Scarica Lezioni Filosofia del diritto di Marra (anno 2020/2021) e più Sbobinature in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! Lezione 1 ⇝ Introduzione Il corso di filosofia del diritto è impostato dal prof mettendo in connessione vari ambiti disciplinari → diritto, filosofia e storia. La filosofia del diritto, almeno in italia, non ha una concezione unitaria: ci diversi modi di concepire la filosofia del diritto da persona a persona. L’idea del prof su questa materia (che non è l’unica possibile): dovrebbe funzionare come una introduzione alla scienza del diritto. Nelle prime lezioni cercheremo di dare una definizione del fenomeno giuridico. N.B. il prof non ama molto la locuzione ‘teoria generale del diritto’, per lui non è possibile parlare del diritto in generale perché le tradizioni giuridiche del mondo sono molto diverse (es. civil law diverso da common law, ma non solo). Possiamo però parlare della nostra tradizione giuridica (continentale), all’interno della quale vedremo quali sono i problemi più rilevanti. Indicazioni di massima per anticipare i contenuti del corso: ➢ la costruzione dello stato di diritto (prima dottrinale e poi pratica); ➢ processo di codificazione e della crisi di questo (per alcuni autori siamo in un periodo di decodificazione); ➢ la costituzione e l’affermazione del costituzionalismo, di un potere vincolato anche a principi generali. Esito significativo: idea di diritto soggettivo cioè di alcuni principi fondamentali che devono essere obbligatoriamente garantiti dal potere pubblico (libertà, uguaglianza…); ➢ riferimenti all’attualità più recente: globalizzazione, crisi economica, integrazione europea… La prospettiva del prof per questo corso è decisamente storica, genealogica (di Nietzsche) nel senso di indagine sulle origini, sugli inizi di certi orientamenti culturali: cosa siamo noi oggi? qual è il nostro presente giuridico, giurisdizionale? per fare questa diagnosi del presente bisogna comprendere da dove siamo partiti, studiare l'inizio, la formazione prima lenta e poi accelerata dalle fratture rivoluzionarie di certi assetti giuridico-istituzionale (processo codificazione, stato di diritto, idea dei diritti soggettivi pubblici). Dedicheremo molto spazio alla storia: storia come vicende importanti, ma anche storia di teorie. Teorie giuridiche e non solo perché non ci sono solo giuristi nel nostro corso → Prospettiva storicista. In senso debole come approccio filosofico-giuridico e filosofico-politico con interesse per la storia. Ma anche in senso forte, come indirizzo di ricerca nell’ambito delle nostre scelte (dell’uomo), che si sforza di studiare ogni processo culturale (il diritto è solo uno dei processi culturali) in connessione con l’ambiente storico in cui i fenomeni si manifestano. Solo così possiamo comprendere e spiegare il fenomeno giuridico. E’ uno storicismo vicino a quello dei neo-kantiani (tra la fine dell’800 e del 900) che risente in particolare del grande autore Max Weber; uno storicismo diverso dalle concezioni materialistiche, evoluzionistiche e idealistiche che hanno l’idea di una filosofia dalla storia (storia rappresentabile come sviluppo necessario sulla base di leggi: se si determinano le leggi dello sviluppo umano è possibile prevedere il corso futuro delle vicende sociali). Lo storicismo si lega molto da vicino al realismo: termine con cui indichiamo una teoria che affermi, contro ogni forma di idealismo, l’idea di una realtà concreta, percettibile, di una realtà sociale che può diventare oggetto di un’attività scientifica che si sforzi di essere il più oggettiva possibile. Realismo, in particolare giuridico: idea che il diritto è un insieme di fatti conoscibili. Il realismo giuridico afferma l'idea di una scienza giuridica integrata con le altre scienze sociali, nessuna scienza sociale è una scienza autonoma. Il realismo giuridico parte dalla convinzione che il soggetto delle riflessioni sia strettamente legato ad altri oggetti sociali: per comprendere e spiegare i vari fenomeni giuridici è necessario fare riferimento ad altre sfere sociali, ad altri momenti della vita sociale. Il legame del diritto, che è un fenomeno di potere, va studiato in rapporto con il potere. Così come è necessario il rapporto delle norme umane con altri sistemi normativi, con la morale e la religione. Rapporto del diritto con l’economia, con i fenomeni linguistici ecc. Su questa idea di connessione del diritto con altri fenomeni il prof propone