle sue orazioni, Demostene insiste sull’origine semi-barbara di Filippo, mentre Isocrate lo faceva discendere da un Eraclide, Tèneo, per legittimare il suo ruolo guida dei Greci. Nonostante tutto, comunque, Demostene, suicidandosi, rimane coerente con i suoi principi. Per quanto riguarda lo stile, invece, le sue orazioni sono molto più libere, ad esempio, di quelle giudiziarie, che avevano una struttura fissa, e le parti più curate sono l’esordio e la perorazio, mentre le altre potevano anche essere improvvisate (ma, proprio per questo, non le conserviamo). Queste le caratteristiche principali di Demostene: - Cattura dell’emotività del pubblico; - Strategia oratoria varia tra i vari discorsi, e talvolta all’interno del medesimo discorso; - Δεινοτηs: veemenza, energia, potenza, stile incalzante; - Numerose domande retoriche, apostrofe, effetti sopresa ecc. (espedienti tipici dell’oralità), tanto da instaurare quasi un dialogo con l’uditorio; - Lingua attica, mista a dorismi e termini poetici, per catturare l’attenzione dell’assemblea, che era composita; - Capacità di creare dei caratteri (ad es. Filippo); - Molti luoghi comuni (μνωμαι), molto apprezzati dal pubblico, perché ci si riconosce. Le perorationes, incredibilmente, sono ‘la quiete dopo la tempesta’, poiché, in confronto al resto del discorso, risultano tranquille, pacate; quanto agli esordi, invece, essi possono essere: - Aporetici: “la situazione è disperata, ma ecco la soluzione”; - IN MEDIAS RES: attacco diretto al problema; - Terza posizione: D. presenta due posizioni opposte, entrambe non valide, screditatesi a vicenda, e poi propone la propria, che risulta vincente. A D. vennero tributati onori sin da subito dopo la sua morte: onori ai suoi discendenti e gli venne dedicata anche una statua. Fu poi, nei secoli seguenti, ripreso come simbolo della libertà della Grecia. Ad esempio nel XV sec., contro l’invasione turca, e poi da Niebhur contro Napoleone. Altri, invece, criticano la sua azione politica. Tutti concordano, però, nel definirlo il campione dell’oratoria deliberativa. L'età ellenistica Il termine ellenismo fu coniato dallo studioso Droysen2 nel XIX secolo, ed è utilizzato per indicare l'epoca storica ce va dal 323a.C. (anno della morte di Alessandro Magno) al 31a.C. (battaglia di Azio, scontro definitivo tra Augusto e Marco Antonio). esso è anche noto come età alessandrina, o alessandrinismo (tuttavia, quest'ultimo termine si usa soprattutto in riferimento alla cultura e, in particolare, alla poesia, ed è tratto dalla capitale culturale di allora, Alessandria d'Egitto, sede della rinomata biblioteca e di un museo). La radice del termine era già presente in greco, nelle due parole s, aggettivo indicante chi si esprime in greco, indipendentemente dalla 2 Johann Gustav Droysen (1808 - 1884): storico e politico tedesco L'ambito in cui essa si sviluppò era quello della crisi delle pòleis, in cui il dibattito politico era sempre più difficile e/o inutile. A prova di ciò, l'assenza di nuove opere tragiche (venivano riproposte le tragedie dei tre grandi tragici dei secoli precedenti). La commedia, invece, sopravvisse, ma cambiò radicalmente. Le tendenze presenti nella commedia di mezzo, poi, verranno portare all'estremo con la commedia nuova. COMMEDIA ANTICA COMMEDIA DI MEZZO COMMEDIA NUOVA Argomento politico Evasione, divertimento puro Assenza politica, ma messaggio quanto meno moralistico Assenza di attacco personale Assenza di attacco personale Costumi con fallo e linguaggio forte e salace (ancora collegato con le falloforie) Linguaggio moderato, 'borghese' (riso --> sorriso) Linguaggio medio, ambientazione 'borghese', per società 'per bene', media (il che allontanava dalla commedia il pubblico non colto, le classi sociali 'rozze' e 'basse') Parabasi (dibattito politico) Assenza di parabasi Assenza di parabasi, chiusura della quarta parete Coro (=collettività) commenta la vicenda Assenza di coro, (intermezzi musicali senza battute che separano gli atti) Intermezzi Questioni sociali, che riguardano la pòlis (cittadini) Temi privati, quotidiani, affetti familiari (individui) Individualismo (personaggi=persone qualunque, talvolta senza identità precisa, per indicare l'universalità della loro situazione) Trame talvolta complesse e paradossali Trame schematiche Trame schematiche ma verisimili, paradosso accettato perché reso possibile dalla , che è parte della quotidianità Personaggi --> Tipi (anche due to Teofrasto, Aristotle's pupil, che cataloga i tipi di personaggi) Tipi, ma problematici Educativa, politicamente impegnata Puro divertimento Morale 'consolatrice' Eroe singolo Pluralità di personaggi Attenzione all'humanitas e ai rapporti tra i vari personaggi Presa in giro dei contadini per evidenziare rapporto tra città e campagna Presa in giro campagna per gusto della mockery Presa in giro dei contadini: segno di gap tra città e campagna Parodia mitologica Parodia mitologica Parodia mitologica (si conserva) Polimetria (più metri diversi) No polimetria; soprattutto trimetro giambico; Trimetro giambico Donna assente o di poca importanza, mero oggetto del desiderio Importanza alla famiglia = donna Donne: protagoniste positive, si indaga la loro psicologia Elemento gastronomico: utopia Gastronomia solo per piacere dell'abbuffata Come nella commedia di mezzo I maggiori esponenti della commedia di mezzo furono: Antifane di Rodi o Smirne (IVsec.- 310 a.C.): autore prolifico; solo titoli e frammenti; molta parodia mitologica, in cui univa mito e attualità, e dei mestieri; attenzione alla donna; ridicolizza i filosofi e il loro parlare complicato; non ebbe molto successo; fu anche autore di una s (poetica), in cui fa differenza fra tragedia e commedia (è importante perché è un indizio dei dibattiti letterari); Alessi (372-270): ne parla il lessico di Suda (un lessico bizantino), per il quale era zio di Menandro; secondo altri, invece, fu suo maestro; ha uno stile raffinato e leggero; es. Fedro (presa in giro di Platone); Cavaliere (esalta Demetrio Poliercete, governatore di Atene, per aver scacciato i filosofi); Odisseo tessitore (Odisseo sta a tessere la tela al posto di Penelope); Lino (cantore mitico che cerca di insegnare la poesia ad Eracle, che però preferisce leggere di gastronomia); sarà imitato da Plauto; Anassandride di Rodi (ma operante ad Atene): prime scene di seduzione; Città (differenze tra Greci ed Egizi); elenco di gastronomie; Eubulo: ancora retaggi della commedia antica: tematiche di attualità (es. Dionigi, commedia contro l'omonimo tiranno); uso comico del daletto, linguaggio pesante e polimetria (es. Antiope); Rintone (323-285 a.C.) di Siracusa/Taranto: fu considerato l'inventore di un nuovo genere, l'ilarotragedia (farsa + tragedia); per altri, invece, compose fliaci tragici, dando dignità letteraria ai fliaci6, che porteranno alla nascita del mimo a Roma. Commedia nuova Abbiamo traccia di concorsi teatrali pubblici fino al 120a.C., anche se venivano rappresentate opere anche in occasioni private. C'erano anche compagnie di attori girovaghi, come ad esempio gli 'Artisti di Dioniso'. Di tutti i commediografi della neà comodìa, il