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Letteratura Latina - G. B. Conte, Sintesi del corso di Letteratura latina

Riassunto completo del testo di G.B. Conte - Letteratura Latina : Manuale storico dalle origini alla fine dell'impero romano.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 25/10/2022

keikohiromu
keikohiromu 🇮🇹

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Scarica Letteratura Latina - G. B. Conte e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! Letteratura Latina - G.B. Conte Alta e Media Repubblica Il problema delle origini di una produzione artistica in lingua latina si poneva ai Romani stessi in termini assai semplici e netti; l’opinione dominante era che si potesse fissare addirittura una precisa data di nascita: il 240 a.C., anno in cui Livio Andronico fece rappresentare il suo testo scenico, presumibilmente una tragedia. Alle spalle di questa storica soglia vi erano circa quattro secoli di un periodo “muto” per la letteratura. Gli stessi Romani di età classica erano consapevoli che le origini della letteratura non coincidono con quelle delle “forme comunicative” in cui una cultura trova espressione. L’uso della scrittura in periodo arcaico è mediamente diffuso, sin dal VII sec. a.C. nel Lazio affidavano alla scrittura brevi messaggi, con dei segni alfabetici ancora fluttuanti. Naturalmente è presumibile che la scrittura fosse più diffusa tra i ceti superiori, i sacerdoti e chi aveva cariche pubbliche. In questa fase non è accertata una vera e propria circolazione libraria come negli altri ambiti (familiari, ad esempio i commentarii, sacerdotali, legislativi, ecc), presupposti della comunicazione letteraria scritta. I libri più antichi di cui abbiamo notizie sono i libri Sibyllini, sarebbero stati introdotti a Roma ai tempi di Tarquinio il Superbo, sarebbero stati testi religiosi scritti in greco. Già ai tempi della Roma medio-repubblicana (Livio Andronico, Plauto) il quadro dell’alfabetizzazione era assai ampio e articolato. Nel III secolo a.C. è pubblicamente riconosciuto il ruolo degli scribae, corporazione di scrivani. Gli influssi greci, con variabili per grado e intensità, ci sono sempre stati nella vita romana. Ennio polemizza contro i “primitivi” suoi predecessori, esponenti di una poesia rozza e incomprensibile, in nome dei nuovi canoni di una poesia aperta al gusto ellenistico; fra questi “primitivi” c’è Nevio, un letterato nutrito di cultura greca e impegnato in un grande sforzo di fusione tra diverse culture. Come si vedrà, anche il saturnio, che i Romani considerano l’unico loro verso nativo, potrebbe essere toccato da antichissimi contatti con la grecità. Non bisogna mai porre confini troppo netti tra le due diverse culture. L’uso della scrittura fu legato, sin dai tempi più antichi della città, alla necessità di avere precise registrazioni ufficiali, e queste esigenze esercitarono un forte influsso modellizzante sulle origini della prosa latina. Di trattati (foedera) della Roma arcaica abbiamo solo testimonianze indirette. I Romani di età classica ravvisano nelle Leggi delle XII Tavole (450 a.C. c.a.) il più vero fondamento della loro identità culturale; queste leggi trovano nelle monumentali assonanze, nelle allitterazioni, nella scansione in cola ritmici paralleli e staccati, un sicuro effetto di sanzione inappellabile. La comunità romana aveva sviluppato un suo calendario ufficiale, regolato e sancito dalle autorità religiose. Ben presto il termine fasti iniziò ad indicare sia il calendario sia le liste dei magistrati nominati anno per anno (fastes consulares; fastes pontificales) sia la registrazione dei trionfi militari (fastes triumphales). Un altro uso della scrittura è rappresentato dalla tabula dealbata: il pontefice massimo esponeva una tavola bianca che dichiarava avvenimenti di pubblica importanza; successivamente questa usanza prese il nome di Annales Maximi. Alla tradizione degli annales possiamo affiancare quella dei commentarii: “appunti”, “memorie”, “osservazioni”; presumibilmente favorivano l’uso di una produzione in prosa, legata all’attualità politica e alla memorialistica. Il significato più usuale di carmen è poesia, vocabolo indifferenziato. Anticamente non vi era una netta distinzione tra prosa e poesia, la poesia arcaica ha una struttura metrica “debole” in quanto sottostante a regole di “maglia larga”. La tradizione stilistica dei carmina è il più potente tratto di continuità che unisce il periodo delle origini alla storia letteraria di Roma, non sparisce mai del tutto. La Roma di età storica non conobbe una vera e propria letteratura religiosa. Le testimonianze più antiche che abbiamo sulla poesia romana comportano l’uso di un particolare verso, chiamato saturnio: in saturni sono composti i primi due testi epici romani.La stessa etimologia della parola fa pensare ad un uso indigeno, puramente italico come il dio Saturno, ma le attestazioni ci parlano di influssi già greci, nonostante la non riconducibilità ad alcuna struttura già esistente. Periodo arcaico Livio Andronico Le date di nascita e di morte ci sono ignote, le uniche informazioni che possediamo della sua vita si basano sulle notizie forniteci da Cicerone e Livio. Giunse a Roma, verosimilmente da Taranto, alla conclusione della guerra tra Roma e Taranto nel 272 a.C. Andronico era a tutti gli effetti un greco, e assunse il prenome dal patrono di cui fu liberto. Fu attivo a roma come grammaticus di greco e latino, come autore di testi scenici e come attore in qualche messa in scena delle sue opere. Le uniche date attestate nella sua carriera sono il 240, quando una sua opera fu il primo testo drammatico rappresentato a Roma, e il 207, quando compose un paternio (canto di fanciulle) in onore di Giunone. Dopo questo Livio ebbe importante affermazione e pubblici onori. 1 Tutto quello che ci è giunto sono c.a. 60 frammenti, dovuti a citazioni di autori repubblicani o di grammatici. Ci restano i titoli di otto tragedie (Achilles, Aegisthus, Aiax mastigòphorus (Aiace con la frusta), Equos Troianus (Il cavallo di Troia), Hermìona, tutte legate al ciclo della guerra di Troia, inoltre Andròmeda, Dànae e Tèreus: in tutto poco più di 20 frammenti per una 40ina di versi. Compose anche palliate che ebbero minore importanza, ce ne restano 6 frammenti di un solo verso incerto. Nulla è conservato del partenio per Giunone. L’opera di Andronico per noi più importante è l’Odusia, versione in saturni dell’Odissea di Omero: ce ne sono giunti 36 frammenti per una 40ina di versi, non tutti completi. Nascita della traduzione poetica I grandi classici romani del I sec. a.C. concordavano nell’indicare in Livio l’iniziatore della letteratura latina. L’iniziativa di tradurre in lingua latina e in metro italico l’Odissea di Omero ebbe una portata storica enorme. Il fenomeno della traduzione scritta è una novità assoluta, neanche i greci arrivarono a concepirla. L’operazione di Livio ebbe insieme finalità letterarie e culturali, esso rese disponibile ai Romani un testo fondamentale della cultura greca: l’Odusia ebbe fortuna come testo scolastico quantomeno fino al I sec. a.C. Andronico riuscì a divulgare la cultura greca a ROma e a far progredire la cultura letteraria in lingua latina. L’importanza nella storia letteraria di Livio sta nell’aver concepito la traduzione come operazione artistica: costruzione di un testo che sta accanto all’originale, fruibile sia come opera autonoma sia come opera conservativa dei contenuti e del modello attraverso un nuovo mezzo espressivo. Non avendo una tradizione epica alle spalle, cercò altri modi per dare solennità e intensità al suo linguaggio letterario. I genitivi in -as o l’imperativo insece (“dimmi”, traduzione dell’omerico ènnepe nel primo verso del poema) sono arcaiche e volutamente arcaizzanti già nel periodo di Andronico. Comincia così la tendenza arcaizzante e conservativa che avrà importanza nella poesia latina. Andronico si rivolge al formulario della tradizione religiosa, che dà elevatezza e profondità al linguaggio: rende l’omerica “Musa” con l’antichissima Camena, divinità italica delle acque, puntando sull’etimologia allora corrente (Casmena/Carmena quindi da carmen, poesia). Tradurre significa tanto conservare ciò che può essere recepito quanto modificare ciò che è intraducibile. Omero parla di un eroe “pari agli dei”, cosa inconcepibile per i Romani, quindi Andronico varia e traduce summus adprimus (“grandissimo e di primo rango”). In alcuni casi sembra che Andronico modifichi Omero per intenzioni specificamente artistiche, dopotutto è portatore di un suo gusto e una sua poetica. In Omero il porcaio Eumeo parla ad Odisseo, che è sotto mentite spoglie, e gli dice “mi prende il rimpianto di Odisseo che non c’è più”. La situazione è piena di ironia perché Odisseo è lì che ascolta ma non può rivelarsi, quindi Andronico traduce neque tamen te oblitus sum, Laertie noster (“ma io non ti ho scordato, caro figlio di Laerte”). “Non ti ho scordato” è più enfatico di “mi prende il rimpianto”, e soprattutto Eumeo si rivolge a Odisseo in seconda persona: il suo rimpianto lo porta ad apostrofare come se fosse presente una persona lontana che, i lettori sanno, è lì presente ad ascoltare. La capacità di drammatizzazione ci fa pensare che Andronico fosse un drammaturgo, e utilizzasse precisi modelli greci. Verosimilmente i modelli tragici greci sui quali si appoggiarono, furono i testi attici del V sec. a.C. Andronico passò presto di moda. Nevio Gneo Nevio sembra fosse un plebeo di nascita, condizione rara per i letterati arcaici. Notizie occasionali su Nevio ci vengono fornite da Cicerone e S. Girolamo, mentre Plauto cita un poeta incarcerato e costretto al silenzio, e secondo alcuni potrebbe trattarsi proprio di Nevio dato che la sua biografia reca tracce di polemiche anti-nobiliari benché di controversa autenticità sia la notizia della sua incarcerazione per gli attacchi contro i Metelli. Da quello che conosciamo è possibile che Nevio nelle sue opere offrisse tracce autobiografiche. Morì forse in esilio in Africa nel 204 o nel 201, lasciando diffusa fama letteraria. Numerose tragedie (tra cui due praetextae, ovvero il Romulus e il Clastidium) e commedie. Un testo fu rappresentato già nel 235 a.C. Delle tragedie di argomento greco ci restano 7 titoli e una 50ina di frammenti; del Romulus e del Clastidium abbiamo due brevissimi frammenti. Delle commedie conosciamo 28 titoli e possediamo un’80ina di frammenti. La sua opera principale è il Bellum Poenicum (La guerra punica), in saturni. Il poema doveva contenere un 4000/5000 versi: ne restano una 60ina, trasmessi prevalentemente da grammatici. L’opera venne successivamente divisa in libri dal grammatico Lampadione. Il poema narrava la storia di Enea che giunge nel Lazio e la storia della prima guerra punica. Il contenuto aveva grande attualità per il pubblico romano. Tra mito e storia Nevio è il primo letterato latino di origine romana, inserito nelle vicende contemporanee e partecipe alle vicende storiche e politiche. Il forte impegno nella politica di Roma traspare dai suoi testi originali: il Bellum Poenicum è il primo testo epico latino che abbia un tema romano; Romulus e Clastidium sono i primi titoli conosciuti di praetexte. Il Romulum trattava la drammatica origine di Roma, il Clastidium doveva essere una celebrazione della vittoria di Casteggio contro i Galli Insubri del 222 a.C. Il Bellum Poenicum rappresenta una perdita inestimabile della letteratura latina. Sappiamo dai frammenti che Nevio narrava la leggenda di Enea, l’eroe che dà inizio alla stirpe romana; la fondazione si ricollegava alla guerra di Troia, seguito dai viaggi in mare paragonabili alle peregrinazioni di 2 Cistellaria; Epìdicus; Bàcchides; Mostellaria; Menaechmi; Miles Gloriosus; Mercator; Psèudolus (191); Poenulus; Persa; Rudens; Stichus (200); Trinummus; Truculentus; Vidularia. Questo è l’ordine delle commedie nei codici, non quello di composizione. L’ultima posizione della Vidularia la rese esposta a danneggiamenti, infatti ne restano pochi frammenti. La cronologia delle singole commedie ha qualche punto fermo. Alcune commedie presentano allusioni storiche. Ragionevole pensare che le commedie con ritmi più ricercati e variegate siano più tarde di quelle più semplici nella tessitura ritmica. 1. Tipologia degli intrecci e dei personaggi Ci troviamo di fronte ad un complesso di più di 21.000 versi. La commedia più lunga è il Miles gloriosus e la più breve il Curculio. La grande forza di Plauto sta nel comico che nasce dalle singole situazioni e dalla creatività verbale di ogni nuova situazione. Vi è una fortissima prevedibilità degli intrecci e dei “tipi umani” incarnati dai personaggi. Tutte le opere si possono ridurre ad una lotta tra due antagonisti per il possesso di un “bene”: generalmente una donna o del denaro necessario per accaparrarsela, o più raramente dei soldi. La lotta si decide con il successo di una parte e il danneggiamento dell’altra. Normalmente vince il giovane, e che il perdente abbia in sé le giustificazioni del suo essere perdente. La coppia “giovane desiderante - servo raggiratore” è la più solida costante nel teatro di Plauto. La Fortuna è una forza onnipresente, regina incontrastata nel teatro ellenistico. Le commedie di Plauto ruotano tutte su un riconoscimento, un’identità nascosta e successivamente rivelata. Quindi si basa principalmente su “commedie del servo” e “commedie degli equivoci”, in cui si salda una visione del mondo che ha inesauribili potenziali di comicità. 2. I modelli greci Plauto riscrive il contenuto di una scena passando dal codice piano e prosaico dei trimetri greci alle fantasiose armonie dei cantica, operazione di elevata autonomia artistica. Plauto non si preoccupa di fornirci gli autori delle opere greche cui si ispira, il suo teatro non presuppone un pubblico ellenizzato. Su alcune opere abbiamo ben presente il riferimento, tuttavia Plauto non predilige qualche autore in particolare e ciò fa trasparire la varietà e la polifonia di cui si compone, il suo stile varia da commedia a commedia. Tra l’altro i tratti costanti e dominanti della commedia plautina hanno ben poco di attico. Le trasformazioni sono meno profonde per quanto riguarda le linee generali dell’intreccio. Plauto non dà mai ad un personaggio il nome che possedeva nell’originale. Molte trasformazioni sono impossibili da seguire nel dettaglio. Guardando ai risultati, la trasformazione dei modelli dà un’impressione distruttiva. 3. Il “lirismo comico” La critica analitica sviluppata tra Ottocento e Novecento ha saputo rendere buoni servigi alla comprensione della poetica di Plauto. Basta svincolare queste analisi dai pregiudizi estetici che le hanno guidate per ottenere una visione migliore dell’arte plautina. Le analisi comparative dimostrano che Plauto trasforma i suoi modelli secondo tendenze e preferenze coerenti. Plauto tende a trascurare la coerenza drammatica e le sottili sfumature del carattere dei personaggi. Fra tutti i personaggi della Commedia Nuova Plauto ha chiaramente un suo favorito: il servo, ribaldo, amorale, creatore di inganni, risolutore di situazioni. Questa figura in Plauto prende uno spazio del tutto eccezionale. È quasi sempre lui a gestire lo sviluppo dell'intreccio: suo è il piano ingannatore che dovrà dare al giovane padrone la fanciulla desiderata. Pur essendo il personaggio socialmente più debole, sulla cena è la figura centrale e il punto di attrazione. Plauto addirittura assimila altri personaggi al ruolo di servo ed al suo livello: vecchi e giovani padroni sono giocati dal servo, ma giocano anche con se stesso, come è tipico del servo briccone. 4. Le strutture degli intrecci e la ricezione del teatro plautino Quasi sempre la messa in gioco di un “bene” si tramuta in una fase critica dove possono vacillare i valori sociali e familiari di riconosciuta importanza. Le commedie minacciano una sovversione di ciò che il pubblico accetta come normale e naturale. Qui possono nascere conflitti, in cui si scontrano valori e aspettative legittime. Lo scioglimento tipico della commedia consiste in un “rimettere a posto le cose”, vi sono diverse esecuzioni di questo schema obbligato. È chiaro che il pubblico trova in questo movimento dal disordine all'ordine un particolare piacere: tanto più che il quadro sociale e materiale messo in gioco dalla commedia è perfettamente comparabile con l'esperienza del pubblico romano. Il corpo dell‟intreccio tocca problemi reali e quotidiani. 5. Fortuna del teatro plautino Le “venti commedie” che risalivano alla scelta canonica di Varrone continuarono ad essere ricopiate per tutto il Medioevo, ma solo a partire dalla generazione di Petrarca una parte delle commedie cominciarono ad avere una buona diffusione. A partire dal 1429 tornano in circolazione tutte le commedie “varroniane”. La commedia umanistica vive appunto di adattamenti e libere interpretazioni dei modelli plautini: si sviluppò un teatro in latino e poi, nel Cinquecento, un teatro italiano che vuole liberamente inserirsi nel codice scenico costituito dalla palliata romana. Tra Cinquecento e Settecento la fortuna di Plauto è sempre intrecciata con lo sviluppo del teatro comico europeo: Ariosto, Shakespeare, Moliere, Ruzante, Goldoni, sono tutti collegati dalla traccia della tradizione plautina. A differenza di Terenzio, Plauto rimase lungamente estraneo alla tradizione dell'insegnamento. Le ragioni: lingua, stile, metrica, risultano troppo difficili; per di più, i temi e le trame delle commedie si prestavano male a un insegnamento rivolto a fornire esempi di moralità e di serietà. 5 Media repubblica Terenzio Originario di Cartagine, sarebbe nato nel 185/184 a.C. ma la notizia è sospetta. Sarebbe giunto a Roma come schiavo, tutte le fonti sottolineano i suoi rapporti con Scipione Emiliano e Lelio, sicuramente suoi protettori. Terenzio sarebbe morto nel 159 a.C., prima della terza guerra punica. La tradizione figurativa, in ossequio alle origini puniche, dà di Terenzio un’immagine tipicamente cartaginese. La cronologia delle opere è attestata con precisione. Si tratta di sei commedie, tramandate per intero: Andria (166); Hècyra (La suocera, 165); Heautontimorùmenos (Il punitore di sé stesso, 163); Eunuchus (161); Phormio (161); Adelphoe (I fratelli, 160). Le commedie comprendono complessivamente 6000 versi. I modelli greci utilizzati e dichiarati nei prologhi appartengono alla Commedia Nuova attica: Menandro, Difilo. Il riferimento principale per la vita di Terenzio è la Vita Terenti contenuta nel De viribus illustribus di Svetonio (100 d.C. ca.) e giunto come introduzione al commento a Terenzio di Elio Donato. Il commento di Elio Donato (IV sec. d. C.) è una delle migliori opere del genere giunte fino a noi, e ha buone informazioni su questioni di tecnica teatrale e messa in scena delle commedie. 1. Lo sfondo storico Le notizie biografiche antiche inseriscono Terenzio nell’Età degli Scipioni.La data di Pidna, il 168 a.C., è uno spartiacque, in seguito alla vittoria di Emilio Paolo furono deportati mille ostaggi Achei, tra cui intellettuali quali lo storico Polibio. Il clan nobiliare degli Scipioni divenne un centro di elaborazione di cultura grecizzante, ricondotta alla più alta dignità teorica. Il nuovo indirizzo portò, proprio con Terenzio, a innovazioni anche nella poesia scenica. Il teatro di Terenzio accetta l’inquadramento convenzionale e ripetitivo delle trame, perché la dominante è l'interesse per i significati: per la sostanza umana che è messa in gioco dagli intrecci della commedia. Il difficile tentativo di Terenzio è usare un genere fondamentalmente popolare per comunicare anche sensibilità e interessi nuovi, che sono maturati nel campo ristretto di una élite, sociale e culturale insieme. Gli intrecci terenziani sono quelli consueti alla Commedia Nuova e alla palliata: giovani innamorati, genitori che li contrastano, schiavi indaffarati; e alla fine il “riconoscimento” che risolve la situazione, ma la scelta innovativa è quella dell’approfondimento della psicologia del personaggio. Ma è bene intendersi: Terenzio più che al personaggio, sembra interessato alla rappresentazione psicologica del “tipo”. Anche se “tipizzati” i personaggi sono spesso anticonvenzionali; va da sé che l'approfondimento psicologico comportava una notevole riduzione della comicità, che avrà senz'altro contribuito allo scarso successo presso il pubblico di massa. 2. Stile e lingua in Terenzio Lo stile di Terenzio è in genere l’aspetto più trascurato. Lo stile espressivo alla prima impressione appare uniformemente piatto, specialmente se messo a confronto con l’indiavolata officina verbale di Plauto. In Terenzio, i personaggi non usano scambiarsi parole di insulto, né parole della lingua quotidiana. Acquistano spazio invece le parole astratte, quelle che rendono possibile e interessante l'analisi psicologica. Questa restrizione o censura del linguaggio serve ad assicurare il predominio di certi contenuti, ma l'elemento che più distingue Terenzio nel quadro della commedia latina è la sua costante e controllata preoccupazione per il verosimile. Si adegua in qualche modo ad una lingua realmente parlata, ma è una lingua settoriale: quella parlata dalle classi urbane di buona educazione e cultura. 3. I prologhi di Terenzio: poetica e rapporto con i modelli Terenzio curò molto di più la coerenza e l’impermeabilità dell’illusione scenica. Lo sviluppo dell'azione non prevede mai sviluppi “metateatrali”: in pratica, la palliata di Terenzio non apre al suo interno nessuno spazio di autocoscienza. Questi momenti di riflessione vengono tutti concentrati nello spazio del prologo. L’importanza data al prologo come istituzione letteraria è la principale innovazione tecnica di Terenzio rispetto alla tradizione plautina. Terenzio rifiuta la funzione informativa dei prologhi, anche a costo di qualche oscurità nella conduzione dell’intreccio, e adopera, invece, i suoi prologhi come personali prese di posizione: chiarisce il rapporto con i modelli greci utilizzati, e risponde alle critiche dei suoi avversari su questioni di poetica. È evidente che questo presuppone un pubblico più avanzato, attento a problemi di gusto e di tecnica: senz’altro più ristretto e selezionato. Terenzio si attiene piuttosto fedelmente alle linee degli intrecci menandrei, senza mai rinunciare ad approfondire gli interessi che più lo toccano: caratteri e problemi di un'umanità “borghese”. 