alcune citazioni (ma ce ne sono tante): Montaigne “posso cominciare da quel che mi pare perché i soggetti sono tutti legati gli uni agli altri”; Cartesio “se qualcuno vuole veramente cercare la verità non deve scegliere una scienza specifica. Le scienze sono tutte unite tra loro e dipendono le une dalle altre”; Goethe “una volta che avevo capito qualcosa mi pareva di saperne meno che mai, e avevo ragione perché mi mancava il collegamento…”; Carlo Dossi “le cose dell’universo sono così concatenate tra di loro che chiunque ha occhi buoni può trarre similitudini da ciascuna di esse”. Un altro legame del diritto è quello con l’attività letteraria... Il prof appartiene alla corrente del realismo giuridico, come Tarello, di cui parleremo. Orientamento metodologico generale del corso: è una questione molto dibattuta. La posizione del prof è mediana tra gli orientamenti di individualismo metodologico e olismo metodologico. ꕥ Individualismo metodologico: alcuni autori di questo indirizzo di pensiero sono Tocqueville, Carl Menger (economista), Gabriel Tarde (sociologo e criminologo), Karl Popper, Schumpeter (economista). L’individualismo metodologico è (utilizzando le parole del francese Raymond Boudon) un orientamento per cui “ogni fenomeno sociale è il risultato della combinazione di azioni, credenze e atteggiamenti individuali, ne consegue che la spiegazione di tale fenomeno (qualunque fenomeno sociale: economia, diritto...) consiste nel ricondurre quel fenomeno alle cause individuali da cui è prodotto, pertanto un momento essenziale di qualsiasi analisi orientata in questo senso consiste nel comprendere il perché delle azioni”. Si fa riferimento alla motivazione del comportamento. E’ un orientamento che nella spiegazione dei fenomeni parte dal basso, dal senso interno delle varie condotte, arrivando a un aggregato di azioni dovremmo poter capire dei fenomeni con certa portata culturale. ꕥ Olismo metodologico: contrapposto al precedente indirizzo, importante è Émile Durkheim che influenza notevolmente le scienze sociali e la scienza antropologica. Altri autori: Karl Marx (concezione materialistica della storia: per capire i comportamenti individuali bisogna partire dalle strutture della società). Per questo orientamento olistico, l’oggetto delle scienze sociali non sono gli individui, né le condotte o i comportamenti, ma sono le strutture dure compatte della vita sociale come il modo di produzione, l’organizzazione dell’economia (Marx), le chiese, le comunità, gli stati, gli ordinamenti, gli apparati burocratici... di cui gli individui fanno parte. Le condotte sono determinate dalle strutture sociali in cui si esplicano. ꕥ Il prof è favorevole a un indirizzo intermedio tra queste due impostazioni metodologiche. Un autore che rientra in questa immagine intermedia è Max Weber, ma anche Pierre Bourdieu (sociologo filosofo), Anthony Giddens. Secondo questo indirizzo intermedio, azione pratica-culturale e struttura non sono in contrapposizione tra loro: le strutture sociali sono il risultato di processi culturali. La cultura genera le strutture, ma allo stesso tempo è condizionata dalla presenza di ordinamenti, stati, chiese ecc. Le strutture sociali e istituzionali delimitano i confini di possibilità entro cui possono muoversi gli impulsi di azione, coscienza, pensiero… entrambi questi processi (culturale e di genesi apparati) si svolgono nella storia. D’altra parte la cultura recupera la sua natura, il suo essere fondamentale di essere creatrice, nel momento in cui gli individui (nella società) utilizzano una struttura, es. il diritto, un tribunale… questi modi di utilizzo sono già una modificazione delle strutture. Lingua e diritto sono due esempi ottimi. Questo orientamento intermedio parla di dualità delle strutture: da un lato, le strutture sono risultato di processi culturali; dall’altro, le strutture costituiscono l’ambiente in cui si svolgono i processi culturali e li condizionano, e i processi intervengono su quelle strutture. Un’altra questione importante, forse la più importante, è il problema del valore, dei principi ideali. Il corso di filosofia del diritto è delicato perché non si occupa di aspetti tecnici del diritto positivo, ma ci sono vari momenti del diritto che si confrontano: questioni etiche complesse e delicate. Un tema classico difficile da trattare è il problema della vita (aborto, suicidio, eutanasia...). Sono molti i problemi etici rilevanti, temi delicati e molto dibattuti (anche oggi: trattamenti sanitari obbligatori? come i vaccini...). Normalmente il diritto si occupa di aspetti tecnici. Invece, la filosofia del diritto mette al centro della trattazione il tema del valore e dei diritti fondamentali. Esempi. La libertà quanto deve essere ampia? Il potere autoritativo cosa può fare nei confronti dei sudditi/cittadini? Quanto può limitare? In quali casi? Con quali limitazioni? Un grande tema di cui si è occupato il prof è cosa può fare il diritto repressivo nei confronti dei soci che sbagliano, coloro che infrangono le regole. Quali sono le punizioni legittime? E’ legittima la pena di morte? La filosofia del diritto si occupa di grandi problemi etici, grandi principi che regolano (o dovrebbero) regolare la vita di una comunità politica determinata. Da domani il prof farà tre cose: 1. Dare un quadro culturale del problema del valore nelle società (moderne e contemporanee). Quindi come è concepito il valore in una situazione di individualismo morale (di grande valorizzazione dell’autonomia della volontà)? valore: libertà che ciascuno di noi ha e deve avere soprattutto in una condizione di individualismo morale di professare i propri orientamenti morali. Per Weber la scienza ha però il dovere di un’osservazione oggettiva della realtà: obbligo di assoluta oggettività e imparzialità (soprattutto in una posizione di potere). Allo stesso tempo la scienza che arrivi a trattare dell’etica può aiutare le persone in formazione in un compito di auto- edificazione critica dei loro orientamenti, ideali. Weber pensa che possa aiutare alla chiarezza e alla consapevolezza, anche di se stessi (del demone che governa la nostra esistenza), che possa aiutare al confronto e all’analisi critica con le varie posizioni. Il riferimento ‘diventa ciò che sei’ passato come motto nietzschiano, trova in realtà la fonte più risalente in Pindaro ‘cosa ti dice la tua coscienza? ti dice diventa ciò che sei’, cioè segui le tue inclinazioni, e poi a distanza di secoli trova un orientamento analogo di Sant'Agostino ‘voglio che tu sia quello che sei’. Conosci te stesso, e dopo la conoscenza della tua natura più profonda adotta la tua particolare etica della convinzione: ma non è un processo agevole. ✧ La figura centrale di tutti gli orientamenti giusnaturalistici sul tema è quella di Antigone, della tragedia di Sofocle sul rapporto tra diritto e giustizia. Riassumiamo la vicenda: la figura femminile Antigone decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice che aveva guidato l’assalto alla città di Tebe, nonostante il nuovo sovrano Creonte lo avesse dichiarato nemico della città con editto per impedire la sepoltura. Antigone contravviene a questo decreto facendo una semplice sepoltura rituale, ma viene scoperta e condannata da Creonte a vivere il resto dei suoi giorni reclusa in una grotta. A seguito delle suppliche del coro, il sovrano decide di liberarla, ma è troppo tardi perché nel frattempo si è suicidata impiccandosi. Testo fondamentale del rapporto tra diritto stabilito (dell’autorità) e giustizia. È il testo più citato dalla retorica giusnaturalista: l’eroina ignora il comando (che ritiene ingiusto) perché pensa che ci siano delle leggi di giustizia superiori ai decreti contingenti di un’autorità politica. Leggi superiori e immutabili. Il prof ci legge il passo centrale del confronto drammatico tra Antigone e Creonte. È un motivo che si trova in molti autori del giusnaturalismo del 500 e 600, ma anche in altri autori dopo la tragedia dell’olocausto e la Seconda guerra mondiale: l’idea che ci siano leggi di giustizia, di ragione, stabilite da un dio universale che siano superiori alle leggi positive degli uomini e non possano essere trasgredite. Vedremo un giusnaturalismo razionalistico che indaga sui valori oggetti e conoscibili a partire da principi di ragione e poi un altro giusnaturalismo di marca cristiana che ragiona sulle leggi stabilite dalla divinità. Facendo riferimento alla grande tragedia del 900 della guerra mondiale (1914-1945) e dell’olocausto. Quali sono le ‘Antigoni’ contemporanee? Ce ne sono tante, ne ricordiamo un po’: un’Antigone paradossale è l’ebrea Etty Hillesum → ha scritto diario dal 1941 al 43, fino alla fine ad Auschwitz, è una delle testimonianze più vive e impressionanti della tragedia del popolo ebraico, insieme ad Anna Frank. E’ un’Antigone al contrario: non si oppone al comando della deportazione, ma lo accetta anche se sarebbe stato fatale (e lo