Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Letteratura italiana, Dispense di Italiano

I testi più importanti degli autori della letteratura italiana dal 500 al 700

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 05/10/2023

noemi-vuotto
noemi-vuotto 🇮🇹

2 documenti

1 / 224

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Letteratura italiana e più Dispense in PDF di Italiano solo su Docsity! 1Letteratura italiana Einaudi Serenissimo Gran Duca, la differenza che è tra gli uomini e gli altri animali, per grandissima che ella sia, chi dicesse poter darsi poco dis- simile tra gli stessi uomini, forse non parlerebbe fuor di ragione. Qual proporzione ha da uno a mille? e pure è proverbio vulgato, che un solo uomo vaglia per mille, dove mille non vagliano per un solo. Tal differenza de- pende dalle abilità diverse degl’intelletti, il che io riduco all’essere o non esser filosofo: poiché la filosofia, come alimento proprio di quelli, chi può nutrirsene, il separa in effetto dal comune esser del volgo, in piú e men de- gno grado, come che sia vario tal nutrimento. Chi mira piú alto, si differenzia piú altamente; e ’l volgersi al gran libro della natura, che è ’l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzar gli occhi: nel qual libro, benché tutto quel che si legge, come fattura d’Artefice onnipotente, sia per ciò proporzionatissimo, quello nientedimeno è piú spedito e piú degno, ove maggiore, al nostro vedere, apparisce l’opera e l’artifizio. La costituzione dell’uni- verso, tra i naturali apprensibili, per mio credere, può mettersi nel primo luogo: che se quella, come universal contenente, in grandezza tutt’altri avanza, come regola e mantenimento di tutto debbe anche avanzarli di nobiltà. Però, se a niuno toccò mai in eccesso differenziarsi nell’intelletto sopra gli altri uomini, Tolomeo e ’l Coper- nico furon quelli che sí altamente lessero s’affisarono e filosofarono nella mondana costituzione. Intorno all’opere de i quali rigirandosi principalmente questi miei Dialoghi, non pareva doversi quei dedicare ad altri che a Vostra Altezza; perché posandosi la lor dottrina su questi due, ch’io stimo i maggiori ingegni che in simili speculazioni ci abbian lasciate loro opere, per non far discapito di maggioranza, conveniva appoggiarli al favo- re di Quello appo di me il maggiore, onde possan rice- vere e gloria e patrocinio. E se quei due hanno dato tan- to lume al mio intendere, che questa mia opera può dirsi Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo loro in gran parte, ben potrà anche dirsi di Vostr’Altez- za, per la cui liberal magnificenza non solo mi s’è dato ozio e quiete da potere scrivere, ma per mezo di suo effi- cace aiuto, non mai stancatosi in onorarmi, s’è in ultimo data in luce. Accettila dunque l’Altezza Vostra con la sua solita benignità; e se ci troverrà cosa alcuna onde gli amatori del vero possan trar frutto di maggior cognizio- ne e di giovamento, riconoscala come propria di sé me- desima, avvezza tanto a giovare, che però nel suo felice dominio non ha niuno che dell’universali angustie, che son nel mondo, ne senta alcuna che lo disturbi. Con che pregandole prosperità, per crescer sempre in questa sua pia e magnanima usanza, le fo umilissima reverenza. Dell’Altezza Vostra Serenissima Umilissimo e devotissimo servo e vassallo GALILEO GALILEI 2Letteratura italiana Einaudi Mi trovai, molt’anni sono, piú volte nella maravigliosa città di Venezia in conversazione col signor Giovan Francesco Sagredo, illustrissimo di nascita, acutissimo d’ingegno.Venne là di Firenze il signor Filippo Salviati, nel quale il minore splendore era la chiarezza del sangue e la magnificenza delle ricchezze; sublime intelletto, che di niuna delizia piú avidamente si nutriva, che di speco- lazioni esquisite. Con questi due mi trovai spesso a di- scorrer di queste materie, con l’intervento di un filosofo peripatetico, al quale pareva che niuna cosa ostasse maggiormente per l’intelligenza del vero, che la fama ac- quistata nell’interpretazioni Aristoteliche. Ora, poiché morte acerbissima ha, nel piú bel sereno degli anni loro, privato di quei due gran lumi Venezia e Firenze, ho risoluto prolungar, per quanto vagliono le mie debili forze, la vita alla fama loro sopra queste mie carte, introducendoli per interlocutori della presente controversia. Né mancherà il suo luogo al buon Peripa- tetico, al quale, pel soverchio affetto verso i comenti di Simplicio, è parso decente, senza esprimerne il nome, la- sciarli quello del reverito scrittore. Gradiscano quelle due grand’anime, al cuor mio sempre venerabili, questo publico monumento del mio non mai morto amore, e con la memoria della loro eloquenza mi aiutino a spiega- re alla posterità le promesse speculazioni. Erano casualmente occorsi (come interviene) varii di- scorsi alla spezzata tra questi signori, i quali avevano piú tosto ne i loro ingegni accesa, che consolata, la sete dell’imparare: però fecero saggia risoluzione di trovarsi alcune giornate insieme, nelle quali, bandito ogni altro negozio, si attendesse a vagheggiare con piú ordinate speculazioni le maraviglie di Dio nel cielo e nella terra. Fatta la radunanza nel palazzo dell’illustrissimo Sagre- do, dopo i debiti, ma però brevi, complimenti, il signor Salviati in questa maniera incominciò Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 5Letteratura italiana Einaudi Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo GIORNATA PRIMA Interlocutori: Salviati, Sagredo e Simplicio SALV. Fu la conclusione e l’appuntamento di ieri, che noi dovessimo in questo giorno discorrere, quanto piú distintamente e particolarmente per noi si potes- se, intorno alle ragioni naturali e loro efficacia, che per l’una parte e per l’altra sin qui sono state prodotte da i fautori della posizione Aristotelica e Tolemaica e da i seguaci del sistema Copernicano. E perché collo- cando il Copernico la Terra tra i corpi mobili del cie- lo, viene a farla essa ancora un globo simile a un pia- neta, sarà bene che il principio delle nostre considerazioni sia l’andare esaminando quale e quan- ta sia la forza e l’energia de i progressi peripatetici nel dimostrare come tale assunto sia del tutto impossibi- le; attesoché sia necessario introdurre in natura su- stanze diverse tra di loro, cioè la celeste e la elementa- re, quella impassibile ed immortale, questa alterabile e caduca. Il quale argomento tratta egli ne i libri del Cielo, insinuandolo prima con discorsi dependenti da alcuni assunti generali, e confermandolo poi con esperienze e con dimostrazioni particolari. Io, se- guendo l’istesso ordine, proporrò, e poi liberamente dirò il mio parere, esponendomi alla censura di voi, ed in particolare del signor Simplicio, tanto strenuo campione e mantenitore della dottrina Aristotelica. È il primo passo del progresso peripatetico quello do- ve Aristotile prova la integrità e perfezione del mon- do coll’additarci com’ei non è una semplice linea né una superficie pura, ma un corpo adornato di lun- ghezza, di larghezza e di profondità; e perché le di- mensioni non son piú che queste tre, avendole egli, le 6Letteratura italiana Einaudi ha tutte, ed avendo il tutto, è perfetto. Che poi, ve- nendo dalla semplice lunghezza costituita quella ma- gnitudine che si chiama linea, aggiunta la larghezza si costituisca la superficie, e sopragiunta l’altezza o profondità ne risulti il corpo, e che doppo queste tre dimensioni non si dia passaggio ad altra, sí che in queste tre sole si termini l’integrità e per cosí dire la totalità, averei ben desiderato che da Aristotile mi fusse stato dimostrato con necessità, e massime po- tendosi ciò esequire assai chiaro e speditamente. SIMP. Mancano le dimostrazioni bellissime nel 2°, 3° e 4° testo, doppo la definizione del continuo? Non ave- te, primieramente, che oltre alle tre dimensioni non ve n’è altra, perché il tre è ogni cosa, e ’l tre è per tut- te le bande? e ciò non vien egli confermato con l’au- torità e dottrina de i Pittagorici, che dicono che tutte le cose son determinate da tre, principio, mezo e fine, che è il numero del tutto? E dove lasciate voi l’altra ragione, cioè che, quasi per legge naturale, cotal nu- mero si usa ne’ sacrifizii degli Dei? e che, dettante pur cosí la natura, alle cose che son tre, e non a meno, at- tribuiscono il titolo di tutte? perché di due si dice amendue, e non si dice tutte; ma di tre, sí bene. E tut- ta questa dottrina l’avete nel testo 2°. Nel 3° poi, ad pleniorem scientiam, si legge che l’ogni cosa, il tutto, e ’l perfetto, formalmente son l’istesso; e che però solo il corpo tra le grandezze è perfetto, perché esso solo è determinato da 3, che è il tutto, ed essendo divisibile in tre modi, è divisibile per tutti i versi: ma dell’altre, chi è divisibile in un modo, e chi in dua, perché se- condo il numero che gli è toccato, cosí hanno la divi- sione e la continuità; e cosí quella è continua per un verso, questa per due, ma quello, cioè il corpo, per tutti. Di piú nel testo 4°, doppo alcune altre dottrine, non prov’egli l’istesso con un’altra dimostrazione, cioè che non si facendo trapasso se non secondo qual- Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 7Letteratura italiana Einaudi o pur mobile, come alcuni antichi filosofi credettero ed altri da non molto tempo in qua stimano, e se mo- bile, qual possa essere il suo movimento. SALV. Già comprendo e riconosco il segno del nostro cammino; ma innanzi che si cominci a procedere piú oltre, devo dirvi non so che sopra queste ultime paro- le che avete detto, dell’essersi concluso la opinione che tien la Terra dotata delle medesime condizioni de i corpi celesti esser piú verisimile della contraria: im- perocché questo non ho io concluso, sí come non son né anco per concludere verun’altra delle proposizioni controverse; ma solo ho auta intenzione di produrre, tanto per l’una quanto per l’altra parte, quelle ragioni e risposte, instanze e soluzioni, che ad altri sin qui so- no sovvenute, con qualche altra ancora che a me, nel lungamente pensarvi, è cascata in mente, lasciando poi la decisione all’altrui giudizio. SAGR. Io mi era lasciato trasportare dal mio proprio sentimento, e credendo che in altri dovesse esser quel che io sentiva in me, feci universale quella conclusio- ne che doveva far particolare; e veramente ho errato, e massime non sapendo il concetto del signor Simpli- cio qui presente. SIMP. Io vi confesso che tutta questa notte sono andato ruminando le cose di ieri, e veramente trovo di molte belle nuove e gagliarde considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer assai piú dall’autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare… Voi scotete la testa, si- gnor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qual- che grande esorbitanza. SAGR. Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch’io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, in- sieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi po- trei ancora nominare. Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 135Letteratura italiana Einaudi Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo SALV. Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò forse il signor Simplicio non continuasse di creder d’avervi esso mosse le risa. SAGR. Son contento. Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per lo- ro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico no- tomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricer- cando l’origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici galenisti ed i peripa- tetici; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sot- tilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch’egli conosceva per filosofo peripateti- co, e per la presenza del quale egli aveva con estraor- dinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli do- mandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore, al quale il fi- losofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispo- se: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice, i nervi na- scer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera». SIMP. Signori, io voglio che voi sappiate che questa di- sputa dell’origine de i nervi non è miga cosí smaltita e decisa come forse alcuno si persuade. SAGR. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a cosí sensata esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d’Aristotile, ma la sola auto- rità ed il puro ipse dixit. 136Letteratura italiana Einaudi SIMP. Aristotile non si è acquistata sí grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne’ suoi libri, che se ne sia formata un’idea perfettissi- ma, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla mente; perché e’ non ha scritto per il volgo, né si è obligato a infilzare i suoi silogismi col metodo trivia- le ordinato, anzi, servendosi del perturbato, ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che par che trattino di ogni altra cosa: e però bisogna aver tut- ta quella grande idea, e saper combinar questo passo con quello, accozzar questo testo con un altro remo- tissimo; ch’ e’ non è dubbio che chi averà questa pra- tica, saprà cavar da’ suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile, perché in essi è ogni cosa. SAGR. Ma, signor Simplicio mio, come l’esser le cose disseminate in qua e in là non vi dà fastidio, e che voi crediate con l’accozzamento e con la combinazione di varie particelle trarne il sugo, questo che voi e gli altri filosofi bravi farete con i testi d’Aristotile, farò io con i versi di Virgilio o di Ovidio, formandone centoni ed esplicando con quelli tutti gli affari de gli uomini e i segreti della natura. Ma che dico io di Virgilio o di al- tro poeta? io ho un libretto assai piú breve d’Aristoti- le e d’Ovidio, nel quale si contengono tutte le scienze, e con pochissimo studio altri se ne può formare una perfettissima idea: e questo è l’alfabeto; e non è dub- bio che quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonanti o con quell’altre, ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti, in quella maniera appunto che il pitto- re da i semplici colori diversi, separatamente posti so- pra la tavolozza, va, con l’accozzare un poco di que- sto con un poco di quello e di quell’altro, figurando Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo 137Letteratura italiana Einaudi Galileo Galilei - Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo pieno di barbarie, un voler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l’autorità ad Aristotile, e non esso che se la sia usurpa- ta o presa; e perché è piú facile il coprirsi sotto lo scu- do d’un altro che ’l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d’allontanarsi un sol passo, e piú tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono impertinentemente negar quelle che veggo- no nel cielo della natura. SAGR. Questi tali mi fanno sovvenire di quello sculto- re, che avendo ridotto un gran pezzo di marmo all’immagine non so se d’un Ercole o di un Giove ful- minante, e datogli con mirabile artifizio tanta vivacità e fierezza che moveva spavento a chiunque lo rimira- va, esso ancora cominciò ad averne paura, se ben tut- to lo spirito e la movenza era opera delle sue mani; e ’l terrore era tale, che piú non si sarebbe ardito di af- frontarlo con le subbie e ’l mazzuolo. SALV. Io mi son piú volte maravigliato come possa es- ser che questi puntuali mantenitori d’ogni detto d’Aristotile non si accorgano di quanto gran progiu- dizio e’ sieno alla reputazione ed al credito di quello, e quanto, nel volergli accrescere autorità, gliene de- traggano; perché, mentre io gli veggo ostinati in voler sostener proposizioni le quali io tocchi con mano es- ser manifestamente false, ed in volermi persuadere che cosí far convenga al vero filosofo e che cosí fareb- be Aristotile medesimo, molto si diminuisce in me l’opinione che egli abbia rettamente filosofato intor- no ad altre conclusioni a me piú recondite: ché quan- do io gli vedessi cedere e mutare opinione per le ve- rità manifeste, io crederei che in quelle dove e’ persistessero, potessero avere salde dimostrazioni, da me non intese o sentite. 140Letteratura italiana Einaudi 1Letteratura italiana Einaudi Canto Primo LA FORTUNA ALLEGORIA Nella sferza di rose e di spine con cui Venere batte il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non gia- mai discompagnati da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente Nettuno, si di- mostra quanto questa fiera passione sia potente per tut- to, eziandio negli animi de’ grandi. In Adone che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’isola di Cipro, si significa la gioventù che sotto il fa- vore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la persona di Clizio s’intende il signor Giovan Vincenzo Imperiali, gentiluomo genovese di belle lettere, che que- sto nome si ha appropriato nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il poema dello Stato ru- stico, dal medesimo leggiadramente composto. Giovanbattista Marino - Adone ARGOMENTO Passa in picciol legnetto a Cipro Adone dale spiagge d’Arabia, ov’egli nacque. Amor gli turba intorno i venti e l’acque, Clizio pastor l’accoglie in sua magione. 1 Io chiamo te, per cui si volge e move la più benigna e mansueta sfera, santa madre d’Amor, figlia di Giove, bella dea d’Amatunta e di Citera; te, la cui stella, ond’ogni grazia piove, dela notte e del giorno è messaggiera; te, lo cui raggio lucido e fecondo serena il cielo ed innamora il mondo; 2 tu dar puoi sola altrui godere in terra di pacifico stato ozio sereno. Per te Giano placato il tempio serra, addolcito il Furor tien l’ire a freno; poiché lo dio del’ armi e dela guerra spesso suol prigionier languirti in seno e con armi di gioia e di diletto guerreggia in pace ed è steccato il letto. 3 Dettami tu del giovinetto amato le venture e le glorie alte e superbe; qual teco in prima visse, indi qual fato l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe. E tu m’insegna del tuo cor piagato a dir le pene dolcemente acerbe e le dolci querele e ‘l dolce pianto; e tu de’ cigni tuoi m’impetra il canto. 2Letteratura italiana Einaudi Arse di sdegno e ‘l cor d’amaro fiele sparsa, gelò la sua gelosa dea, e ‘ncontro a lui con flebili querele richiamossi del torto a Citerea; onde il garzon sovra l’etade astuto dala materna man pianse battuto. 12 – Oimé, possibil fia (dicea Ciprigna) ch’io mai per te di pace ora non abbia? Qual cerasta più livida e maligna nutre del Nilo la deserta sabbia? qual furia insana, o qual arpia sanguigna là negli antri di stige ha tanta rabbia? Dimmi, quel tosco ond’ogni core appesti, aspe di paradiso, onde traesti? 13 Vuoi tu più mai contaminar di Giuno le leggittime gioie e i casti amori? Udrò di te mai più richiamo alcuno, ministro di follie, fabro d’errori, sollecito avoltor, verme importuno, morbo de’ sensi, ebrietà de’ cori, di fraude nato e di furor nutrito, omicida del senno, empio appetito? 14 Ira mi vien di romperti que’ lacci e quell’arco che fa piaghe sì grandi, né so chi mi ritien ch’or or non stracci quante reti malvage ordisci e spandi, che per sempre dal ciel non ti discacci, che ‘n essilio perpetuo io non ti mandi su i gioghi ircani e tra le caspie selve, arcier villano, a saettar le belve. Giovanbattista Marino - Adone 5Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone 15 Che tu fra gli egri e languidi mortali, di cui s’odono ognor gridi e lamenti, semini colaggiù martiri e mali, convien, malgrado mio, ch’io mi contentia; ma soffrirò che ‘n ciel vibri i tuoi strali, non perdonando ale beate genti? che sostengan per te strazi sì rei, serpentello orgoglioso, anco gli dei? 16 Che più? fin dele stelle il sommo duce questo malnato di sforzar si vanta, e spesso a stato tale anco il riduce ch’or in mandra or in nido, or mugghia or canta. Un pestifero mostro, orbo di luce, avrà dunque fra noi baldanza tanta? un, che la lingua ancor tinta ha di latte, cotanto ardisce? – E ciò dicendo il batte. 17 Con flagello di rose insieme attorte ch’avea groppi di spine, ella il percosse e de’ bei membri, onde si dolse forte, fe’ le vivaci porpore più rosse. Tremaro i poli e la stellata corte a quel fiero vagir tutta si mosse; mossesi il ciel, che più d’Amor infante teme il furor che di Tifeo gigante. 18 Dela reggia materna il figlio uscito, con quello sdegno allor se n’allontana con cui soffiar per l’arenoso lito calcata suol la vipera africana o l’orso cavernier, quando ferito si scaglia fuor dela sassosa tana 6Letteratura italiana Einaudi e va fremendo per gli orror più cupi dele valli lucane e dele rupi. 19 Sferzato e pien di dispettosa doglia, fuggì piangendo ala vicina sfera, là dove cinto di purpurea spoglia, gran monarca de’ tempi, il Sole impera e ‘nsu l’entrar dela dorata soglia, stella nunzia del giorno e condottiera, Lucifero incontrò, che ‘n oriente apria con chiave d’or l’uscio lucente. 20 E ‘l Crepuscolo seco, a poco a poco uscito per la lucida contrada sovra un corsier di tenebroso foco, spumante il fren d’ambrosia e di rugiada, di fresco giglio e di vivace croco forier del bel mattin spargea la strada e con sferza di rose e di viole affrettava il camino innanzi al Sole. 21 La bella luce, che ‘n su l’aurea porta aspettava del Sol la prima uscita, era di Citerea ministra e scorta, d’amoroso splendor tutta crinita. Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta già la biga rotante avea spedita e ‘l venir dela dea stava attendendo, quando il fier pargoletto entrò piangendo. 22 Pianse al pianger d’Amor la mattutina del re de’ lumi ambasciadrice stella Giovanbattista Marino - Adone 7Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone col proprio genitor giunse in un letto, di lei che, volta in pianta, i suoi dolori ancor distilla in lagrimosi odori. 