4. Temi e fortuna delle commedie di Terenzio La palliata latina era sempre stata, per sua natura, fortemente ancorata alle situazioni familiari, ma in Terenzio questi rapporti diventano veramente rapporti umani, sentiti con maggiore serietà problematica. Questo approfondimento risente di una sincera adesione al modello di Menandro, e della circolazione di ideali “umanistici” di origine greca. A questo si deve l'apparizione di un concetto-chiave come humanitas, influenzato dal greco philantropìa, che è in piena sintonia con la cultura dell'età scipionica. Cicerone attribuisce a Terenzio un linguaggio scelto (lecto sermone) insieme a urbanità (come loquens) e a dolcezza del dire (omnia dulia dicens). Cesare lo definisce “innamorato della purezza di linguaggio”. Moderazione dei sentimenti, valori etici apprezzati anche dai cristiani (S. Agostino), purezza di lingua che facevano di Terenzio un modello di stile: sono le cause che introdussero le sue commedie nella scuola. Dante cita dei versi terenziani, forse meditati da Cicerone. Si è conservata una traduzione dell’Andria di Machiavelli. Molière fu ammiratore e imitatore di Terenzio. Lucilio La data di morte, il 102 a.C., è sicura, nasce presumibilmente tra il 167/168. Era di una distinta famiglia originaria della Campania settentrionale: la sua biografia giovanile è legata al “circolo scipionico”. È il primo letterato di buona famiglia che conduce una vita da scrittore, volontariamente appartata dalla vita politica. Ha composto trenta libri di satire, di cui abbiamo frammenti per un totale di circa 1.300 versi. L’edizione di Lucilio 6 che circolava nel I sec. a.C. comprendeva: i libri 1-21, componimenti in esametri dattilici; 22-25 forse in distici elegiaci; 26-30 in metri giambici e trocaici, nonché nuovamente esametri. L’ordine era dato da un criterio metrico, non cronologico. Lucilio si orientò progressivamente verso l’esametro, segno di provocazione ironica; e l'esametro diventerà da Orazio in poi l'unico verso prescritto per la satira. Non è affatto sicuro che il termine Saturae risalga a Lucilio stesso, ma Orazio usa il termine per designare quel genere di poesia inaugurata da Lucilio. Fu letto con interesse in età imperiale; l'abbondanza di parole rarissime e difficili nella sua opera offrì molto materiale ai grammatici tra il II e il V sec. d.C. Lucilio e la satira L’opera di Lucilio si radica nello sfondo culturale di Terenzio: i grandi personaggi del partito scipionico furono, nella maturità, i protettori del poeta satirico. La sua appartenenza alla ricca aristocrazia provinciale gli consentiva di muovere attacchi contro alcuni degli uomini più in vista della Roma contemporanea. Le origini del genere che i Romani chiamano satura sono piuttosto incerte. È sicuro che la satura lanx indicasse un piatto misto di primizie che venivano offerte agli dei; di qui anche una specialità gastronomica, e un tipo di procedimento giuridico lex per saturam, quando si riunivano stralci di vari argomenti in un singolo provvedimento legislativo. Dunque, è probabile che il valore di “mescolanza e varietà” fosse quello originario. L’impulso originario è specificamente romano. Nessuno dei generi canonici della poesia prevede uno spazio di espressione “diretta” in cui il poeta possa rispecchiare il suo rapporto con sé stesso e con la realtà contemporanea. Lo sviluppo della satira significa anche la crescita di un nuovo pubblico, culturalmente avvertito, e desideroso di letteratura più aderente alla realtà contemporanea. Per quanto ne sappiamo Lucilio affrontò uno spettro molto ampio di argomenti. Il libro I conteneva un'ampia composizione nota come Concilium deorum; attraverso una grande parodia dei concili divini, scena tipica dell’epos, Lucilio riprendeva un certo tipo inviso agli Scipioni: gli dei lo facevano morire di indigestione. Il libro III conteneva la colorita narrazione di un viaggio in Sicilia. Accenni alla gastronomia connessi con il tema polemico del lusso a tavola ricorrono più libri. Il libro XVI pare fosse dedicato ad una donna amata. È chiara l'esistenza di un programma letterario decisamente unitario e innovativo, sostenuto da una personalità di vivace anticonformismo. La sua poesia rifiuta un unico livello di stile, e si apre in tutte le direzioni: amalgama il linguaggio elevato dell'epica, rivissuto come parodia, e i linguaggi specializzati che finora restano esclusi dalla poesia latina. In questa prospettiva Lucilio è quanto di più vicino al realismo moderno offre la letteratura latina: tende persino a simulare l’improvvisazione. Non manca un impegno educativo, legato alla critica sociale e all’anticonformismo. Come voce personale del genere satirico, Lucilio resterà un modello per tutti i poeti satirici latini. Tarda repubblica Catullo Catullo nasce a Verona da una famiglia agiata, la data di nascita è incerta ma intorno all’85 a.C., visse una trentina d’anni. Catullo conobbe e frequentò personaggi di spicco dell’ambiente politico e letterario. Di lui abbiamo 116 carmi (2300 versi) raccolti in un liber, diviso sommariamente su base metrica. Il primo gruppo (1-60) è costituito da componimenti di carattere leggero (le nugae “bagattelle”). Il secondo gruppo (61-68) abbraccia una serie di carmi di maggiore estensione e impegno stilistico: i cosiddetti carmina docta. La terza sezione (69-116) comprende carmi generalmente brevi in distici elegiaci, i cosiddetti “epigrammi”. I più credono che l’ordinamento della raccolta (secondo un criterio metrico) sia opera di altri, dopo la morte del poeta, quando sarà approntata un'edizione postuma dei suoi carmi (alcuni devono essere rimasti esclusi). Quindi, forse, il libellus dedicato a Catullo da Cornelio Nepote non corrisponde esattamente al liber rimastoci, ma ne costituisce solo una parte. Le notizie biografiche ci vengono soprattutto dai suoi carmi; sulle relazioni della famiglia con Cesare ci informa Svetonio. I carmi brevi Il nome e la poesia di Catullo sono tradizionalmente associati alla rivoluzione neoterica; ne sono anzi il documento più importante. Rivoluzione del gusto letterario, ma anche rivolta del carattere etico: mentre si sgretolano, nell'età della crisi della repubblica, gli antichi valori morali e politici della civitas, l’otium individuale diventa alternativa seducente alla vita collettiva. L'attività letteraria non si rivolge più all'epos o alla tragedia, bensì alla lirica, alla poesia individuale, introversa, adatta ad accogliere ed esprimere le piccole vicende della vita personale. A questo progetto risponde quella parte della produzione di Catullo che si suole indicare come “carmi brevi”: l'insieme dei polimetri e degli epigrammi, in cui l'esiguità dell’estensione rivela già la modestia dei contenuti, la ricerca della perfezione formale. Ne risulta un'impressione di vita riflessa, che ha dato le sembianze di una poesia ingenua e spontanea. In realtà è un’apparenza ricercata e ottenuta grazie a un ricco patrimonio di dottrina. Non si dovrebbe dimenticare che il destinatario di ogni carme è per lo più rappresentante di una cerchia raffinata e colta. Lo sfondo della poesia di Catullo è costituito dall'ambiente letterario e mondano della capitale, di cui fa parte la cerchia degli amici neoterici, accomunati da un ideale di grazia brillantezza di spirito: lepos, venustas, urbanitas (grazia, eleganza, cortesia) sono i principi che fondano questo codice etico, che governa i rapporti reciproci ma ispira anche il gusto letterario. Su questo sfondo campeggia e risalta la figura di Lesbia, incarnazione della devastante potenza dell'eros, protagonista della poesia catulliana. Lo pseudonimo rievoca Saffo. L’eros diventa centro dell’esistenza e valore primario, il solo in grado di risarcire la fugacità della vita, capace di riempirla e di darle senso. All'amore e alla vita sentimentale Catullo trasferisce tutto il suo impegno, sottraendosi ai doveri agli propri del civis romano. La speranza sempre frustrata di un amore fedelmente ricambiato si accompagna in Catullo alla consapevolezza di non aver mai mancato al foedus d'amore con Lesbia. I carmina docta Lepidus, novus, expollitus: così intende i criteri di una nuova poetica, che rivela la sua ascendenza alessandrina, meglio callimachea. I veri intenditori apprezzeranno la nuova epica elaborata dai neoterici, l’epillio, il poemetto breve che per le sue stesse dimensioni favorisce il lavoro di cesellatura, teso a conferire asciuttezza e 7 6. Lingua e stile di Lucrezio La critica moderna ha lungo esitato a sottoscrivere l’affermazione secondo cui Cicerone reputava Lucrezio di grandi capacità di elaborazione artistica, giudicando lo stile del poeta troppo rude e legato all’uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma da qualche tempo gli studiosi hanno modificato questa prospettiva, ricollocando Lucrezio e Virgilio nella loro giusta dimensione storica. Anche lo stile, come l'organizzazione complessiva della materia, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano in questa luce le frequenti ripetizioni. Anche l’invito all’attenzione del lettore doveva essere reiterato spesso; e alcuni termini tecnici della fisica epicurea, nonché i nessi logici di grande uso dovevano restare il più possibile fissi per consentire al lettore di familiarizzare con un linguaggio non facile. Alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici e Lucrezio si trovò costretto quindi a ricorrere a perifrasi nuove, a coniazioni, talvolta a calchi diretti dal greco. La povertà della lingua era limitata al lessico strettamente tecnico. In campo grammaticale i due fenomeni più vistosi sono il gran numero di infiniti passivi in –ier (più arcaico di –i), ed il prevalere della desinenza bisillabica –ai bel genitivo singolare della prima declinazione (anziché –ae), esclusa ormai ai tempi di Lucrezio dalla lingua d’uso. Il tratto distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza dell’espressione. Evidenza e vivacità descrittiva, visibilità e percettibilità degli oggetti intorno a cui si ragiona, “corporalità” dell’immaginario: effetti obbligati da una mancanza di un linguaggio astratto già pronto. Ma le immagini così evocate per spiegare pensieri ed idee diventano il risvolto emozionale di un discorso intellettuale che sceglie di farsi soprattutto descrizione di grande efficacia. Anche se i livelli di stile sono molto diversi, il registro che li unifica è uno solo e continuo: è il registro dell’enthusiasmòs poetico al servizio di una missione didattica vissuta con ardore eccezionale. 7. La fortuna di Lucrezio Le prime fasi della fortuna di Lucrezio sono oggetto di discussione: gli autori antichi lo conoscevano, poiché raramente lo citano. Gli autori cristiani leggono Lucrezio e ne criticano apertamente le posizioni. Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto nel De rerum natura e lo invia a Firenze perché sia copiato: è l'inizio della rinnovata fortuna dell'opera in epoca moderna; prima edizione a stampa a Brescia 1473. Nel ‘500 compaiono le prime “confutazioni di Lucrezio”, opere che riprendono da vicino la lingua e lo stile latino dell'autore per propugnare però tesi opposte. La prima traduzione italiana dell’opera è di Alessandro Manzoni, pubblicata a Londra nel 1717 dopo il divieto ricevuto in patria. Citazioni dirette da parte di Giacomo Leopardi. Nel 1850 l'edizione critica del De rerum natura di Karl Lachmann è banco di prova del moderno metodo filologico basato sulla valutazione dei rapporti tra i vari rami della tradizione, individuati grazie alla presenza di errori-guida che li accomunano o li separano. Cicerone Marco Tullio Cicerone nasce ad Arpino nel 106 a. C. da agiata famiglia equestre; compie ottimi studi di retorica e filosofia a Roma. Nell’89 presta servizio militare nella guerra sociale, agli ordini di Pompeo Strabone. Nell’81 debutta come avvocato; nel 69 è edile; nel 66 pretore; nel 70 sostiene trionfalmente l'accusa dei siciliani contro l'ex governatore Verre, e si conquista la fama di oratore principe. Nel 63 è console, e reprime la congiura di Catilina. Dopo la formazione del I Triumvirato, il suo astro inizia a declinare; nel 58 deve recarsi in esilio, con l'accusa di avere mandato a morte senza processo i complici di Catilina. Allo scoppio della guerra civile, nel 49, aderisce con lentezza alla causa di Pompeo; dopo la sua sconfitta, ottiene il perdono di Cesare. Nel 44, dopo l'uccisione di Cesare, torna alla vita politica; inizia la lotta contro Antonio (Filippiche). Dopo il voltafaccia di Ottaviano, che, abbandonata la causa del senato, si stringe in triumvirato Antonio e Lepido, il nome di Cicerone finisce nelle liste di proscrizione. Viene ucciso dai sicari di Antonio nel dicembre del 43. Cicerone produsse un’enorme quantità di opere. Ci sono giunte: 30 Orazioni, e di altrettante conosciamo i titoli; 7 opere retoriche; 2 opere politiche; 10 opere filosofiche; 4 epistolari; 6 opere poetiche; circa 9 opere in prosa perdute; e le traduzioni del Timeo e del Protagora di Platone, e dell’Economico di Senofonte. Per la conoscenza della vita e delle opere, le fonti principali sono rappresentate dalle sue stesse opere, da diverse orazioni. Importante anche la biografia di Cicerone scritta da Plutarco. 1. Tradizione e innovazione nella cultura romana Cicerone è protagonista e testimone della crisi che porta al tramonto della repubblica; egli elabora un progetto nel vano tentativo di porvi rimedio. La sua rimane un’ottica di parte, legata al progetto di egemonia di un blocco sociale, i ceti possidenti: un'ottica che, per rendersi accetta, deve saper profittare anche degli artifici che possono offrire le tecniche di comunicazione. Cicerone mette a frutto tali artifici nelle orazioni e li teorizza nei trattati retorici: ricollocata nel proprio tempo, la sua ars dicendi si spoglia dei tratti di vana ampollosità, per rivelarsi una tecnica produttiva e sapiente, funzionale al dominio dell’uditorio e alla regìa delle sue passioni. Procedendo negli anni ha progressivamente sentito sempre più forte la necessità di riflettere, rifacendosi al pensiero ellenistico, sui fondamenti della politica e della morale. Il fine delle sue opere filosofiche è lo stesso che ispira alcune delle orazioni più significative: dare una solida base ideale, etica, politica ad una classe dominante il cui bisogno di ordine non si traduca in ottuse chiusure, il cui rispetto per il mos maiorum non impedisca l’assorbimento della cultura greca; una classe dominante che l'assolvimento dei doveri verso lo stato non renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura, né, in generale, di quello stile di vita garbatamente raffinato che si riassume nel termine humanitas. 2. L’egemonia della parola: carriera politica e pratica oratoria L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma nell'ultimo cinquantennio della repubblica. Rientrato a Roma dopo la morte di Silla, ricoprì la questura in Sicilia nel 75. Si conquistò fama di governatore onesto e scrupoloso, tanto che, nel 70, i siciliani gli proposero di sostenere l'accusa nel processo da essi intentato contro l'ex governatore Verre, il quale aveva sfruttato la provincia con incredibile rapacità:Verre schiacciato dalle accuse, fuggì dall’Italia e 10 venne condannato in contumacia. Cicerone successivamente pubblicò la cosiddetta Actio secunda in Verrem, che rappresenta un documento storico di grande importanza per conoscere i metodi di cui si serviva l'amministrazione romana nelle province. Lo stile delle Verriane è già pienamente maturo; Cicerone ha eliminato alcune esuberanze e ridondanze. Il periodare è per lo più armonioso, complesso; la sintassi è duttile, e non rifugge ad un fraseggio conciso e martellante. La gamma dei registri è dominata con piena sicurezza. Entrato in senato dopo la questura, Cicerone nel 66, l’anno della pretura, parlò in favore del progetto di legge del tribuno Manilio che prevedeva la concessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l’Oriente: provvedimento reso necessario dall'urgenza di affrontare Mitridate, Re del Ponto. Cicerone insisté soprattutto sull’importanza dei tributi che affluivano dalle province orientali: di tale beneficio la popolazione di Roma sarebbe stata privata se Mitridate avesse continuato nella sua azione. Nella De imperio Cn. Pompei, poi ripudiata dallo stesso Cicerone, si è voluto vedere il suo punto massimo di avvicinamento alla politica dei populares. In realtà più che agli interessi del popolo, Cicerone difendeva tuttavia quelli dei pubblicani, i titolari delle compagnie di appalto delle imposte. Ma è vero piuttosto che egli aveva bisogno del loro sostegno per cementare quella concordia dei ceti abbiente nella quale incominciava a scorgere la via d’uscita dalla crisi che minacciava la repubblica. Ma le più celebri tra le orazioni consolari sono le quattro Catilinarie, con le quali Cicerone, durante il suo consolato nel 63, svelò le trame sovversive che il nobile decaduto Catilina aveva ordito una volta vistosi sconfitto nella competizione elettorale, lo costrinse a fuggire da Roma e giustificò la propria decisione di far giustiziare i suoi complici senza processo. Sul piano letterario, spicca la I Catilinaria, nella quale Cicerone attacca Catilina di fronte al senato; fece ricorso a un artificio retorico che in precedenza non aveva mai impiegato: l'introduzione di una “prosopopea” (“personificazione”) della Patria, che è immaginata rivolgersi a Catilina con parole di aspro biasimo. Da allora in poi, sarebbe stato il teorizzatore di quella concordia ordinum che lo aveva portato al potere. Negli anni successivi Cicerone non cessò di esaltare la funzione storica del proprio consolato e della lotta contro Catilina. Il I triumvirato segnò tuttavia un declino delle sue fortune politiche. Il tribuno Clodio presentò nel 58 una legge in base alla quale doveva essere condannato all'esilio chi avesse fatto mettere a morte dei cittadini romani senza processo: la legge mirava a colpire l'operato di Cicerone. Non più sostenuto dalla nobiltà e da Pompeo, Cicerone dovette abbandonare Roma. Richiamato dall’esilio nel 57, trovò la città in preda all'anarchia. In questo contesto elaborò una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti, in quanto la semplice intesa, la concordia ordinum, si era rivelata fallimentare: Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnuim bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell'ordine politico e sociale, pronte all’adempimento dei propri dei doveri nei confronti della patria e della famiglia. Dovere dei boni sarà non rifugiarsi nel perseguimento dei propri interessi privati, ma fornire sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa. In quest’ottica si spiega probabilmente l’avvicinamento ai triumviri che Cicerone compie in questi anni, nella speranza di condizionarne l'operato, e di far sì che il loro potere non prevarichi su quello del senato ma si mantenga nei limiti delle istituzioni repubblicane. Gli scontri fra le bande di Clodio e di Milone si protrassero a lungo. Cicerone si assunse la difesa di Milone (Pro Milone). L’orazione è considerato uno dei suoi capolavori, per l'equilibrio delle parti e l’abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sulla esaltazione del “tirannicidio”. Dopo l'uccisione di Cesare, Cicerone tornò ad essere un uomo politico di primo piano. I pericoli per la repubblica non erano finiti: ma la manovra politica di Cesare tendeva a staccare Ottaviano da Antonio e a riportare il primo sotto le ali protettrici del senato; per indurre il senato a dichiarare guerra ad Antonio e a dichiararlo nemico pubblico cicerone pronunciò contro di lui, dal 44, le orazioni Filippiche (18?). La manovra politica di Cicerone era destinata al fallimento. Con un brusco voltafaccia, Ottaviano si sottrasse alla tutela del senato, e strinse un accordo con Antonio e un altro capo cesariano, Lepido (II triumvirato). Antonio pretese e ottenne la testa di Cicerone. Nonostante le molte oscillazioni, la carriera politica di Cicerone seguì un filo coerente. Rimase fedele all'ideale della concordia e alla causa del senato; il tentativo di collaborazione con i triumviri fu una risposta al diffuso bisogno di un governo autorevole, e anche in questo caso Cicerone si preoccupò di salvaguardare il prestigio e le prerogative del senato. 3. L’egemonia della parola: le opere retoriche Quasi tutte le opere retoriche sono state scritte dopo il ritorno dall'esilio; esse nascono dal bisogno di una risposta politica e culturale alla crisi. Il De oratore venne composto nel 55, in forma di dialogo, ma ambientato nel 91, e ci prendono parte alcuni tra i più insigni oratori dell'epoca, fra i quali Marco Antonio, nonno del triumviro, e Lucio Licinio Crasso (portavoce dello stesso Cicerone). Nel libro I Crasso sostiene, per l'oratore, la necessità di una vasta formazione culturale; Antonio gli contrappone l’ideale di un oratore più istintivo e autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sull'esempio degli oratori precedenti. I libri II e III passano alla trattazione di questioni più analitiche. La scelta del 91 ha un significato preciso: precede di poco lo scoppio della guerra sociale e di lunghi conflitti civili tra Mario e Silla. La crisi dello stato è un'ossessione incombente su tutti i partecipanti al dialogo. Cicerone si è sforzato di ricreare l'atmosfera degli ultimi giorni di pace dell'antica repubblica. Il modello a cui si ispira è quello del dialogo platonico: Cicerone ha saputo creare un’opera viva, che, per quanto basata su una perfetta conoscenza della letteratura greca, si nutre dell'esperienza romana e conserva uno stretto rapporto con la pratica forense. Crasso insiste perché probitas e prudentia siano saldamente radicate nell’animo di che dovrà apprendere l’arte della parola. La formazione dell'oratore viene in tal modo a coincidere con quella dell'uomo politico della classe dirigente: un uomo di vasta cultura generale, capace di padroneggiare l'arte della parola e di persuadere i propri ascoltatori. Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De Oratore in un trattato più esile, l’Orator; disegnando il ritratto dell'oratore ideale, l'autore sottolinea i tre fini ai quali l’arte deve indirizzarsi: probare (prospettare la tesi con argomenti validi), delectare (produrre con le parole una piacevole impressione estetica), flectere (muovere le emozioni attraverso il pathos). Ai tre fini corrispondono i tre 11 registri stilistici che l'oratore dovrà sapere alternare: umile, medio e elevato o “patetico”. La rivendicazione della capacità di muovere gli affetti come compito sommo dell’oratore nasceva dalla polemica nei confronti della tendenza “atticista”, i cui sostenitori rimproveravano a Cicerone di non aver preso le distanze dall’ “asianesimo”. Sul contrasto Cicerone prese posizione nel dialogo Brutus, dedicato a Marco Bruto, uno dei principali esponenti delle tendenze atticistiche. Nel Brutus Cicerone, assumendosi il ruolo di principale interlocutore, disegna una storia dell'eloquenza greca e romana, dimostrando doti di storico della cultura e fine critico letterario. Dato il carattere autoapologetico del Brutus, si comprende come la storia dell'eloquenza culmini in una rievocazione delle tappe della carriera oratoria di Cicerone. L'ottica con cui guarda al passato dell’oratoria è quella di una rottura degli schemi tradizionali: il successo dell’oratore di fronte all'uditorio è il criterio fondamentale in base al quale valutare la riuscita stilistica. Gli atticisti sono criticati per il carattere troppo freddo e intellettualistico della loro eloquenza: essi ignorano l’arte di trascinare gli ascoltatori. La grande oratoria “senza schemi” ha il suo modello in Demostene: in lui si riconosce il più perfetto modello dell’eloquenza attica. 4. Un progetto di stato Non cercò di costruire a tavolino uno stato ideale: Cicerone si proiettò nel passato, per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129, nella villa di Scipione Emiliano che con l'amico Lelio è uno dei principali interlocutori. La ricostruzione è ipotetica per le condizioni frammentarie con cui il dialogo ci è stato conservato. Nel I libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) e della loro necessaria degenerazione nelle forme estrema, rispettivamente tirannide, oligarchia e oclocrazia. Riprendendo una tesi di Polibio, Scipione mostra come lo stato romano dei maiores si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali: l'elemento monarchico si rispecchia nel consolato, l'elemento aristocratico nel senato, l'elemento democratico nell’istituzione dei comizi. La teoria del regime “misto” risaliva, attraverso Polibio allo stesso Aristotele. All’elemento democratico Scipione guarda con evidente antipatia, la considera una “valvola di sicurezza” per scaricare e sfogare le passioni irrazionali del popolo. Non è facile precisare in che modo veniva delineata la figura del princeps, ma alcuni punti sono assodati: il singolare si riferisce al “tipo” dell’uomo politico eminente, non alla sua unicità; Cicerone sembra pensare a una élite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni. Cicerone non prefigura esiti “augustei”, ma intende mantenere il ruolo del princeps all'interno dei limiti della forma statale repubblicana. L'autorità del princeps non è alternativa a quello del senato, ma ne è il sostegno necessario per salvare la res publica. Perché la sua autorità non ecceda, il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche. Cicerone disegna così l’immagine di un dominatore-asceta, rappresentante in terra della volontà divina. Ispirandosi a Platone, che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi, Cicerone completò il dialogo sullo stato con De legibus, iniziato nel 52. Nel I libro Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò data da dio. Nel II l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa sulla tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. 5. Una morale per la società romana È nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono, in coincidenza con eventi dolorosi nella vita di Cicerone: la morte della figlia, la dittatura di Cesare che lo aveva privato degli affari pubblici. Divenuto quasi indifferente alle vicende politiche, vive in solitudine, e si tuffa completamente nella composizione di opere filosofiche. Lo sforzo di Cicerone si muove in generale, nel senso di ripensare tutto il corpus di metodi, teorie, cresciuto entro le scuole filosofiche ellenistiche per ricomporlo in un blocco di senso comune: egli intende così offrire un punto di riferimento alla classe dirigente romana, nella prospettiva di ristabilirne l'egemonia sulla società. Ma originale in Cicerone è nella scelta dei temi, nel taglio degli argomenti, perché nuovi sono i problemi che la società pone, e nuovi gli interrogativi che egli pone ad essa: ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico, per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana. Il suo metodo: esporre le diverse opinioni possibili e metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre. La stessa ideologia della humanitas, alla cui elaborazione Cicerone dette un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. Lo spuntarsi della vis polemica, la rinuncia a qualsiasi asprezza nel contraddittorio, la tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, l'uso insistito di formule di cortesia: sono tutti tratti rivelatori dei costumi di una cerchia sociale elitaria, preoccupata di elaborare un proprio codice di “buone maniere”. Ma l’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l'epicureismo. I motivi dell'avversione sono soprattutto due:la filosofia epicurea conduce al disinteresse per la politica; inoltre, esclude la funzione della divinità e indebolisce così i legami della religione tradizionale, che per Cicerone rimane la base fondamentale dell’etica. Il confronto tra i diversi sistemi filosofici trova uno particolarmente esteso nel De finibus bonorum et malorum. Cicerone riconosceva che lo stoicismo forniva la base morale più solida all'impegno dei cittadini verso la collettività; ma da uno stoico intransigente come Catone, o da un accademico della morale rigorosa come Bruto, si sentiva lontano per cultura e per gusti: il loro rigore etico gli appariva anacronistico. Un posto particolare occupano i due brevi dialoghi Cato maior de senectute e Laelius de amicizia, composti nel 44. Nel primo, nel personaggio di Catone, che sceglie come portavoce, Cicerone trasfigura l'amarezza per una vecchiaia la quale sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico. Nella sua vecchiaia si armonizzano in maniera perfetta il gusto per l’otium e la tenacia dell'impegno politico, due opposte esigenze che Cicerone ha invano cercato di conciliare nell'arco della vita. Nel secondo, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul valore dell'amicizia stessa. Amicitia, per i romani, era soprattutto la creazione di legami personali a scopo politico. La novità consiste nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della noblitas: un rinnovato 12 mossa nel solco delle leggi, si presenta come un politico moderato. In ambedue le opere, egli mette in luce le proprie capacità di azione militare e politica, ma non alimenta l’alone carismatico intorno alla propria figura. La fortuna non viene presentata come una divinità protettrice ma serve a spiegare cambiamenti repentini di situazioni. Cesare cerca infatti di spiegare gli avvenimenti secondo cause umane e naturali, di coglierne la logica interna; e non fa praticamente mai ricorso all'intervento divino. 6. Le teorie linguistiche di Cesare La perdita delle orazioni di Cesare è uno dei più gravi danni subiti dalla letteratura latina, secondo coloro che poterono leggerle. Probabilmente lo stile oratorio di Cesare avrà evitato i “gonfiori” (livores) e in colori troppo sgargianti, ma l'uso accorto degli ornamenta lo avrà salvato degli estremismi di uno stile scarno caro agli atticisti più spinti. Lo stesso Cicerone è pronto a riconoscere che Cesare agì da purificatore della lingua latina. Espose le proprie teorie linguistiche nei 3 libri De analogia; i pochi frammenti rimasti mostrano come Cesare ponesse a base dell’eloquenza l'accorta scelta delle parole, per la quale il criterio fondamentale è l’analogia, la selezione razionale e sistematica, contrapposta all’anomalia, l’accettazione di ciò che diviene man mano consueto nel sermo cotidianus. La selezione deve limitarsi ai verba usitata, le parole già nell’uso; Cesare consigliava di fuggire le parole strane e desuete. L’analogismo di Cesare è cura della semplicità, dell’ordine, soprattutto della chiarezza alla quale talora egli arriva a sacrificare la grazia. 7. Fortuna di Cesare scrittore Cicerone (Brutus 262): “Ha scritto dei commentari veramente degni di elogio”. Cesare fu lo scrittore più asciutto della latinità, lo stilista cui l'economia espressiva e l'essenzialità della scrittura parevano gli unici mezzi di parlare oggettivamente. Già Quintiliano lodava il Cesare oratore, non lo scrittore di storia. Cartesio, Manzoni daranno un giudizio di elogio. Sallustio Gaio Sallustio Crispo nacque in Sabina, nell’86 a.C., da una famiglia facoltosa. Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare lo nominò governatore della provincia di Africa Nova, ma Sallustio diede prova di malgoverno e rapacità; per evitargli il processo Cesare lo consigliò di ritirarsi dalla vita politica. Fu da questo momento in poi che si dedicò alla storiografia. Morì nel 35/34, facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae. Due monografie storiche: Bellum Catilinae e Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate nel 44-43. un’opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziate nel 39, è rimasta incompiuta al libro V: l'opera comprendeva il periodo fra il 78 e il 67 (dalla morte di Silla alla guerra di Pompeo contro i pirati), ne restano numerosi frammenti anche di vaste dimensioni. Le informazioni che possediamo sulla nascita si basano sulla Cronaca di Girolamo; cenni sparsi sulla vita politica in Cassio Dione; per il ritiro dalla vita politica lo stesso Sallustio in Bellum Catilinae. 1. La monografia storica come genere letterario Ad ambedue le monografie Sallustio antepone proemi di una certa estensione che rispondono all’esigenza di dare conto della propria attività intellettuale di fronte ad un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione, per cui fare storia è compito più importante che scriverne.Per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell'uomo politico. Sallustio denuncia l'avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita politica romana. La cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Così il Bellum Catilinae illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo sovversivo di tipo finora ignoto allo stato romano; il Bellum Iugurthinum affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas corrotta a difendere lo stato. La scelta della monografia portò Sallustio ad elaborare un nuovo stile storiografico. 2. La congiura di Catilina e il timore dei ceti subalterni Dopo il proemio, Sallustio fa un ritratto di Catilina: la personalità di questo aristocratico corrotto è messa a fuoco sullo sfondo generale della decadenza dei costumi romani. Insieme a Manlio, suo complice, raduna a Fiesole (Toscana) un esercito. Catilina sconfitto alle elezioni consolari, attenta alla vita di Cicerone, il quale ottiene dal senato pieni poteri per soffocare la ribellione. Il senato dichiara Catilina e Manlio nemici pubblici. Sallustio introduce un excursus sui motivi della degenerazione della vita politica e sulle condizioni che hanno favorito l'attività di Catilina. Dopodiché Sallustio introduce un parallelo tra Catone e Cesare, due personaggi dalle virtù opposte e complementari, i soli grandi uomini del tempo. Si conclude con la resa dei conti presso Pistoia dove Catilina trova la morte. Alla malattia di cui soffriva la società romana Sallustio, interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus. Si tratta della cosiddetta “archeologia”, che traccia una rapida storia dell'ascesa e della decadenza di Roma. Il punto di svolta è individuato nella distruzione di Cartagine, a partire dalla quale – con la cessazione del metus hostilis – Sallustio fa cominciare il deterioramento della moralità romana. Un secondo excursus denuncia la degenerazione della vita politica nel periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra civile fra Cesare e Pompeo: la condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares e i fautori del senato. La condanna del “regime dei partiti” è coerente con le aspettative che Sallustio ripone in Cesare; da parte di quest'ultimo, lo storico auspicava forse l'attuazione di una politica per certi aspetti non diversa da quella che Cicerone riprometteva nel suo princeps: un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi dello stato ristabilendo l'ordine della res publica, rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un senato ampliato con uomini provenienti dalla élite di tutta Italia. Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che Sallustio ha compiuto del personaggio di Cesare, “purificandolo” da ogni legame con i catilinari ed evitando la sua condanna esplicita della sua politica come capo dei populares. Sallustio sarà stato disgustato dall’inquinamento del senato con l’immissione di personaggi provenienti dai ranghi militari. Sallustio delinea i ritratti di Cesare e Catone. Il ritratto del primo si sofferma da un lato 15 sulla sua liberalità, munificentia, misericordia, e dall'altro sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria. Le virtù tipiche di Catone sono invece quelle, radicate nella tradizione (integritas, severitas, innocentia, ecc). Differenziando i mores dei due personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo stato romano, per la complementarietà delle loro virtù. Con tale scelta Sallustio non perseguiva certo l'intento di denigrare Cicerone; ma è un fatto che dalla narrazione del Bellum Catilinae, la figura del console appare alquanto ridimensionata. Attinge invece una sua grandezza, sia pur malefica, il personaggio di Catilina, del quale Sallustio delinea un ritratto a tinte forti e contrastanti, ma dominato dall'esigenza moralistica: mentre tratteggia il suo personaggio, lo giudica. 3. Il Bellum Iugurthinum: Sallustio e l’opposizione antinobiliare All'inizio, Sallustio spiega che la guerra contro Giugurta (111-105), fu la prima occasione in cui “si osò andare contro l'insolenza della nobiltà”. Il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente aristocratica nella crisi dello stato. Giugurta, dopo essersi impadronito col crimine del regno di Numidia, aveva corrotto con denaro gli esponenti dell'aristocrazia romana inviati a combatterlo in Africa. Mario, eletto console nel 107, riceve l'incarico di portare a termine la guerra in Africa; Mario modifica la composizione dell'esercito arruolando i capite censi. Nella narrazione sallustiana, l'opposizione antinobiliare, cui Sallustio si riallaccia, rivendicava il merito della politica di espansione, della difesa del prestigio di Roma. Come nella precedente monografia, introduce al centro dell'opera un’excursus che indica nel “regime dei partiti” la causa prima della dilacerazione e della rovina della res publica; Sallustio a tal fine trascura di parlare di quell’ala favorevole a un impegno attivo in guerra. Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno Memmio e da Mario: rappresentativi dei migliori valori etico-politci espressi dalla “democrazia” romana. Il discorso di Mario esprime le aspirazioni della elite italica ad una maggiore partecipazione al potere; tuttavia il giudizio complessivo rimane legato da ambivalenze e sfumature. Come già nei confronti di Catilina, Sallustio non nasconde la propria perplessa ammirazione per l’energia indomabile, segno di virtus, anche se corrotta, di Giugurta. La personalità del re barbaro è rappresentata in evoluzione: la sua natura non è corrotta fin dall'inizio, ma lo diviene progressivamente. Il seme della corruzione viene gettato durante l'assedio di Numanzia, dai romani. 4. Le Historiae e la crisi della res publica La maggior opera storica rimase incompiuta per la morte dell’autore: le Historiae iniziavano col 78 a.C. e i frammenti non vanno oltre il 67. Dopo le monografie, Sallustio si cimentava ora in un'impresa di ampio respiro: si imponeva il ritorno alla forma annalistica, l'opera influenzò molto la cultura augustea. Delle lettere rimaste, importante quella che Sallustio immagina scritta da Mitridate: dalle sue parole affiorano i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma; il solo motivo che i Romani hanno di portare guerra a tutte le altre nazioni è la loro inestinguibile sete di ricchezze. Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe: la corruzione dei costumi dilaga, salvo qualche nobile eccezione (fra le quali Sallustio ammira Sertorio, che aveva fondato in Spagna una nuova repubblica), sulla scena politica si affacciano avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. 5. Lo stile di Sallustio A condizionare in larga misura la futura evoluzione stilistica della storiografia sarà proprio Sallustio che, nutrendosi di Catone, elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas (il contrario della ricerca ciceroniana di simmetria, il rifiuto di un discorso ampio e regolare, proporzionato), sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie e variationes di costrutto: il difficile equilibrio, fra questo dinamismo e un vigoroso controllo, produce un effetto di gravitas austera e maestosa. Alla gravitas di questo stile concorre la ricca patina arcaizzante. L‟arcaismo non è solo nelle scelte di parole desuete, ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico. Estrema è l’economia dell’espressione (asindeti e omissioni di legami sintattici); ma alla condensazione del discorso, reso essenziale, reagisce il gusto per l’accumulo di parole quasi ridondanti. Uno stile arcaizzante, ma innovatore, perché il suo andamento spezzato è del tutto anticonvenzionale e perché lessico e sintassi contrastano quel processo di standardizzazione che si stava verificando nel linguaggio letterario. 6. Le Epistolae e l’Invectiva Le opere di Sallustio ottennero un successo immediato e rilevante, lo stesso stile di scrittura provocava ammirazione. Le epistolae e le invective sono opere spurie. 