solo le cui opere ci sono giunte per intero è Menandro (era infatti il più famoso). Insieme a lui, però, nel canone ellenistico dei commediografi compaiono anche certi Filèmone e Dìfilo, di cui abbiamo, però, solo titoli e frammenti. Quanto alla struttura, le commedie 'nuove' erano suddivise in 5 atti, divisi da intermezzi ( s ), che non avevano a che fare con la trama. Si assiste in età ellenistica alla chiusura della quarta parete: mentre nella commedia antica gli attori, con la parabasi, si rivolgevano direttamente al pubblico, rompendo lo 'schermo' che li divideva, in età ellenistica ciò non avviene. Questo indica un distacco fra vita reale e rappresentazione. Anche lingua e costumi di scena sono più sobri e moderati. Inoltre, si perde la polimetria e si predilige il trimetro giambico. Filèmone e Difilo Questi due nomi, di cui si conservano solo pochi frammenti, compaiono nel canone alessandrino insieme a Menandro, anche se, dalle fonti, si capisce che non erano neanche lontanamente tanto apprezzati quanto quest'ultimo (Filèmone, ad esempio, era considerato pesante e prolisso). Effettivamente, entrambi appaiono ancora molto legati alla commedia di mezzo e possono pertanto essere considerati ancora degli autori di transizione. Nati entrambi attorno al 360a.C. (pertanto almeno vent'anni più grandi di Menandro), furono attivi ad Atene, nonostante provenissero da luoghi piuttosto lontani (il che testimonia l'ampia diffusione del teatro greco). Filemone, infatti, era originario o di Siracusa o di Soli, in Cilicia. Nelle sue commedie sono ancora presenti dei riferimenti all'attualità (caratteristica addirittura della commedia arcaica), ad esempio nella commedia Filosofi, in cui prende di mira un filosofo stoico del suo tempo. 6 Con il termine , nella Grecia antica si designava un demone della fecondità legato a Dioniso, che passò poi ad indicare l'attore comico, in particolare l'attore delle farse fliaciche , per lo più comiche deformazioni della trattazione di miti da parte di determinati poeti tragici, le quali erano caratterizzate da vivacità e realismo. Quanto a Difilo, invece, egli era probabilmente originario di Sinobe. Sua caratteristica era la parodia mitologica (tipica della commedia di mezzo), in particolare della figura di Eracle. Inoltre, i suoi personaggi hanno psicologie da tipi, poco approfondite. Entrambi sarebbero poi stati ripresi, nel processo della contaminatio, da Plauto. Menandro Menandro nacque da nobile famiglia ateniese tra il 341 e il 340a.C. Fu efebo con Epicuro, allievo di Teofrasto (peripatetico che stilò un canone sui tipi di personaggi teatrali) e amico di Demètrio Falèreo. Quest'amicizia dà qualche indicazione sull'orientamento politico di Menandro, poiché Demetrio, che fu governatore di Atene dal 308 al 307, era un oligarca moderato. Inoltre, quando a Falerèo successe Demetrio Poliercete, Menandro venne perseguito. Quanto al suo rapporto con Teofrasto, invece, ci sono due scuole di pensiero: Secondo Kort, Teofrasto avrebbe influenzato Menandro nella creazione di caratteri; lo studioso adduce come prova il fatto che la psicologia dei personaggi menandrei sia più approfondita di quella dei tipi di Teofrasto (si pensa quindi che M. l'abbia approfondita poi); Dall'altro lato, invece, la scuola di Regenbogen, adducendo come prova i titoli delle commedie menandree, che a volte riprendono i tipi catalogati da Teofrasto; Ad ogni modo, a favore della prima scuola (Menandro riprende Teofrasto e poi approfondisce le personalità, sempre senza esagerare l'introspezione psicologica), si può dire che già Aristotele aveva studiato, nell'Etica Nicomachea, i tipi teatrali. In generale, M. condusse una vita appartata; si dice che fosse follemente innamorato di un'etèra, Glìcera (che tra l'altro è anche il nome di una sua commedia), il che spiegherebbe la funzione moralmente positiva delle etere nelle sue commedie. Sicuramente molto letto ed apprezzato nell'antichità (tanto da essere invitato a corte da Tolomeo I ), scrisse circa cento commedie, per occasioni pubbliche e non, ma, nonostante ciò, riportò solo 8 vittorie (secondo alcuni per brogli, oppure perché non faceva abbastanza ridere). Nel Medioevo, il suo stile a tratti sentenzioso fece sì che venissero tramandate soltanto delle massime morali, sfortunatamente per il resto dei testi, che non vennero trascritti. Fortunatamente, però, sono di recente stati ritrovati dei papiri che conservano le commedie per intero. La datazione delle commedie menandree è una questione aperta, ma in generale si possono annoverare tra le commedie giovanili quelle ricche di elementi osceni, attacchi personali e metri diversi dal trimetro giambico, mentre sono attribuite al periodo della maturità le commedie moralmente più impegnate, riflessive, prive di elementi osceni e che trattano temi più seri. Umanesimo e realismo menandrei In Menandro si può parlare sia di umanesimo sia, in un certo senso, di realismo. Perché Menandro è umanista? In primis, ovviamente, per la centralità che l'uomo ha nelle sue commedie. In esse, infatti, vi è una visione antropocentrica dell'uomo presa da Euripide, mentre né gli dèi né i fatti in sé hanno più un ruolo centrale. In Menandro, ciò che conta sono l'individuo, visto nella sua dimensione quotidiana e privata, e il suo carattere, che viene messo in risalto dalle vicende. Interessante notare, poi, come Menandro scelga determinati tipi a seconda del messaggio che vuole veicolare. Inoltre, nonostante l'introspezione psicologica non venga ma spinta all'estremo con Menandro, rispetto agli altri autori, i suoi personaggi hanno una psicologia più approfondita (tra l'altro anche in maniera raffinata); si assiste in Menandro anche ad un radicale cambio di prospettiva: non c'è più, infatti, il cittadino ateniese che si sente superiore al resto del mondo, bensì un individuo, cittadino del mondo, appartenente non ad una pòlis in particolare, ma all'umanità. Sotto questo punto di vista, Menandro ha molto in comune con i biblioteca. Tra le altre cose, scrisse un elogio a Tolomeo Filadelfo, che salì al trono nel 283a.C., e nel 246 gli succedette Tolomeo III Euergete, che sposò una 'compaesana' di C: Berenice. Callimaco scrisse innumerevoli opere, ma, in linea con la poetica ellenistica (nella cui definizione egli giocò un ruolo fondamentale), tutte brevi. La particolarità di C. è che, nonostante sia stato uno dei poeti più apprezzati e prolifici dell'antichità, di lui non conserviamo che qualche opera, soprattutto per tradizione indiretta e papiri (i ritrovamenti papiracei, in particolare, dimostrano che veniva letto), e che molto sia andato perduto; a noi sono pervenuti: 6 inni9: ci sono giunti integri, tramandati nel corpus della tradizione innografica, insieme a quelli omerici e orfici; 60 epigrammi: giunti anch'essi integri, confluiti nell'Antologia Palatina, in distici elegiaci; un epillio: in esametri, intitolato Ecale; gli : 4 libri di elegie a carattere eziologico; abbiamo solo frammenti; 13 carmina di giambi (numero ripreso poi da Persio), suddivisi in 4 libri; 4 carmi isolati non riconducibili a nessun genere preciso, in metri