30 Schernì la scelerata il re malsaggio accesa il cor di sozzo foco indegno, ond’egli poi per così grave oltraggio quant’ella già d’amore, arse di sdegno e le convenne in loco ermo e selvaggio girne ad esporre il malconcetto pegno, pegno furtivo, a cui la propria madre fu sorella in un punto, avolo il padre. 31 Fattezze mai sì signorili e belle non vide l’occhio mio lucido e chiaro. Sventurato fanciullo, a cui le stelle prima il rigor che lo splendor mostraro: contro gli armò crude influenzie e felle, ancor da lui non visto, il cielo avaro, poiché, mentre l’un sorse e l’altra giacque, al morir dela madre il figlio nacque. 32 Qual trofeo più famoso? e qual altronde spoglia attendi più ricca o più superba, se per costui, ch’or prende a solcar l’onde, il cor le ferirai di piaga acerba? Dolci le piaghe fian, ma sì profonde ch’arte non vi varrà di pietra o d’erba. Questa fia del tuo mal degna vendetta: spirto di profezia così mi detta. 33 Più oltre io ti dirò. Mira là dove a caratteri egizzi in note oscure 10Letteratura italiana Einaudi intagliati vedrai per man di Giove i vaticini del’età future: havvi quante il destino al mondo piove da’ canali del ciel sorti e venture, che de’ pianeti al numero costrutte sono in sette metalli incise tutte. 34 Quivi ciò che seguir deggia di questo legger potrai, quasi in vergate carte: prole tal nascerà del bell’innesto, che non ti pentirai d’avervi parte. In lei, pur come gemme in bel contesto, saran tutte del ciel le grazie sparte; e questa, o per tai nozze apien beato, al tiranno del mar promette il fato. 35 Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio la memoria tra noi de’ gran contrasti, ma tal premio n’avrai d’un dono mio, che ‘n mercé di tant’opra io vo’ che basti; lira nel mio Parnaso aurea serb’io, ch’ha d’or le corde e di rubino i tasti; fu d’Armonia tua suora ed io di lei con questa celebrai gli alti imenei. 36 Questa fia tua. Così qualor ti stai di cure e d’armi alleggerito e scarco musico com’arcier, trattar potrai il plettro a par di me non men che l’arco; ché l’armonia non sol ristora assai qualunque sia più faticoso incarco, ma molto può co’ numeri sonori ad eccitare ed incitar gli amori. – Giovanbattista Marino - Adone 11Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone 37 Fur queste efficacissime parole folli, ch’al folle cor soffiaro orgoglio, ond’irritato abbandonò del Sole senza far motto il lampeggiante soglio e, ruinando dal’eterea mole inver le piagge del materno scoglio, corse col tratto dele penne ardenti, più che vento leggier, le vie de’ venti. 38 Come prodigiosa acuta stella, armata il volto di scintille e lampi, fende del’aria, orribil sì ma bella passaggiera lucente, i larghi campi; mira il nocchier da questa riva e quella con qual purpureo piè la nebbia stampi e con qual penna d’or scriva e disegni le morti ai regi e le cadute ai regni: 39 così mentrech’Amor dal ciel disceso scorrendo va la region più bassa, con la face impugnata e l’arco teso gran traccia di splendor dietro si lassa; d’un solco ardente e d’auree fiamme acceso riga intorno le nubi ovunque passa e trae per lunga linea in ogni loco striscia di luce, impression di foco. 40 Su ‘l mar si cala, e sicom’ira il punge, sestesso aventa impetuoso a piombo; circonda i lidi quasi mergo e lunge fa del’ali stridenti udire il rombo; né grifagno falcon quando raggiunge 12Letteratura italiana Einaudi 48 Ed ecco varia d’abito e di volto strania donna venir vede per l’onde, ch’ha su la fronte il biondo crine accolto tutto in un globo e quel ch’è calvo asconde; vermiglio e bianco il vestimento sciolto con lieve tremolio l’aura confonde; lubrico è il lembo e quasi un aer vano, che sempre a chi lo stringe esce di mano. 49 Nel’ampio grembo ha dela copia il corno e nela destra una volubil palla; fugge ratto sovente e fa ritorno per le liquide vie scherzando a galla; alato ha il piede e più leggiera intorno che foglia al vento si raggira e balla e, mentre move al ballo il piè veloce, in sì fatto cantar scioglie la voce: 50 – Chi cerca in terra divenir beato goder tesori e possedere imperi, stenda la destra in questo crine aurato, ma non indugi a cogliere i piaceri, ché, se si muta poi stagione e stato, perduto ben di racquistar non speri: così cangia tenor l’orbe rotante, nel’incostanza sua sempre costante. – 51 Così cantava; indi, arrestando il canto, con lieto sguardo al bel garzone arrise, ed alo scoglio avicinata intanto spalmò quel legno e ‘n sul timon s’assise. – Adon, seguimi (disse) e vedrai quanto Giovanbattista Marino - Adone 15Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone cortese stella al nascer tuo promise; prendi la treccia d’or che ‘n man ti porgo, né temer di venirne ov’io ti scorgo. 52 Benché vulgare opinione antica mi stimi un idol falso, un’ombra vana e cieca e stolta e di virtù nemica m’appelli, instabil sempre e sempre insana e tiranna impotente altri mi dica vinta talor dala prudenza umana, pur son fata e son diva e son reina, m’ubbidisce natura, il ciel m’inchina. 53 Chiunque Amore o Marte a seguir prende convien che ‘l nome mio celebri e chiami; chi solca l’acqua e chi la terra fende o s’alcun v’ha ch’onore e gloria brami, porge preghi al mio nume e voti appende ed io dispenso altrui scettri e reami; toglier posso e donar tutto ad un cenno e quanto è sotto il sol reggo a mio senno. 54 Me dunque adora e ‘nsu l’eccelsa cima dela mia rota ascenderai di corto; per me nel trono, onde ti trasse in prima l’empio inganno materno, or sarai scorto; solché poi dove il fato or ti sublima sappi nel conservarti essere accorto, ché spesso suol con preveder periglio romper fortuna rea cauto consiglio. – 55 Tace ciò detto ed egli, vago allora di costeggiar quel dilettoso loco, 16Letteratura italiana Einaudi entra nel legno e del’angusta prora i duo remi a trattar prende per gioco. Ed ecco al sospirar d’agevol ora s’allontana l’arena a poco a poco, siché mentr’ei dal mar si volge ad essa par che navighi ancor la terra istessa. 56 Scorrendo va piacevolmente il lido mentr’è placido e piano il molle argento e da principio, del suo patrio nido rade la riva a passo tardo e lento, indi al’instabil fè del flutto infido sestesso crede e si commette al vento lunge di là dov’a morir va l’onda e con roco latrar morde la sponda. 57 Trasparean sì le belle spiagge ondose, che si potean del’umide spelonche nele profonde viscere arenose ad una ad una annoverar le conche. Zefiri destri al volo, Aure vezzose l’ali scotean: ma tosto lor fur tronche, il mar cangiossi, il ciel ruppe la fede: oh malcauto colui ch’ai venti crede. 58 O stolto quanto industre, o troppo audace fabro primier del temerario legno, ch’osasti la tranquilla antica pace romper del crudo e procelloso regno; più ch’aspro scoglio e più che mar vorace rigido avesti il cor, fiero l’ingegno, quando sprezzando l’impeto marino gisti a sfidar la morte in fragil pino. Giovanbattista Marino - Adone 17Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone come prima lontan dal verde smalto vede in picciol legnetto il vago Adone, subitamente al disegnato assalto l’armi apparecchia e l’animo dispone e, tutto inteso a tribular la madre, vassene in Lenno ala magion del padre. 67 Nela fuliginosa atra fucina dove il zoppo Vulcan, suo genitore, de’ numi eterni i vari arnesi affina tinto di fumo e molle di sudore, entra per fabricar tempra divina d’un aureo strale imperioso Amore, stral ch’efficace e penetrante e forte possa un petto immortal ferire a morte. 68 Libero l’uscio al cieco arciero aperse la gran ferriera del divino artista, parte di già polite opre diverse, parte imperfette ancor, confusa e mista. Colà fan l’armi lampeggianti e terse del celeste guerrier superba vista, qui la folgor fiammeggia alata e rossa del gran fulminator d’Olimpo e d’Ossa. 69 V’è di Pallade ancor lo scudo e l’asta, il rastello di Cerere e ‘l bidente, l’acuto spiedo di Diana casta, la grossa mazza d’Ercole possente, la falce, onde Saturno il tutto guasta, l’arco, ond’Apollo uccise il fier serpente, di Nettuno il trafiero e di Plutone con due punte d’acciaio havvi il forcone. 20Letteratura italiana Einaudi 70 Le trombe v’ha con cui volando suona la Fama e gli altrui fatti or biasma or loda; v’ha i ceppi, tra’ cui ferri Eolo imprigiona i venti insani e le tempeste inchioda; v’ha le catene, onde talor Bellona il Furor lega e la Discordia annoda; e v’ha le chiavi, ond’a dar pace o guerra Giano il gran tempio suo serra e disserra. 71 Presso al focon di mille ordigni onusto travaglia il nero fabro entro la grotta. Più d’un callo ha la man forte e robusto, ale fatiche essercitata e dotta; ruginosa la fronte, il volto adusto, crespa la pelle ed abbronzata e cotta, sparso il grembial di mill’avanzi e mille di limature e ceneri e faville. 72 Quand’egli scorge il nudo pargoletto, la forbice e ‘l martel lascia e sospende e curvo e chino entro il lanoso petto con un riso villan da terra il prende. Tra le ruvide braccia avinto e stretto l’ispido labro per baciarlo stende e la sudicia barba ed incomposta al molle viso e dilicato accosta. 73 Ma mentre ch’egli l’accarezza e stringe, raccolto in braccio, con paterno zelo, Amor, perché baciando il punge e tinge, la faccia arretra dal’irsuto pelo e, con quel sozzo lin che ‘l sen gli cinge, Giovanbattista Marino - Adone 21Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone per non macchiarsi di carbone il velo, al’aspra guancia d’una in altra ruga del’immondo sudor le stille asciuga. 74 – Padre, dala tua man (poscia gli dice) voglio or or sovrafina una saetta, che fia de’ torti tuoi vendicatrice: lascia la cura a me dela vendetta. Il come appalesar né vo’ né lice, basti sol tanto, spacciati, ch’ho fretta; non porta indugio il caso, altro or non puoi da me saper, l’intenderai ben poi. 75 Il quadrel ch’io ti cheggio esser conviene di perfetto artificio e ben condotto, ch’esserne fin nele più interne vene deve un petto divin forato e rotto. S’usò mai sforzo ad impiegarsi bene il tuo braccio, il tuo senno esperto e dotto, fa, prego, in cosa ov’hai tanto interesse, del gran saper le meraviglie espresse. 76 Starò qui teco a ministrarti intento sotto la rocca del camin che fuma; accioché ‘l foco non rimanga spento, mantice ti farò del’aurea piuma e s’egli averrà pur che manchi il vento al folle che l’accende e che l’alluma, prometto accumular tra questi ardori in un soffio i sospir di mille cori. – 77 Non pon Vulcano in quell’affar dimora, ma sceglie la miglior fra cento zolle, 22Letteratura italiana Einaudi e sciolto il freno al’insolenza audace, in cotal guisa, mentre il vibra e move, prende le forze a beffeggiar di Giove: 85 – Deh quanto, o tonator, che dale stelle fai sdegnoso scoppiar le nubi orrende, più dela tua, ch’a spaventar Babelle dal ciel con fiero strepito discende, atta sola a domar genti rubelle senza romor la mia saetta offende; tu de’ monti, io de’ cori abbiam le palme, l’una fulmina i corpi e l’altra l’alme. – 86 Depon l’arme tonante e ricercando di qua di là l’affumigato albergo, trova di Marte il minaccioso brando, il fin brocchier, l’avantaggiato usbergo. – Or la prova vedrem (dice scherzando) s’a difender son buoni il fianco e ‘l tergo. – Lo strale in questa uscir dal’arco lassa, falsa lo scudo e la lorica passa. 