7. Fortuna di Sallustio Nell’antichità la fortuna di Sallustio fu in generale salda. Nel Medioevo continuò ad essere ammirato, influenzò notevolmente la storiografia gli Umanisti. Spesso la sua influenza si combinò con quella di Tacito. In epoca successiva, Alfieri lo tradusse con grande impegno. L’età di Augusto Sotto il nome di età augustea, gli storici comprendono in genere la produzione letteraria che va dalla morte di Cesare alla morte di Augusto. In tutto questo periodo Augusto è al proscenio della politica romana. Fra il 43 e il 42 muoiono Cicerone e Cesare, da questo momento in poi tutte le figure letterarie hanno rapporti dominanti e documentati con Augusto. Virgilio e Orazio ci offrono un terreno più sicuro di accompagnamento alle vicende politiche di Ottaviano, e sono anche da annoverare tra le tante vittime della crisi: loro trovano nel coetaneo Ottaviano protezione e sostegno. Il tema dominante nelle opere realizzate dalla morte di Cesare alla caduta di Anzio è la “grande paura”. Dopo il 31 a.C. Ottaviano diventa princeps e si apre un lungo periodo di concordia e ricostruzione. Il nuovo potere trae la sua legittimità dalla necessità di terminare le guerre civili. Secondo le Res gestae, il testamento politico in cui Augusto dà l’interpretazione ufficiale dei fatti: un giovane ha vendicato l’assassinio del padre adottivo; il capo dell’Italia unita ha combattuto una guerra giusta contro la regina dell’Oriente, Cleopatra. Nella letteratura iniziano a venire attenzionate le strutture dei generi, assumendo autonomia, senso e forme proprie. Nel giro di c.a. 40 anni, diversi scrittori riuscirono nell’impresa di realizzare un corpus di opere paragonabili a quelle della letteratura greca. Il possesso di di mature categorie formali si accompagnava all’ambizione necessaria a servirsene. La volontà di competere con i 16 classici greci comporta uno sforzo di allargamento dei temi e delle esperienze. I poeti attivi in questo periodo hanno un rapporto ambiguo e irrisolto con l’ideologia augustea; colui che entrarà più in conflitto paradossalmente è quello più spoliticizzato e disimpegnato: Ovidio. L’ultima fase del governo di Augusto fu tempestosa, tuttavia il clima letterario fu diverso: dopo Virgilio la poesia risulta o celebrativa o apolitica e disimpegnata. Anche i tentativi di riattivare la funzione sociale della letteratura sembrano appannarsi. Dopo la morte di Orazio, viene a mancare qualsiasi tramite tra l’ambiente del principe e il mondo letterario. Virgilio Publio Virgilio Marone nacque presso Mantova nell'ottobre del 70 a.C., da piccoli proprietari terrieri. I luoghi dell'educazione furono Roma e Napoli, dove forse ha frequentato il filosofo epicureo Sirone. Le Bucoliche denunciano chiaramente frequentazioni epicuree, le cui datazione è da collegare agli avvenimenti del 41, quando nelle campagne mantovane ci furono confische di terreni, destinate ai veterani di Filippi; Virgilio riecheggia il dramma di contadini espropriati. È certo che le Bucoliche non recano traccia di quello che sarà il grande amico e protettore, Mecenate; mentre vi ha rilievo la figura protettiva di Pollione. Tutta la vita di Virgilio è povera di eventi esterni e raccolta su un tenace lavoro poetico. Nel 29 Ottaviano, di ritorno dall’Oriente, si ferma ad Atella e si fa leggere le Georgiche appena compiute; dallo stesso anno in poi il poeta fu assorbito dalla composizione dell'Eneide: l'opera fu pubblicata per volere di Augusto (che pare seguisse lo sviluppo del lavoro). Virgilio morì nel settembre del 19 a.C. a Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia, e venne sepolto a Napoli. Bucolica, dieci brevi componimenti in esametri (829), chiamati anche egloghe e composti fra il 42 e il 39; Georgica, poema didascalico in quattro libri di esametri (2188) completati nel 29; Aenèis, poema epico in 12 libri in esametri. I singoli libri vanno dai 700 ai 950 versi, in totale poco meno di 10.000 esametri. L’opera fu edita dagli esecutori del testamento. Ci restano anche alcuni versi incompleti (58), che Virgilio stesso chiamava tibìcines, “puntelli” per sostenere un edificio in costruzione. I testi poetici sono in gran parte spuri. Come fonti, oltre alle notizie ricavabili dai testi autentici, abbiamo una serie di Vitae, tardo antiche, il nucleo risale all’attività biografica di Svetonio: la più famosa di queste Vitae si deve a Elio Donato, il grammatico del IV secolo. Tutte le opere autentiche sono commentate sin dal secolo I d.C. 1. Le Bucoliche Sino alla pubblicazione del libro delle Bucoliche, Teocrito era stato l'autore greco meno frequentato dalla cultura romana, che così fortemente urbana si rivolgeva ad altri modelli. La poesia degli Idilli, è tutta rivolta alla ricostruzione, nostalgica e dotta, di un mondo pastorale tradizionale. Protagonisti dell'azione erano i pastori e insieme a loro un paesaggio ricco ma statico: tutto sospeso in una vita quotidiana rarefatta ma illuminata dalla poesia. L'incontro di Virgilio con questo genere, che è anche un mondo immaginario, fu straordinariamente felice. Imitare Teocrito significò una sorta di simbiosi che non ha precedenti nella letteratura romana, e neppure forse veri continuatori. Il risultato non si può ridurre ad un semplice processo imitativo. Non esiste una singola egloga che stia in rapporto “uno a uno” con un singolo idillio. La presenza di Teocrito è stata risolta in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera sta alla pari con il modello. In questo senso le Bucoliche sono davvero il primo testo della letteratura augustea: già ne interpretano l'esigenza di fondo, “rifare” i testi greci trattandoli come classici. Il titolo d’insieme Bucolica, “canti dei bovari”, racchiude il tratto fondamentale di questo genere, che rievoca uno sfondo pastorale in cui i pastori stessi sono messi in scena come attori e creatori di poesia. Al singolare si preferisce il termine egloga (“poemetto scelto”). Nessun altro libro poetico a noi noto, prima di Virgilio, esibisce lo stesso livello di complessità architettonica e di unitarietà. Il carattere miscellaneo della raccolta di Teocrito aveva consacrato una certa varietà di temi: contiene incursioni nel mondo delle città, poesie celebrative, e una certa varietà di ambientazione. Virgilio sfrutta al massimo queste aperture. Da un lato, alcuni spunti permettono di acclimatare le egloghe al paesaggio italico, dall'altro vi sono accenni a un particolare paesaggio ideale, l‟Arcadia. Vi sono molte allusioni a questo mondo beato di pastori nella cultura greca anteriore, ma il mito dell'Arcadia come terra della poesia deve moltissimo a Virgilio. L’altro contributo alla tradizione bucolica sta nel libero riuso di spunti biografici. Il dramma dei pastori esuli nelle egloghe I e IX contiene certamente un nucleo di esperienza personale. Negli anni 42-41 confische di terre a favore di veterani colpirono Mantova e Cremona. Secondo la tradizione biografica antica, Virgilio era stato dapprima spossessato anche egli, poi reintegrato nella proprietà ad opera di personaggi influenti. Intorno a questo nucleo, che sembra accettabile, si sviluppò poi tutta una ricostruzione storica, una sorta di romanzo allegorico: dietro a tutte le figure del mondo pastorale, interpreti antichi e moderni, hanno visto un vortice di allusioni storiche. Ma ciò che importa, è cogliere l'originalità di ispirazione con cui Virgilio “legge” attraverso il linguaggio bucolico l'epoca delle guerre civili. Come si è visto nelle “teocritee” egloghe I e IX, e nella celebre IV egloga. Come annuncia l'esordio (paulo malora canamus) il poeta si solleva oltre la sfera pastorale per cantare un grande evento. Chi è il puer che con il suo avvento riporta l’età dell'oro sul mondo in crisi? L'identificazione tardoantica del puer con Gesù Cristo è solo la più coraggiosa delle tante congetture avanzate. L’egloga si inserisce nelle aspettative di rigenerazione tipiche dell’età di crisi tra Filippi e Azio, ed ha un chiaro parallelo nell’epodo XVI di Orazio. Due sono i filoni culturali che nutrono questa poesia visionaria: le poesie in onore di nozze e di nascite; Virgilio poi ha attinto anche da fonti non poetiche, dove si mescolano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche, aspettative di una salvatore. L'egloga è datata al consolato di Asinio Pollione, 40 a.C. L’ipotesi migliore è che il bambino fosse atteso in quell'anno, ma non sia mai nato. In quell'anno molte speranze seguivano il patto di potere fra Ottaviano e Antonio; Antonio prendeva in moglie la sorella del primo. Il matrimonio durò poco e non vi furono figli maschi. Nella Egloga X Cornelio Gallo è presentato come poeta d'amore, ma si tratta di un componimento bucolico. Tipicamente bucolico è lo scenario dell’Arcadia, così come l'idea che la poesia possa medicare le ferite d'amore avvicinando l'uomo alla 17 unico popolo. La guerra è stata rappresentata da Virgilio come scontro fra Troiani e Latini; coalizzati questi ultimi con numerosi popoli italici: i primi invece con gli Etruschi e con una piccola popolazione greca stanziata nel Lazio. Nessun popolo è radicalmente escluso da una contributo positivo alla genesi di Roma; persino i greci, tradizionali nemici dei Troiani, forniscono un decisivo alleato, l’arcade Pallante; e soprattutto si prestano come la più nobile preistoria di Roma. L’Eneide è perciò un’opera di denso significato storico e politico; non è però un poema storico. Il taglio dei contenuti è dettato da una selezione “drammaturgia” dal materiale, che ricorda più Omero che Ennio. La più nuova e grande qualità dello stile epico virgiliano sta nel conciliare il massimo di libertà con il massimo di ordine. Virgilio ha lavorato sul verso epico, l’esametro, portandolo insieme al massimo di regolarità e al massimo di flessibilità. La ricerca neoterica aveva affermato dure restrizioni nell’usare le cesure, nell'alternanza tra dattili e spondei, nel rapporto tra sintassi e metro. Virgilio plasma il suo esametro come strumento di una narrazione lunga e continua, articolata e varia. La struttura ritmica del verso si basa su un ristretto numero di cesure principali, in configurazioni privilegiate. Si ha così quella regolarità di fondo che è indispensabile allo stile epico. Nello stesso tempo, la combinazione di cesure principali e di cesure accessorie permette una notevole varietà di sequenze. È la frase libera da qualsiasi schiavitù nei confronti del metro. L’allitterazione diviene in Virgilio un uso regolato e motivato: sottolinea momenti patetici, collega fra loro parole chiave, produce effetti di fonosimbolismo, ecc. Le tradizioni del genere epico richiedevano un linguaggio elevato, staccato dalla lingua d’uso. È naturale quindi che l’Eneide sia l'opera virgiliana più ricca di arcaismi e di poetismi. Una forte percentuale del lessico virgiliano consta di termini non poetici. La novità sta nei collegamenti fra le parole: frontem rugis arat “ara la fronte di rughe”; lux aena “luce di bronzo”. Questo tipo di elaborazione del linguaggio quotidiano non ha precedenti nella poesia latina. La sperimentazione sintattica lavora su di un lessico che sa mantenersi semplice e diretto, però rinnovato nei suoi effetti: le parole subiscono un processo di “straniamento” che dà rilievo al loro senso contestuale. Nella narrazione azioni ricorrenti e ripetute si prestano a ripetizioni verbali. Epiteti stabili, “naturali”, accompagnano oggetti e personaggi quasi a fissare il loro posto nel mondo, Virgilio accetta questa tradizione: l’Eneide dà largo spazio a procedimenti “formulari”. La tendenza è conservare questi moduli insieme caricarli di nuova sensibilità. Gli epiteti, ad esempio, tendono a coinvolgere il lettore nella situazione e spesso anche nella psicologia dei personaggi che sono sulla scena. La narrazione suggerisce più di quello che dice esplicitamente. Caratteristica fondamentale dello stile epico di Virgilio è dunque l’aumento di “soggettività”: maggiore iniziativa viene data al lettore (che deve rispondere agli stimoli), ai personaggi (il cui “punto di vista” colora a tratti l'azione narrata), al narratore (che è presente a più livelli nel racconto). La funzione oggettivante è garantita dall'intervento del poeta, che lascia emergere nel testo i singoli punti di vista soggettivi, ma si incarica sempre di ricomporli in un progetto unico. Lo sviluppo della soggettività interessa anche l'ideologia del poema virgiliano. L’Eneide è la storia di una missione voluta dal Fato, che renderà possibile la fondazione di Roma e la sua salvazione per mano di Augusto. Il poeta è garante e portavoce di questo progetto; in questo senso, Virgilio si assume in pieno l’eredità dell’epos storico romano: il suo poema è un'epica nazionale, in cui la collettività deve rispecchiarsi e sentirsi unita. Ma sotto la linea “oggettiva” voluta dal Fato si muovono personaggi in contrasto; la narrazione si adatta a contemplarne le ragioni in conflitto. Per esempio, Cartagine. Per Virgilio la guerra con Cartagine non nasce da una differenza: riportata al tempo delle origini, la guerra è nata da un eccessivo e tragico amore fra simili. Didone è vinta dal destino, ma il testo accoglie in sé le sue ragioni e le tramanda. Il caso di Turno. La guerra che Enea conduce nel Lazio non è vista come un sacrificio necessario. I popoli divisi dalla guerra sono fin dall’inizio sostanzialmente simili e vicini fra loro. La guerra è un tragico errore voluto da forze demoniache: è in sostanza una guerra fratricida. Turno è disarmato e ferito e invoca pietà; Enea lo uccide solo perché, in quell'attimo cruciale, la vista del balteo di Pallante lo travolge in uno slancio d’ira. Così, nell'ultima scena dal racconto, il pio Enea assomiglia al terribile Achille che fa vendetta su Ettore. L’Iliade termina, invece, con un Achille pietoso, che si ritrova uguale a Priamo. I lettori devono insieme apprezzare la necessità fatale della vittoria, e ricordare le ragioni degli sconfitti; guardare il mondo da una prospettiva superiore e partecipare alle sofferenze degli individui; accettare insieme l'oggettività epica, che contempla dall'alto il grande ciclo provvidenziale della storia e la soggettività tragica, disputa di ragioni individuali e di relative verità. 6. Cenni sulla fortuna di Virgilio Virgilio era già in vita un personaggio popolare ma, l’Eneide doveva, per volontà del suo autore, essere distrutta quasi fosse un testo appena abbozzato. Intervenne direttamente Augusto e affidò la cura del manoscritto a Vario, poeta e amico di Virgilio. L’Eneide cominciò a esercitare la sua influenza, ed ebbe in sorte due chiari contrassegni di classicità: l'adozione come libro di scuola, e l'attività dei suoi accaniti detrattori o “fruste”. I detrattori si dedicarono a raccogliere i furta di Virgilio, frasi e concetti “rubati” ai predecessori tanto greci che latini. Con una rapidità senza precedenti Virgilio divenne il classico di Roma. L’emergere a Roma di una cultura cristiana segnò un passaggio decisivo nella fortuna di Virgilio. L’alta considerazione di figure come Girolamo e Agostino è solo la punta di un fenomeno più vasto: lo sforzo di assimilare la letteratura pagana alla nuova cultura trova in Virgilio il suo migliore punto d'attacco. Basta citare l'interpretazione cristiana della IV egloga. È superfluo rilevare la continuità di ispirazione in autori come Dante, Tasso, Milton. Orazio Quinto Orazio Flacco nacque il dicembre del 65 a. C. a Venosa, una colonia romana al confine tra Apulia e Lucania. La sua famiglia era di modeste condizioni, il padre era liberto ma ottenne comunque una istruzione di primo livello, intorno ai vent'anni Orazio si recò in Grecia a perfezionare gli studi. Lì si arruolò nell'armata di Bruto, come tribuno militare. Dopo Filippi poté tornare a Roma grazie ad un'amnistia. Intorno al 38 Virgilio e Vario lo presentarono a Mecenate, che lo ammise nel suo circolo letterario. Muore nell’8 a.C. due mesi dopo Mecenate. 20 Epodi - 17 componimenti. Il nome rimanda alla forma metrica: epodo è il verso più corto che segue a un verso più lungo, formando con esso un distico. Orazio li chiama iambi facendo riferimento al ritmo che prevale negli Epodi, e insieme, alludendo al recupero di quel tono aggressivo tradizionalmente associato alla poesia giambica greca. La raccolta è caratterizzata da una varietà di argomenti: i carmi di invettiva; gli epodi erotici; gli epodi civili; isolati il 13 e il 2. Satire - Un primo libro di 10 componimenti, pubblicato nel 35. Nel 30, insieme agli Epodi, appare il secondo libro di 8 satire. In totale contano più di 2000 versi. Gli argomenti sono vari: l’incontentabilità e l’avarizia umana; una riflessione sulla propria condizione sociale e sui rapporti con Mecenate; una specie di vivacissimo mimo; Fundanio racconta ad Orazio una cena a casa del ricco Nasidieno, che ha pretese di gastronomo (da questa satira trarrà spunto Petronio per la Cena Trimalchionis). Odi (i Carmina) - Una raccolta di tre libri (88 carmi in tutto), Orazio vi aveva lavorato per 7 anni. Alla poesia lirica doveva tornare 6 anni più tardi per comporre, su incarico di Augusto, l'inno per le celebrazioni dei ludi saeculares, in metro saffico. Poi si dedicò ancora alla poesia e vi aggiunse un VI libro di Odi (15). La lirica oraziana sperimenta metri vari. Merita attenzione la disposizione dei componimenti. Le odi di apertura e di chiusura sono indirizzate a personaggi di riguardo e spesso, secondo una tradizione consolidata, trattano questioni di “poetica”. Anche il secondo posto, il penultimo, nonché la posizione centrale, sono sedi privilegiate. A differenza della lirica moderna, le odi di Orazio raramente danno voce a libere meditazioni o introspezioni: quasi sempre hanno un’impostazione dialogica, sono rivolte ad un “tu” che può essere un personaggio reale, immaginario, un dio o la Musa, persino un oggetto inanimato. Epistole - Il primo libro delle Epistole comprende 20 componimenti in esametri: si va dai 16 ai 112 versi, in totale poco più di 1000. Il secondo libro, forse postumo, contiene due lunghe epistole di argomento letterario: la prima, per Augusto, critica l’ammirazione per i poeti arcaici ed esamina lo sviluppo della letteratura romana; la seconda a Giulio Florio, più personale, è una specie di congedo dalla poesia. Fonte principale di Orazio è Orazio stesso, le cui opere sono disseminate di notizie autobiografiche. Alcuni importanti manoscritti orazioni riportano una Vita Horati, dedotta dal De Viris Illustribus di Svetonio. 1. Gli Epodi come poesia dell’eccesso La produzione giambica di Orazio sembra legata alla fase “giovanile” della sua poetica e alle condizioni di vita che caratterizzano il periodo successivo all'esperienza di Filippi. A questa situazione di disagio è quasi naturale collegare asprezze, polemiche, toni carichi, linguaggio poetico violento. Ciò ci consegna un'immagine del poeta molto diversa da quello stereotipo (buon gusto, affabilità, senso della misura, distacco dalle passioni) cui è sempre stata collegata la fortuna di Orazio nella cultura europea. Orazio rivendica il merito di aver trasferito in poesia latina i metri di Archiloco; ma rivendica anche esplicitamente i diritti dell’originalità: afferma di aver mutuato da Archiloco i metri (numeri) e l'ispirazione aggressiva (animi), ma non i contenuti (res). Archiloco dava voce agli odi e ai rancori, alle passioni civili e alla tristezze di un aristocratico greco del VII secolo a.C. Orazio scriveva nella Roma dominata dai triumviri e sarebbe entrato presto nell’entourage di Ottaviano; era figlio di un liberto, era appena uscito da una difficile esperienza politica. L’aggressività di Orazio non può rivolgersi che contro “bersagli minori”: personaggi scoloriti, anonimi o fittizi. Anche per influsso dei Giambi di Callimaco (un altro dei modelli greci per gli Epodi) Orazio, in ogni modo, doveva sentire connaturata a una raccolta giambica l'esigenza della varietà. 2. Le Satire Secondo Quintiliano, satura tota nostra est, egli non riusciva cioè ad indicare autori greci che fossero serviti come punto di riferimento agli autori di questo genere letterario. E anche Orazio, nei componimenti base della sua poesia satirica, indica in Lucilio l’inventore del genere; il che non era affatto scontato. Lasciando pure da parte l'antica satura drammatica, su cui siamo poco informati (forse un'azione scenica rudimentale, accompagnata dal flauto, con mimica e danza), aveva scritto satira Ennio. Anche qui manchiamo di notizie sufficienti: si ritiene in genere che le sue Satire fossero caratterizzate dalla varietà. Ma Orazio non nomina Ennio e Quintiliano lo escluderà dalla linea Lucilio-Orazio-Giovenale. Lucilio era quindi identificato come colui che aveva fissato i tratti costitutivi della poesia satirica. A lui risaliva un elemento fondante: la scelta dell’esametro come forma di metrica della satira; ma soprattutto Lucilio aveva praticato questo genere letterario come strumento dell’aggressione personale, della critica mordace. Orazio sarà consapevole di raccogliere l'eredità del maestro. Orazio stesso non sottovalutava le differenze che lo separavano dall’inventor del genere: egli però sottolineava quelle relative allo stile, criticando in Lucilio la sciatta e abbondante facilità. Al piacere dell'aggressione, Orazio sostituisce l’esigenza di analizzare i vizi mediante l'osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone. Lucilio attaccava con virulenza i cittadini eminenti, avversari di cui condivideva la condizione. Ciò non sarebbe stato possibile al figlio di un liberto: ma per trarre insegnamento dalla condotta dei propri simili, criticandone gli errori, non era necessario scegliere bersagli di elevato livello sociale. Come gli aveva insegnato suo padre, impara da chi gli sta vicino, da quelli che incontra per strada. La morale oraziana ha radici nell'educazione, ma è costruita con elaborati dalle filosofie ellenistiche, che giungono ad Orazio anche attraverso il filtro della diàtriba (la tradizione di letteratura filosofica popolare, illustrata da dialoghi ed aneddoti). Gli obiettivi fondamentali della ricerca di Orazio sono l’autàrkeia (l’autosufficienza interiore) e la metriòtes (la moderazione, il giusto mezzo). Nessuno di questi concetti appartiene ad una setta specifica, ma l'epicureismo è la tradizione filosofica che ha un peso maggiore nella satira di Orazio. L'affinità intellettuale, l'indulgenza, la dedizione, la comunanza di vita, la compattezza nei confronti dell'esterno: tutto risente delle teorie epicuree. La ricerca morale non caratterizza soltanto le satire “diatribiche”, quelle in cui si è sviluppata, alla maniera della diàriba, una discussione (con argomenti, obiezioni, esempi) su uno specifico problema, ma anche quelle in cui il poeta rappresenta una scena, racconta un episodio. In questi casi l’interesse morale non è separabile dalla 21 rappresentazione stessa: è come una lente attraverso cui il poeta osserva gatti e personaggi. Il meccanismo fondamentale del genere satirico nella prima raccolta consisteva nel confronto fra un modello positivo (l’obiettivo della ricerca morale) e tanti modelli negativi (i “tipi” della società romana). Nel libro II, invece, registriamo innanzitutto un regresso della componente rappresentativo autobiografica; nelle satire argomentative risulta poi dominante la forma di dialogo e per di più il ruolo dominante non spetta al poeta, bensì all’interlocutore. La coincidenza tra il poeta e la “voce satirica” (quella che argomenta e confuta) aveva assicurato un punto di riferimento alla ricerca morale del I libro. Ora che il poeta si ritira in secondo piano non c'è più la possibilità di estrarre un senso unitario dalle contraddizioni della società: tutti gli interlocutori sono depositari di una loro verità, anche se non tutte equivalenti. La satira, dice Orazio, non è vera poesia: per essere poeta ci vuole ispirazione divina e una voce capace di trasmettere suoni sublimi. La satira è dunque letteratura più vicina alla prosa, distinta da questa solo per il vincolo del metro. Ma non va preso troppo alla lettera e soprattutto non se ne deve dedurre che lo stile delle Satire sia frutto di facile improvvisazione. Il linguaggio della conversazione colta che egli si propone di riprodurre richiede cure raffinate e pazienti, non meno faticose di più apprezzati livelli della produzione letteraria. Mobilità e varietà sono le caratteristiche prime dello stile delle Satire, che si modella docilmente sui soggetti. 