sapeva). Lo accetta fino al sacrificio di sé stessa per obbedire al valore che ritiene più importante: la fedeltà alla propria gente, al proprio popolo. Una sorta di ‘suicidio altruisco’: accettazione del proprio fatale destino per una ragione di valore. Morirà nel ’43 ad Auschwitz. Lettura testo. Un’altra figura straordinaria e ancora più nota è la tedesca Sophie Scholl, direttamente confrontata con Antigone. Era un’insegnante molto giovane di una scuola materna di 21/22 anni, e assieme al fratello e pochi altri mette insieme un gruppo di resistenza non violenta cristiana al fascismo e diffonde dei volantini in luoghi pubblici, prevalentemente nelle università: grande testimonianza dell’opposizione al nazismo. “Libertà di parola, di fede, difesa da dei singoli cittadini dall'arbitro di stati criminali fondati sulla violenza. Sono queste le basi immutabili del nostro vivere civile e che dovrebbero diventare le basi della nuova europa” recita uno di questi. “Esigiamo dallo stato di Adolf Hitler la restituzione della libertà personale, il bene più prezioso che egli ci ha tolto nel modo più spregevole”. A questi soggetti verrà fatto un processo ‘farsa’ che si concluderà con una condanna a morte. Dicevamo prima sul problema dell’analisi tecnico-critica dei valori, l’indicazione di Weber sulla cosa più importante da fare una volta affacciati all’età adulta (anche prima se riusciamo) è riconoscere noi stessi, il nostro orientamento morale, la nostra soggettività morale. Su questo tema del ‘diventa ciò che sei’, ‘conosci te stesso’, il riferimento chiaro di Weber nella conferenza “Scienza come professione” del 1917 è a un breve testo di Nietzsche “Schopenhauer come educatore”. Il prof ne legge un passo che espone bene la natura dell’interrogativo e formula un inizio di risposte: ‘abbiamo il dovere di conoscere e trovare noi stessi, la cifra morale del nostro essere. Come possiamo ritrovarci? Come può l’uomo conoscersi? Perché ciascuno di noi è una cosa oscura e velata. Inoltre, questa indagine su noi stessi è tormentosa: è rischioso scavare in noi stessi perché si tratta di discendere (anche con fatica e violenza) nel pozzo profondo del proprio essere. Tuttavia c’è uno strumento, una possibilità per imbastire al meglio questo interrogatorio importante: la giovine anime guardi indietro nella sua vita e si chieda cosa finora ha amato veramente, cosa l'ha attratta, dominata e resa felice. Metti insieme in fila la serie di questi oggetti venerati davanti a te e queste tue preferenze, inclinazioni ti mostreranno con la loro essenza e successione la legge fondamentale del tuo essere’. La risposta è chiara: noi siamo ciò che amiamo, siamo quelle cose che per noi hanno importanza e valore. E per tornare un attimo ad Antigone, il terzo stasimo di questa tragedia di Sofocle, parla proprio di questo: della potenza di Eros (presentato all'inizio come una forza naturale, passione che rende ciechi e forte), tuttavia poi ci rendiamo conto che Eros ha molte declinazioni, e su queste un altro testo importante è certamente il “Simposio” di Platone, in cui fa parlare Socrate e Eros viene presentato come un demone (non come un dio) che sta tra il divino e l’umano. Sofocle e Platone pensano che l’amore carnale sia solo il primo livello verso la spinta verso bellezza, desiderio. Ma l’attenzione dell'energia vitale che pende dalla bellezza aspira anche a progredire a livelli più elevati e spostare questo desiderio dal corpo all’anima, al pensiero, idee, filosofia e scienza. Weber in questa grande breve importante conferenza dà la risposta alla domanda di Tolstoj (che chiede a cosa serva la scienza per quanto riguarda la nostra vita) e secondo lui la scienza ha una funzione pedagogica importante: promuove la chiarezza, la conoscenza di sé, della propria soggettività morale e aiuta a prendere posizione secondo i propri ideali. Spinge l’individuo a rendersi conto del significato ultimo del suo essere nel mondo. Quali sono gli orientamenti pratici da dedursi nelle azioni del mondo e soprattutto dalla propria. Massimo del contributo possibile della scienza del come bisogna vivere, ma Weber indica i confini etici della concezione pedagogica. La sua idea è che il docente deve giungere al punto che lo studente possa farsi un’idea propria a seconda delle sue inclinazioni morali: soltanto così il docente avrà realizzato qualcosa di più di un’opera intellettuale, avrà assolto un dovere scientifico e morale di pedagogista, sarà stato