87 Di sì fatte follie sorridea seco lo dio distorto, che ‘l mirava intanto. – Tu ridi (disse il faretrato cieco) né sai che l’altrui riso io cangio in pianto, e più che la fumea di questo speco, farti d’angoscia lagrimar mi vanto. – Ciò detto al gran Nettun vola leggiero, che nel mondo del’acque ha sommo impero. 88 Velocemente a Tenaro sen viene, e l’aria scossa al suo volar fiammeggia. Giovanbattista Marino - Adone 25Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone Abitator dele più basse arene quivi ha Nettun la cristallina reggia, che dal’umor, di cui le sponde ha piene, battuta sempre e flagellata ondeggia. Rende dagli antri cavi eco profonda rauco muggito alo sferzar del’onda. 89 Al’arrivo d’Amor da’ cupi fonti sgorga e crespo di spuma il mar s’imbianca, quinci e quindi gli estremi in duo gran monti sospende e in mezzo si divide e manca, e, scoverti del fondo asciutti i ponti, del gran palagio i cardini spalanca. Passa ei nel regno ove la madre nacque, patria de’ pesci e region del’acque. 90 Passa e sen va tra l’una e l’altra roccia quasi per stretta e discoscesa valle. L’onda nol bagna e il mar, nonché gli noccia, ritira indietro il piè, volge le spalle. Filano acuto gelo a goccia a goccia ambe le rupi del profondo calle, e tra questo e quell’argine pendente apena ei scorger può l’aria lucente. 91 Né già mentre varcava i calli ondosi la faretra o la face in ozio tenne, ma con acuti stimoli amorosi faville e piaghe a seminar vi venne; e là dove, del’acqua augei squamosi, spiegano i pesci l’argentate penne, tra gl’infiniti esserciti guizzanti sparse mill’esche di sospiri e pianti. 26Letteratura italiana Einaudi 92 Strana di quella casa è la struttura, strano il lavoro e strano è l’ornamento; ha di ruvide pomici le mura e di tenere spugne il pavimento; di lubrico zaffiro è la scultura, dela scala maggior l’uscio è d’argento, variato di pietre e di cocchiglie azzurre e verdi e candide e vermiglie. 93 Nel’antro istesso è la magion di Teti e gran famiglia di Nereidi ha seco, che ‘n vari uffici ed essercizi lieti occupate si stan nel cavo speco. Queste con passi incogniti e secreti e per sentier caliginoso e cieco van, del’arida terra irrigatrici, a nutrir piante e fiori, erbe e radici. 94 Intorno e dentro al’umida spelonca chi danzando di lor le piante vibra, chi sceglie o gemma in sabbia o perla in conca, chi fila l’oro e chi l’affina e cribra; qual de’ germi purpurei i rami tronca, qual degli ostri sanguigni i pesi libra e sotto il piè d’Amor v’ha molte ninfe che van di musco ad infiorar le linfe. 95 Belle son tutte sì, ma differenti, altra ceruleo ed altra ha verde il crine, altra l’accoglie, altra lo scioglie ai venti, altra intrecciando il va d’alghe marine; e di manti diafani e lucenti Giovanbattista Marino - Adone 27Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone 103 Giacque in te la Sirena e per te poi sorger virtute e fiorir gloria io veggio, trono di Giove e di pregiati eroi felice albergo e fortunato seggio; dolce mio porto, agli abitanti tuoi, ne’ cui petti ho il mio nido, eterno io deggio. Padre di cigni e lor ricovro eletto, e de’ fratelli miei fido ricetto. – 104 Con questi encomi affettuosi Amore del patrio fiume mio le lodi spande, che ‘l riconosce al limpido splendore che fra mill’altri è segnalato e grande e de’ cedri fioriti al grato odore di cui s’intesse al crin verdi ghirlande. Intanto nela gelida caverna, dove siede Nettuno, i passi interna. 105 Seggio di terso oriental cristallo preme de’ flutti il regnator canuto, che da colonne d’oro e di corallo con basi di diamante è sostenuto. E chi d’una testudine a cavallo chi d’un delfin, chi d’un vitel cornuto, cento altri dei minor, numi vulgari, cedono a lui la monarchia de’ mari. 106 – Non pensar che per ira (Amor gli disse) gran padre dele cose a te ne vegna, ché non può dio di pace amar le risse e nel petto d’Amore odio non regna; ma perché novamente il ciel prefisse impresa al’arco mio nobile e degna, 30Letteratura italiana Einaudi per render l’opra agevole e spedita di cortese favor ti cheggio aita. 107 Tu vedi là, dove di Siria siede la spiaggia estrema che col mar confina, vago fanciul del mio bel regno erede col remo essercitar l’onda marina. Questo, che di bellezza ogni altro eccede, ala mia bella madre il ciel destina, onde frutto uscir dee di beltà tanta che fia simile intutto ala sua pianta. 108 Se deriva da te l’origin mia, s’a chi mi generò desti la cuna, se ‘l tuo desir, quando d’amor languìa, ottenne unqua da me dolcezza alcuna, accioch’io possa per più facil via condurlo a posseder tanta fortuna, mercé di quanto feci o a far mi resta siami nel regno tuo breve tempesta. 109 Di questa immensa tua liquida sfera turbar la bella e placida quiete piacciati tanto sol, ch’innanzi sera, venga Adone a cader nela mia rete; e fia tutto a suo pro, perché non pera sì ricca merce in malsecuro abete, il cui navigio con incerta legge più ‘l timor che ‘l timon governa e regge. 110 Sai che quando Ciprigna in novi amori occupata non è, com’ha per uso, Giovanbattista Marino - Adone 31Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone usurpando a Minerva i suoi lavori non sa senon trattar la spola o ‘l fuso, onde inutil letargo opprime i cori, torpe spento il mio foco, il dardo ottuso, manca il seme ala vita ed infecondo a rischio va di spopolarsi il mondo. 111 Oltre queste cagion, per cui devrei impetrar qualch’effetto ale mie voci, dee l’util proprio almeno a’ preghi miei far più le voglie tue pronte e veloci: da questi felicissimi imenei corteggiata da mille e mille proci, Beroe uscirà, che più d’ogni altra bella fia dele Grazie l’ultima sorella. 112 Costei, sicome mi mostraro in cielo l’adamantine tavole immortali, dove nel cerchio del signor di Delo Giove scolpì gli oracoli fatali, concede al re del liquefatto gelo l’alto tenor di quegli eterni annali, perché venga a scaldar col dolce lume del freddo letto tuo l’umide piume. 113 Ma quando ancor da quel ch’ivi scolpio chi move il tutto, il fato altro volgesse, seben di Tebe il giovinetto dio fia tuo rival nele bellezze istesse, a dispetto del ciel tel promett’io, scritte in diamante sien le mie promesse. Io, che Giove o destin punto non curo, per l’acque sacre e per mestesso il giuro. – 32Letteratura italiana Einaudi e di nova tempesta a rischio corse, non ben secura in ciel, la nave argiva. E voi fuor d’ogni legge, o gelid’orse, malgrado ancor dela gelosa diva, nel mar vietato i luminosi velli lavaste pur dele stellate pelli. 122 Deh che farai dal patrio suol lontano, misero Adone, a navigar mal atto? vaghezza pueril tanto pian piano il mal guidato palischelmo ha tratto, che la terra natia sospiri invano, dal gran rischio confuso e sovrafatto. Tardi ti penti e sbigottito e smorto omai cominci a desperar del porto. 123 Già già convien che il timido nocchiero al’arbitrio del caso s’abbandoni; fremono per lo ciel torbido e nero fra baleni ondeggianti i rauchi tuoni e tuona anch’egli il re del’acque altero, ch’a suon d’austri soffianti e d’aquiloni, col fulmine dentato, emulo a Giove, tormentando la terra, il mar commove. 124 Corre la navicella e ratta e lieve la corrente del mar seco la porta; piega l’orlo talvolta e l’onda beve, assai vicina a rimanerne absorta; più pallido e più gelido che neve volgesi Adon, né scorge più la scorta e di morte sì vasta il fiero aspetto confonde gli occhi suoi, spaventa il petto. Giovanbattista Marino - Adone 35Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone 125 Ma mentre privo di terreno aiuto l’agitato battel vacilla ed erra, ambo i fianchi sdruscito e combattuto da quell’ondosa e tempestosa guerra, quando il fanciul più si tenea perduto, ecco rapidamente approda in terra e, tra’ giunchi palustri insu l’arena vomitato dal’acque, il corso affrena. 126 Oltre l’Egeo, là donde spunta in prima il pianeta maggior che ‘l dì rimena, sotto benigno e temperato clima stende le falde un’isoletta amena. Quindi il superbo Tauro erge la cima, quinci il famoso Nil fende l’arena; ha Rodo incontro e di Soria vicini e di Cilicia i fertili confini. 127 Questa è la terra ch’ala dea, che nacque dal’onde con miracolo novello, tanto fu cara un tempo e tanto piacque, che, disprezzato il suo divino ostello, qui sovente godea fra l’ombre e l’acque con invidia del’altro un ciel più bello e v’ebbe eretto, al’immortale essempio dela sua diva imago, altare e tempio. 128 Scende quivi il garzon salvo al’asciutto, ma pur dubbioso e di suo stato incerto, ch’ancor gli par del’orgoglioso flutto veder l’abisso orribilmente aperto. Volgesi intorno e scorge esser pertutto, circondato dal mar, bosco e deserto, 36Letteratura italiana Einaudi ma quella solitudine che vede, gioconda è sì, ch’altro piacer non chiede. 129 Quivi si spiega in un sereno eterno l’aria in ogni stagion tepida e pura, cui nel più fosco e più cruccioso verno pioggia non turba mai, né turbo oscura, ma, prendendo dipar l’ingiurie a scherno del gelo estremo e del’estrema arsura, lieto vi ride né mai varia stile un sempreverde e giovinetto aprile. 130 I discordi animali in pace accoppia Amor, né l’un dal’altro offeso geme; va con l’aquila il cigno in una coppia, va col falcon la tortorella insieme, né dela volpe insidiosa e doppia il semplicetto pollo inganno teme; fede al’amica agnella il lupo osserva, e secura col veltro erra la cerva. 131 Da’ molli campi, i cui bennati fiori nutre di puro umor vena vivace, dolce confusion di mille odori sparge e ‘nvola volando aura predace: aura, che non pur là con lievi errori suol tra’ rami scherzar spirto fugace, ma per gran tratto d’acque anco da lunge peregrinando i naviganti aggiunge. 132 Va oltre Adone e Filomena e Progne garrir ode pertutto ovunque vanne Giovanbattista Marino - Adone 37Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone – Strani (gli dice) oltr’ogni creder quasi, peregrino gentil, sono i tuoi casi! 140 Ma cangiar patria omai, deh! non ti spiaccia con sì bel loco e rasserena il ciglio, ché se pur, come mostri, ami la caccia, qui fere avrai senz’ira e senz’artiglio. Né creder vo’ che ‘ndarno il ciel ti faccia campar da tanto e sì mortal periglio o senz’alta cagion per via sì lunga perduto legno a queste rive giunga. 141 Così compia i tuoi voti amico cielo e secondi i desir destra fortuna, come, fra quanti col suo piè di gelo paesi inferior scorre la luna; non potea più conforme a sì bel velo terra trovarsi o regione alcuna. Certo con lei, che con Amor qui regna, sol di regnar tanta bellezza è degna. 142 L’isola, dove sei, Cipro s’appella, che del mar di Panfilia in mezzo è posta; la gran reggia d’Amor, vedila, è quella ch’io là t’addito inver la destra costa, né, se non quanto il vuol la dea più bella, colà giamai profano piè s’accosta. Scender di ciel qui spesso ella ha per uso; in altro tempo il ricco albergo è chiuso. 