3. Le Odi La lirica oraziana non può essere intesa a prescindere dal rapporto organico con la tradizione greca. Se negli Epodi si dichiarava erede di Archiloco, per la produzione lirica egli rivendica il titolo di Alceo romano (Carmina 1). Ma simili dichiarazioni possono essere fraintese facilmente dal lettore moderno: esse rimandano in realtà a un rapporto di imitatio che significa soprattutto obbedienza alla lex operis e del decorum letterario. L'imitazione, com'è intesa da un poeta latino, è una componente del linguaggio poetico e non un ostacolo all'originalità della creazione. Nel rapporto con Alceo, Orazio è orgoglioso di averne divulgato per primo i modi: perciò egli ha diritto all’apprezzamento che spetta a colui che apre vie sconosciute. Nel richiamarsi ad Alceo, Orazio approfittava dell’auctoritas del suo modello per avvalorare la coniugazione di componenti diverse nel suo mondo lirico: l'attenzione alle vicende della comunità e un canto più legato alla sfera privata. Alceo, come sappiamo dai rinvenimenti papiracei, era stato anche poeta gnomico: a lui è dunque naturale collegare la forte componente moraleggiante della lirica oraziana. Un tratto caratteristico del modo in cui Orazio intende il rapporto con la lirica greca arcaica, e con Alceo, è la ripresa evidente: poi però il poeta procede in maniera sua propria e il modello viene quasi dimenticato. Ma i versi di Alceo erano espressione degli amori e degli odi di un aristocratico, impegnato in prima persona nelle aspre lotte politiche della sua città. In Orazio invece l'interesse per la res publica è vivace, ma è quello di un intellettuale che dopo un effimero coinvolgimento nelle tempeste civili, vive al riparo dei potenti signori di Roma. Per Orazio la poesia come ristoro dall’impegno, come pausa in mezzo alle battaglie, era poco più che un'immagine letteraria. Un ruolo notevole è svolto anche dalla lirica corale, e in particolar modo da Pindaro. La ricerca oraziana del sublime, soprattutto nella poesia di argomento civile, sembra nutrirsi di suggestioni provenienti da Pindaro: periodi ampi, di andamento impetuoso, solenne gravità della gnome (la sentenza breve e concettosa di valore morale). Il richiamarsi di Orazio alla lirica greca arcaica aveva indubbiamente le caratteristiche di una precisa scelta programmatica ed esprimeva la volontà consapevole di distinguersi dall’alessandrino dei neoterici. Ciò non significa naturalmente che Orazio non sia poeta “moderno” e che la sua lirica prescinda dall’esperienza ellenistica. Da qui viene un vasto repertorio di temi, immagini, situazioni. Ma neanche la poesia alessandrina è pura suggestione letteraria: essa è la “forma” della vita quotidiana di Roma metropoli ellenizzata: una mondanità fatta di amori, feste, danze, poesia. È consolidata l'idea di Orazio poeta dell’equilibrio sereno, del distacco dalle passioni, della moderazione; ci fa intuire il ruolo centrale che nella lirica oraziana è svolto dalla meditazione e dalla cultura filosofica. A nozioni elementari Orazio ha saputo dare una formulazione tanto nitida e incisiva da consegnarle all’eredità europea, che spesso ha attinto alla sua poesia come a un tesoro di massime. Il punto centrale è la coscienza dalla brevità della vita, che comporta la necessità di appropriarsi delle gioie del momento, senza perdersi nell’inutile gioco delle speranze, dei progetti o delle paure. La più famosa è l’esortazione a Leocone (1,11.6 segg.): …Dum loquimur fugerit invida / aetas : carpe diem, quam minum credula postero. (“… Mentre parliamo sarà già fuggita la vita invidiosa: cogli il giorno, e non credere al domani.”). Il carpe diem non va frainteso come un banale invito al godimento: l’invito al piacere non è separato dalla consapevolezza acuta che quel piacere stesso è caduco, come caduca la vita dell'uomo. Questa meditazione può talvolta tradursi in un canto della propria serenità: la felicità dell’autàrkeia, la condizione del poeta-saggio, libero dai tormenti della follia umana, benedetto dalla benedizione degli dei. E tuttavia saggezza, equilibrio, l’aurea mediocritas di chi sa fuggire tutti gli eccessi e adattarsi a tutte le fortune non sono un possesso sicuro, acquisto una volta per sempre. Orazio non ignora la forza attraente delle passioni, conosce le debolezze dell'animo. La saggezza si scontra con i dati immutabili della condizione umana: la fugacità del tempo, la vecchiaia, la morte; nessuna saggezza ha la capacità di annullare tanto peso negativo. L'altro polo della lirica oraziana, la poesia impegnata sui temi civili e nazionali, risulta per molti versi lontano dai temi “privati”; pur se in Orazio tutta la sfera privata aspira sempre a una validità generale, ad esprimere la condizione complessiva dell’uomo. Orazio ha saputo innestare spunti nazionali, suggestioni provenienti dall'epica e dalla storiografia. La lirica civile conosce la celebrazione, l’encomio, l'ufficialità, ma non può essere liquidata come propaganda. Anzitutto perché sa approfittare dell’ampiezza e della flessibilità di quella stessa ideologia per evitare chiusure dogmatiche ed esaltare il sublime della magnanimità. Dell'ideologia augustea, la lirica civile oraziana condivide, l’impostazione moralistica: la crisi era derivata dalla decadenza dei costumi, dall’abbandono di quel coerente sistema di antichi valori etico politici e religiosi che aveva fatto la grandezza di Roma. Questa poesia moralistica può incontrare a tratti la ricerca morale “oraziana”: critica del lusso, di 22 in Aquitania che valse Messalla l'onore del trionfo, celebrato nell’elegia 17 dal poeta. Sotto il nome di Tibullo l'antichità ci ha trasmesso una raccolta eterogenea di elegie – il cosiddetto Corpus Tibullianum – in 3 libri, di cui solo i primi due sono attribuiti al poeta. Il I libro è dominato dalla figura di Delia alla quale sono dedicate 5 elegie: ci descrivono una donna volubile, capricciosa, amante del lusso e dei piaceri mondani, e una relazione tormentata, sempre insediata dai rischi del tradimento. Alle elegie per Delia si alternano quelle per un giovinetto, Màrato, dal tono meno sofferto. Completa il libro l'ultima elegia che celebra la pace e la vita agreste. 3 delle 6 elegie del II libro, forse incompiuto, sono invece dedicate alla donna che ne è nuova protagonista, Nèmesi (“Vendetta”, cioè colei che ha scalzato Delia dal cuore del poeta), una figura dai tratti più aspri, una cortigiana avida e spregiudicata. Tibullo è comunemente noto come poeta dei campi, della serena vita agreste. Eppure non manca lo scenario abituale della poesia elegiaca, la vita cittadina, sfondo degli amori e degli intrighi, degli incontri furtivi e dei tradimenti. Una tendenza, una spinta tipica della poesia elegiaca, è quella di costruirsi un modo ideale, uno spazio di evasione, di rifugio dalle amarezze di un’esistenza tormentata. Questa lacerante tensione trova il suo sfogo nel mondo del mito, dove il poeta proietta la propria esperienza, assimilandola ai grandi paradigmi eroici. In Tibullo il mondo del mito è assente, la sua funzione è svolta dal mondo agreste. È forte in lui questo bisogno del rifugio, di uno spazio intimo e tranquillo, in cui proteggere e coltivare gli affetti dalle insidie e dalle tempeste della vita. Dietro i tratti di idillio bucolico, la campagna di Tibullo rivela il suo carattere italico, col patrimonio di antichi valori celebrati dall’ideologia arcaizzante del principato: in ciò, nell’atteggiamento antimodernista, Tibullo rappresenta forse il caso più vistoso di quella contraddizione che la poesia elegiaca, dichiaratamente anticonformista e ribelle, cova in se stessa. Le nostre conoscenze della poesia alessandrina sono oggi tali che ci consentono di ritrovare nell'opera di Tibullo molti dei tratti distintivi della poesia ellenistica; e nonostante che in lui manchino tracce dell’erudizione sottile esibita dagli Alessandrini e sia quasi assente l’evocazione di miti preziosi che decorano la composizione, senza anche a Tibullo compete l’etichetta di poeta doctus. Il suo stile rivela in ogni punto, e con regolarità, lo sforzo di una scrittura attentissima, dove la semplicità è il risultato di una scelta artistica. “Terso ed elegante” lo definisce Quintiliano. La sua fortuna fu superiore a quella di chi (probabilmente Properzio) appare al lettore odierno più meritevole e pregnante. Il dibattito fu precoce, l'inizio di una storia della critica: si intravede il partito “classico” pronto ad ammirare l'equilibrio di Tibullo, e quello opposto, sensibile alla costruzione ruvida improvvisa ma infallibile di Properzio. Episodio significativo di tale fortuna, il Goethe delle Elegie romane. Il Corpus Tibullianum I due codici più importanti di Tibullo ci hanno trasmesso un raccolta di componimenti poetici di cui solo una parte sono da attribuire al poeta: il cosiddetto Corpus Tibullianum, diviso in 3 libri nei codici, ma il III libro fu diviso dagli umanisti in due, quindi oggi si parla di quattro libri. I primi 6 componimenti del III libro del Corpus sono opera di un poeta che si denomina Lỳgdamo. Si era creduto che fosse Tibullo stesso. Fu il dotto tedesco Voss a rendersi conto che Lỳgdamo fissa il suo anno di nascita con questo verso: cum cecidit fato consul uterque pari (III 5,18), lo usa allo stesso scopo anche Ovidio (Tristia IV 10,6); quando nella battaglia di Modena morirono ambedue i consoli (43 a. C.). Ma chi è allora questo poeta? L’ipotesi più ovvia è che Lỳgdamo sia il giovane Ovidio, ma si scontra con ragioni di tipo soprattutto linguistico-stilistico. Probabilmente sarà un poeta della cerchi di Messalla. Alle 6 elegie di Lỳgadmo fanno seguito un lungo carme in esametri, il Panegyricus Messallae. Il mediocre componimento costituisce un elogio dell'uomo politico. L’autore ignoto sarà stato un altro poeta del suo circolo. Ma indipendentemente dall’identità degli autori, l’intero Corpus Tibullianum è innanzitutto documento prezioso di quell'importante ambiente culturale e letterario che fu il circolo di Messalla. Ovidio Publio Ovidio Nasone nasce a Sulmona, nel 43 a.C., frequenta a Roma le migliori scuole di retorica, completa gli studi in Grecia. Entra nel circolo letterario di Messala Corvino e stringe i rapporti con i maggiori poeti di Roma. All’apice del successo lo coglie, nell’8 a.C., l’improvviso provvedimento punitivo di Augusto che relega il poeta nel mar Nero, a Tomi. Le cause: dietro l’accusa ufficiale di immoralità, si voleva colpire un suo coinvolgimento nello scandalo dell’adulterio di Giulia Minore, nipote di Augusto, con Silano. Muore nel 17 d C. Gli Amores, del 20 a.C., comprendono 49 elegie: il metro è quello tipico del genere, cioè il distico elegiaco. Al 15 a.C. risale la composizione delle Heroides, almeno la I serie di epistole: quasi 4.000 versi, il metro è il distico elegiaco. Tra l’1 a.C. e l’1 d.C. si colloca la pubblicazione dell’Ars amatoria e dei Remedia amoris: per ambedue il metro è il distico elegiaco. Tra il 2 e l’8 risale la composizione delle Metamorfosi, poema epico in 15 libri, per un totale di 12.000 esametri. Delle “opere dell’esilio”, tutte in distici elegiaci, i Tristia comprendono 5 libri. 1. Una poesia “moderna” Nell’accostarsi ad Ovidio si resta colpiti dalla vastità della sua produzione e dalla varietà dei generi poetici trattati. È un indizio di un diverso atteggiamento di fronte a scelte letterarie che riflettono anche scelte esistenziali. L'adesione a un genere come l'elegia erotica non significa per Ovidio una scelta di vita assoluta, incentrata sull'amore; non vuole delimitare un orizzonte poetico. Il tratto più significativo della sua poesia, soprattutto giovanile, è l’accettazione convinta, entusiastica, delle nuove forme di vita nella Roma dei suoi tempi. Ultimo dei grandi poeti Augustei, Ovidio resta sostanzialmente estraneo alla sanguinosa stagione delle guerre civili: quando entra nella scena letteraria quello spettro è ormai lontano, la pace consolidata e cresce l'aspirazione a forme di vita più rilassate, agli agi e alle raffinatezze del mondo orientale. Di queste aspirazioni Ovidio si fa interprete ed elabora un tipo di poesia che corrisponde in maniera sensibile al gusto, allo stile di vita dominato dal cultus. Ciò avviene non solo sul piano dei contenuti ma anche su quello formale. La concezione che Ovidio ripetutamente manifesta si caratterizza come essenzialmente antimimetica, antinaturalistica, innovatrice, alla linea aristotelico oraziana (la poesia 25 ovidiana si dice autonoma dalla realtà e dichiara piuttosto la sua natura letteraria, allude ai suoi modelli). Il compiaciuto estetismo, la scettica eleganza di questa poesia sono anche l'espressione di un gusto che fa della letteratura un ornamento della vita. 2. Gli Amores L'esordio poetico di Ovidio è costituito da una raccolta di elegie di soggetto amoroso, gli Amores, che mostra ancora ben visibili le tracce dei grandi modelli e maestri dell’elegia erotica, Tibullo e Properzio. Dà voce, in prima persona, ai temi tradizionali del genere elegiaco: soprattutto avventure d'amore, incontri fugaci, serenate notturne baruffe con l'amata, scenate di gelosia, ma già si avvertono i tratti nuovi nell'elegia ovidiana. Anzitutto manca una figura femminile attorno a cui si raccolgono le varie esperienze amorose, che costituisca il centro unificante dell’opera e della vita del poeta: Corinna, la donna evocata qua e là da Ovidio, è una figura tenue, dalla presenza intermittente e limitata; il poeta stesso dichiara a più riprese di non sapersi accontentare di un unico amore, di preferire due donne o addirittura di qualunque donna. Anche il pathos che aveva caratterizzato le voci della grande poesia d'amore latina con Ovidio si stempera e si banalizza: diventa poco più di un lusus, e l’esperienza dell’eros è analizzata dal poeta con il filtro dell'ironia e del distacco intellettuale. Acquista anche peso, rispetto alla poesia elegiaca precedente, la coscienza letteraria del poeta, che si manifesta nell’insistenza sulla poesia come strumento di immortalità e come autonoma creazione, svincolata dall'obbligo di rispecchiare il reale. 3. La poesia erotico-didascalica Il progetto di scrivere un’opera come l’Ars amatoria (e i suoi corollari) in cui impartire una precettistica sull’amore, sembra l’esito naturale, e insieme estremo, della concezione dell’eros delineata negli Amores. Un aggancio importante fra le due opere è costituito dall’elegia I,8 degli Amores, dove il poeta rielabora un motivo già tradizionale nella poesia elegiaca, quello della vecchia lena, l’astuta ed esperta mezzana che impartisce consigli di seduzione a una giovane donna. Quella figura tanto deprecata dalla tradizione elegiaca appare sotto una luce sostanzialmente positiva; la lena è progenitrice del poeta didascalico, del maestro d’amore, perché analoga è la concezione dell'eros che le due opere presuppongono. La relazione d’amore, perduto agli occhi di Ovidio il suo carattere di passione devastante, costituisce ormai un gioco intellettuale, divertimento galante, soggetto ad un corpus di regole sue proprie, a un codice estetico che è ricavabile dall’elegia erotica latina. L’Ars amatoria è un'opera in 3 libri, in metro elegiaco, che impartisce consigli sui modi di conquistare le donne (I), ed conservarne l’amore (II); il III libro, aggiunto più tardi per risarcire scherzosamente le donne dal danno procurato coi primi due, fornisce viceversa insegnamenti su come sedurre gli uomini. La figura del perfetto amante delineata da Ovidio si caratterizza ovviamente per i suoi tratti di disinvolta spregiudicatezza, di insofferenza e impertinente aggressività nei confronti della morale tradizionale. In realtà il carattere libertino e spregiudicato dell'Ars non ne costituisce più che la sua veste scintillante: l'eros ovidiano perde ogni impegno etico, ogni velleità di ribellione contro la morale dominante. L’elegia ovidiana coltiva piuttosto ambizioni di segno contrario: nel negare l’impegno totalizzante della precedente poesia d'amore, nel neutralizzarne le spinte aggressive, Ovidio cerca una riconciliazione della poesia elegiaca con la società, e suo modo cerca di sciogliere, una contraddizione dell’elegia, che nel suo orgoglioso contrapporsi al sistema tradizionale dei valori sociali e culturali non aveva saputo elaborare modelli etici alternativi. A questo atteggiamento contraddittorio e arcaizzante della poesia elegiaca, Ovidio contrappone i valori della modernità, un’accettazione entusiastica dello stile di vita della scintillante Roma augustea. All’esalazione del cultus, degli agi e delle raffinatezze, risponde anche il poemetto Medicamina faciei femineae, che si oppone al tradizionale rifiuto della cosmesi e illustra la tecnica di preparazione di alcune ricette di bellezza. Il ciclo didascalico è concluso dai Remedia amoris, l'opera che insegna come liberarsi dall’amore. 4. Le Heroides Se l’eros è il tema unificante della produzione giovanile ovidiana, l’altra grande fonte della sua poesia è il mito; l'opera che più di esso si alimenta sono le Heroides. Con questo titolo si designa una raccolta di lettere poetiche. La prima serie è scritta da donne famose, eroine del mito greco ai loro amanti o mariti lontani: Penelope a Ulisse, Fedra a Ippolito, Arianna a Teseo, Medea a Giasone, ecc. La seconda è costituita dalle lettere di tre innamorati accompagnate dalla risposta delle rispettive donne: tra cui Paride ad Elena. Dell'originalità di quest'opera, con cui crea un nuovo genere letterario, Ovidio si dice orgoglioso. Se personaggi e situazione appartengono al grande patrimonio del mito, molti elementi sono mutuati dalla tradizione elegiaca latina, dove sono ricorrenti motivi come la sofferenza per la lontananza della persona amata, recriminazioni, lamenti, suppliche, sospetti di infedeltà. Tra le epistole che risentono di più del modello elegiaco, c’è quella di Fedra e Ippolito, in cui l’eroina euripidea perde i suoi tratti di nobile dignità tragica per assimilarsi a una dama spregiudicata della società galante, tesa a sedurre il figliastro con le lusinghe di un facile furtivs amor. Nelle Heroides il modello elegiaco fa da filtro attraverso cui passano i materiali narrativi dell’epos, della tragedia, del mito. È un'ottica ristretta, convenzionale, che porta le eroine ovidiane ad imporre tagli “elegiaci” sul materiale narrativo dell’epos, della tragedia, del mito; è un processo di deformazione, di sistematica reinterpretazione, di riscrittura coerente. Così, nella epistola 7, Didone seleziona nel modello virgiliano gli elementi funzionali alla sua interpretazione persuasiva; così si spiega l'insistenza su un'ipotesi come quella della gravidanza, che rovescia la formulazione nell’Eneide, dove si trattava di una speranza delusa. Ovidio introduce il lettore in un universo letterario nuovo, né epico o mitico né elegiaco, ma fondato sulla compresenza di codici e valori, sulla loro interazione. Certo la scelta della forma epistolare imponeva vincoli precisi al poeta, soprattutto la I serie, che si configurano come monologhi costruiti prevalentemente su una situazione-modello, il “lamento della donna abbandonata”. La struttura della lettera non permetteva molte variazioni: data per nota al lettore colto la situazione di partenza, l’andamento fonologico è solo interrotto qua e là da qualche flash-back. C’è ancora un aspetto da sottolineare. Le Heroides sono poesia del lamento, sono l'espressione della condizione infelice della donna, lasciata sola o abbandonata dallo sposo-amante lontano. Ma se a causare la sofferenza è per lo più questo ritrovarsi abbandonate dall’amato, non mancano altre cause di infelicità per le figure femminili delle: le eroine soffrono in 26 quanto donne. Nelle Heroides il genere elegiaco sembra così tornare alla proprie origini di poesia del dolore e del lamento. Nell'operazione di “riscrittura” messa in atto, Ovidio rielabora i testi della tradizione spostando la prospettiva, dando voce alla donna e alle sue ragioni. Nell'approfondimento della psicologia femminile (forte l'influsso del modello euripideo) è uno degli aspetti più notevoli delle Heroides. 