imparziale e dunque etico, perché oggettivo: la conoscenza non deve approfittare di sbilanciamento per influenzare i suoi allievi. Allo stesso tempo non avrà taciuto il fatto fondamentale che il diritto è scelta, è decisione (quando il legislatore sceglie, quando il funzionario e il cittadino prendono posizione su un orientamento): il diritto è scelta tra diverse alternative di valore. Non bisogna tacere su ciò. Principio di porre con chiarezza il problema, fare ricognizione ampia delle posizioni in campo e orientarsi con l’ausilio della ragione critica su questi problemi fondamentali. ⇝ Fine introduzione Il problema ontologico metafisico. Giovanni Tarello imposta il problema partendo dal basso: dal termine. La parola diritto ricorre in almeno quattro (4) formulazioni/espressioni tipiche. Le vediamo in una scala decrescente di importanza: 1. Il diritto “è dalla mia, mi dà ragione, il diritto sostiene la mia visione ecc.” Prima accezione. Il termine diritto fa riferimento a un insieme di norme, regole principi, è dotato di esistenza formale, dichiarata, oggettiva, tendenzialmente conosciuta da coloro i quali si trovano nella cerchia di quell’ordinamento. Per descrivere questa realtà i giuristi parlano di DIRITTO OGGETTIVO. 2. Il diritto ricorre in espressione di tipo: ho diritto di fare, ottenere, ricevere, ho diritto di non fare… ad es. come cittadino ho diritto di voto, come lavoratore ho diritto di retribuzione... In questo caso il diritto non è equivalente di law in inglese, ma di un’altra dimensione giuridica: RIGHT → il DIRITTO SOGGETTIVO. In questo utilizzo il termine indica una situazione di favore, di vantaggio soggettivo tutelata dal DIRITTO OGGETTIVO, dall’ordinamento e dal sistema giuridico. L’interesse è protetto da norme. Dalla fine del’800, sulla base del destinatario di queste posizioni soggettive, i diritti soggettivi si distinguono in pubblici e privati. - Diritti soggettivi pubblici: conferiti ai soggetti nei confronti di un potere pubblico. Ad es. il diritto riunirsi pacificamente e senza armi. - Diritti soggettivi privati: conferiti non nei confronti di un'autorità o un potere pubblico, ma nei confronti di altri soggetti privati. Ad es. il lavoratore ha diritto a ricevere la retribuzione dal datore di lavoro. 3. Il diritto del tipo ‘diritto di proprietà’ riconosciuto in Italia Il diritto inteso come istituto riconosciuto dall'ordinamento giuridico 4. Il diritto del tipo: ‘in caso di morte del presidente il vicepresidente subentra di diritto’ Il diritto individua un meccanismo, un automatismo organizzativo. Ce ne sarebbe un’altra di accezione che non viene contemplata da Tarello, ma è meno importante: il diritto del tipo “per la copia dei documenti sono dovuti dei diritti di segreteria o cancelleria”. E è il diritto che indica il compenso dovuto per servizi. Le accezioni più significative sono le prime due: diritto oggettivo e diritto soggettivo. In questa prima parte sul tema ontologico del diritto, ci concentreremo prima sul diritto soggettivo. Per quanto riguarda la prima accezione, il diritto oggettivo: le locuzioni più frequenti per indicarlo sono ‘ordinamento giuridico’ e ‘sistema giuridico’, tuttavia queste hanno il problema di essere portatrici di un’ideologia dell’ordine, della coerenza, completezza. Lezione 3 Ci stiamo occupando del concetto di diritto… N.B. il ‘concetto’ non è la realtà, è solo una rappresentazione della realtà che poi va riempita di referenti: il problema è proprio lì, è questo l’aspetto più complicato → cosa ci mettiamo dentro il concetto? Ad ogni modo i due concetti fondamentali sono il concetto di ‘diritto oggettivo’ e di ‘diritto soggettivo’. Inizieremo ad affrontare il problema del concetto di diritto relativamente alla prima accezione: il diritto oggettivo. Alcune locuzioni vicine a questo concetto possono essere: ordinamento giuridico o sistema giuridico. Tarello è intervenuto più volte su questa questione dicendo che già questo concetto un po’ troppo nel senso che esprime una concezione ideologica, ossia che il diritto oggettivo sia ordinato, sistemato, coerente, senza lacune né antinomie né contraddizioni. In realtà così non è, ed è già un primo problema importante. Possiamo utilizzare la locuzione ‘diritto oggettivo’ in un senso più limitato, ristretto e storicizzato, e quindi come sinonimo di una unità culturale di processi e di prassi regolative di una certa comunità in un certo periodo della sua storia. Più grande giurista romanista dell’800 