lirici vari; Carmi d'occasione (ad esempio epinici); un poemetto polemico, forse contro Apollonio Rodio: l'Ibis (ripreso poi da Ovidio); Aitia Nel prologo di quest'opera viene apertamente definita la nuova poetica di C., che avrebbe poi influenzato tutta la poesia ellenistica successiva e la letteratura romana dal II sec. a.C. in poi. Quest'opera è importante anche perché unisce gli interessi eruditi e quelli poetici di C., combinando un'estrema cura formale con dei contenuti eruditi. MOOT POINT: i miti utilizzati da C. sono sconosciuti a noi moderni, o erano poco noti anche alla sua epoca ? Non lo sappiamo (anche se, per motivi di comunicazione e di sfoggio di erudizione ad un pubblico che, comunque, doveva essere in grado di capire le sue allusioni, è più probabile la prima ipotesi), ma nel caso in cui anche i suoi contemporanei conoscessero poco i miti da lui usati, si tratta di un enorme sfoggio di cultura, e della convinzione di poter creare anche con miti poco noti, grazie alla forma preziosa, poesia degna dell'epos omerico. Ad ogni modo, C. non inventa MAI miti ex novo. Per quanto riguarda i modelli degli Aitia, C. si rifà, ancora più che a Omero (fonte imprescindibile per ogni poeta antico), a Esiodo della Teogonia (poema eziologico sull'origine degli dèi), anche se, a differenza dei poemi arcaici, i carmi di C. sono del tutto svuotati della loro valenza religiosa (persino negli inni, come vedremo in seguito). Per C., infatti, la letteratura è fine a se stessa, erudizione pura. A Roma, tutti i più grandi poeti tennero presente l'eziologia callimachea: in primis Virgilio, la cui Eneide non è altro che un poema eziologico sulle origini di Roma; Properzio, invece, dichiarò il suo intento di essere un Callimaco romano e, prima di loro, Catullo e i neoterici, che si ispirarono apertamente alla sua poetica. Per quel che riguarda la struttura, invece, gli Aitia sono divisi in quattro libri, suddivisibili, per tipologia e pubblicazione, in due coppie: i primi due, probabilmente pubblicati prima, che dipendono più strettamente 9 Tradizionalmente, l'inno è un componimento in versi dedicato ad una divinità, che ne tesse le lodi e ne ricorda i meriti. dalla Teogonia: hanno una cornice mitica, costituita da un dialogo con le Muse, le quali, in quanto depositarie divine di un sapere quasi 'enciclopedico', danno a C. tutte le risposte di cui ha bisogno; questa particolare struttura è importante, poiché C., pur nella finzione letteraria, mira alla verisimiglianza (opposta soprattutto alla finzione epica-omerica), che può essere conferita solo da una verità rivelata e divina, poiché C.-autore, in quanto uomo storico, ha una visione e una conoscenza limitata alla sua contingente posizione storica. Inoltre, proprio come in Esiodo, il dialogo con le Muse rappresenta la sua iniziazione poetica. Ad ogni modo, nonostante la struttura sia tendenzialmente la stessa, i libri sono costituiti da quadretti, da scenette separate, relativamente poco organiche, anche se estremamente dettagliate nella loro individualità. In opposizione ai primi due libri, la seconda coppia, composta probabilmente attorno all'ascesa al potere di Tolomeo III e Berenice, è caratterizzata da una cornice storica: il terzo libro, ad es., si apre con un epinicio10, modellato sui carmi di Pindaro, per la vittoria di Berenice ai giochi nemei. Il componimento (originariamente scritto a parte) sulla chioma di Berenice (poi ripreso da Catullo nei carmina docta) confluì poi alla fine del IV libro, cosicché la figura di Berenice figura in apertura e chiusura di entrambi i libri della seconda coppia. Il riferimento alla regina è ovviamente un omaggio, ma ha anche la funzione di attualizzare i carmi eziologici. Callimaco curò egli stesso la pubblicazione delle sue opere, attendendovi con grande cura (non si hanno infatti informazioni sugli editori, e tra le opere ci sono numerosi richiami l'una all'altra). Quest'opera sopravvisse sicuramente fino al VIII sec. d.C., poi andò perduta, forse nella Crociata a Costantinopoli nel 1300. Tra il I e il II sec d.C. circolarono dei riassunti in prosa (s). Prologo degli Aitia: la questione dei Telchini Il prologo degli Aitia è programmatico. Fu probabilmente scritto durante la vecchiaia e aggiunto dopo, dal momento che in esso c'è un riferimento agli anni di C. In esso, C. dichiara apertamente la propria poetica, polemizzando anche contro i 'Telchini' (teoricamente dei demoni del malocchio), identificati con diversi intellettuali dell'epoca, suoi detrattori, che lo avevano accusato di : due Dionisi non meglio noti, Prassifane11 di Mitilene (un grammatico peripatetico, quindi già per questo disprezzato da C., cfr. poetica alessandrina), Asclepiade, Posidippo, due epigrammisti. Risulta strano, però, che C. critichi due epigrammisti, poiché anch'egli si era cimentato in questo genere letterario, ma probabilmente non li critica per questo, bensì perché avevano (forse) elogiato la 'Lyde' di Antimaco di Colofone12, un poeta elegiaco del IV secolo, considerato prolisso e noioso da C. Tra i Telchini, però, manca il più grande nemico di C.: Apollonio Rodio, autore del poema epico Le Argonautiche. Ciò può essere dovuto al papiro corrotto. Altre risposte alle accuse mossegli figurano nell'Inno ad Apollo, in cui compare la personificazione dell'invidia e, per bocca di Apollo stesso, C.fa una dichiarazione di poetica tramite la recusatio dell'epos. Ancora, nel I epigramma, tramite un aneddoto (Pittaco e lo straniero), applicato alla letteratura, asserisce che bisogna dedicarsi al tipo di letteratura che meglio rispecchia la propria indole. 10 Epinicio: componimento scritto in onore di una vittoria agonale 11 C. scrisse s , un'opera che può tradursi sia con 'in omaggio a P.' che con 'contro P.'; l'ultima ipotesi è più probabile, poiché Prassifane seguiva la poetica aristotelica, in netta contrapposizione con quella callimachea. 12 Antimaco di Colofone fu il maggior poeta elegiaco del IV sec. a.C. (mentre nel V sec., in piena età classica, c'erano stati Ione di Chio e Crizia, uno dei 30 tiranni), nonché punto di riferimento dei poeti elegiaci alessandrini (come ad esempio Ermesianatte, ma non di C.). Scrisse, per consolarsi della morte della moglie Lyde, un omonimo poema elegiaco mitologico-narrativo, che trattava soprattutto di amori infelici. Callimaco lo considerava prolisso e non amava Antimaco in generale. Questo, però, risulta strano, poiché A. era comunque un poeta doctus: parlò, infatti, di miti (=erudizione) e usò delle parole rare (glossai). Nel VI epigramma, invece, è a favore dell'originalità contro l'imitazione. Tutto nasce da una polemica sul poema 'Presa di Ecàlia' (di Creofilo di Samo o Omero, non si è certi): l'incertezza sull'autore dimostrava, secondo C., che eccessiva imitazione creava confusione e l'annullamento della personalità poetica. Infine, nel Giambo XIII si difende dall'accusa di , dicendo che, prima di lui, già Ione di Chio aveva usato questo espediente. Più in generale, si può dire che fu l'ambiente di filologi in cui operava C. a far sì che egli sentisse l'esigenza di rispondere alle numerose polemiche