5. Le Metamorfosi Dopo Virgilio, che con l’Eneide aveva realizzato il progetto di un poema epico di tipo omerico, di un epos nazionale, Ovidio segue un’altra direzione. La veste formale sarà quella dell’epos (l’esametro sarà il marchio distintivo), e così le grandi dimensioni (15 libri), ma il modello è quello di un “poema collettivo”, che raggruppi una serie di storie indipendenti accomunate da uno stesso tema. Al tempo stesso però, Ovidio rivela anche l'intenzione di comporre un poema epico, che la poetica callimachea aveva notoriamente messo al bando. Ne dà conferma lo stesso impianto cronologico del poema, illimitato (dalle origini del mondo ai giorni di Ovidio). Ciò riavvicinava il poeta agli orientamenti del principato e di rispondere, anzi, alle esigenze nazionali ed augustee. Le circa 250 vicende mitico-storiche narrate nel corso del poema sono ordinate secondo un filo cronologico che subito dopo gli inizi si attenua fino a rendersi quasi impercettibile per lasciar spazio ad altri criteri di associazione. Le varie storie possono essere collegate per contiguità geografica, o per analogie tematiche, o per contrasto, o semplice rapporto genealogico fra i personaggi, o per analogia di metamorfosi, e così via. Dopo il brevissimo proemio inizia la narrazione della nascita del mondo dall’informe caos originario e della creazione dell’uomo: il diluvio universale e rigenerazione del genere umano grazie a Deucalione e Pirra segnano il passaggio dal tempo primordiale al tempo del mito, degli dei e semidei, delle loro passioni e dei loro capricci. Fino ai personaggi della guerra troiana che ci introducono nella storia per arrivare fino all'età di Augusto. Alla fluidità della struttura corrisponde la varietà dei contenuti. Molto variabili sono già le dimensioni delle storie narrate, oscillanti dal semplice cenno allusivo, allo spazio di qualche centinaio di versi, che fa di molti episodi dei veri e propri epilli. Ovidio non tende all'unità e all'omogeneità dei contenuti e delle forme, quanto piuttosto alla loro calcolata varietà; tende soprattutto alla continuità della narrazione, al suo armonioso fluire e dipanarsi. La tecnica di narrazione. Non solo l'ordinamento cronologico è piuttosto vago, ma viene continuamente perturbato dalle ricorrenti inserzioni narrative proiettate nel passato. Ovidio, il narratore principale, fa frequente ricorso alla tecnica, già alessandrina, del racconto a incastro, che gli permette di evitare la pura successione elencativa delle varie vicende incastonandone una o più all'interno di un’altra usata come cornice. La metamorfosi era un tema presente già in Omero, ma caro alla letteratura ellenistica, della quale soddisfava anche un gusto caratteristico, quello dell’eziologia, della dotta ricerca delle cause (la metamorfosi descrive l’origine delle cose e degli esseri attuali da una loro forma anteriore). Nel poema ovidiano la metamorfosi è il tema unificante fra le tante storie narrate: il poeta cerca anche di dare retrospettivamente dignità filosofica alla sua opera mediante il lungo discorso di Pitagora che indica nel mutamento la legge dell’universo. In realtà l'argomento centrale dell'opera è rappresentato dall’amore, ma ambientato nell'universo del mito nel mondo degli dei e dei grandi eroi. Alla dimensione mitica non corrisponde però un ethos idealizzante, una grandezza di valori. Il mito non ha per Ovidio la valenza religiosa, la profondità che ha in Virgilio: accentua una tendenza insita nella cultura ellenistica e fa del mito un ornamento della vita quotidiana. Il mondo del mito, per Ovidio, è innanzitutto il mondo delle finzioni poetiche: le Metamorfosi costituirà una sorta di grandiosa enciclopedia del mito per i millenni futuri, la summa di uno sterminato patrimonio letterario. I personaggi agiscono seguendo ognuno un proprio punto di vista, convinti tutti di padroneggiare la realtà: il poeta, solo depositario del “punto di vista vero”, analizza questa moltiplicazione delle prospettive. Rifiutando l’impersonale oggettività del poeta epico, il narratore delle Metamorfosi interviene spesso per commentare il corso degli eventi. Al carattere spettacolare di questo universo, corrisponde anche una tecnica narrativa che privilegia i momenti salienti di quegli eventi, ne isola singole scene, sottraendole alla loro dinamica drammatica. Nella sua natura eminentemente visiva, nella sua immediata evidenza plastica (qualità che contribuisce a spiegare l’immensa fortuna di modello delle arti plastiche), questa poesia amante della spettacolarità spesso nelle sue forme più orride, anticipa caratteri importanti del gusto letterario del nuovo secolo, del “manierismo imperiale”. 6. I Fasti I Fasti sono l'opera ovidiana meno lontana dalle tendenze culturali, morali, religiose del regime augusteo. Sulle orme dell'ultimo Properzio, delle sue “elegie romane”, anche Ovidio si impegna sul terreno della poesia civile: il progetto è quello di illustrare gli antichi miti e costumi latini, seguendo la traccia del calendario romano. L’opera deve molto soprattutto al modello degli Aitia callimachei, sia nella tecnica compositiva che nel carattere eziologico, di ricerca delle origini della realtà attuale dal mondo del mito. Ovidio si impegna in accurate ricerche di svariate fonti antiquarie. Sullo sfondo di carattere antiquario (che fa dei Fasti un documento di eccezionale importanza sulla cultura arcaica romana), egli inserisce materiale mitico di origine greca o di carattere aneddotico, con riferimenti alle vicende e alla realtà contemporanea. Ciò permette di sottrarsi ai condizionamenti di un arido “calendario in versi”, e soddisfare il suo gusto per il pathos delicato, o di far spazio all’elemento erotico. Questa interpretazione alleggerirebbe il poema da qualsiasi responsabilità verso l’ideologia augustea: Ovidio pagherebbe “stancamente il suo debito facendo il proprio dovere di civis Romanus”. È un'interpretazione che si sposa con l'interesse moderno per i Fasti come “fonte” di preziose informazioni antropologiche. Ma l'uso che Ovidio fa dello schema eziologico risulta essere assai più malizioso di quanto si era pensato: il poeta gioca con il suo compito di antiquario. Non è detto che la malizia si fermi al confine dell'ideologia augustea; nessuno può dimenticare quale parte abbia la ricostruzione del passato nel progetto ideologico di Augusto. Così, quando Ovidio decostruisce e mette in dubbio il rapporto tra passato e presente, il gioco minaccia di farsi serio. È la Romanità espressa del calendario che viene insidiata e decentrata. La vera lacuna del poema, dal punto di vista del principe, non è che Ovidio non riesca a prendere sul serio Augusto, ma che non riesca a prender sul serio Romolo. 7. Le opere dell’esilio L'improvviso allontanamento da Roma segna una brusca frattura nella carriera poetica di 27 psicologiche. Altre opere filosofiche tramandateci autonomamente, sono i 7 libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone e 20 libri comprendenti le 124 Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere propriamente scientifico la Naturales Quaestiones, in 7 libri. Abbiamo 9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco e il Ludus de morte Claudii (o Apokolokyntosis), una satira menippea sulla singolare apoteosi dell'imperatore Claudio. Molte notizie su Seneca le abbiamo da Seneca stesso; importanti i libri XII-XV degli Annales di Tacito; Cassio Dione; Svetonio. 1. I Dialogi e la saggezza stoica Consolatio ad Marciam indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Sordo per consolarla della perdita del figlio. Il genere della consolazione, già coltivato nella tradizione filosofica greca, si costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile) che saranno parte della riflessione filosofica di Seneca. Le singole opere dei Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari dell'etica stoica, il quadro generale in cui l'intera produzione filosofica senecana si iscrive (uno stoicismo che ha stemperato l'antico rigore dottrinale). Il De vita beata affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il problema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse di incoerenza tra i principi professati e la condotta di vita che lo aveva portato ad accumulare un patrimonio sterminato. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam paupertate damnavit, 23); Seneca resta generalmente estraneo al fascino del modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: che aspira alla sapientia dovrà saper “sopportare” gli agi e il benessere che le circostanze delle vita gli hanno procurato, senza lasciarsene invischiare. La “trilogia” dedicata all'amico Sereno, che abbandona le sue convinzioni epicuree per accostarsi all'etica stoica, è composta da: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi. Il primo esalta le qualità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza. Il terzo affronta il tema della partecipazione del saggio alla vita politica: Seneca cerca una mediazione fra i due estremi dell’otium contemplativo e dell’impegno proprio del civis romano. La scelta di una vita appartata è invece chiara nel De otio: una scelta forzata, resa necessaria dalla situazione politica difficile. Nel De providentia affronta il problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale, che secondo la dottrina stoica presiede alle vicende umane (in polemica con la tesi epicurea dell’indifferenza divina), e la sconcertante constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti. La risposta di Seneca è che le avversità che colpiscono chi non li merita non contraddicono tale disegno provvidenziale, ma attestano la volontà divina di mettere alla prova gli onesti. 2. Filosofia e potere I 7 libri De beneficiis: vi si tratta della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, del legame benefattore-beneficato. L’opera che analizza il beneficio come elemento coesivo dei rapporti sociali, sembra trasferire sul piano morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde utopica. L’appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai dovere di filantropia e di liberalità, è nell'intento di instaurare rapporti sociali più umani. L’opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la sua concezione del potere è il De clementia, dedicato al giovane imperatore Nerone. Non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l'ideale di un universo cosmopolita; vincolo e simbolo unificante dell’impero. Il problema, piuttosto, è quello di avere un sovrano assoluto, privo di forme di controllo esterno, l'unico freno sul sovrano sarà la sua stessa coscienza. La clemenza è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti coi sudditi: con essa potrà ottenere il consenso. È evidente in questa concezione l’importanza che acquista l'educazione del princeps e, più in generale, la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello stato. 3. La pratica quotidiana della filosofia: le Epistole a Lucilio L’opera principale della sua produzione tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae ad Lucilium, una raccolta di lettere di vario argomento. Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua a discutere. L’opera ci è giunta incompleta; costituisce, comunque, un unicum nel panorama letterario e filosofico antico. Lo spunto a comporre lettere a carattere filosofico sarà venuto da Platone, e soprattutto Epicuro; egli mostra piena consapevolezza di introdurre un genere nuovo, distinto dalla comune pratica epistolare. Il modello è appunto Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo perfettamente realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio. Le sue lettere vogliono essere uno strumento di crescita morale. Riprendendo un topos comune nella epistolografia antica, Seneca insiste sul fatto che lo scambio di lettere permette di istituire un colloquium con l’amico, di creare con lui un’intimità quotidiana. Più degli altri generi di letteratura filosofica, la lettera, vicina alla realtà della vita vissuta, si presta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia. Non meno importante dell'aspetto teorico è nella lettera quello parenetico: essa tende non solo e non tanto a dimostrare una verità quanto ad esortare, ad invitare al bene. Oltre a essere funzionale a una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella senecana, priva di sistematicità e inclina a trattare aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alla tematiche della tradizione diatribica: vertono sulle norme cui saggio informa la sua vita, sulla sua autàrkeyas, sul suo disprezzo per le opinioni correnti. La considerazione della condizione umana che accomuna tutti i viventi ha fatto pensare al sentimento di carità cristiana: in realtà l'etica senecana resta profondamente aristocratica, e il sapiens stoico che esprime la sua simpatia per gli schiavi maltrattati manifesta apertamente anche il suo irrevocabile disprezzo per le masse popolari abbruttite dagli spettacoli del circo. La conquista della libertà interiore (resasi necessaria la rinuncia alle rivendicazioni sul terreno politico) è l’estremo obiettivo che il saggio stoico si pone. 4. Lo stile “drammatico” La prosa filosofica senecana è divenuta quasi l'emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell'effetto e dell'espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la 30 compatta architettura classica del periodo ciceroniano e da vita ad un genere eminentemente paratattico, che frantuma l'impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi aguzze e sentenziose, il cui collegamento è affidato all’antitesi e alla ripetizione. Questa prosa affonda le sue radici nella retorica asiana e nella predicazione dei filosofi cinici. Uno stile aguzzo e penetrante che riflette emblematicamente le spinte che animano la filosofia senecana, tesa fra la ricerca della libertà dell'io e la liberazione dell’umanità. 5. Le tragedie Un posto importante nella produzione letteraria di Seneca è occupato dalle tragedie: sono 9 quelle ritenute autentiche, tutte di soggetto mitologico greco. L’Hercules furens, costruita sul modello dell’Eracle di Euripide, tratta il tema della follia di Ercole provocata da Giunone, che induce l'eroe a uccidere moglie e figli; le Phoenisse, improntata sulla Fenice di Euripide e sull’Edipo a Colono di Sofocle, che ruota attorno al destino di Edipo e all'odio che divide i suoi figli. Poi Medea, che si rifà ancora a Euripide, ecc. Sono le sole tragedie latine a noi pervenute in forma non frammentaria. Sono importanti anche come documento della ripresa del teatro latino greco. In età giulio-claudia e nella prima età flavia l'elite intellettuale senatoria sembra ricorrere al teatro tragico come alla forma letteraria più idonea ad esprimere la propria opposizione al regime (nella tragedia latina era sempre stata forte l’ispirazione repubblicana e l'esecuzione della tirannide). La scarsità di notizie esterne non ci permette di saper nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione. Ciò che sappiamo sulla destinazione della letteratura tragica in età anteriore a Seneca – e cioè che si continuava sì a rappresentare normalmente in scena le tragedie, ma che ci si poteva anche limitare a leggerle nelle sale di recitazione – ha indotto studiosi a ritenere che quelle di Seneca fossero tragedie destinate soprattutto alla lettura. Le varie vicende tragiche si configurano come conflitti di forze contrastanti, come opposizione tra mens e furor, fra ragione e passione: la ripresa di temi e motivi rilevanti delle opere filosofiche rende evidente una consonanza di fondo fra i due settori della produzione senecana, e ha alimentato la convinzione che il teatro senecano non sia che una illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica. L'analogia non va troppo accentuata, perché nell’universo tragico, il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male. Un rilievo particolare ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere. L’atteggiamento che tiene nei confronti dei modelli greci denota maggiore autonomia, e al tempo stesso presuppone un rapporto continuo col modello, sul quale l'autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione dell’impianto drammatico. Il rapporto con gli originali è mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina; il linguaggio poetico ha la sua base costitutiva nella poesia augustea. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulo espressivo, ecc. Spesso l'esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l'introduzione di lunghe digressioni (ekphràseis), esorbitanti rispetto alla consuetudine epica e soprattutto tragica. 6. L’Apokolokyntosis Un'opera davvero singolare è il Ludus de morte Claudii; ma il nome sotto cui l'opera è comunemente nota è Apokolokyntosis, che ci fornisce Cassio Dione. Parola che implicherebbe un riferimento a kolkynta, cioè la zucca, forse un emblema della stupidità e, secondo Dione, sarebbe una parodia della divinizzazione di Claudio decretata dal senato alla sua morte. Nel testo non c’è accenno a una zucca e l'apoteosi di fatto non ha avuto luogo; ma il curioso termine va inteso come “deificazione di una zucca, di uno zuccone”, con riferimento alla fama non proprio lusinghiera di cui Claudio godeva. Altri dubbi sono stati suscitati dal fatto che, a quanto sappiamo da Tacito, lo stesso Seneca aveva scritto la laudatio funebris dell'imperatore morto. Il componimento narra la morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali lo condannano invece a discendere, come tutti i mortali, negli inferi, dove egli finisce schiavo del nipote Caligola e da ultimo in mano al liberto Menandro: una condanna di contrappasso per chi aveva fama di aver vissuto in mano dei suoi potenti liberti. L’opera rientra nel genere della satira menippea, e alterna perciò prosa e versi di vario tipo in un singolare impasto linguistico. In un passo in senari giambici si può addirittura riconoscere una autoparodia di Seneca tragico, con allusioni al Hercules furens. 7. Gli epigrammi Gli epigrammi sotto il nome di Seneca sono anonimi, forse solo tre attribuibili a lui. 8. La fortuna La fortuna di Seneca, dall'antichità all'età moderna, è imponente. Guadagnò presso i Cristiani quel prestigio altissimo che durò per tutto il medioevo e oltre. Più tarda la fortuna delle tragedie che influenzarono profondamente il teatro elisabettiano, soprattutto Shakespeare. Ma la loro azione fu rilevante anche sul teatro classico francese; in Italia, Alfieri, nella sua violenta polemica antitirannica, ne mutuò la vibrante tensione. Persio Aulo Persio Flacco nacque a Volterra, da ricca famiglia equestre, nel 34. A Roma, il maestro che segnò un'impronta decisiva nella sua vita fu il filosofo stoico Anneo Cornuto, il quale lo introdusse negli ambienti dell'opposizione senatoria al regime. La conversione alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata, nel culto degli studi e della famiglia: una vita breve, perché Persio morì nel 62. Della sua non copiosa produzione non pubblicò nulla in vita. L'edizione, curata da un suo amico, del libro delle Satire fu accolta da immediato successo. Le Satire Sono 6 componimenti satirici in esametri dattilici, il metro ormai tradizionale di questo genere letterario. La I illustra i vezzi deplorevoli della poesia contemporanea; la II attacca la religiosità formale e ipocrita di chi non conosce onestà di sentimenti; la III è indirizzata ad un “giovin signore” che conduce una vita ignava e dissipata; la IV illustra la necessità di praticare la norma del nosce te ipsum; la V, secondo dottrina stoica, contrappone ai vizi degli uomini la libertà del saggio; la VI in forma epistolare, deplora il vizio dell’avarizia. Il suo spirito polemico, e l’entusiastica aspirazione alla verità, trovavano nella satira lo strumento più idoneo ad esprimere il sarcasmo e l'invettiva, nonché l'esortazione morale. La sua poesia è innanzitutto ispirata da un'esigenza etica, dalla necessità di 31 smascherare e combattere la corruzione e il vizio, e si contrappone perciò polemicamente alle mode letterarie del tempo. Agli occhi di Persio, la poesia contemporanea è viziata da una degenerazione del gusto che è anche segno di indegnità morale. Nella descrizione delle molteplici forme in cui il vizio e la corruzione si manifestano, Persio ricorre con frequenza a un campo lessicale, quello del corpo e del sesso, sfruttandone il ricco patrimonio metaforico. L'immagine ossessiva del ventre diventa il centro attorno a cui ruota l’esistenza dell’uomo, e l'emblema stesso della sua abiezione (l’assimilazione tra vizio morale e malattia fisica era un presupposto comune della filosofia stoica e della sua terapia delle passioni). Nella denuncia del vizio, e nella aspra descrizione delle sue manifestazioni, Persio si riallaccia alla tradizione della satira e della diatriba (ciò spiega la sua tendenza a delineare tipi fissi), ma ne accentua i toni forzandoli verso un barocchismo macabro. La fenomenologia del vizio diventa così l'aspetto prevalente, relegando in uno spazio marginale la fase “positiva” del processo di liberazione morale: sono poche le indicazioni sul recte vivere. Lo stoicismo di Persio non assume i caratteri dell’impegno civile; inclina piuttosto verso un raccoglimento interiore, per praticare il culto della virtù. Allo storico della letteratura il libro delle Satire offre l'occasione di una verifica importante; bisogna prima riconoscere la presenza reale di modelli e autori esemplari, voci diverse e lontane della tradizione letteraria romana chiamate a dialogare e contrastare tra loro. Prima presenza, costante e unanime, è quella del sermo oraziano, una forma discorsiva che aveva saputo adattarsi sia all’intenzione satirica che alla pensosità epistolare. Ma risultano coinvolte questioni di portata più generale. Anche per suggestione lucreziana, erano stati importanti nella letteratura augustea ambizioni genericamente educative, istanze pragmatiche e allocutorie: pur al di fuori delle forme proprie del genere didascalico, il poeta cercava il contatto intenso col destinatario, lo provocava, lo coinvolgeva. Persio raccoglie questo “modello lucreziano” e lo sviluppa nel suo rovescio, di Lucrezio anzi ne fa praticamente un antimodello. Era stato Orazio che aveva mediato alla classicità augustea istanze e atteggiamenti lucreziani. Un suo tratto caratterizzante è nel rapporto paritetico fra il poeta e il destinatario: Orazio non si atteggia a maestro che insegna, ma percorre, insieme all'amico cui si rivolge, un cammino comune. Il liber poetico di Persio vale come riflessione su di esso e insieme come apostasia. Trasformando radicalmente quella che era la figura cordiale dell’autore-filosofo proteso amichevolmente verso il lettore, le Satire descrivono l’iter predicatorio di un maestro perennemente inascoltato. Il discorso didascalico in Persio si nega statutariamente la possibilità di una risposta positiva del destinatario. Il sermo oraziano, pacato nella sua bonomia, viene sostituito da un atteggiamento aspro e aggressivo, necessario per superare l'indifferenza dei miseri in preda al vizio. Indebolito il contatto con l'altro polo della comunicazione, si guadagna spazio per una letteratura dell’interiorità, per il monologo confessionale: quella dell’esame di coscienza è la cifra culturale che sigla tutto il libro. A questa intenzione di aggredire salutarmente il lettore, di scuoterlo, va ricondotta principalmente anche la peculiarità dello stile di Persio, la sua ben nota oscurità. Un linguaggio scabro sarà la maniera migliore per esprimere sentimenti autentici, la realtà naturale delle cose. A tale scopo Persio ricorre abitualmente alla tecnica della iunctura acris, del nesso urtante per asprezza, sia dal punto di vista fonico che soprattutto semantico; l'uso dell’aprosdòketon. La lingua quindi è quella della quotidianità, ma lo stile si incarica di deformarla, ad esprimere una verità non banale, a istituire relazioni insospettate fra le cose. La fortuna di Persio fu immediata e costante fino al Medioevo, attorno al suo testo fiorisce l'attività di glossatori e scoliasti. Dal Rinascimento arrivano i dissensi, che fanno declinare la fortuna del poeta. Lucano Marca Anneo Lucano nasce a Cordova, nel 39 d.C., figlio del fratello di Seneca. Si trasferisce a Roma, dove si forma. Entra nella corte di Nerone, che per un certo periodo lo ha fra i suoi intimi amici. Subentra una brusca rottura con l'imperatore, per motivi incerti: gelosia letteraria da parte di Nerone, o forse le idee di nostalgico repubblicanesimo di Lucano. Caduto in disgrazia e allontanato dalla corte, aderisce alla congiura di Pisone. Si toglie la vita nel 65, a meno di 26 anni. Si è conservata l'opera principale di Lucano, il poema epico Bellum civile o Pharsalia, in 10 libri (8000 esametri circa), incompiuto per la morte dell’autore. Le nostre fonti su di lui sono tre biografie antiche, di cui una di Svetonio (nel De poetis); il libro XV degli Annales di Tacito (sulla congiura di Pisone); numerose raccolte medievali. 