è Friedrich Carl von Savigny della scuola storica del diritto. Un diritto oggettivo è un diritto che corrisponde a determinate caratteristiche, cioè che deriva da determinate tradizioni che è dipendente in rapporto con una certa cultura regolativa. In una definizione più accurata di questo tipo, i termini più importanti (chiave) sono cultura e tradizione: il diritto è organizzazione della vita di relazione però è una manifestazione di cultura simile ad altri fatti di cultura come l’arte, la religione, la scienza… una manifestazione di cultura che si manifesta così: dando luogo ad una serie composita, complessa di istruzioni regolative (immagine della rete) con finalità, obiettivi e efficacia direttiva molto diversa → a volte imperativo, raccomandazione, proibizione, o possibilità…. Un termine utilizzato da Tarello è ‘cultura giuridica’, invece che ordinamento o sistema giuridico. Per il prof è un progresso perché ci dà l’idea che il diritto sia come una manifestazione culturale che sta insieme ad altri fenomeni di cultura. Il diritto è un fatto di cultura in relazione ad altri (come la religione, la morale, la politica, i rapporti di potere, elementi economici…). Ma soprattutto le culture giuridiche sono in connessione con il complesso di culture regolative dei gruppi con l’elemento importante e significativo che è l’elemento pre- giuridico del diritto → non ci sono solo regole del diritto, ma anche regole del galateo, della buona educazione: certe mentalità e certi modi di agire che non sono formalizzati in regole e principi, ma costituiscono il momento pre-giuridico del diritto vero e proprio ed è un insieme significativo. ‘Cultura giuridica’ è un buon sostituto, un buon termine. Sempre per quanto riguarda termini equivalenti di diritto oggettivo o di cultura giuridica, un altro termine è quello del comparatista canadese Patrick Glenn che parla di 'tradizione giuridica’: a sottolineare il nesso tra certe pratiche giuridiche di regolamento della condotta e la storia di una determinata società. minore che teoricamente sarebbero annullabili poiché il minore per l’art.2 c.c. non avrebbe capacità d’agire, ma in giurisprudenza il minore viene considerato una sorta di rappresentante del genitore (è palesemente una finzione giuridica). Questo per dire che esistono quindi consuetudini non verbalizzate e particolarmente rilevanti, soprattutto per gli usi commerciali. Sono fenomeni tra il giuridico e il non giuridico. Tornando a quella porzione di diritto al centro dell’idea dei normativisti, cioè il diritto come insieme di norme poste dall’autorità. Il diritto non è fatto da norme che funzionano secondo lo schema dell’imputazione normativa (non causale, o di giudizio ipotetico). All’interno del diritto troviamo anche regole che non funzionano con lo schema kelseniano, ma che stabiliscono principi tanto generali per i quali non si potrebbe dire che, qualora si verificasse un evento A, allora l’apparato giuridico statale dovrebbe intervenire con un evento sanzionatorio (B). Sono principi generali di uguaglianza, di libertà, della salute, del paesaggio… che non funzionano secondo lo schema del giudizio ipotetico (schema kelseniano). Questo è il primo punto importante, è una prima valutazione critica che si può e si deve fare. La seconda valutazione critica, “giocando nel campo kelseniano” (parlando del diritto dello Stato, autoritativo) è che anche le regole verbalizzate di questo diritto imperativo non sono entità a sé stanti, che vivono in un mondo a parte e distinto dalla realtà empirica (il mondo del ‘dover essere’), ma sono il prodotto di un'evoluzione storica al pari di tutti gli altri fenomeni della convivenza sociale (come i fatti della politica, dell’economia, della religione…). Si pensi alle norme o ai principi di una costituzione o una legge: possiamo dire che le norme sono semplicemente quel documento legislativo, una entità di carta, e mere enunciazioni di ‘dover essere’? La risposta, se vogliamo fare seriamente scienza giuridica, non può che essere negativa: quel documento (Costituzione, statuto, Codice civile… che sia) sono il prodotto, il risultato dell'attività di molti individui. E’ una somma di comportamenti: di chi lo ha proposto, discusso, emanato. L'orientamento normativistico ha prodotto dei problemi piuttosto seri nell’insegnamento del diritto: ha prodotto la conseguenza, di cui parla anche G.Tarello, per cui studiare il diritto non è complesso, ma ‘basta mandare a mente’ i