mossegli, praticamente in ogni sua opera. Egli, infatti, non esita a fare metaletteratura. I Giambi La datazione dei giambi è problematica, anche se sappiamo che seguivano gli Aitia nel progetto editoriale di Callimaco, poiché nell'ultimo libro degli Aitia C. salutò Cirene, dicendo di voler andare dalle Muse pedestri (ossia umili, dallo stile quotidiano e basso), e questo potrebbe essere un riferimento ai giambi. Ci sono pervenuti tramite papiri e s. Le novità più grandi dei giambi di C. sono la lingua e il metro. Egli, infatti, scrive sia in ionico (com'era tradizione) sia in dorico, il che creò scalpore. Alcuni hanno visto in questa scelta una volontà di scandalizzare, ma in realtà C. stesso si scandalizza quando Teocrito (poesia bucolica) adotterà un dialetto diverso da quello tradizionale, quindi, probabilmente, questa era una scelta personale. Quanto al metro, invece, scrisse sia in versi tradizionali che altri (trimetro giambico, tetrametro trocaico, epodi, e quattro componimenti in metri lirici, che alcuni studiosi, però, separano dalla raccolta di giambi, poiché il metro è troppo stridente con la , e nel lessico di Suda si parla esplicitamente dei come carmi a parte13). Il I e il XIII (ossia il primo e l'ultimo), infatti, sono scritti in coliambi, metro tipico dell' s del giambo, il poeta arcaico Ipponatte. C. effettuò questa scelta per omaggiare il suo predecessore, ma anche per dimostrare ai detrattori che egli CONOSCEVA il metro tradizionale, e che se ne discostava volutamente. In effetti, i giambi di C. sono stemperati (l'unico più violento, perché contiene una polemica letteraria, è il 13°) e, oltre a linguaggio e metro, anche le tematiche sono più variegate (il che è caratteristico della satira, ma non del giambo, nonostante i due generi abbiano caratteristiche comuni): C. inserisce, ad esempio, s14 ed elementi eziologici. Inoltre, i giambi callimachei sono moralistici, ma non c'è una vera e propria aggressione, manca l'elemento scommatico. Quanto allo stile, esso è, ovviamente, raffinato, ricco di (parole rare), allusivo e solo apparentemente semplice. Si è parlato persino di , ossia di 'serio ridicolo', un particolare modo ironico e scherzoso di affermare precetti poetici seri. Alcuni lo hanno considerato quasi un genere a sé. C. fu anche influenzato dalla letteratura popolare, come ad esempio la favola: in particolare, la rielaborò ed attuò una citazione erudita del mondo popolare (il che fu molto apprezzato dal pubblico). A Roma, Orazio (negli epodi) e Lucilio (per la varietà dei temi), lo imiteranno e ammireranno molto. Ecale 13 Non bisogna dimenticare, però, la scuola di Gallavotti, per la quale i mele furono inseriti da Callimaco nei giambi; a prova di ciò, egli adduce varie prove: rispecchiano i 17 epodi (o Iambi) di Orazio, che lo imita; 4 carmi non possono, da soli, costituire un libro; una diegesis riassume 17 carmi (i 13 giambi + 4 lirici); questo strappo alla regola sarebbe l'applicazione pratica dei principi poetici di C., che dimostrerebbe, in tal modo, che la varietà, spesso scambiata per polueideia, ossia per mescolanza di generi, è in realtà piacevole. 14 l'ekfrasis è la descrizione dettagliata di una scena dipinta su un oggetto, oppure di un oggetto stesso. Ad esempio, nell'Iliade viene descritto lo scudo di Achille orme degli autori greci. Infine, abbiamo Friedrich Leo, filologo che ha postulato (ossia deliberatamente teorizzato e supposto) l'esistenza di un genere elegiaco greco soggettivo, di cui noi non conserviamo nulla. Ma proprio per quest'ultimo piccolo dettaglio, non ci è possibile prendere in considerazione la sua teoria. Sorry, Leo. Dunque, la soluzione a questo 'enigma' è la mescolanza di generi: in particolare, epigrammi autobiografici (componente soggettiva) + elegia ellenistica (narrativa e raffinata). Inutile precisare che la tematica politica è completamente assente, in quanto sarebbe fortemente anacronistica. Fileta di Cos Fileta di Cos (340-290 a.C.) è un personaggio fondamentale nel panorama elegiaco ellenistico, se non altro per l'influenza che ebbe su Callimaco. Fu sia poeta che filologo e, oltre alle elegie, scrisse anche epigrammi. Di lui, però, abbiamo solo le glosse; inoltre, ignoriamo se fosse realmente attivo alla corte di Alessandria. Sappiamo, però, che, secondo la tradizione macedone di affidare l'educazione dei fanciulli nobili ad intellettuali di rilievo, fu tutore di Tolomeo Filadelfo (il fondatore della biblioteca di Alessandria, che ascese al potere nel 283a.C., e che fu succeduto da Tolomeo III Euergete, marito di Berenice e mecenate di Callimaco). Tornando a Fileta, è considerato l'iniziatore del genere elegiaco ellenistico, ed è ricordato per la raccolta Bàttide (o Bìttide), per dei (corrispettivi delle nugae latine), ossia dei poemetti satirico-scherzosi, in distici elegiaci, e per dei poemetti mitologici che ispirarono gli Inni callimachei. Tra di essi, ricordiamo: Ermes: tratta di una versione poco nota di un episodio odisseico: la storia d'amore tra Ulisse e la figlia di Eolo, Polimele; concentrandosi su un aspetto secondario di questo episodio secondario, Fileta dà mostra di essere doppiamente erudito; Demetra: sarà il modello per i lavacri di Pallade di Callimaco; in distici elegiaci, si rifà a sua volta all'Inno omerico a Demetra, ma è nettamente più breve; In sostanza, le parole d'ordine di Fileta sono, come per tutti gli altri alessandrini, erudizione, poesia, eleganza, labor limae. Ermesianatte di Colofone Ermesianatte visse all'inizio del III sec.a.C., e fu amico e discepolo di Fileta. Scrisse un poema in distici elegiaci in tre libri dedicato alla donna amata, Leozio, simbolo del potere dell'amore, che fa soccombere tutti. Simile alla Lyde del solito Antimaco di Colofone, è una serie di amori mitologici dall'esito infelice (EROS+MITO+INFELICITA'); particolarmente notevole è l'amore tra Galatea e Polifemo, poiché sarà ripresa da Teocrito (poesia bucolica). Un modello importante per quest'opera è il catalogo delle donne20 di Esiodo21, da cui Ermesianatte, però, si distacca nel momento in cui interviene con commenti personali all'interno dell'opera. Ciò si deve alla diversa funzione dei due poemi: mentre quello di Esiodo, infatti, era solo un catalogo volto a narrare la genealogia delle eroine e delle madri degli eroi, il poema a Leozio serve a dimostrare la 'tesi' di E., che vede l'amore come una forza distruttrice. Apollonio Rodio 20https://it.wikipedia.org/wiki/Il_catalogo_delle_donne 21 Si noti come, in età alessandrina, Esiodo risulti un modello più apprezzabile di Omero, poiché più breve ed elegante d quest'ultimo. La dipendenza da Esiodo si nota anche dal titolo 'secondario': Eoie, che richiama la formula iniziale del catalogo esiodeo, con cui spesso lo si denominava. Nonostante il nome, Apollonio Rodio non nacque a Rodi: il soprannome deriva forse dal nome della madre (Rode), da un'opera che egli scrisse sulla fondazione di Rodi, o dal fatto che, ad un certo punto della sua vita, si trasferì su quest'isola, dove, tra l'altro, morì. Nacque attorno al 295a.C. ad Alessandria, iniziò presto a frequentare la corte dei Tolomei, e