143 V’ha poi templi ed altari, havvi Amor seco, simulacri, olocausti e sacerdoti, 40Letteratura italiana Einaudi dove, in segno d’onor, del popol greco pendono affissi in lunga serie i voti. Offrono al nume faretrato e cieco vittime elette i supplici devoti e gli spargono ognor, tra roghi e lumi, di ghirlande e d’incensi odori e fumi. 144 Qui per elezzion, non per ventura, già di Liguria ad abitar venn’io; pasco per l’odorifera verdura i bianchi armenti, e Clizio è il nome mio; del suo bel parco la custodia in cura diemmi la madre del’alato dio, dov’entrar, fuorch’a Venere, non lice, ed ala dea selvaggia e cacciatrice. 145 Trovato ho in queste selve ai flutti amari d’ogni umano travaglio il vero porto; qui dale guerre de’ civili affari, quasi in securo asilo, il ciel m’ha scorto; serici drappi non mi fur sì cari come l’arnese ruvido ch’io porto ed arno meglio le spelonche e i prati, che le logge marmoree e i palchi aurati. 146 Oh quanto qui più volentieri ascolto i sussurri del’acque e dele fronde, che quei del foro strepitoso e stolto che il fremito vulgar rauco confonde! Un’erba, un pomo e di fortuna un volto quanto più di quiete in sé nasconde di quel ch’avaro principe dispensa sudato pane in malcondita mensa. Giovanbattista Marino - Adone 41Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone 147 Questa felice e semplicetta gente che qui meco si spazia e si trastulla, gode quel ben che tenero e nascente ebbe a goder sì poco il mondo in culla: lecita libertà, vita innocente, appo ‘l cui basso stato il regio è nulla, ché sprezzare i tesor né curar l’oro, questo è secolo d’or, questo è tesoro. 148 Non cibo o pasto prezioso e lauto il mio povero desco orna e compone; or damma errante, or cavriuolo incauto l’empie, or frutto maturo in sua stagione; detto talora a suon d’avena o flauto ai discepoli boschi umil canzone; serva no, ma compagna amo la greggia; questa mandra malculta è la mia reggia. 149 Lunge da’ fasti ambiziosi e vani m’è scettro il mio baston, porpora il vello, ambrosia il latte, a cui le proprie mani scusano coppa e nettare il ruscello; son ministri i bifolci, amici i cani, sergente il toro e cortigian l’agnello, musici gli augelletti e l’aure e l’onde, piume l’erbette e padiglion le fronde. 150 Cede a quest’ombre ogni più chiara luce, ai lor silenzi i più canori accenti; ostro qui non fiammeggia, or non riluce, di cui sangue e pallor son gli ornamenti; se non bastano i fior che ‘l suol produce, 42Letteratura italiana Einaudi 158 Se cosa è che talor turbi ed annoi i miei riposi placidi e tranquilli, altri non è ch’amor. Lasso, dapoi che mi giunse a veder la bella Filli, per lei languisco e sol per gli occhi suoi convien che quant’io viva arda e sfavilli e vo’ che chiuda una medesma fossa del foco insieme il cenere e del’ossa. 159 Ma così son d’amor dolci gli strali, sì la sua fiamma e la catena è lieve, che mille strazi rigidi e mortali non vagliono un piacer che si riceve. Anzi pur vaga de’ suoi propri mali conosciuto velen l’anima beve e ‘n quegli occhi ov’alberga il suo dolore, volontaria prigion procaccia il core. 160 Curi dunque chi vuol delizie ed agi, io sol piacer di villa apprezzo ed amo; co’ tuguri cangiar voglio i palagi, altro tesor che povertà non bramo; sazio de’ vezzi perfidi e malvagi, ch’han sotto l’esca dolce amaro l’amo, qui sol quella ottener gioia mi giova che ciascun va cercando e nessun trova. 161 Non ti meravigliar che la selvaggia vita tanto da me pregiata sia, ch’ancor di Giano insu la patria spiaggia ne cantai già con rustica armonia; onde vanto immortal d’arguta e saggia Giovanbattista Marino - Adone 45Letteratura italiana Einaudi Giovanbattista Marino - Adone concesse Apollo ala sampogna mia, de’ cui versi lodati in Elicona il ligustico mar tutto risona. – 162 Del maestro d’amor gli amori ascolta stupido Adone ed a’ bei detti intento. Colui, poich’affrenò la lingua sciolta, fè da’ rozzi valletti in un momento recar copia di cibi, a cui la molta fame accrebbe sapore e condimento; mel di diletto e nettare d’amore soave al gusto e velenoso al core; 163 né mai di loto abominabil frutto di secreta possanza ebbe cotanto, né fu giamai con tal virtù costrutto di bevanda circea magico incanto, che non perdesse e non cedesse intutto al pasto del pastor la forza e ‘l vanto: licore insidioso, esca fallace, dolce velen ch’uccide e non dispiace. 164 Nel giardin del Piacer le poma colse Clizio amoroso e quindi il vino espresse, ond’ebro in seno il giovinetto accolse fiamme sottili, indi s’accese in esse. Non però le conobbe e non si dolse, ché, finch’uopo non fu, giacquer soppresse, qual serpe ascosa in agghiacciata falda, che non prende vigor se non si scalda. 165 Sente un novo desir ch’al cor gli scende e serpendo gli va per entro il petto; 46Letteratura italiana Einaudi ama né sa d’amar, né ben intende quel suo dolce d’amor non noto affetto; ben crede e vuole amar, ma non comprende qual esser deggia poi l’amato oggetto e pria si sente incenerito il core che s’accorga il suo male essere amore. 166 Amor ch’alzò la vela e mosse i remi quando pria tragittollo al bel paese, va sotto l’ali fomentando i semi dela fiamma ch’ancor non è palese. Fa su la mensa intanto addur gli estremi dela vivanda il contadin cortese; Adon solve il digiuno e i vasi liba, e quei segue il parlar mentr’ei si ciba 167 – Signor, tu vedi il sol ch’aventa i rai di mezzo l’arco, onde saetta il giorno; però qui riposar meco potrai tanto che ‘l novo dì faccia ritorno. Ben da sincero cor, prometto, avrai in albergo villan lieto soggiorno; avrai con parca mensa e rozzo letto accoglienze cortesi e puro affetto. 168 Tosto che sussurrar tra ‘l mirto e ‘l faggio io sentirò l’auretta mattutina, teco risorgerò per far passaggio ala casa d’Amor ch’è qui vicina. Tu poi quindi prendendo altro viaggio, potrai forse saldar l’alta ruina, conosciuto che sii l’unico e vero successor dela reggia e del’impero. – Giovanbattista Marino - Adone 47Letteratura italiana Einaudi 6 LO CUXTO DE LI CUNTI che sconta tutte, all’utemo, avennose pe mala strata osor- pato chello, che toccava ad autro, ncappaje a la rota de li cauce6; e, quanto se mera chiù sagliuta mperecuocco- lo~, tanto fu maggiore la vrociolata8; de lamanera, che secota. Dice, ch’era na vota lo re de Valle pelosa, lo quale aveva na figlia, chiammata Zoza9, che, comme n’autro Zoroastro o n’autro Eracleto, non se vedeva maje ridere. Pe la quale cosa, lo scuro patre, che non aveva autro spireto che st’uneca figlia, non lassava cosa da faro pe lovarele la malenconia, facenno venire a provocarele lo gusto, mo chille, che camminano ncoppa a le mazze10, mo chi Ile che passano dinto a lo chirchio11, mo li mattacine12, mo mastro Poggierò13, mo chille che fanno juocho de ma- 6 Giuoco, pel quale v. princ. Giorn. II. 7 In alto. 8 Ruzzolone, capitombolo. 9 Usa questo nome anche lo Sgrutlendio (Tiorba, G. IX, p. 245). 10 C h e v a n n o s u i t r a m p o l i . 11 Noto spettacolo ginnastico. 12 Giocolieri e saltatori mascherati. Il Caro accenna ai mattaccini, che « per far meglio ridere, vanno con quella camicia pendente, e con le calzo aperte, facendo delle berle * (A p o l o g i a , in O p p ., Fir., Le Mounier, 1S64, p. 201). Il Garzoni, tra i balli, menziona quello, intitolalo il m a t t a c i n o ( L a P i a z z a u n i v e r s a l e , p. 452). Clic questi giuochi fossero allora in uso a Napoli, è attestato da altri luoghi del N. (cfr. ligi. L a S t u f a ) , del Cortese (M i c c o P a s s a v o , X, 2S), ccc. 13 Cantante popolare della line del s. XVI e princ. s. XVII. Vi ac­ cenna il Del Tufo: « LI al suon del piglialo o del taglierò Cantar Mastro Rogiero, E simili persone, Col tamburello e con lo cola-cio- nc » ( ì i ì s . c., f. 100). Il Cortese gli fa cantare le lodi di Micco: « ...ve- nelle Mosto Roggiero co li sonatore, E na mnseea bella se facelle, Cornino se face nante a li segnare »; e cita una serie delle sue canzoni (?. c., I, 37 sgg.). Lo Sgrnlleudio, discorrendo del carne­ vale: « Canta po’ masto Roggiero, Ch’ è bestuto da Ucciali » (0. c., C. IX, p. 236): canzone, che attribuisce al poeta popolare Sbrufia- pappa (o. c., C. VII, p. 195), e nella quale si allude ad Assan Cicalo (cfr. Capasso in A r c h . S t o r . X a p . , Vili, 324). NTRODUZZIOXE 7 no14, mole forze d’Èrcole15, mo lo cane che adanza16, mo yracone che santa17, mo l’aseno che beve a lo bicchiero, mo Lucia canazza18, o mo na cosa, e mo n’autra. Ma tutto era tiempo perduto; ca manco lo remmedio de mastro Grillo19, manco Ferva sardoneca20, manco na stoccata a lo diaframma, Taverna fatto sgrignare no tantillo la vocca. Tanto che lo povero patre, pe tentare l’utema prova, non sapenno autro che fare, dette ordene che se facesse na G iuochi di destrezza. 15 Così anche il Cortese ( Yajass., IV, 29). Cfr. Le Lettere di A. Calmo, ed. V. Rossi (Torino, 1888, pp. 14-5). E forze si dissero fino agli u ltim i tem pi i giuochi g in nastici. 16 E, più innanzi, l ’ asino che beve al b icch iere: anim ali adde­ strati. 17 Yracone si trova nel Cortese (Viaggio di Pam., II, 5), e nello Sgruttendio: « E parea, cammenanno a sautariello, Vracone, quanno fa ntantarantera »; e poi: «Vracone de Moretto» (o. <?., C. I, s. 27; C. II, s. 1, ecc.). Ed era nome, a quanto sembra, di una sorta di buffone. 1S Ballo popolare napoletano, detto anche catubba. Cfr. Del Tufo (ms. c., f. 100); e F V alla par. Tubba catubba. — Il Callot ritrasse il ballo della Lucia in una sua bella incisione, e lo Sgruttendio lo mette in azione in una delle sue più belle poesie: « O Lucia, ah Lucia, — Lucia, Lucia mia, Stiennete, accostate, nzèccate ccà! Vide sto core ca ride e ca sguazza! Auza sto pede, ca zompo, canazza ! ecc. » (o. e., C. IX, p. 248; e anche pp. 235-6). Cfr. princ. G. III, e V, 9, io. 19 Un villan o, im provvisato m edico, che gu arì la fig liu o la del R e, procurandole, con certo suo strano m ezzo, una gran risata. Il Pas­ sano cita m olte edizioni d ella : Opera nuova piacevole et da ridere de un villano lavoratore nomato Grillo quale volse diventar medico, in rima istoriata (Ven., 1521, ecc.). V. Novell, ital. in verso (Boi., 1868, pp. 99-100). Cfr. anche P itrè, Nov. popol. toscane (Fir., 1885, pp. 283-8, e R. K òhler, III. XIX alla Posilecheata del Sarnelli, ed. Im briani (Nap., 1885, pp. 135-9). 20 Sardoa herba (lat.), da una voluta proprietà della quale deri­ vava il riso sardonico. Cfr. Liebr., Anm., I, 396-7. 