1. Una storia versificata? Dai titoli delle opere perdute sembra di poter cogliere una totale adesione ai gusti e alle direttive neroniane: come Silvae e libretti per pantomime. Di tutt'altro genere risulta essere la Pharsalia: anche se essa non era fin dall'inizio in contrasto marcato con le tendenze culturali di Nerone, il modo in cui Lucano ha scelto di trattare il proprio argomento (la guerra civile fra Cesare e Pompeo) si risolve in un’esaltazione dell’antica libertà repubblicana, e in un’esplicita condanna del regime imperiale. Libro I - Dopo l’esposizione dell'argomento, e lungo elogio di Nerone, Lucano passa ad esporre le cause della guerra. Narrazione del passaggio del Rubicone da parte di Cesare. Libro II - Lamenti dei Romani che ricordano il precedente conflitto fra Mario e Silla e giungono alla consapevolezza che quello fra Cesare e Pompeo sarà ancora più terribile. Libro III - Appare in sogno a Pompeo l'ombra di Giulia, figlia di Cesare e sua prima moglie, per minacciargli terribili sciagure. Cesare entra a Roma e si impadronisce del tesoro pubblico. Libro IV - Azioni di Cesare in Spagna. Libro V - Appio si reca a consultare l’oracolo a Delfi, dal responso ambiguo. Cesare fa passare le proprie truppe in Epiro. Pompeo mette al sicuro la moglie sull’isola di Lesbo. Libro VI - Sesto uno dei figli di Pompeo si reca a consultare la maga Erìttone; episodio della necromanzia: la maga richiama in vita un soldato il quale rivela la rovina che incombe sulla famiglia di Pompeo e su Roma. Libro VII - Battaglia di Farsalo, vittoria di Cesare. Eroica morte di Domizio Enobarbo, antenato di 32 volgarismi sono spie non di uno stato “tardo”, storicamente tardo della lingua, ma di uno strato “basso”. Il modo in cui si è formato il testo è assai problematico. Siamo di fronte a un frammento di narrazione che deve aver subito qua e là dei tagli, forse anche delle interpolazioni e degli spostamenti di sezioni narrative. La parte più integra è il famoso episodio della Cena di Trimalcione. Di sicuro preceduto da un lunghissimo antefatto (14 libri ?!) e seguito da una parte di lunghezza per noi imprecisabile. La storia è narrata in prima persona dal protagonista Encolpio, che compare in tutti gli episodi. Encolpio attraversa una successione indiavolata di peripezie. Da principio il protagonista, un giovane di buona cultura, ha a che fare con un maestro di retorica. Apprendiamo poi che viaggia in compagnia di un avventuriero dal passato burrascoso, Ascilto, e di un bel giovinetto, Gitone; fra questi personaggi corre un triangolo amoroso. Entra in scena una matrona, Quartilla, che coinvolge i tre in un rito in onore del dio Priàpo: si rivela un pretesto per abusare sessualmente dei giovani. Poi i tre vengono scritturati per un banchetto in casa di Trimalcione, un ricchissimo liberto di sconvolgente rozzezza. Descrizione minuziosa della cena, una teatrale esibizione di lusso e kitsch; la scena è dominata dagli amici liberti di Trimalcione e dalla loro rozzezza. Seguono altre avventure di Encolpio. Nessuno dei termini che usiamo per definire la narrativa di invenzione (novella, romanzo,ecc.) ha una tradizione classica, né reali corrispettivi nel mondo antico. Gli antichi applicavano a queste opere narrative termini molto generici (historia, fabula). Per questa classe di testi non abbiamo trattazioni teoriche; sospettiamo che di narrativa si facesse un grande consumo, ma pochi letterati antichi si occupano del fenomeno. I critici moderni chiamano in genere “romanzi” un gruppo ristretto di opere che cadono in queste due tipologie molto differenti: a) due testi latini, tra l‟altro reciprocamente indipendenti e poco simili fra loro: il Satyricon e le Metamorfosi di Apuleio; b) una serie di testi greci, databili fra il I secolo d.C. e il IV. Al contrario dei romanzi latini, questa serie di opere greche è unita da una notevole omogeneità e permanenza di tratti distintivi. Soprattutto, la trama è quasi invariabile: si tratta di traversie di una coppia di innamorati che vengono separati dalle avversità,e prima di riunirsi e coronare il loro amore, superano mille avventure e pericoli. L’amore è trattato con pudicizia, come una passione seria e esclusiva: molta suspense della storia sta nei modi avventurosi con cui l'eroina serba fino in fondo la sua castità. Nel romanzo di Petronio l'amore è visto in modo diverso. Non c’è spazio per la castità, e nessun personaggio è un serio e credibili portatore di valori morali; il sesso è trattato esplicitamente ed è visto come una continua fonte di situazioni comiche. Così il rapporto omosessuale tra Encolpio e Gitone sarebbe la parodia dell’amore “romantico” che lega i fidanzati del romanzo greco. D’altra parte, la narrativa “seria” non è sicuramente l'unico genere a cui Petronio poteva riferirsi. A partire dal I secolo a.C. ha grande fortuna una letteratura novellistica, caratterizzata da situazioni comiche, spesso piccanti e amorali. Un filone importante è quello che gli antichi spesso etichettano come fabula Milesia, perché risale a un’opera greca di notevole popolarità di Aristide. Sappiamo con certezza che Petronio utilizzò ampiamente questo filone di narrativa. I temi tipici di questa novellistica, quasi “boccaccesca”, si oppongono a qualsiasi idealizzazione della realtà: gli uomini sono sciocchi, le donne pronte a cedere. È andata perduta gran parte di questa produzione narrativa popolare. Nessun testo narrativo classico, a nostra conoscenza, si avvicina anche lontanamente alla complessità letteraria che caratterizza Petronio. Complessa, innanzitutto la trama del romanzo: le scene che si susseguono libere sono, in realtà, collegate da un fitto gioco di richiami. Ancora più complessa è la forma del romanzo. La prosa narrativa è interrotta, con apprezzabile frequenza, da inserti poetici: alcuni di questi sono affidati alla voce dei personaggi, sono motivati e hanno come uditorio i personaggi dell’uditorio. Altre parti poetiche sono strutturate come interventi del narratore, che nel vivo della sua storia abbandona la relazione degli avvenimenti per commentarli. Ma l'uso libero e ricorrente di inserti poetici allontana il Satyricon dalla tradizione del romanzo, e lo avvicina, dal punto di vista formale, ad altri generi letterari. La libera alternanza di prosa e versi non ha presenza marcata nei testi narrativi che conosciamo. Il punto di riferimento più vicino è una “satira menippea”, l’Apokolokyntosis di Seneca. La storia: richiamandosi al filosofo cinico Menippeo di Gàdara (II secolo a.C.), Varrone aveva intitolato Satire Menippeae le sue composizioni satiriche. Da quel che rimane, sembra che questo tipo di satira fosse un contenitore aperto, vario per temi e soprattutto per forma. A questa tradizione si richiama l'opera di Seneca, un testo in prosa che si apre a svariati inserti poetici: sia citazioni di autori classici, che nel contesto narrativo assumono una valenza parodiata e distorta, sia parti poetiche composte in proprio, spesso rielaborazioni di moduli poetici tradizionale. Una caratteristica interessante è il continuo scontro di toni seri e giocosi, di risonanze letterarie e di crude volgarità: il tutto è sorvegliato da una raffinata tecnica compositiva, che ricorda piuttosto da vicino Petronio. Rimangono alcune differenze assai nette. La satira senecana è un testo di satira inteso come libello, come attacco personale concepito in una precisa situazione e rivolto contro un bersaglio esplicito, il defunto Claudio. In Petronio, nessun intento del genere è percepibile, e al di là delle singole parodie, non si intravede un disegno polemico unificante. Il Satyricon deve molto alla narrativa per trama e struttura del racconto, e qualcosa alla tradizione menippea, per la tessitura formale (il “prosimetro”); ma trascende, in complessità e ricchezza di effetti, entrambe le tradizioni. Il dato più originale della poetica di Petronio è forse la sua forte carica, realistica evidente a noi soprattutto nella Cena di Trimalcione. Il romanzo ha una sua storia da raccontare, ma nel farlo si sofferma a descrivere luoghi, sono quelli tipici e fondamentali del mondo romano: la scuola di retorica, la pinacoteca, il banchetto, la piazza del mercato, il postribolo, il tempio. L’autore ha vivo interesse per la mentalità delle varie classi sociali, oltre che per il loro linguaggio quotidiano. La satira ci offre un elemento di contrasto. Il “realismo” della satira si sofferma in genere su tipi sociali ben precisi – il parassita, il ricco stupido, il poetastro – e questi tipi sono costruiti tutti attraverso un filtro morale; il poeta satirico li guarda attraverso il suo ideale. Petronio, invece, non offre ai suoi lettori nessuno strumento 35 di giudizio, visto che la narrazione è condotta in prima persona, da un personaggio che è dentro fino al collo in quel modo sregolato. L’originalità di Petronio e del realismo petroniano sta non tanto nell’offrirci frammenti di vita quotidiana, ma darci una visione del reale che è critica quanto disincantata. Sottili effetti ironici nascono continuamente dall'uso di modelli letterari elevati, che non sono solo direttamente imitati nelle parti poetiche, ma forniscono anche una traccia per le parti narrative. Esempio: Encolpio perseguitato de Priàpo, si paragona ad Ulisse perseguitato da Positone. Richiami alla grande epica sono frequenti; soprattutto ricorrenti ci appaiono le allusioni all’Odissea. La struttura “di viaggio” del romanzo rende abbastanza naturale questo privilegio, ma si è pensato che tutta la storia di Encolpio sia in qualche modo concepita come una parodia dell’Odissea: ipotesi suggestiva quanto pericolosa. La spiegazione più naturale è che la parodia omerica del romanzo di Petronio vada riassorbita nel gioco complessivo delle parodie, variegato tessuto del Satyricon. Se Priàpo aveva un ruolo dominante, è facile capirne i motivi: questo buffo dio del sesso rurale dà la tonalità giusta alla storia, proprio come le nobili divinità dell’Olimpo contraddistinguono l’epica, e ne marcano il livello elevato. I Priapea A Petronio si possono accostare le poesie del libro Priapea, una raccolta anonima contenente circa 80 componimenti. La datazione è incerta. I componimenti sono saldamente collegati tra di loro: li unifica la figura del dio Priapo, che protegge giardini e orti con la sua smodata sessualità. Il genere “priapeo” è un tipo particolare di epigramma, utilizzato sporadicamente da poeti illustri. Nella raccolta spicca una goliardica rilettura dell’Odissea in chiave pornografica. Plinio il Vecchio La carriera è quella, esemplare, di cavaliere al servizio della corte imperiale. Gaio Plinio Secondo era nato a Como 23 d.C. Giovane esordisce con il servizio militare, che prese per due lunghi periodi in Germania. Le campagne germaniche suggeriscono a Plinio un'opera storica che doveva essere di notevole respiro, i Bella Germaniae: Tacito ne farà un cospicuo uso come fonte. Dopo la morte di Claudio, Plinio si apparta: da alcune allusioni nella Naturalis Historia sappiamo era violentemente ostile a Nerone. È probabile che in questo periodo si dedicasse all'oratoria e all'avvocatura, deve aver sviluppato interessi per la grammatica. Con l'ascesa di Vespasiano, Plinio imbocca una carriera come procuratore imperiale, con numerosi incarichi di rilievo. Verso il 77-78, Plinio conclude la colossale fatica della Naturalis Historia e la presenta al nuovo imperatore Tito. Svolge nel frattempo l'incarico di prefetto della flotta imperiale di stanza in Campania. È in tale veste che muore il 24 agosto del 79 d.C. travolto dall'eruzione del Vesuvio. Tutte le opere sono andate perdute, tranne la Naturalis Historia. Plinio sosteneva di non aver mai letto un libro tanto cattivo da non avere qualche utilità; e Plinio leggeva di continuo, schedava, prendeva appunti. Il risultato finale fu un’opera in 37 libri, destinata ad inventariare la somma delle conoscenze acquisite dall'uomo. Il piano dell’opera: I. Indice generale e bibliografia; II. Cosmologia; III-IV. Geografia; VII. Antropologia; VIII-IX. Zoologia; XII.XIX. Botanica; XX-XXXII. Medicina; XXXIII-XXXVII. Metallurgia e mineralogia. Il testo è preceduto da una lettera dedicatoria al futuro imperatore Tito, che data la conclusione dell’opera al 77-78 d.C. Come fonti abbiamo diversi passi autobiografici nella sua opera; una biografia nel De viribus illustribus di Svetonio. Il documento più interessante viene da 3 lettere del nipote Plinio (il Giovane). 1. Plinio il Vecchio e l’enciclopedismo Uno sforzo di sistemazione del sapere è evidente in tutta la cultura romana della prima età imperiale e si esprime soprattutto in opere di tipo manualistico. La destinazione pratica di queste sintesi tende a indebolire la tensione teorica e lo sperimentalismo autonomo; d’altra parte non favorisce lo sviluppo di capacità critiche. I tempi sono maturi per lo sviluppo di vere enciclopedie, intese come “inventari” delle conoscenze acquisite. La Roma imperiale conosce una grande espansione dei ceti tecnici e professionali: medici, architetti, agronomi, amministratori; in parte coincidono con la nascente burocrazia imperiale; in parte i governatori delle province sono sempre meno condottieri e sempre più dei tecnici. Nello stesso tempo, la curiosità si afferma anche come forma di intrattenimento, di consumo culturale. I testi naturalistici di successo non sono, naturalmente, le severe opere di Aristotele; sono i cosiddetti paradossografi (dal greco paràdoxon “stranezza”) gli autori che alimentano un vero e proprio nuovo genere letterario. Si tratta di raccolte in cui confluiscono aneddoti, curiosità scientifiche, notizie antropologiche, ed estratti da opere scientifiche più serie. Il più celebrato autore è Licinio Muciano. La letteratura paradossografica esprime molto bene il limite della cultura scientifica romana; accoglie genuine curiosità e vivaci interessi pratici, ma non contiene in sé nessun principio sistematico; ancor più importante la mancanza di collegamento fra esperienza pratica e tradizione: l’arricchimento delle esperienze non porta direttamente a un cambiamento dei modelli acquisiti. La gigantesca opera erudita di Plinio il Vecchio è la realizzazione più compiuta di questa tendenza della cultura romana. Una cultura che aveva già conosciuto grandi e piccole opere di sintesi, ma nessuno di questi autori concepì un progetto di conservazione integrale dello scibile; né esistevano opere greche in qualche modo paragonabili. L'enciclopedia di Plinio fu quindi una scommessa originale per dimensione e ambizioni. È una circostanza favorevole, non certo casuale, il fatto che l'autore fosse vicino a certe posizioni degli Stoici. Sicuramente stoica la concezione dell'universo come complessa solidarietà, retta da una Preveggenza divina, una macchina cosmica che l'uomo deve conoscere, era un’idea atta a guidare un progetto di enciclopedia. Ma la mentalità enciclopedica è per Plinio un accomodante eclettismo; una scelta filosofica troppo precisa finirebbe per ridurre la quantità di materiale da registrare e da classificare. Di fatto, nello stesso libro della cosmologia Plinio affianca con disinvoltura professioni stoicheggianti a divagazioni magico-astrologiche, imparentate a qualche fonte orientale. Evidente nella Nautralis Historia, è un altro aspetto della personalità di Plinio: il suo impegno che potremmo definire “spirito di servizio”. 36 Questo è il vero apporto originale e personale, in un’immensa congerie di nozioni e teorie altrui, di suo porta senso pratico, e serietà morale, qualità tipiche di un operoso funzionario imperiale. Stilisticamente, Plinio è considerato da molti critici il peggior scrittore latino. Si consideri che, la stessa folle ampiezza del lavoro era incompatibile con un processo di regolare elaborazione stilistica; inoltre, la tradizione enciclopedica romana non comportava un particolare sforzo di bello scrivere. L’opera era troppo lunga per essere letta difilato e anche per essere usata nelle scuole. D'altra parte l'architettura stessa facilita la consultazione. Bisogna riconoscere che la Naturalis Historia, prima che le nostre enciclopedie moderne generalizzassero l'uso dell’ordine alfabetico, è uno dei testi antichi meglio organizzati e consultabili. 2. Fortuna della Naturalis Historia L'opera ha avuto una doppia sopravvivenza. Da un lato, si cominciò presto a manipolarla: se ne trassero riduzioni, compilazioni di singole parti omogenee, e antologie. Tuttavia la Naturalis Historia continuò ad essere copiata per tutto il Medioevo: i suoi smisurati indici di fonti e autori erano una garanzia, promettevano accesso a tesori di sapere che rischiavano di perdersi. Il nome di Plinio crebbe sempre più di autorità: aveva rinunciato a qualsiasi originalità, per dar voce alla scienza altrui, e diventò un’autorità su ogni aspetto del sapere. Fra ‘300 e ‘500, Plinio fu oggetto di cure filologiche da parte degli Umanisti. Nell'era moderna, il testo pliniano muta valore, e si decompone in singole parti di interesse puramente storico: documento inestimabile per la storia dell’arte antica, del folklore. La sua tendenza a salvare tutto ciò che è stato tramandato ci garantisce un inventario aperto sul mondo della cultura antica. Quintiliano Marco Fabio Quintiliano nacque in Spagna intorno al 35: suo padre era maestro di retorica. Fu richiamato a Roma, da Galba, nel 68, ed incominciò la sua attività di maestro di retorica, senza interrompere l'avvocatura. La sua attività di insegnamento ebbe grande successo (fra i suoi allievi Plinio il Giovane e probabilmente Tacito), tanto che nel 78 Vespasiano gli affidò la prima cattedra statale. Domiziano lo incaricò dell’educazione dei nipoti, cosa che gli fece ottenere gli ornamenta consularia. Morì nel 95. È andato perduto un trattato De causis corruptae eloquentiae. Perduti i due libri Artis rethoricae, sorta di dispense che gli allievi di Quintiliano trassero dalle sue lezioni e che pubblicarono contro la sua volontà. Si è conservata l'opera principale, in 12 libri, la Institutio oratoria, pubblicata nel 96. Sotto il nome di Quintiliano i manoscritti ci tramandano due raccolte di declamazioni, è ormai accettato dalla critica di considerare spuri questi libri. Le nostre fonti sono notizie autobiografiche nel suo Insitutio oratoria; altre dalla Cronaca di Girolamo; cenni in Marziale e Giovenale. 1. I rimedi alla corruzione dell’eloquenza Il problema della corruzione dell’eloquenza investiva questioni morali e di gusto letterario: il primo aspetto era evidente nel diffuso malcostume della delazione, che spesso asserviva l’eloquenza ai fini del ricatto materiale e morale; inoltre nelle scuole erano diffuse figure di insegnanti corrotti e a loro volta corruttori della moralità degli allievi. Un secondo risvolto del problema era quello relativo alle scelte letterarie: nei vizi e nelle virtù dello stile taluni vedevano vizi e virtù del carattere. In epoca flavia fu particolarmente acceso il dibattito fra i diversi orientamenti dell’oratoria: l’arcaizzante, il modernizzante, il ciceroniano. Quintiliano fu il vessillifero di una reazione classicistica nei confronti dello stile corrotto e degenerato di cui egli vedeva in Seneca il principale esponente e maggior responsabile. Quintiliano vede in termini moralistici il problema della degenerazione dell'eloquenza, ma ai suoi occhi ha anche cause tecniche, che egli ravvisa nel decadimento delle scuole. A una rinnovata serietà dell'insegnamento egli affida il compito di ovviare al problema. L’Institutio oratoria delinea pertanto un programma complessivo di formazione culturale e morale, che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente. La Institutio oratoria si compone di 12 libri. I primi due sono propriamente didattici e pedagogici: trattano dell'insegnamento elementare e delle basi di quello retorico. I libri III-IX si addentrano in una trattazione specifica che esamina analiticamente le diverse sezioni della retorica. Il libro X spiega i modi di acquisire la facilitas, cioè la disinvoltura nell’espressione; prendendo in esame gli autori da leggere e imitare. Il libro XI si occupa delle tecniche di memorizzazione. Scopo dichiarato fu quello di riprendere, adattandola ai propri tempi, l'eredità di Cicerone. Nel ritorno di Cicerone si esprime l'esigenza di ritrovare una sanità di espressione che sia sintomo della saldezza dei costumi. Intorno al 90 il Nuovo Stile di Seneca contava ancora seguaci e ammiratori, ma già solo pochi anni dopo, ai tempi dell’Institutio, la situazione pare alquanto mutata: il nuovo classicismo è un movimento che va affermandosi, ed è praticamente vinta la battaglia di Quintiliano, suo leader culturale. Ma resta ancora da condannare tratti della stravaganza modernista: il libro VIII conserva una viva polemica contro le sententiae senecane. Originariamente, dice Quintiliano, sententia voleva dire semplicemente “giudizio”, “opinione”; succede invece che ora si indicano così i “tratti brillanti del discorso, soprattutto quelli collocati alla fine del periodo”. Le sententiae sono diventate un artificio per rendere vivace il discorso: lo scintillare continuo di piccole sentenze spezzano il discorso e lo rendono discontinuo e imprevedibile. Di questi artifici si alimenta appunto lo stile sconnesso e spezzettato di Seneca, il suo scrivere “ad effetto”. Quintiliano, in ultima analisi, riteneva che l’elocuzione dovesse svolgersi anzitutto in funzione della “sostanza delle cose”, laddove Seneca mirava all’ascoltatore, all'esigenza di catturarne l'interesse. 