fu anche precettore di T. Evergete. Le info biografiche le ricaviamo da un paio di biografie e, soprattutto, dal lessico della Suda, che lo dice allievo di Callimaco, oltre ad affermare che lasciò Aless. In seguito a delle critiche negative delle Argonautiche. Fu direttore (s) della biblioteca dopo Zenodoto e fu succeduto in questo incarico da Eratostene. Proverbiale fu la sua rivalità poetica con Callimaco (sicuramente esagerata dalla tradizione letteraria, come quella tra Aristotele e Platone), la quale, nonostante fosse possibile, visti i punti in cui AR si distacca dalla poetica callimachea, va comunque ridimensionata, anche perché AR non rinnegava assolutamente la poetica ellenistica. Inoltre, non abbiamo testimonianze esplicite di questa disputa: tra l'altro, AR non figura nemmeno tra i Telchini (cfr. Callimaco, prologo degli Aitia). D'altra parte, però, l'Antologia Palatina tramanda un epigramma (dubbio) che sarebbe una critica di AR a Callimaco; inoltre, l' Ibis di C. sarebbe rivolto contro AR. COME CALLIMACO DIVERSO DA CALLIMACO/COME ARISTOTELE (introduzione di elementi eterogenei e non appartenenti al genere in uso); 4 libri (rimanda alla tetralogia tragica) Eziologia (ma non digressione, bensì posti alla fine per non interrompere l'unità narrativa del poema) III libro interamente scritto in tono tragico (influenza in particolare di Euripide, per alcune scene e soprattutto realtà VS. apparenza) Elaborazione formale curatissima, uso di glottai Unità, organicità della narrazione (unicum di intro, svolgimento e conclusione, da cui una visione globale dell'opera e frequenti rimandi tra i libri); unico filone narrativo Brevità Circolarità Poeta doctus (eziologia, mitologia, etnologia, antiquaria, ecc.): sfoggio di erudizione Coinvolto completamente nella sua materia (C. Invece distaccato, ironico, per lui lett. è lusus letterario) (momenti tragici, momenti lirici ecc.) Verisimiglianza (canone tipicamente aristotelico, che porta all'introduzione di elementi della quotidianità, come l'Ecale calimachea) e necessità (digressioni vanno bene, ma devono essere funzionali, necessaria alla comprensione del poema/testo) Narrazione episodica e digressiva In particolare, nella sua opera principale, Le Argonautiche, AR sembra voler tornare ad Omero dopo essere passato per Callimaco. In generale, si può dire che AR cerca un compromesso tra la nuova, imprescindibile poetica callimachea e la tradizione epica. ALtre opere di AR sono: Dei poemetti sull'origine delle città (Rodi, Alessandria, ecc.): notare la natura eziologica (dunque tipicamente alessandrina) di questi componimenti; per alcuni studiosi, sono dei sottogeneri dell'epica, che andavano molto di moda all'epoca di AR; Esegesi (studi critici) su Archiloco ed Esiodo; Canobo: un poemetto in coliambi sull'omonimo timoniere di Menelao, secondo il mito morto per il morso di un serpente, che fu trasformato in stella (cfr. Chioma di Berenice callimachea) e diede il nome ad una città sul Nilo. Le Argonautiche È l'unico poema epico ellenistico che ci sia giunto per intero. Ciò non significa, tuttavia, che il genere fosse poco comune, anzi, la situazione dell'epica alessandrina è molto più complessa e interessante: da un lato, infatti, andò sviluppandosi un'epica colta, d'élite, innovativa, come quella di Callimaco e AR., mentre dall'altro rimanevano i poemi epici tradizionali, che venivano recitati in occasioni pubbliche, per un pubblico 'popolare' abituato a schemi tradizionali. Tra coloro che si dedicarono a questo tipo di epica, Riano di Bene (poeta cretese che visse nella seconda metà del III sec.a.C., autore di un'Eraclea) e Neottolemo di Pario (autore contemporaneo al precedente, autore di una Dionisiade). Di quest'opera circolarono due versioni: una ad Alessandria, che forse era solo un abbozzo e venne diffusa solo a corte; l'altra a Rodi, cui A lavorò fino alla fine della sua vita: era probabilmente il completamento e la rifinitura dell'altra. Questo particolare mostra come l'elaborazione dell'opera sia stata complessa e lunga nel tempo. Basti pensare ai vari riferimenti l'uno all'altro che figurano nei testi di Call. e AR. Inoltre, Teocrito si ispira, nei suoi idilli, alle Argonautiche. Secondo alcuni studiosi, esse sono una forma di paradossografia, ricche come sono di elementi meravigliosi ed eccentrici e di curiosità. AR ama poi il bozzetto (ossia i particolari, anche se il poema non è diviso in scenette indipendenti) e il patetico (cfr. Ripiegamento sulla psicologia e sull'individuo tipica dell'ellenismo), accentuato nei momenti di analisi psicologica (molto accentuata nel poema) dei personaggi. Inoltre, la scelta di questo mito non è casuale: esso, infatti, si presta a digressioni eziologiche, che partono dal mito della prima nave al mondo: Argo. Ovviamente, AR ebbe a disposizione innumerevoli fonti per il suo poema, ed attuò un preciso lavoro filologico per selezionarle. Già nell'Iliade, ad esempio, si parla di Giasone, in particolare della sua love story con Ipsipile22, la quale viene anche menzionata da Circe nell'Odissea. Degli studiosi ritengono persino che l'Odissea si basi sul viaggio degli Argonauti (del resto, Circe è la sorella di Eeta, re della Colchide). Altri, invece, effettuano una lettura storica, vedendo nelle peregrinazioni di Giasone le rotte commerciali dei Micenei. Dei pazzi, poi, vedono nell'impresa la ricerca del Santo Graal. Infine, un'interpretazione rituale è stata data in riferimento all'uccisione di Apsirto23 da parte di Medea; in particolare, questo sarebbe un riferimento allo s24, ad antichi sacrifici umani o alla pratica dell'infanticidio. In generale, l'opera è contornata da un'atmosfera macabra e magica. Per quanto riguarda la struttura, essa unisce un progetto narrativo unitario, presentato però in maniera episodica e con una struttura quasi per epilli (secondo la moda alessandrina). La narrazione, poi, è piuttosto lenta, scandisce bene le tappe del viaggio. Una caratteristica di AR, poi, è l'attenzione alla psicologia dell'azione, piuttosto che agli eventi veri e propri. Egli, inoltre, scandisce il racconto seguendolo come se fosse un fatto di cronaca contemporaneo da lui vissuto: un abile gioco temporale. Cartesano, addirittura, vede in A. un tempo soggettivo-psicologico (e dello stesso tipo sarà lo spazio per lo stesso studioso), simile a quello dei romanzi modernisti del Novecento, piuttosto che l'atemporalità omerica. Questa attenzione cronachistica, però, tradisce una sorta di horror vacui, terrore del vuoto narrativo che potrebbe manifestarsi nei momenti di 'tempo libero' degli 22 Ipsipile (o Issifile): nominata anche nelle Metamorfosi di Ovidio e nella Tebaide di Stazio), fu nipote di Dioniso e Arianna e regina di Lemno, dove Giasone fece tappa nell'impresa del vello d'oro, seducendola e poi lasciandola incinta 23 Fratellino di Medea, fatto a pezzi e gettato in mare per rallentare le navi del padre, che inseguivano gli Argonauti. 