testi della Costituzione, dei Codici ecc… questa immagine è, dal punto di vista del prof, di Tarello e di molti, rovinosa. → Sarebbe buono conoscere bene con consapevolezza il testo costituzionale, però anche leggendo e interpretando quelle parole non saremmo in grado effettivamente di capire il senso contenuto in quelle parole. Vediamo un esempio nella Costituzione, la coppia articoli 7 e 8. Sostanzialmente questi articoli ci dicono che tutte le confessioni religiose sono libere e tuttavia una confessione religiosa (quella cattolica) è più libera di altre. Si prevede una disparità di trattamento: il rapporto Chiesa-Stato è regolato da un testo particolare (Patti Lateranensi), stipulato nel ’29 da Mussolini, che ha ricevuto un riconoscimento costituzionale citato dall'articolo 7 Cost. Mentre le altre confessioni religiose sono regolate da intese poi trasfuse (non necessariamente) in una legge. E’ una condizione di disparità: se venisse un marziano non capirebbe il senso del combinato disposto degli articoli 7 e 8, non capirebbe il senso di questa disparità. Per capirne il senso bisogna far riferimento alla nostra storia: bisogna fare riferimento alla circostanza del ruolo dominante della religione cattolica nel nostro Paese, soprattutto dopo il Concilio di Trento; ricordare che l'unificazione del Paese dopo il 1861 è avvenuta, almeno in parte, con un atto militare che ha sancito la fine del potere temporale del Papato (annessione di Roma con la breccia di Porta Pia del 1870); e poi ancora ricordare, dopo questo evento traumatico, la riconciliazione avvenuta con i Patti Lateranensi (in assemblea costituente questo fu momento di grave scontro tra le forza politiche, alcune non volevano ricordare un atto del regime passato… tuttavia si è lasciato); e alla fine di questo processo interpretativo prendere atto che nella nostra Costituzione si è tenuto conto di questo passato e si è deciso di mettere in una posizione di differente uguaglianza la religione cattolica rispetto alle altre confessioni. Ogni disposizione (non solo queste) è un concentrato di storia: un’analisi formale, meramente linguistica non può bastare. Non ci si può limitare a dire se avverrà A la conseguenza sarà B. E si potrebbero fare tanti altri esempi, come quello riguardante il diritto di libertà di associazione in partiti, ma non se di carattere fascista: anche questo lo spiega la storia. Oltretutto, quel testo, quelle parole sono solo un approdo provvisorio: la Costituzione e le leggi devono essere applicate da altri organi dello Stato (dai giudici), devono essere obbedite o disattese (dai cittadini), devono entrare in rapporto con le prassi regolative dei fatti sociali. C’è bisogno di qualcuno che giudichi, che si occupi della repressione, che faccia conoscere il diritto, che lo illustri, lo spieghi: c’è bisogno di funzionari che mettano in moto la macchina del diritto. Il documento privilegiato dai normativisti, cioè quel documento che proviene dalla potestà imperativa dello Stato, nasce a seguito di fatti, comportamenti che devono essere chiariti dalla scienza sociale del diritto e che diventano poi comprensibili tenendo conto dell’esistenza successiva di quei documenti che è anche condizionata da altri fatti e comportamenti. C’è una metafora molto nota di un’altra corrente di pensiero giuridico (in cui il prof si riflette) che sostiene un’idea di diritto contraria rispetto a quella di Kelsen: il realismo giuridico dice che il diritto è una macchina, è un insieme di meccanismi e procedure che possiamo comprendere davvero soltanto quando questi meccanismi sono in funzione, sono attivi. Solo in questa dimensione pratica, concreta, reale, empirica possiamo cogliere le funzioni del diritto, le prestazioni del diritto, l’efficienza delle regole, i pregi e i difetti. E’ una prima locuzione significativa alternativa alla visione del normativismo kelseniano. Un’altra metafora di Eugen Ehrlich (un altro giurista austriaco, spesso in polemica con Kelsen, che ha notevolmente influenzato il realismo giuridico americano) vede il diritto come un organismo vivente. Il ‘diritto vivente’ è quello che percepiamo e studiamo nella pratica (negli studi legali, nelle aule forensi, parlamentari, nei tribunali). Non è per forza il diritto scritto, non è quello nei libri, formalizzato in testi: ma il diritto in azione, in movimento. Il diritto è una rete non coordinata, non ordinata, ma dinamica, in continuo movimento di istruzioni regolative generate