8 LO CENTO DE LI CUNTI gran fontana d’uegìio nante la porta de lo palazzo, co designo che, sghizzanno a lo passare de la gente (che fa­ cevano comm’a formiche lo vacaviene pe chella strata), pe non se sodognere21 li vestite, averriano fatte zampe 22 de grille, sbauze de crapejo e corzete de leparo, sciu- lianno e morratinose23 chisto e chillo, potesse soccedere cosa, pe la quale se scoppasse a ridere. Fatto, adonca, sta fontana, e stanno Zoza a la fenestra, tanto composta, ch’era tutta acito2*, venne a sciorte na vecchia, la quale, azzopauno co na spogna Tueglio, ne nchieva n’agliariel- lo25 *, c’aveva portato. E, mentre, tutta affacennata, faceva sta marcancegna20, no cierto tentillo27 paggio de corte ti- raje na vrecciolla23 *, così a pilo, che, cogliuto l’agliaro, ne fece frecole20. Po la quale cosa, la vecchia, che non aveva pilo a la lengua, nè portava ngroppa, votatose a lo paggio, commenzaje a direle: « Ah zaccaro30, frasca, merduso, « piscialietto, sautariello de zi 31 ~pettoia a -culo32, « chiappo de mpiso33, mulo"canzirro34!; ente35 *ca puro li pu- « lece hanno la tosse30!, va, che te venga cionchìa37!, che « mammata ne senta la mala nova!, che non ce> vide lo 21 Ungersi. 22 Salti. 23 Urtandosi. 21 Composta, nome collettivo di varie cose solite a conservarsi n e ll’aceto; di qui il b isticcio. 25 Dirnin. à'agliaro: vaso per olio, di terracotta, o di stagno. 20 P ropr.: astuzia; qui, operazione. 27 Diavolo. 23 Sassolino. 23 Frantum i. 30 F anciu llo . 31 Propr.; salterello di cem balo. — Forse; vispo, irreq u ieto? 32 rettola, falda della cam icia, che vien fuori dallo sparato dei ca lzon cin i dei bam bini. 33 Cappio (nodo scorsoio) d ’ im piccato; com e a d ire: furcifer. 31 Mulo nulo di cavallo e d’asina; qui, bastardo. Il Del Tufo, par­ lando dei bastard i: « Q uell’ altro (al nostro dir) m ulo can zirro » (ms. c., f. 74). 35 Ecco, vedi. 36 Cfr. Pitrè, Prov. naj)ol., in Avch. per lo si, traci, pop., Ili, 289. 37 Poralisia. NTRODUZZIONE II « Romma, fontana de lagreme60), io, pe vedereme del- « leggiata e codiata01 da vui, v’ aggio data sta jastem- « ma; la quale prego lo cielo che te venga a colà02, pe « mennetta de la ngiuria, che m’ è stata fatta! » Cossi dicenno, sfilaje pe le grade a baseio, pe paura de quar- che ntosa63. Ma Zoza, a lo medesemo punto, romenanno e raazzecanno le parole de la vecchia, le trasette ra- cecotena a la catarozzola01; e, votato no centimmolo de penziere e no molino de dubbie sopra sto fatto, all’ute- mo, tirata co no strado05 da chellà passione, che ceca lo jodizio e ncanta lo descurzo dell5 omino, pigliatose na mano de scute da li scrigno de lo patre, se ne sfilaje fora de lo palazzo. E tanto camminaje, che arrivaje a no castiello de na fata; co la quale spaporanno lo core, essa, pe compassione de cossi bella giovane, a la quale erano dui sperane a farela precipitare e la poca etate e l’am- more sopierchio a cosa non conosciuta, le deze na lettera de racommannazione a na sore soja, puro fatata. La quale, fattole gran compremiento, la matina, quanno la notte fa jettare lo banno dall’aucielle, a chi avesse visto na morra d’ombre negre sperdute, che se le farrà no buono veveraggio, le dette na bella noce, decenno: « Tè, figlia « mia, tienela cara; ma non l’aprire maje, si no a tiempo « de granne abbesuogno ; » e, co n’autra lettera, l’arreco- mannaje a n’autra sore. Dove, dapò luongo viaggio, ar­ rivata, fu recevuta co la medesema amorosanza, e la 00 È nota la favola di Egeria, la quale, morto Numa, lo pianse tanto, che Diana la mutò in una fonte. Gi Beffata. 62 (EO) a cola. — Sottint. a chiummo (piombo), a pilo, ecc., come si trova altrove: riuscire. 33 Bastonatura. Gi L\ES) corregge: « a la cecotena, a la catarozzola. » E così ver­ rebbe a mancare il soggetto della propos., che è racecolena, spirito maligno, diavolo; e qui, metaf., prurito. — Catarozzola, capo. 35 Carro. 12 LO CTJNTO DE LI CENTI matina appe n’autra lettera all’ autra sore, co na casta­ gna, dannole lo stisso averteraiento, che le fu dato co la noce. E, dapò avere caminato, jonzo a lo castiello de la fata, che, fattole mille carizze, a lo partirese, la matina, le consignaje na nocella co la stessa protesta; che no l’apresse maje, se la necessità no la scannava. Auto ste cose Zoza, se mese le gammo ncuollo, o tanta votaje paise, tanta passaje vuoscho e sliiommare, che, da­ pò settenne, appunto quanno lo sole ha puosto sella pe correre le solito poste, scetato da le cornette de li galli, arrivaje quase scodata a Campo retunno. Dove, primma che trasire a la cetate, vedde na sebetura de marmoro, a pedo na fontana, che, pe vederese dinto no cremme- naleoc de porfeto, chiagneva lagreme de cristallo. Da dove levato la lancella, che nc’ora appesa, o postasella miezo a le gamme, commenzaje a fare li dujo simele87 co la fontana, e non auzanno mai la capo da lo voccaglio08 do la lancella; tanto che, manco termene de duje juorne, era arrivata doi dota sopra lo cuollo, che non co manca­ vano due autro dota ed era varra09. Ma, pe tanto trivo- liare, osscnno stracqua, fu, non volenno, gabbata da lo snonno; de manera che fu costretta d’alloggiare no paro d’ore sotto la tenna de le parpetole. Era lo quale tiompo, na certa schiava gamme do grillo, venenno spisso a nchire no varrilo a chella fontana, e sapenno la cosa do lo spo- taffio, elio se no parlava pe tutto, comme veddo chia- guero tanto Zoza, che faceva dui piscoricolo do chianto, stette faconno sempre le guattarelle 70, aspottanno che la lancella stesse a buon termeno, pe guadagnarolo do mano sto bello riesto, e farcia restare co na vranca do mosche minano71. E, comme la voddo addormuta, servonnose do cc C a r c e r e . 07 A l l u s i o n e a i simili, a r g o m e n t o d i t a n t o c o r a e d i e . Gs L o c c a . 09 C o l m a . 70 S p i a n d o . 71 (E O) mano. NTRODUZZIOXE 13 l’accasione, le levaje destramente la lancella da sotta, e, puostoce Tuecchie ncoppa, nquattro pizzeche la sopran- chietto; eh* a pena fu rasa, che lo'prencepe, cornine si se scetasse da no gran suonno, s’auzaje da chella cascia de preta janca, e s’afferraje a chella massa de carne negra. E, carriannola subito a lo palazzo sujo, facenno feste e lumenarie de truono72, se la pigliaje pe mogliere. Ma, scetata che fu Zoza, e trovanno jettata la lancella e, co la lancella, le speranze soje, e bisto la cascia aperta, se le chiuse lo core de sorte, che stette mpizzo73 de sbal­ lare li fagotte de l’arma a la doana de la morte. All’u- teme, vedenno ca a lo male sujo non c’era remmedio, e che non se poteva lamentare d’autro, che de l’uecchie suoje, che avevano male guardato la vitella de le spe­ ranze soje, s’abbiaje pedo catapede74 dinto la cetate. Dove, ntiso le feste de lo prencepe e la bella razza de mogliere, che aveva pigliato, se maginaje subet'o cornine poteva passare sto negozio, e disse sospirando : che doi cose negre l’avevano posta nchiana terra75, lo suonno e na schiava. Pure, pe tentare ogne cosa possibile contro la morte (da la quale se defenne quanto chiù po ogne anomale), pigliaje na bella casa faccefronte lo palazzo de lo prencepe; da dove, non potenno vedere l’idolo de lo core sujo, contemprava a lo manco le mura de lo tempio, dove se chiudeva lo bene, che desederava. Ma, essenno vista no juorno da Tadeo, che, comm’ a spor­ tegliene 7G, volava sempre ntuorno a chella negra notte de la schiava, diventaje n’ aquila in tener mente fitto ne la perzona de Zoza, lo scassone77 de li privilegio de la natura e lo fora-me-ne-chiammo de li termene de la 72 Grandi, meravigliose. 73 In punto. 74 L’un piede dietro l’altro; a passo a passo. 75 In piana terra, sulla nuda terra. 76 Pipistrello. 77 Eccesso, colmo. i6 LO CENTO DE H CUNTI e, scerveccliiannono90 sto bello voccone, restaje ammisso97 dalla liberalità de na femmena, essenno de natura tanto scarzogne93, cbe no le vastarriano tutte le verghe, che, veneno dall’ Innia. Ma, passanno autretante juorne, Zoza aprette la nocella, da la quale scotte fora na pipata, che filava oro, cosa veramente da strasecolare; che non cossi priesto fu posta a la medesima fenestra, che la schiava, datoce de naso, chiammaje Tadeo, decennolo: S i i n p a i a n o a c c a t t a r e , m i p a n i a a v e n t r e d a r e , e G i o r - c je t ie llo m a z z o c c a r e ! E Tadeo, che se faceva votare Cora­ ni’argatella" e tirare pe lo naso da la soperbia de la mogliere, dalla quale s’aveva fatto accavallare, non aven- no core de mannare pe la pipata a Zoza, nce voze ire de perzona, arrecordannoso de lo mutto: « nou c’ è me­ glio misso, che te stisso » ; « chi vole vaga, o chi non volo manna », e « chi pesce vole rodere, la coda so vo nfonnere ». E, pregatole grannemente a perdonar© la mper- tenenzia soja a li sfide100 de na prena, Zoza che se ne jova nsecoloro co la causa de li travaglie suoje, facette forza a se stessa do lassarese strapregare pe trattenere la voca, e gaudero chiù tiompo do la vista de lo signore sujo, furto de na brutta schiava. All’utomo, dannole la pipa­ ta, comm’avea fatto dell’autre cose, primma che nce la conzignasse, progajo cimila cretella101 c’avesse puosto ncore a la schiava de sentire cunte. Tadeo, cho so voddo la pipata umano, o senza sborzare uno do ciento vinte a carrinol02, restanno ammisso do tanta cortesia, l’offerse lo stato o la vita ncagno do tante piacire, e, tornato a lo palazzo, dette la pipata a la mogliere; che non cossi priesto se la mese nzino pe joquaresenne, che parzo m strappando. 97 Interdetto. 98 Avaro. 99 Arcolaio loo Voglie, desiderii. 101 Hamboecio. ln- CioA di un carlino; ch'era composto di io grani, c ciascun grano di 12 calli o cavalli; dunque, 120 calli. NTRODUZZIONE 1 7 n’ammore nforma d’Ascanio nzino a Dedone103, elio le mese lo fuoco mpietto. Pocca, le venne cossi caudo de- sederio de sentire cunte, che non potenno resistere, e dobitanno de toccarese la^voeca10* e de fare no figlio, che nfettasse na nave de pezziente103, chiammaje lo ma­ rito e le disse: S i n o v e n i r e e n t e , e c u n t e c o n t a r e , m i p u m a a v e n t r e d a r ò , e G i o r g e t ì e ì l ó m a z z o c c a r e ! Tadeo, pe'T varese sta cura de marzo100 da tuorno, fece subeto jettare no banno: che tutte le femmene de chillo paese fossero venute lo tale juomo. Ne lo quale, a lo spuntare de la stella Diana, che sceta l’arba ad aparare le strate, pe dove ha da spassiare lo sole, se trovaro tutte a lo luoco destinato. Ma, non parenno a Tadeo de tenere tanta marmaglia mpeduta pe no gusto particolare de la mogliere, otra che Taffocava de vedere tanta folla, ne scegliette solamente dece, le meglio de la cetate, che le parzero chiù provocete407 105*e parlettere, che foro: Zeza scioffata, Cecca storta, Meneca vozzolosa, Tolla nasuta, Popa scartellata, Antonella vavosa, Ciulla mossuta, Paola sgargiata, Ciommetella zollosa e Jacova squacquarata108. 103 Cfr. Verg. Aen. I, 685 sgg. (Liebr. Anm. I, 39S). La credenza volgare vuole che le donne gravide, quando desi­ derano alcuna cosa e non possono averla, se per caso si toccano in alcuna parte del corpo, in quella parte stessa del corpo del bambino verrà impresso il segno (voglia) della cosa desiderata. Perciò, nella Vaiass. del Cortese, la suocera consiglia la nuora: « Se viene a scire prena, ed hai golio De quarche cosa, tiene mente a l’ogna, O te tocca la nateca! » (I, 29; e com. del Tardac., p. 70-1). Cfr. Pitrè (Blbl., XV, 115-20); e Liebr. {Anm., I, 397-8). 