24 Rituale bacchico che consisteva nel fare a pezzi animali e mangiarne le carni crude (cfr. Le baccanti by Euripide e il mito di Orfeo) parte è simile a "I segni", opera di Teofrasto (il che ci fa capire che probabilmente, entrambi attinsero ad una medesima fonte, per noi perduta). Dopo i prognostica, infine, A passa a parlare dei fenomeni metereologici e naturali (cfr. l'attenzione etica degli stoici per i fenomeni naturali). Il modello, ovviamente, è Esiodo. L'opera di A sarà tradotta da Cicerone, che ne ammirerà lo stile, ma che non lo riterrà propriamente scientifico. Effettivamente, come si è accennato, l'interesse dei letterati risiedeva quasi interamente nella sfida di comporre in esametri un poema di argomento scientifico, e nel riuscire a sormontare questa difficoltà, per lo più con eleganza. Vi era, in sostanza, il gusto della sperimentazione. A, ad esempio, era molto abile ad evitare la monotonia. Tra i contemporanei, infatti, ebbe molto successo. La critica moderna, invece (soprattutto quella idealista-crociana25), lo riteneva troppo poco poetico. Teocrito Di T non abbiamo molte informazioni biografiche, nemmeno dalle sue stesse opere. Le città che si contendono i suoi natali sono Cos (in tal caso è probabile che sia stato allievo di Fileta, il poeta elegiaco) e Siracusa. La seconda ipotesi è più probabile, dal momento che scrive in dorico e in un idillio egli stesso afferma di essere originario di Siracusa; inoltre, il carme XVI è dedicato a una spedizione di Ierone (tiranno di Siracusa) contro Cartagine, nel 275a.C. Verisimilmente, però, poiché egli compose anche un carme ambientato a Cos (l'idillio VII), viaggiò in quell'isola. Infine, grazie a uno scolio che lo dice adulto tra il 284 e il 281 a.C., possiamo infierire che nacque a Siracusa attorno al 310 a.C. Trasferitosi ad Alessandria, vi praticò attività letteraria (anche se, vista la natura mite della sua erudizione, concludiamo che fosse un poeta doctus, ma non filologo di professione), poi, nel 262a.C., se ne andò e morì a Siracusa o a Cos, nel 260a.C. Nei dibattiti T si schierò a favore della nuova poetica callimachea. T scrisse diverse opere, tramandate (o per lo meno i loro titoli) dal lessico della Suda: Carmi bucolici in dorico; Inni; Carmi melici (lirica); Elegie; Giambi; Epigrammi; Di tutto il corpus teocriteo, tuttavia, ci sono giunti solo 30 componimenti + 20 epigrammi funebri ed alcuni carmi figurativi26 (ad esempi 'la zampogna'). Un'altra questione riguardante le opere teocritee è quella del nome da attribuire a queste ultime. Esse, infatti (in particolare si parla dei 30 componimenti bucolici), fanno parte di una raccolta 'bucolica' in cui compaiono anche carmi di Mosco e Bione. Tutte queste sono chiamate idilli, ma non tutti sono d'accordo nella denominazione. Per alcuni, infatti, il termine vuol dire 'piccolo eidos', ossia un genere letterario avente la brevità come caratteristica principale, e che come tali tutti i carmi teocritei possano essere chiamati idilli. Altri, invece, ritengono questa definizione troppo generica, e ritengono che l'idillio fosse un genere a sé e che, in particolare, siano da ritenersi tali solo i componimenti propriamente bucolici (ambientati in campagna). 25 Critica idealista (o crociana, poiché Benedetto Croce vi aderì): tipo di critica che si sviluppò nel XIX secolo, la quale si concentrava soprattutto sui passi di 'autentica ispirazione poetica' per giudicare un testo letterario. Vista la sua poca scientificità, oggi non è più molto in voga. 26 carmi i cui versi, grazie alla particolare disposizione, formano graficamente l'immagine di un oggetto. Fondamentale negli idilli teocritei, inoltre, il tema dell', ossia l'armonia, la pace la serenità raggiungibile grazie al canto, che ha così una funzione catartica. I 30 carmi 'idilliaci' sono a loro volta costituiti da: 10 idilli bucolici: scritti in esametri e in dorico; 6 mimi27 di ambientazione cittadina; 5 poemetti epico-mitologici (epilli): - Ila (descrizioni sofisticate e dettagliate); - Epitalamio ad Elena (reminiscenze saffiche); - Eracle bambino (soffoca i serpenti: elemento giocoso callimacheo, cfr. Inno ad Artemide: deeroicizzazione); - Le Baccanti (inno a Dioniso); - Dioscuri (in cui T mischia l'inno, le imprese dell'epos e i dialoghi, tipici del teatro); 9 encomi: di cui uno a Ierone di Siracusa (che però non andò a buon fine, poiché il tiranno non lo accettò nel suo seguito) e uno a Tolomeo Filadelfo (più sincero e che ebbe maggior successo); Carmi melici: per i quali si ispirò ad Alceo e Saffo; usa l'eolico e tratta soprattutto di amore omosessuale; Epigrammi: vari. Idilli bucolici Il termine bucolico deriva dal greco s, che significa pastore. Questi idilli, infatti, non sono altro che descrizioni di gare poetiche ambientate in campagna. Teocrito, pur prendendo spunto da Esiodo e riconoscendo una lunga tradizione a lui precedente (di cui possiamo affermare solo l'origine popolare, l'ambito dorico-siciliano e la rielaborazione raffinata in ambito ellenistico), si proclama egli stesso inventore di un genere nuovo che da questa tradizione prende spunto. Egli diverrà infatti il punto di riferimento per questo genere, nonostante l'ampia tradizione precedente. Secondo alcuni studiosi, c'è un legame cultuale con dei riti per Artemide (il cui culto era diffuso sia in Laconia che in Sicilia), ma non è verisimile: infatti, negli idilli non si parla mai di questa divinità, né vi sono riferimenti a culti religiosi. La poesia bucolica compare già nell'Iliade (XVIII), dove vengono menzionate gare musicali tra pastori. Inoltre, la figura leggendaria del pastore Dafni (poi ripreso da Longo Sofista) viene ripresa in questi componimenti (forse anche con funzione nobilitante e di legittimazione). Inoltre, ci sono: Epicarmo: commediografo e poeta siciliano; Stesìcoro: scrisse poemetti di ambientazione pastorale; Ermesianatte: poeta elegiaco (autore della già citata Leonzio), che introduce, tra i vari amori mitici di cui tratta, anche quello di Dafni per Menalca. Il merito di T, in particolare, è soprattutto quello di aver dato una struttura definitiva al genere bucolico (esametro + dialetto dorico). Inoltre, T introduce degli elementi originali (basti pensare alla cultura cittadina alessandrino-ellenistica, in cui la stessa ambientazione agreste era una novità). Vi era inoltre una sorta di idealizzazione della natura, percepita come mitica. Un'altra novità di T è proprio l'uso dell'esametro: questo metro, infatti, era adatto alla recitazione (al recitativo o ), e non ai ritornelli tipici del genere bucolico. Caratteristica degli idilli teocritei, inoltre, è la struttura dialogico-agonale tra pastori (in ordine gerarchico per importanza: bovari, pecorai e caprai28). Altra caratteristica fondamentale è la struttura amebea, ossia a botta e risposta (dal verbo = rispondo). 