2. Il programma educativo di Quintiliano Il tipo di oratore ideale che Quintiliano delinea si avvicina a quello ciceroniano per la vastità della formazione culturale richiesta, ma dove la filosofia sembra aver perduto terreno rispetto alla retorica e alla cultura letteraria, di cui Quintiliano rivendica il primato. Nel suo programma le letture degli autori più diversi hanno lo scopo precipuo di formare lo stile dell’oratore. Ma a quest’ultimo viene additato soprattutto il modello ciceroniano; reinterpretato ai fini di un’ideale equidistanza fra asciuttezza e ampollosità. In realtà Quintiliano era altrettanto avverso all’arcaismo, e all’eccessivo “modernismo” dell’asianesimo senecano, la 37 caratteri grandiosi. Non più stile dimesso, ma simile a quello dell'epica e della tragedia. Giovenale trasforma quindi profondamente il codice formale del genere satirico, recidendo il legame con la commedia e accostando la satira alla tragedia, sul terreno dei contenuti e dello stile, analogamente “sublime”. Un procedimento usuale è il ricorso alla solenni movenze epico-tragiche proprio in coincidenza con i contenuti più bassi e volgari. Il suo realismo ha naturalmente una forte spinta deformante, che si esplica soprattutto nel tratteggiare figure e quadri di violenta crudezza. La fortuna La fama di Giovenale, ignorato nel II e III sec., fiorisce nel IV secolo. Conosciuto da Dante, Petrarca e dagli umanisti, conoscerà grande fortuna nella tradizione satirico-moralistica europea, da Ariosto a Parini, da Alfieri a Hugo a Carducci. Plinio il Giovane Gaio Cecilio Secondo nacque a Como nel 61; alla morte del padre venne adottato da Plinio, suo zio materno, di cui assunse il nome. A Roma studiò retorica sotto Quintiliano; iniziò presto l'attività forense e il cursus honorum: nel 100 fu nominato conusl suffectus. Traiano lo nominò legato in Bitinia. Morì nel 113. Le sue opere sono: Panegyricus, versione ampliata del discorso di ringraziamento tenuto in senato in occasione della nomina di console; una raccolta di Epistulae in 10 libri, dalle quali ci provengono la maggior parte delle notizie biografiche. 1. Plinio e Traiano Nel Panegyricus, la gratiarum actio di fronte al senato trapassa in un encomio dell’imperatore: Plinio enumera ed esalta le virtù dell’optimus princeps Traiano, che ha reintrodotto la libertà di parola e di pensiero; auspicando, dopo la fosca tirannide di Domiziano, un periodo di rinnovata collaborazione fra l'imperatore e il senato, si sforza di delineare un modello di comportamento per i principi futuri: fondato sulla concordia fra imperatore e ceto aristocratico, e sulla intesa politica, e integrazione sociale fra quest'ultimo e il ceto equestre. Non senza qualche ingenuità, Plinio sembra rivendicare una funzione “pedagogica” nei confronti del principe: traspare il tentativo di esercitare una blanda forma di controllo sull'imperatore. Ma i reali rapporti fra Plinio e Traiano emergono chiaramente dall'epistolario intercorso fra i due, conservato nel libro X della Epistulae. Plinio si comporta come funzionario scrupoloso e leale, ma anche alquanto indeciso, che informa Traiano di tutti i problemi che sorgono e da lui si attende consigli e direttive. Dalle risposte di Traiano traspare talora un lieve senso di fastidio per continui quesiti che gli sottopone. Famoso l'atteggiamento assunto dall'imperatore a proposito della questione dei Cristiani: in mancanza di una legislazione in materia, di istruzione a Plinio di non procedere se non in caso di denunzie non anonime. 2. Plinio e la società del suo tempo Nelle Epistulae è probabile che Plinio segua soprattutto un criterio di alternanza di argomenti e motivi, in modo da evitare al lettore la monotonia. Le lettere sono solitamente dedicate ciascuna a un singolo tema, sempre trattato con cura attenta dell’eleganza: questa è una delle differenze che separa questo epistolario, concepito per la pubblicazione, da quello ciceroniano, modello di riferimento, dove l'urgenza della comunicazione spingeva spesso l'autore ad affastellare argomenti più vari. Le lettere di Plinio sono in realtà una seria di brevi saggi di cronaca sulla vita mondana, intellettuale e civile. Elogia personaggi diversi, soprattutto poeti; ma è raro che per qualche personaggio non trovi una frase gentile che ne metta in evidenza le caratteristiche positive. Plinio si rivela un frequentatore assiduo delle sale dove si tenevano recitationes e declamationes, manifestazione che egli stesso contribuiva ad organizzare. È un entusiasta, che non lesina parole di lode a quasi tutti i versificatori e i conferenzieri che ascolta. Plinio non è preoccupato, come il suo maestro Quintiliano o il suo amico Tacito, dalla crisi della cultura; la letteratura di cui si diletta è essenzialmente frivola, destinata all'intrattenimento e a un consumo frivolo: si tratta, oltre a brani di oratoria declamata, soprattutto di versiculi, di nugae poetiche spesso insipide. Si capisce come l'estrema mondanità di Plinio e il suo essere contemporaneamente un uomo ricchissimo, un importante personaggio politico, e uno stimato letterato, lo ponessero in una posizione privilegiata come osservatore della sua epoca. Nel suo epistolario compaiono le massime figure del tempo, da Traiano a Tacito, a Svetonio. Un quadro di insieme della letteratura nell'età dei Flavi e di Traiano, e il nome di un gran numero di autori ci è conservato solo attraverso l’epistolario di Plinio. I toni sempre smorzati e accomodanti, il signorile senso della misura a scapito di una vigorosa caratterizzazione della propria personalità - insomma, quanto rende Plinio un autore “minore” agli occhi dei lettori moderni” - contribuirono invece al successo e lo resero un modello già presso gli antichi. Tacito Publio Cornelio Tacito nacque nel 55 nella Gallia Narbonese, forse da una famiglia equestre. Studiò a Roma; iniziò la carriera politica sotto Vespasiano, proseguì sotto Tito e Domiziano. Dopo essere stato pretore nell’88, Tacito fu per qualche anno lontano da Roma, in Gallia o in Germania, per un incarico. Nel 97 fu consul suffectus, sotto Nerva; proconsole in Asia nel 113. Morì probabilmente intorno al 117. Le opere di cui siamo a conoscenza sono: De vita Iulii Agricolae, pubblicata nel 98; De origine et situ Germanorum (comunemente noto come Germania); Dialogus de oratoribus, successivo al 100; Historiae, in 12 o 14 libri, composte entro il 110; Annales (o Ab excessu divi Augusti), in 16 o 18 libri, forse rimasti incompleti per la morte dell’autore. Delle Historiae ci sono pervenuti solo i libri I-IV, parte del V e alcuni frammenti; degli Annales i libri I-IV, una esigua parte del V, il VI, parte del XI, i libri XII-XV e parte del XVI. 1. Le cause della decadenza dell’oratoria L’autenticità del Dialogus è stata contestata fin dal XVI secolo, soprattutto per ragioni di stile, e perplessità rimangono anche fra i moderni. Il periodare ricorda molto il modello neociceroniano, cui si ispirava l'insegnamento della scuola di Quintiliano. Ma è probabile che l’insolita “classicità” dello stile sia da spiegarsi con l’appartenenza dell'opera al genere retorico, per il quale Cicerone costituiva ormai un modello canonico. 40 Il Dialogus de oratoribus si riallaccia alla tradizione dei dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici. Il dialogo si conclude con un discorso di Materno, evidentemente portavoce di Tacito, il quale sostiene che una grande oratoria era possibile solo con la libertà, o piuttosto con l’anarchia, che regnava al tempo della repubblica, nel fervore dei tumulti e dei conflitti civili; diviene anacronistica, e sostanzialmente non più praticabile, in una società tranquilla e ordinata come quella conseguente alla instaurazione dell’Impero. L’opinione attribuita a Materno rappresenta una costante del pensiero di Tacito: alla base di tutta la sua opera sta l’accettazione della indiscutibile necessità dell’Impero come unica forza in grado di salvare lo stato dal caos delle guerre civili. Il principato restringe lo spazio per l’oratore e l'uomo politico, ma al principato non esistono alternative. 2. Agricola e la sterilità dell’opposizione Agli inizi del regno di Traiano, Tacito pubblica il suo primo opuscolo storico, che tramanda ai posteri la memoria del suo suocero, Giulio Agricola, artefice della conquista della Britannia. Per il tono qua e là encomiastico l'opera si richiama in parte allo stile delle laudationes funebri. Si incentra principalmente sulla conquista dell'isola, lasciando spazio a digressioni geografiche ed etnografiche, derivanti da appunti di Agricola, e da notizie contenute nei Commentarii di Cesare. Nell'elogiare il carattere del suocero, Tacito mette in rilevo come egli, governatore della Britannia e generale di un esercito in guerra, avesse saputo servire lo stato con fedeltà, onestà e competenza anche sotto un principe pessimo come Domiziano. Ma alla fine cade in disgrazia presso lo stesso imperatore. Attraversando incorrotto la corruzione altrui, Agricola sa morire senza andare in cerca della gloria di martirio ostentato, al ambitio mors (come il suicidio degli stoici) che Tacito condanna in quanto di nessuna utilità alla res publica. L’esempio di Agricola indica come anche sotto la tirannide sia possibile percorrere una “via mediana”. 3. Virtù dei barbari e corruzione dei Romani Gli interessi etnografici sono al centro della Germania. Quest'ultima costituisce per noi praticamente l'unica testimonianza di una lettura specificatamente etnografica che a Roma doveva godere di una certa fortuna: si può risalire fino al De bello gallico di Cesare. È stato sottolineato come le notizie contenute nella Germania non derivino da osservazione diretta, ma quasi esclusivamente da fonti scritte: la maggior parte della documentazione è tratta dai Bella Germaniae di Plinio il Vecchio. Gli intenti: probabilmente un’esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una civiltà decadente, in filigrana, la Germania sembra percorsa da una vena di implicita contrapposizione dei barbari, ricchi di energie ancora sane e fresche, ai Romani. La debolezza e la frivolezza della società romana dovevano allarmare lo storico senatore: i Germani, forti, liberi e numerosi, potevano rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e la corruzione. Non stupisce, tuttavia, che Tacito si addentri anche in una lunga enumerazione dei difetti di un popolo che gli appare essenzialmente barbarico, l’indolenza, la passione per il giuoco, la tendenza all’ubriachezza e alle risse, l’innata crudeltà. 4. I parallelismi della storia La parte che ci è rimasta delle Historiae contiene la narrazione degli eventi degli anni 69-70. Dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l’opera nel suo insieme doveva estendersi fino al 96, l’anno della morte di Domiziano; nel proemio, Tacito afferma di riservare invece per la vecchiaia la trattazione dei principati di Nerva e Traiano. Le Historiae affrontavano perciò un periodo cupo, sconvolto da varie guerre civili, e concluso da una lunga tirannide. L’anno col quale si apre la narrazione, il 69, aveva visto succedersi 4 imperatori (Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano); era anche stato divulgato un “arcano” dell’impero: l'imperatore poteva essere eletto altrove che a Roma, poiché la sua forza si basava principalmente sull’appoggio delle legioni di stanza in paesi anche lontani. È stato notato un certo parallelismo fra l’ascesa al potere di Traiano e gli avvenimenti del 69: il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba ad affrontare una rivolta dei pretoriani che faceva traballare le basi del suo potere; come Galba, aveva designato per adozione un successore. L'analogia si ferma a questo punto: Galba si era scelto come successore Pisone, un nobile di antico stampo, poco adatto, per il suo rigore “arcaizzante”, a conciliarsi la benevolenza delle truppe. Nerva, invece, aveva consolidato il proprio potere associandosi al governo Traiano, capo militare autorevole. Probabilmente Tacito aveva preso parte al consiglio imperiale nel quale venne decisa l'adozione di Traiano: in esso saranno riemerse, da parte di membri tradizionalisti dell'aristocrazia senatoria, posizioni di anacronismo non dissimile da quello di Galba. Tacito ha voluto mostrare in Galba il divorzio ormai consumato fra il modello di comportamento rigorosamente ispirato al mos maiorum e la reale capacità di dominare e controllare gli avvenimenti. Tacito è convinto che solo il principato è in grado di garantire la pace, la fedeltà agli eserciti e la coesione dell'Impero; naturalmente il principe non dovrà essere uno scellerato tiranno come Domiziano, né un inetto come Galba. Addita come unica soluzione praticabile nel principato “moderato” degli imperatori d'adozione. Lo stile narrativo delle Historiae ha un ritmo vario e veloce, ciò ha implicato, da parte di Tacito, un lavoro di condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso sa conferire alla propria narrazione efficacia drammatica suddividendo il racconto in singole scene. Tacito è un maestro nella descrizione delle masse, spesso incalzante e spaventosa: dalla descrizione traspare in genere il timore misto a disprezzo per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale. Ma un disprezzo quasi analogo lo storico aristocratico lo ostenta anche per i suoi pari, i componenti del senato: l’adulazione manifesta verso il principe che cela l’odio segretamente covato nei suoi confronti. Le Historiae raccontano per la maggior parte fatti di violenza, di prevaricazione e di ingiustizia: di conseguenza la natura umana è dipinta in toni costantemente cupi. Ciò non toglie che Tacito non sappia tratteggiare in modo abile e vario i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi e incisive a ritratti compiuti. La tecnica del ritratto mostra numerose affinità con Sallustio: Tacito si affida alla incocinnitas, alla sintassi disarticolata, alla strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Ma lo stile “abrupto” di Sallustio esercita il suo influsso su tutta la narrazione di Tacito, che tuttavia ha saputo svilupparlo fino a determinare un vero e proprio salto di qualità. Tacito ama le ellissi di verbi e di congiunzioni; ricorre a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto 41 per conferire varietà e movimento alla narrazione. Quando una frase sembra terminata, spesso la prolunga con una “coda” a sorpresa, la quale aggiunge o modifica quanto affermato poco prima. 5. Le radici del principato Nemmeno nell'ultima fase della sua attività Tacito mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano. Terminate le Historiae, negli Annales, la sua indagine si rivolse ancora più indietro, intraprese il racconto della più antica storia del principato, dalla morte di Augusto a quella di Nerone. I libri I-V seguono in parallelo le vicende interne ed esterne di Roma: nella capitale il manifestarsi del carattere chiuso, sospettoso di Tiberio, il dilagare dei processi di lesa maestà, il degenerare del regime, fino alla morte di Tiberio. All'esterno i successi di Germanico, i suoi contrasti con Pisone, la morte in Oriente, per avvelenamento. I libri XI-XII narrano gli anni dal 47 al 54, la seconda metà del principato di Claudio, presentato come un imbelle in balia dei liberti e della seconda moglie Agrippina, che lo fa avvelenare per mettere sul trono il figlio di primo letto Nerone. Nei libri XIII-XVI è narrato il regno di Nerone. Negli Annales, Tacito mantiene la tesi della necessità del principato; ma il suo orizzonte sembra essersi incupito: mentre ribadisce che Augusto ha garantito la pace dopo lunghi anni di guerre civili, lo storico sottolinea anche come da allora i vincoli si siano fatti più duri. La storia del principato è la storia del tramonto della libertà politica dell'aristocrazia senatoria, del resto coinvolta in un processo di corruzione che la rende vogliosa di un servile compenso nei confronti del principe. Scarsa simpatia dimostra anche verso coloro che scelgono la via del martirio, sostanzialmente inutile allo stato. Si è detto che Tacito è soprattutto un grande artista drammatico, sottovalutando le sue specifiche doti di storico. Ma è vero che la storiografia tragica – una storiografia ricca di elementi drammatici, che si rifaceva a Sisenna – gioca negli Annales un ruolo di primo piano. La tragedie di Tacito, i drammi di anime che mette in scena non sono tuttavia tanto stimolati dal desiderio di attizzare le emozioni, quanto nutriti dalla riflessione pessimistica che ha radici importanti nella tradizione storiografica latina, soprattutto in Sallustio. Alla forte componente tragica Tacito assegna la funzione di scavare nelle pieghe dei personaggi per sondarli in profondità e portare alla luce le ambiguità. Negli Annales si perfeziona ulteriormente l’arte del ritratto, già messa a frutto nelle Historiae. Il vertice è stato individuato nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto “indiretto”: lo storico fa sì che il ritratto si delinei progressivamente; il ritratto dell'imperatore è dipinto in tutta la gamma delle gradazioni. Un certo spazio ha anche il ritratto del tipo “paradossale”: l'esempio più notevole è Petronio (XVI 18). Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con la ignavia la fama che gli altri hanno conquistato con infaticabile operosità; ma la mollezza della sua vita contrasta con l'energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche. Su tutta la sua esistenza spira un'aria di sovrana nonchalanche, una negligentia che ne esalta la raffinatezza. Lo stile degli Annales è per certi aspetti mutato rispetto a quello delle Historiae: si registra un’evoluzione che va in direzione del crescente allontanamento dalla norma e dalla convenzione. Una ricerca di “straniamento” che si esprime nella predilezione per forme inusitate, per un lessico arcaico e solenne. Si accentua il gusto per la incoccinnitas, ottenuto soprattutto attraverso la variatio, cioè allineando a un’espressione un’altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente strutturata. 6. Le fonti di Tacito Il problema delle fonti delle quali si è avvalso Tacito è stato a lungo dibattuto; coinvolge la questione di rapporti con il resto della tradizione storiografica (Svetonio, Cassio Dione, Plutarco) che ci ha trasmesso la narrazione degli eventi dello stesso periodo. Tacito poté consultare la documentazione ufficiale: gli acta senatus, e gli acta diurna populi Romani (contenevano gli atti del governo e notizie su quanto avveniva a corte e a Roma). Inoltre aveva a disposizione raccolte di discorsi di alcuni imperatori, come Tiberio e Claudio. L’accuratezza degli storici antichi nell'uso dei documenti non era in genere pari a quella dei moderni: ma Tacito fu senz'altro fra i più scrupolosi. Menziona del resto alcune fra le proprie fonti: Plinio il Vecchio, che aveva scritto Bella Germaniae. Tacito poté inoltre servirsi di letteratura epistolografia e memorialistica, e certo attinse a quel vasto genere letterario che va sotto il nome di Exitus illustrium virorum: una libellistica di opposizione che narrava il sacrificio dei martiri della libertà, soprattutto di coloro che avevano affrontato il suicidio ispirandosi alla dottrine stoiche. Di questa letteratura Tacito si servì per esempio per narrare la morte di Seneca: soprattutto per conferire colorito drammatico al proprio racconto, non perché approvasse questo genere di suicidio il quale gli appariva viziato da una forma di ambiziosa ostentazione politicamente improduttiva. 7. La fortuna Nel primo Rinascimento a Tacito venne spesso preferito a Livio; ma già Guicciardini indicò in lui il maestro che insegnava a fondare le tirannidi. Su questa linea, nell'epoca della Controriforma e delle monarchie assolute, prese piede il fenomeno del “tacitismo”, che vide nell'opera di Tacito un complesso di regole e di principi direttivi dell'agire politico di tutti tempi. Così Tacito venne talora usato, dai teorici della ragione di stato, come pretesto alla formulazione di una teoria dell'ideale imperiale. Ma le generazioni dell'Illuminismo sentirono Tacito soprattutto come l’oppositore della tirannide. In campo letterario, alcuni tragici, come Corneille, Racine e Alfieri, trassero da “drammi” tacitiani materia e ispirazione per i loro tormentati personaggi. Svetonio Di Gaio Svetonio Tranquillo non conosciamo la data di nascita né quella di morte. Per un po’ dovette svolgere l’attività forense, poi entrò a corte in qualità di funzionario: fu prima preposto, da Traiano, alla cura delle biblioteche pubbliche; poi, sotto Adriano, fu addetto all’archivio imperiale e alla corrispondenza dello stesso principe. La sua carriera si interrompe bruscamente nel 122, quando cadde in disgrazia presso l'imperatore; dopodiché se ne perdono le tracce. Di una copiosa produzione, in greco e in latino, di opere erudite abbiamo solo notizie, e miseri frammenti, soprattutto grazie al Lessico Suda (X sec.). De viris illustribus si intitolava una raccolta di biografie di letterati suddivisa per “generi”. A noi ne resta solo una sezione, De grammaticis et rhetoribus; delle altre sezioni abbiamo solo materiale 42