105 Che appestasse una nave di pezzenti. Temeva, col toccarsi la bocca, di fare un figlio straordinariamente chiacchierone e noioso. 10<5 Seccatura, molestia. Sul mese di Marzo, e i torti, che gli si at­ tribuiscono, cfr. V, 2. 107 Pronte, svelte. 108 Pei nomi, s'avverta che Zeza è Lucrezia; Cecca, Francesca; Me­ neca, Domenica; Tolla, Vittoria; Popa, Giuseppa; Ciulla, Giulia; Ciommetella, Girolama. Che, a quel tempo, erano diminutivi molto ìS LO CUNTO DE LI CUXTI Le quale scritte a na carta, o lecenziate Fautre, s’auzaro co la schiava da sotta a lo bardacchino, e s’abbiaro pa- lillo palillo 109 a no giardino de lo palazzo stisso, dove li rame fronnute erano cosi ntricate, che non le poteva spartire lo sole co la per teca de li ragge. E, sedutese sotto no paveglione commegliato 110 da na pergola dTuva, miezzo a lo quale scorreva na gran fontana, mastro de scola de li cortesciani, che le mozzava ogne juorno de mormorare, commenzaje Tadeo così a parlare: « Non è chiù cosa goliosa a lo munno, magne fem- « mene meje, quanto lo sentire li fatti d’autro, nè, senza « ragione veduta, chillo gran felosofo111 mese Futema fe- « licità de Fommo in sentire cunte piacevole; pocca, au- r. soliannotJ2 cose de gusto, se spapurano l’affanne, se dà « sfratto a li ponziere fastidiuse e s’allonga la vita. Pe « lo quale desederio vide Fartisciane lassare li funna- « che113, li mercante li trafiche, li dotture lo cause, li « potecare le facenne, e vanno canne aperto pe le varva- « rie111 e pe li rotielle115 de li chiacchiarune, sentenno no- « velie fauze116, avise117 montate e gazzette n’ajero118. usuali, e non esclusivamente volgari; come si prova dal trovarli ap­ plicati alle più alle dame. Per gli aggettivi, che li accompagnano, s’avverta che sciattala signif. curva, cadente; vozzolosa, gozzuta; scalpellata, gobba; vavosa, bavosa; mossuta, col muso sporgente; sgargiala, scerpellata; zeliosa, tignosa; squacquarata, sconcia di corpo, e quasi schiacciata. 109 Pian piano. 110 Coverto. 111 Pare una citazione burlesca. 113 Ascoltando. 113 Fondaci. 111 Botteghe da barbiere. Sui barbieri e slufaioli napol. efr. Del Tufo («15. c., f. 78-9). Il Garzoni dice: « Dei poveri barbieri non si può dir altro poi, se non che ciarlano communemenle come le gazo, perchè tutte le nuove, anzi tutte le carottc, corrono in barbaria, e bealo colui che le dice più sfondrate! » {La piazza universale, p. 856). ,,:i Circoli. 11(} (FS) novcllanze. 117 Cosi, confò nolo, si dicevano le informazioni manoscritte di quei tempi, 11,4 In gcner., notizie. 202 LO CUNTO DE LI CUNTI, scio6, grimmo7, granne8 9, lieggio, e senza na crespa ncri- spo a lo crespano, che jeva nudo commo a lo peducchio. Lo quale, essenno a lo scotolare de li sacche do la vita, chiammaje Oraziello e Pippo, figlie suoje, decennole: « Già so stato zitato sopra lo tenore de lo stromiento « pe lo debeto, ch’ aggio co la natura, e creditemo, se * site cristiane ch’ io senterria no gusto granne de sciro « da sto mantracchio0 d’afifanne, da sto mantrullo de tra- « vaglie, si non fosse ca ve lasso scadute, granne com- « me a S. Chiara10 1, a le ciuco vie do Meliton, e senza « na maglia12, niette comm’ a bacile de varviero 13, liste « comm’ a sorgente11, asciutto comm’uosso de pruno, che « n’avite quanto porta mpede na mosca, e si corrite « ciento miglia, non ve cade no picciolo 13. Pocca la sciorte « mia m’ave arredutto, dove li tre cane cacano10, che « n’aggio la vita, e comme me vide, cossi me scrivo 17, « che sempre, comme sapite, aggio fatto alizze o cru- c Nudo. 7 Nell’egl. La Tenta: « Grim m o, aggrancato ». 8 Sull'uso di granne per: povero, cfr. E. Rocco in G B B ., IV, 6. 9 V. n. 56, p. 129. 10 Convento e chiesa di Santa Chiara in Napoli, fondato da Roberto d’Angiò. 11 A Melito, paesello sulla via di Napoli ad Aversa, « vi è una con­ trada della la etneo vie, presso alla quale, in un luogo delto Fasce- n aro, vi è sempre affluenza d'accattoni » (E. Rocco, l. c.). 12 V. n. 2, p. 5. 13 Nei Glorn. mss. del Bucea, sub 27 giugno 1631, parlandosi di un D. Michele Bianco, si dice: « cavaliero, bel giovane, però senza un carlino, e che stava liscio come bacile eli barbiere, come si dice per proverbio » (Ms. Bibl. Noz., segn. X, B, 66). 11 V. n . 2, p. 137. 15 Cfr. n. 102, p. 16. Nel Dunlop-Liebrecht (Geschlchie der Prosa- dichtung, p. 517), si ricorda lo spagn.: « poder dar diez sallos sin qve se le caga à uno u n a bianca ». 16 Cfr. alv., Vili, e v. n . 55, p. 40: in condizione miserrima. 17 Non ho altro che la mia persona. .TORNATA ir. TRATTENEMIEXTO IV. 203 « celle18, e me so corcato senza cannela19; co tutto chesto, « voglio puro a la morte mia lassareve quarche siguo « d’ammore. Perzò, tu, Oraziello, che sì lo primmoge- « neto mio, pigliate chillo crivo 20, che stace appiso a lo « muro, co lo quale te puoi guadagnare lo pane; e tu, « che sì lo cacanitolo 21, pigliate la gatta, ed allecordateve « de lo tata vuostro! » Cossi decenno, scappaje a chia- gnere, e, poco dapò, decette: « A dio, ca è notte! » Ora­ ziello, fatto atterrare pe lemosina lo patre, pigliatose lo crivo, jette cernenno22 da ccà e da Uà, pe abboscare la vita; tanto che. quanto chiù cerneva, chiù guadagnava. E Pippo, pigliata la gatta, disse: « Oravide, che negra « redetà m’ ha lassata patremo!, che n’aggio da campare « pe mene, e mo averraggio da fare le spese a dui ! Che « se n’ha visto de sto scuro lasseto? Che meglio se ne « fosse stato23! » Ma la gatta, che sentette sto taluerno, le disse: « Tu te lamiente de lo sopierchio, ed hai chiù « sciortc, che sinno! Ma non canusce la sciorte toja, ca « io so bona a farete ricco, si me nce metto! » Pippo, che sentette sta cosa, rengraziaje la gattaria soja; e, fa- cennole tre 0 quatto allesciate sopra la schena, se le rac- commannaje caudamente. Tanto che la gatta, compassio­ 18 Sbadigli, e crocelle; perchè lo sbadiglio « si accompagna con un gesto di aprir la bocca e farvi la croce sopra ». La ragione di ciò era nella credenza che gli spiriti maligni potessero cogliere quel momento per entrare nel corpo umano; onde s’ impediva il passo con una croce (cfr. ILV. e Pitré, o. c., XVII, 40). Il Tassoni (Secchia rapita, IV, 48): « Cerca di qua, cerca di là, nè trova Cosa da farvi il minimo disegno, Sbadiglian tutti e fan crocette a p ro va , E l’appetito lor cre­ sce lo sdegno ». Nel Dunlop-Liebrecht (0. c., p. 515): « È anche co­ stume in Irlanda: cfr. Taylor, p. 119 ». 19 « Andare a letto senza candela : questa frase è spesso adoperata dal N., come segno di gran povertà » (Liebr., Anm ., I, 405-6). 20 Vaglio. 21 Casalingo. 22 (EO) correnno. 23 Ne avesse fatto di meno. 204 LO CUNTO DE LI CUXTI nevole do lo negrecato Cagliuso 24, ogne matina, elio lo sole co Fesca do la luce, posta co l’ammo d’oro, ne pe­ sca l’ombre de la notte, se. cflusignava o_ a la marin rò Chiaja23, o a la Preta de lo pesce 20; ed, abbistanno quar- ch cefaro gruosso, o na bona a'urata, ne la zeppoliava, e portava a lo re, decenno : « Lo segnore Cagliuso, schiavo « de Vostra Autezza, fi ncoppa all’ astraco27, vo manna « sto pesce co leverenzia, o dice: a gran segnoro, pic- « colo presiento! » Lo re, co na facce allegra, comm’ è solito do faro a chi porta robba, respose a la gatta : « Lì « a sto segnore, che non canosco, ca lo rengrazio, a gran « morzè! » Quarc’autra vota, correva sta gatta, dove se cacciava a lo Padule o a l'Astrune28 ; e, commo li caccia- turo avevano fatto cadere o golano29, o parrella30, o capo- 21 Qui Pippo cambia nome e diventa Cagliuso, com’ è poi chiamato sempre. 25 26V. n. 30, p. 92. 26 Luogo sulla via della marina, dove si raccoglie la pesca fatta per conto dei negozianti in grosso, c a p l p a r a n z a . che la distribui­ scono poi ai pescivendoli. Vi è accanto la chiesetta di Santa Maria della Pietra del Pesce, eretta nel 1526 dalla comunità dei pesciven­ doli (Cel., o. c., IV, 247 sgg.). Tuttavia, si noti che ai tempi del N. un'altra P i e t r a d e l pìesce era a Chiaia, press’ a poco al posto dove poi sorse il Palazzo Satrinno, c un’ altra a S. Lucia; cosicché none chiaro quale di questi tre luoghi avesse in mente. 27 C f r . II, 6, V , 6 : « L e v o l e v a b e n e n f i n c o p p a a l ’n s t r e c o , e c c . ». — A s lr e c o , t e r r a z z a , e h ’ è s o p r a a l l e c a s e . 23 L u o g h i d i c a c c i a p r e s s o N a p o l i : l e p a l u d i d a l l a t o o r i e n t a l e , e g l i A s l r o n i p o c o l o n t a n o d a l L a g o d ’A g n a n o , c o n l a g h e t t i e s e l v e , c a c c i a r e a l e r i s e r v a t a . N e l F o r a s i , d e l C a p a c c i o (p. 608): * F o r . I l v o ­ s t r o R e . . . . t i e n e i n N a p o l i l o c o p a r t i c o l a r e d i c a c c i a ? — CU. S i g n o r s ì . L o c o a s s a i c e l e b r e , p o c o d i s c o s t o d a l l a c i t à , c h e d i m a n d a n o A s i n i n i , c o n u n p i a n o c i r c o n d a t o d a c o l l i n e , c o l g i r o d i p i ù d i I re m i g l i a , p i e n i s s i m o d i a r b o r i e d i l u t t i a n i m a l i . . . . M i d o l e c h ’ e s s e n d o V i c e r é i l C o n t e d i B e n e v e n t o (sic), s i t a g l i a r o n o t u t t i i l e g n a m i , e i l l o c o r e s t ò s q u a l i d o ». 20 O v o l a n o , eh’ è il rigogolo, o r io lu s g a lb u la . 30 Cinciallegra. JORXÀTÀ ir. TRATTEXEMIEXTO IV. 20 7 mo, concruse lo parentato. E, venuto Cagliuso, e con- signatole lo re na grossa dote e la figlia, dapò no mese de feste, disse, ca ne voleva portare la zita a le terre soje. Ed, accompagnate da lo re fi a li confine, se ne jette a Lommardia. Dove, pe conziglio de la gatta, comperaje na mano de territorie o de terre, che se fece barone. Ora mo, Cagliuso, vedennose ricco a funno, rengraziaje , la gatta, che non se pò dicere chiù, decenno, ca da essa reconosceva la vita e la grannezza soja, da li buone af- ficie suoje, che 1} aveva fatto chiù bene l’ arteficio de na gatta, che lo nciegno de lo patre. E però, poteva fare e sfare de la robba e de la vita soja, comme le pareva e piaceva; dannole parola, che, comme fosse morta, da Ila a ciento anne!, Taverna fatto mbauzamare e mettere drinto a na gajola d’oro, drinto la stessa cammara soja, pe tenere sempre nanze alTuocchie la mammona soja! La gatta, che sentette sta spanfiata36, non passaro tre juorne, che, fegnennose morta, se stese longa longa drinto lo giardino. La quale cosa vedenno la mogliere de Cagliuso, gridaje : « Oh, marito mio, e che desgrazia granne!, la gatta è « morta! » « Ogne male vaga appriesso ad essa!, — re- « spose Cagliuso— , meglio ad essa, ch’a nuje! » « Che « ne farrimmo? », replecaje la mogliere. Ed isso: « Pi- « gliala pe no pede, e jettala pe na fenestra37! » La gatta, che sentette sto buono miereto, quanno manco se Taverna màgenato, commenzaje a dicere: « Chesta è la gran mer- « zè de li peducchie, che faggio levato da cuollo?, che- « sta è Ta-mille-grazie de le petacco38, che faggio fatto « jettare, che nce potive appennere le fusa39?, chesto è « lo cammio d’averete puosto nforma de ragno; ed ave- 36 Vanteria. 