27 Genere letterario popolare, così chiamato per via del forte realismo. I temi dei canti potevano essere improvvisati (nella finzione dell'occasione) o stabiliti a priori. Si cantava ad alternanza. Gli idilli Idillio I: struttura drammatica: dialogo tra un capraio e un pastore (Tirsi), che canta della morte per amore di Dafni; I. III: 29: in quest'idillio T adatta un tema tipicamente cittadino all'ambiente pastorale: il lamento d'amore è infatti cantato davanti alla caverna dell'amata (variatio rispetto alla tradizione); I. IV: non c'è né gara né un giudice; il tutto si conclude con un pareggio e uno scambio di doni; I. V: è il più fedele al modello agonale-bucolico: è infatti una realistica riproduzione di una gara (tra il capraio Comata, che introduce il tema, e il pecoraio Lacone, che gli risponde con lo stesso numero di versi), con regole, giuria e un vincitore; ha struttura amebea e presenta anche invettive (tratte da giambo e commedia); la sintassi è semplice, ma la semplicità teocritea è sempre frutto di un duro lavoro di labor limae; I. VI: dedicato ad Arato di Soli: è una competizione fra due bovari, ma non c'è un vincitore né un premio; I. VII: è il più importante di tutti, poiché è un manifesto poetico della poesia teocritea; ambientato a Cos; in esso, Sinichida, un poeta già affermato (maschera di T e simbolo della tradizione preesistente del genere bucolico) gareggia contro Licìda (capraio), e dopo la gara, quest'ultimo offre un bastone a S., come in segno di investitura poetica; questo idillio è stato variamente interpretato: - trasfigurazione in chiave bucolica di un evento accaduto (l'iniziazione di T al circolo di Fileta di Cos); - mascherata arcadico-bucolica (cfr. l'Arcadia settecentesca); - L'epifania (=apparizione) di un dio, visti il tono omerico dell'idillio e il suo atteggiamento, in tutto simile a quello di una divinità; tuttavia, è anche vero che L è descritto in modo piuttosto realistico (e forse questo contrasto è voluto); Ad ogni modo, si tratta senza dubbio di un'investitura poetica, dove alloro--> bastone ,Muse--> pastore (originalità). Inoltre, questa iniziazione molto particolare è evidentemente ripresa da Eisodo, ma al contempo è una professione di modestia, poiché implica una recusatio dell'epica (soprattutto omerica), che non può essere imitata. Le teorie ottocentesche che ipotizzavano un travestimento o un circolo culturale-cultuale in cui i poeti colti recitavano col nome di boukoloi sono però ormai poco accreditate. Il pubblico era sicuramente colto, ma questo genere prede spunto da agoni popolari realmente effettuati. I. VIII: spurio (anche se Virgilio lo credeva autentico); I. IX: spurio anch'esso; I. X: originale, anche se a cantare, stavolta, non sono dei pastori, bensì contadini (in particolare mietitori); si contrappongono lamenti d'amore e lamenti per il faticoso lavoro; I. XI: ironico; amore unilaterale di Polifemo per Galatea; dedicato ad un suo amico, innamorato ma non corrisposto. 28 Il rispetto di queste gerarchie sono un utile indizio per l'individuazione delle opere originali di T (quelle in cui la gerarchia non è rispettata sono da considerarsi apocrife) 29 ett. 'di fronte alla porta chiusa': situazione tipica di un lamento d'amore di fronte alla porta (chiusa) della casa dell'amata. Diogeniano (II sec a.C.) Ciclo di Agazia, che cura questa raccolta usando non la metafora floreale, bensì quella gastronomica, presentandosi come il cuoco che deve mischiare gli ingredienti. Tutte queste raccolte e antologie sono confluite nell'antologia medievale di Costantino Cefala (X sec. d.C.), dalla cui antologia sono poi passati a quella Palatina (15 libri, 3700 epigrammi divisi per argomento, 300 poeti circa dal V seca.C. all'età bizantina), così chiamata perché ritrovata nella biblioteca palatina di Heidelberg. Nel 1300, Massimo Planude stilò poi un'altra antologia, l'Antologia Planudea, anche nota come Appendix Palatina, poiché raccoglie 2400 epigrammi, di cui ben 388 non sono presenti in quella Palatina. R. Reitzenstein individuò due scuole di epigrammisti, che presentavano omogeneità geografica e tematica, nonostante non fossero vere e proprie scuole (non avevano un manifesto): la ‘scuola’ ionico-alessandrina e quella dorico-peloponnesiaca (cfr. Appunti di lett. Latina). Esse rimasero distinte fino alla conquista romana, nel II sec.a.C. In seguito, si sviluppò la cosiddetta scuola fenicia (poiché nata in Siria e Palestina), i cui epigrammi erano ricchi di pathos, figure retoriche, e nel complesso eleganti e sfarzosi. Epigrammisti notevoli della scuola dorica furono: - Anite di Tegèa : poetessa che scrisse XXI epigrammi funerari per animali e su paesaggi agresti. Delicata, sentimentale, atteggiamento affettuoso e vena intimistica; - Nòsside di Locri (IV sec.a.C.): fu probabilmente sacerdotessa di Afrodite, ed operò in un contesto simile al tìaso saffico: nei suoi epigrammi, infatti, prevale la tematica amorosa, assente negli altri, nonché la consapevolezza della sua attività poetica; - Leonida di Taranto (330-xxx a.C.): da riferimenti interni, sappiamo che fu itinerante e che viaggiò anche in Epiro. Scrisse circa 100 epigrammi, in cui descriveva disadattati, umili, spesso con toni macabri (si nota qui un compiacimento e un curioso interesse per le classi umili). Scrisse per lo più epigrammi dedicatari (ad oggetti quotidiani, come lusus letterario) e funebri. Fu inoltre il primo a comporre Priapia (ep. In onore del dio Priàpo). Per quanto riguarda la scuola alessandrina, invece, i temi trattati sono per lo più vino, eros e argomenti autobiografici ed intimi, i quali subiscono, tuttavia, una evidente stilizzazione letteraria. L’ambiente di produzione e di destinazione di questi epigrammi era ovviamente colto, raffinato, smaliziato e cittadino. Nei carmi non compare, infatti, alcun messaggio etico-politico (cosa che invece accadeva nella scuola dorica). Un’altra differenza con la scuola dorica è il disprezzo per le classi inferiori, l’atteggiamento distaccato e ‘snob’; inoltre, come la peloponnesiaca si basava sul cinismo (filosofia severa, se così si può dire), la scuola ionica seguiva quella epicurea, basata sull’. Altre caratteristiche di questa scuola sono il labor limae, la leggerezza (leptotes o levitas alla latina). Poeti notevoli: - Posidippo (Pella, 320 – xxx); da Pella, in Macedonia, si spostò dapprima ad Atene e poi ad Alessandria. I suoi epigrammi sono soprattutto dei giochi letterari; Ekfraseis e poesie in onore dei Tolomei; - Asclepiade di Samo : Teocrito lo chiama Siciliota (non si sa perché); Fu l’inventore dell’asclepiadeo maggiore: in realtà, l’asclepiadeo era già usato da Alceo, ma As. Lo riprende e lo modernizza. La tematica del vino è usata come spia dell’animo umano, ma il significato politico presente in Alceo è completamente perduto. Arte allusiva; fu lui ad introdurre gli amorini. La scuola fenicia, infine, aveva uno stile esasperato, barocco, ampolloso. Anche l’amore era descritto in toni più passionali. Poeti notevoli: - Antìpatro (125 a.C. attivo): ci restano circa 70 ep; ama le immagini violente e forti per impressionare il pubblico; la sua lingua è un pastiche; - Meleagro di Gàdara: autore della Corona; veniva chiamato ‘Siriaco, Fenicio e Greco’ per quanto era cosmopolita. Scrisse ep erotici molto soggettivi, in cui l’eros non compare solo come sesso, ma anche sentimento; interessante è il tentativo di mantenere la cultura greca, ricreando nella finzione letteraria l’occasione del simposio; quanto allo stile, è delicato, dai toni scherzosi, elegante, e la lingua è varia; - Filodèmo di Gàdara : i suoi ep trattano della vita frugale e dell’amicizia. L’amore non è descritto con toni passionali, ma distaccati (vulgivaga Venus), come piacevole passatempo. Fu il fondatore della scuola epicurea ad Ercolano, in cui studiò Virgilio. Polibio e la storiografia in epoca greco-romana Polibio fu uno storico che visse nella prima età greco-romana (definizione con cui, convenzionalmente, si indica il periodo dell’epoca ellenistica in cui la Grecia fu sotto il dominio di Roma). Nacque, infatti, nel 200 a.C. e morì nel 125 a.C. In età alessandrina, la storiografia era il genere prediletto per la prosa, ma di storici contemporanei a P. abbiamo solo frammenti, che mostrano anche un metodo storiografico piuttosto scarso. Tra questi, abbiamo traccia di una storiografia lirico-tragica, che cercava di ricreare la commozione suscitata dal teatro, mettendo ‘in scena’ lo scontro fra storia e (es. Duride di Samo e Filarco di Atene). Polibio, più razionale, è contrario a questa tendenza, poiché ritiene che occorra essere equilibrati, anche se la tuche è potente. Egli, inoltre, si concentra sulle azioni (soprattutto militari) dell’uomo politico, e sul modo in cui, anche grazie alla storia, gli uomini possono controllare la tuche stessa (principio tucidideo dell’historia magistra vitae). Un secondo gruppo di storici era invece costituito dal seguito di intellettuali di Alessandro Magno, come ad esempio il discepolo e parente di Aristotele Callìstene, le cui opere erano celebrative e dai toni encomiastici. Abbiamo poi l’opera di Timèo di Tauromenio (Sicilia), che trattò la storia delle colonie greche occidentali (in Magna Grecia), in particolare dalle origini fino alla I Guerra Punica. Fu infatti il primo ad intuire la potenza romana. Un altro storico interessante, poi, è Evemèro di Messène (che fu anche tradotto da Ennio), il quale diede vita all’Evemerismo: una dottrina per la quale gli dei non sono che antichi eroi o uomini virtuosi che sono stati divinizzati in virtù delle loro imprese. Egli ha, pertanto, una visione razionalista. Polibio nacque a Megalopoli, una città dell’Arcadia (regione del Peloponneso), figlio di Licòrta; quest’ultimo era il comandante della lega Achea31: Polibio, dunque, aveva una vasta conoscenza di strategia e tattica, oltre che di letteratura e medicina. Nel 169 a.C. fu persino nominato ipparco (un’alta carica militare), e l’anno dopo Perseo, re di Macedonia, fu sconfitto a Pidna da Lucio Emilio Paolo. In seguito a questa sconfitta, i filo-romani denunciarono gli ‘indipendentisti’, stilando una lista di mille persone, tra cui anche Polibio. Insieme agli altri, egli venne portato a Roma come schiavo per subire un processo, che però non ebbe mai luogo. Entrato nel circolo degli Scipioni, divenne amico e consulente di Scipio Emiliano. Si pensa perfino che Polibio, più interessato alla strategia che alla storiografia, non volesse, in principio, scrivere un’opera storica, ma che lo abbia fatto per via dei rapporti clientelari (e certamente, da un certo punto in poi, affettivi) con l’Emiliano. Una peculiarità di Polibio, inoltre, è il suo punto di vista: nonostante in gioventù e per formazione egli fosse stato un nazionalista (per così dire) greco, dopo la cattura, nelle sue opere, celebra sinceramente la potenza di Roma. Sicuramente egli non era nella posizione di criticarla, ma pare veramente convinto che Roma meriti il potere che sta acquisendo. Per questo è definito un intellettuale organico. Capisce, inoltre, di vivere una svolta storica. 31 Lega di numerose pòleis greche del Peloponneso a scopo difensivo: in particolare, le città si unirono per ottenere l’indipendenza dalla Macedonia e, poi, da Roma) TUCIDIDE POLIBIO Oggettività scientifica Esaltazione dell’organizzazione di Roma Cittadino della pòlis Visione cosmopolita, non più ellenocentrica Antropocentrismo Antropocentrismo Per quanto riguarda il metodo storiografico di Polibio, esso si ricava dalle critiche mosse agli altri storiografi (l’unico che non viene da lui criticato è Tucidide, da boss), in particolare: - Teopompo : fu lo storico ufficiale di Filippo II, che, secondo P, è incoerente, poiché loda e, al contempo, critica Filippo; inoltre, effettua troppe digressioni e non si concentra sulla motivazione degli avvenimenti politici (P, infatti, si concentra sull’imperialismo romano, attuando una sorta di reductio ad unum); inoltre, secondo P, T. non ha una visione d’insieme (), e si abbandona a eventi prodigiosi, mentre la storia dovrebbe essere pragmatica, ossia parlare solo dei fatti; - Timèo : P critica moltissime cose di questo storico, nonostante abbia avuto il merito di essere stato il primo a parlare del ruolo storico di Roma. In particolare, P lo critica: 1. Per invidia, forse; 2. Per aver attinto da fonti minori, come ad esempio monete ecc., cose che invece oggi, con l’archeologia, sono profondamente rivalutate; 3. Per ignoranza geografica e tattica (mentre per P. era fondamentale l’, ossia l’esperienza diretta, che dà veridicità e valore pedagogico alla storia, tanto che egli valicò le Alpi e ripercorse il tragitto di Annibale per immedesimarsi meglio); in difesa di t, si può dire che, vista la grande mole di argomenti trattati, non poteva trovarsi in ogni luogo 4. Per la retorica eccessivamente raffinata ed erudita, che confonde le idee (cfr. lo stile di Polibio); per P, infatti, la storia deve essere utile, non bella; 5. Per l’invenzione di discorsi, riportati non fedelmente; - Filarco : accusato di imprecisione, poiché non ricerca le cause vere degli eventi, bensì mira solo ad impressionare i lettori (quod bonum in tragoedia, sed non in historia). Quanto ai (rari) momenti patetici di P, invece, egli lo fa con scopo pedagogico, per preparare il lettore alle sciagure; - Eforo : E è piuttosto rispettato da P, poiché ha intenzione di scrivere una storia , ossia universale, come voleva fare Polibio, che parla di Roma proprio in virtù dell’universalità del suo impero. Tuttavia, risulta dispersivo, poiché la sua storia è, per l’appunto, dispersa in più pòleis, e manca un soggetto unificatore. Inoltre, come è in parte emerso già da queste critiche, per Polibio è fondamentale ricercare e trovare le cause, le origini e i motivi degli eventi. In particolare, egli distingue tre tipi di cause: 1. : causa vera; 2. s: causa apparente, contingente, casus belli (es. assassinio dell’arciduca austriaco nel ’14); 3. : inizio, ossia le origini remote dell’evento. A questo punto, emerge chiaramente che p disponeva di numerosi modelli (per quanto discutibili), fra cui preferisce in assoluto Tucidide. Ma mentre quest’ultimo non aveva precedenti, all’epoca di Polibio era ormai necessario discriminare la vera storiografia per non farla ‘imbastardire’. Ad ogni modo, P risulta più superficiale di Tucidide, poiché è monotematico, si interessa solo di strategia e non, ad esempio, dei meccanismi economici, sociali della sua epoca. Le storie Il progetto iniziale delle Storie di Polibio andava dalla II Guerra punica (218-202 a.C.) fino al 168a.C. (III Guerra macedonica), ma alla fine P le ampliò fino ad arrivare al 144a.C. A noi sono giunti i primi V libri più