37 II Liebr. nota che, se il gatto stava nel giardino, era difficile gettarlo dalla finestra (Anm., I, 406). 33 Cenci. 39 Che si potevano lavorar col fuso, filare. 20S LO CITATO DE LI CUNTI « reta sbrammato, dove avive l’allanca40, pezzente, strac- « cia-vrache!, che jero no sbrenzolato, sdellenzato, spe- « tacciato, perogliuso, spogliampise ! Cossi va chi lava la « capo alUaseno! Va, che te sia marditto quanto faggio « fatto, ca non mieroto, elio te sia sputato ncanna! Bella « gajola d’oro, che m’avive apparecchiata!, bella sepe- « tura, che m’avive consignata! Va, sierve tu, stenta, « fatica, suda, ped avero sto bello premio! Oh negre- « cato chi inette lo pignato a speranza d’ antro! Disse « buono cliillo fclosofo : chi aseno se cerca, aseno se « trova! Nsomma, chi chiù fa, manco aspetta! Ma: bone « parole e tristo fatto, ngannano li savie o li matto! i> Cossi decenno o capezzianno u, se pigliaje la via do foro; e, po quanto Cagliuso, co lo pernione42 de l’omelità, cer- cajo alliccarela, non co fu remmedio, elio tornasse arroto. Ma, correnno sempre, senza votare mai capo dereto, de­ ceva : Dio te guarda de ricco mpoveruto, Jd de pezzente, quanno è rcsagliuto**! ' 40 Fame canina. 41 Scuotendo la testa. 4- Gli’ è il cibo dei gatti. E a Napoli si dicono: polmonari i ven­ ditori ambulanti, che vanno distribuendo per lo case questa cibo. Un nostro scrittore di cinquantanni fa descriveva il iiolmonaro * che trascorre a passo lento la strada con una mazza a bilan­ ciere sulle spalle, dalle due estremità della quale pendono due enormi polmoni di buoi leggermente colli... E (i gatti) lo conoscono, lo prevedono anzi, lo profetizzano, e ne sentono l'approssimarsi an­ cora molto da toni-no, si che cominciano a miagolare e rimenarsi inquiete. E non appena lo veggono che gli strisciano attorno le gambe nude, lo battono con la coda, e rombano con quel suono interno e profondo, lai che sembrano ventriloquo. Ed egli sorride loro da pri­ ma, dice qualche parola gentile o adulatrice, prende conto della loro salute, del loro appetito, dei loro affari, e finisce per assegnare una porzione di cibo equivalente al bisogno o al merito di ciascheduna. * (Napoli in miniatura, ovvero II popolo di Napoli ed l suol costumi, Opera di pairii autori, ptibbl. pei* cura di M. Lombardi, Nap., 1847, pp. 230-2, con fig.). 43 Salito in fortuna. IL MATTINO (2ª redazione) Sorge il mattino in compagnia dell'alba dinanzi al sol che di poi grande appare su l'estremo orizzonte a render lieti gli animali e le piante e i campi e l'onde. Allora il buon villan sorge dal caro 5 letto cui la fedel moglie e i minori suoi figlioletti intiepidìr la notte: poi sul dorso portando i sacri arnesi che prima ritrovò Cerere o Pale move seguendo i lenti bovi, e scote 10 lungo il picciol sentier dai curvi rami fresca rugiada che di gemme al paro la nascente del sol luce rifrange. Allora sorge il fabbro, e la sonante officina riapre, e all'opre torna 15 l'altro dì non perfette; o se di chiave ardua e ferrati ingegni all'inquieto ricco l'arche assecura; o se d'argento e d'oro incider vuol gioielli e vasi per ornamento a nova sposa o a mense. 20 Ma che? Tu inorridisci e mostri in capo qual istrice pungente irti i capelli al suon di mie parole? Ah il tuo mattino signor questo non è. Tu col cadente sol non sedesti a parca cena, e al lume 25 dell'incerto crepuscolo non gisti ieri a posar qual nei tuguri suoi entro a rigide coltri il vulgo vile. A voi celeste prole a voi concilio almo di semidei altro concesse 30 Giove benigno: e con altr'arti e leggi tu il cioccolatte eleggi, onde tributo ti diè il Guatimalese e il Caribeo che di barbare penne avvolto ha il crine: ma se noiosa ipocondria ti opprime, o troppo intorno a le divine membra 105 adipe cresce, de’ tuoi labbri onora la nettarea bevanda ove abbronzato arde e fumica il grano a te d’Aleppo giunto e da Moca che di mille navi popolata mai sempre insuperbisce. 110 Certo fu d’uopo che dai prischi seggi uscisse un regno, e con audaci vele fra straniere procelle e novi mostri e teme e rischi ed inumane fami superasse i confin per tanta etade 115 inviolati ancora: e ben fu dritto se Pizzarro e Cortese umano sangue più non stimàr quel ch’oltre l’oceàno scorrea le umane membra; e se tonando e fulminando alfin spietatamente 120 balzaron giù dai grandi aviti troni re messicani e generosi Incassi, poi che nuove così venner delizie o gemma degli eroi al tuo palato. Cessi ‘l cielo però che, in quel momento 125 che le scelte bevande a sorbir prendi, servo indiscreto a te improvviso annunci o il villano sartor che non ben pago d’aver teco diviso i ricchi drappi, oso sia ancor con polizza infinita 130 fastidirti la mente; o di lugùbri panni ravvolto il garrulo forense cui de’ paterni tuoi campi e tesori il periglio s’affida; o il tuo castaldo che già con l’alba a la città discese 135 bianco di gelo mattutin la chioma. Così zotica pompa i tuoi maggiori al dì nascente si vedean d'intorno: ma tu gran prole in cui si féo scendendo e più mobile il senso e più gentile 140 ah sul primo tornar de’ lievi spirti all’uficio diurno ah non ferirli d’imagini sì sconce! Or come i detti di costor soffrirai barbari e rudi; come il penoso articolar di voci 145 smarrite titubanti al tuo cospetto; e tra l’obliquo profondar d’inchini del calzar polveroso in su i tapeti le impresse orme indecenti? Ahimè che fatto il salutar licore agro e indigesto 150 ne le viscere tue te allor faria e in casa e fuori e nel teatro e al corso ruttar plebeiamente il giorno intero! Non fia che attenda già ch’altri lo annunci, gradito ognor benché improvviso, il dolce 155 mastro che il tuo bel piè come a lui piace guida e corregge. Egli all’entrar s’arresti ritto sul limitare, indi elevando ambe le spalle qual testudo il collo contragga alquanto, e ad un medesmo tempo 160 il mento inchini, e con l’estrema falda del piumato cappello il labbro tocchi. E non men di costui facile al letto del mio signor t'innoltra o tu che addestri a modular con la flessibil voce 165 soavi canti; e tu che insegni altrui come vibrar con maestrevol arco sul cavo legno armoniose fila. Né la squisita a terminar corona che segga intorno a te manchi o signore 170 il precettor del tenero idioma che da la Senna de le Grazie madre pur ora a sparger di celeste ambrosia venne all’Italia nauseata i labbri. All’apparir di lui l’itale voci 175 tronche cedano il campo al lor tiranno: e a la nova inefabil melodia de’ sovrumani accenti odio ti nasca più grande in sen contro a le bocche impure ch’osan macchiarse ancor di quel sermone 180 onde in Valchiusa fu lodata e pianta già la bella francese; e i culti campi all’orecchio de i re cantati furo lungo il fonte gentil da le bell’acque. Or te questa o signor leggiadra schiera 185 al novo dì trattenga: e di tue voglie irresolute ancora or quegli or questi con piacevol discorso il vano adempia, mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi dell’ardente bevanda a qual cantore 190 nel vicin verno si darà la palma sovra le scene; e s’egli è il ver che rieda l’astuta Frine che ben cento folli milordi rimandò nudi al Tamigi; o se il brillante danzator Narcisso 195 torni pur anco ad agghiacciare i petti de’ palpitanti italici mariti. Così poi gran pezzo ai novi albori del tuo mattin teco scherzato fia non senza aver da te rimosso in prima 200 l’ipocrita pudore e quella schifa che le accigliate gelide matrone chiaman modestia, alfine o a lor talento o da te congedati escan costoro. Doman quindi potrai o l’altro forse 205 le vendemmie i ricolti i pedagoghi di que’ sì dolci suoi bambini altrui gongolando ricorda; e non vergogna di mischiar cotai fole a peregrini subbietti a nuove del dir forme a sciolti 280 da volgar fren concetti, onde s’avviva de’ begli spirti il conversar sublime. Non però tu senza compagna andrai; ché tra le fide altrui giovani spose una te n’offre inviolabil rito 285 del bel mondo onde sei parte sì cara. Tempo fu già che il pargoletto Amore dato era in guardia al suo fratello Imene; tanto la madre lor temea che il cieco incauto nume perigliando gisse 290 misero e solo per oblique vie; e che, bersaglio a gl’indiscreti colpi di senza guida e senza freno arciero, immaturo al suo fin corresse il seme uman che nato è a dominar la terra. 295 Quindi la prole mal secura all’altra in cura dato avea sì lor dicendo: «Ite o figli del par; tu più possente il dardo scocca, e tu più cauto il reggi a certa meta». Così ognor congiunta 300 iva la dolce coppia, e in un sol regno e d’un nodo comun l’alme strignea. Allora fu che il sol mai sempre uniti vedea un pastore ed una pastorella starsi al prato a la selva al colle al fonte: 305 e la suora di lui vedeali poi uniti ancor nel talamo beato ch’ambo gli amici numi a piene mani gareggiando spargean di gigli e rose. Ma che non puote anco in divini petti, 310 se mai s’accende, ambizion d’impero? Crebber l’ali ad Amor, crebbe l’ardire; onde a brev’aere prima indi securo a vie maggior fidossi, e fiero alfine entrò nell’alto, e il grande arco crollando 315 e il capo risonar fece a quel moto il duro acciar che a tergo la faretra gli empie, e gridò: «Solo regnar vogl’io». Disse, e volto a la madre: «Amore adunque, il più possente in fra gli dei, il primo 320 di Citerea figliuol, ricever leggi, e dal minor german ricever leggi, vile alunno anzi servo? Or dunque Amore non oserà fuor ch’una unica volta fiedere un’alma come questo schifo 325 da me pur chiede? E non potrò giammai da poi ch’io strinsi un laccio anco disciorlo a mio talento e, se m’aggrada, un altro stringerne ancora? E lascerò pur ch’egli di suoi unguenti impece a me i miei dardi, 330 perché men velenosi e men crudeli scendano ai petti? Or via, perché non togli a me da le mie man quest’arco e queste armi da le mie spalle, e ignudo lasci quasi rifiuto degli dei Cupido? 335 Oh il bel viver che fia quando tu solo regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso! Studiarti a torre da le languid’alme la stanchezza e il fastidio, e spander gelo di foco in vece! Or genitrice intendi: 340 vaglio e vo regnar solo. A tuo piacere tra noi parti l’impero, ond’io con teco abbia omai pace; e in compagnìa d’Imene me non veggan mai più le umane genti». Amor qui tacque; e minaccioso in atto 345 parve all’idalia dea chieder risposta. Ella tenta placarlo, e preghi e pianti sparge ma in van; tal ch’ai due figli volta con questo dir pose al contender fine: «Poi che nulla tra voi pace esser puote, 350 si dividano i regni: e perché l’uno sia dall’altro fratello ognor disgiunto sien diversi tra voi e il tempo e l’opra. Tu che di strali altero a fren non cedi l’alme ferisci, e tutto il giorno impera 355 e tu che di fior placidi hai corona le salme accoppia, e con l’ardente face regna la notte». Or quindi almo signore venne il rito gentil che ai freddi sposi le tenebre concede e de le spose 360 le caste membra; e a voi beata gente e di più nobil mondo il cor di queste e il dominio del dì largo destina.