o in maniera autoritativa (non si può negare) o proveniente dalla vita di relazione: tutto ciò non si genera dal nulla (non si genera quando qualcuno scrive qualcosa in un accordo, in un contratto, in una legge), ma avviene sul fondamento di una tradizione giuridica e culturale. Lo studio del diritto, per il prof non deve essere uno studio formalistico del diritto: non deve essere come lo pensano i normativisti, i quali vedono i giuristi come delle ‘scimmiette ammaestrate’ che ripetono gli articoli a memoria… ☻ Introduciamo un terzo orientamento sul problema di dare referenti materiali al concetto di diritto. Ci sono delle concezioni FUNZIONALISTICHE, anche importanti, che diversamente dalle idee precedenti, non mettono accento su fenomeni di organizzazione (istituzionalisti), e manco sul prodotto (sulle norme, normativisti), ma si concentrano sulle funzioni del diritto. Per questo terzo gruppo di teorie, sono intrinsecamente giuridiche le attività sociali che hanno determinati obiettivi, scopi. E tra questi scopi, in modo particolare, due cose (collegate tra loro): comporre le controversie (minimizzare il conflitto all’interno della società) e il controllo sociale (il controllo coattivo del comportamento e quindi minimizzare il comportamento irregolare, deviante). Anche queste teorie (e sono dei limiti) guardano in prevalenza al diritto pubblico, quello che interviene coattivamente, il diritto comando. Invece il prof ritiene sia necessario allargare lo sguardo e considerare il diritto, oltre quello autoritativo, quello orizzontale delle prassi regolative, dell’autonomia privata individuale/collettiva, a obiettivi più generali, direttivi, di orientare l’agire di una determinata comunità. Non soltanto sulla base dell’imposizione, ma anche attraverso l’accordo, l’intesa (dimensioni che troviamo prevalentemente nella dimensione privata, ma anche pubblica). La versione più recente e significativa di concezione funzionalistica è di tipo evoluzionistico, del tedesco Niklas Luhmann il quale viene ricordato come uno dei sociologi più importanti del Novecento. E’ un giurista, e prima che accademico, fu un importante funzionario amministrativo. La teoria. Il diritto è un sottosistema sociale che ha una funzione fondamentale da non prendere sottogamba: il diritto serve a distinguere il lecito (il corretto) dall’illecito (ciò che non è corretto). Serve a distinguere ciò che è diritto da ciò che non lo è. Serve a trovare confini precisi tra l’area del giuridico e del non giuridico (diversamente dell'idea esposta precedentemente dei trapassi fluidi tra le due aree). Il diritto è il meccanismo che serve a separare l’area del diritto in senso proprio dall'aria che non appartiene al diritto. Sembrerebbe banale, ma è una costruzione molto raffinata e vedremo che la nostra cultura giuridica occidentale (sia civil law che common law) è fortemente condizionata da questo fine della differenziazione di un'area precisa del diritto. In modo particolare, per Luhmann, il sistema giuridico ha la funzione di generalizzare in modo congruente, adeguato, coerente e ordinato (è una teoria dell’ordine anche questa) delle aspettative di comportamento sociale, anche in caso di delusione. Per lui, le norme sono delle aspettative di comportamento stabilizzate: che rimangono valide indipendentemente dalla loro violazione. Ad es. la norma ‘non rubare’ è aspettativa normativa che non venga turbato il bene, il godimento della proprietà privata. Anche se vengono commessi dei furti o delle violazioni, l’aspettativa viene tendenzialmente confermata, e non viene delusa. Come? rafforzando il messaggio normativo con la punizione del ladro. Il diritto serve a questo per Luhmann: serve a mettere ordine nel complesso disordinato di tutte le aspettative di comportamento, operando con la logica più semplice di tutte → ‘questo sì-questo no’, ‘lecito-illecito’. In questo modo si stabilizzano certe aspettative di comportamento a scapito di altre, e soltanto quelle stabilizzate diventano norme giuridiche dell’agire. Alcuni esempi per capire meglio l’orientamento di Luhmann: ⭑ Voglio che mia moglie rimanga mia moglie per sempre. Questa aspettativa era stabilizzata prima del 1970, poi non più dopo l’introduzione della legge di separazione e divorzio di quell’anno. ⭑ Voglio che sia stabilito l’obbligo di saluto in ciascun condominio. Una norma di galateo di questo tipo non è stabilizzata da nessuna parte (non in un documento ufficiale). ⭑ Voglio che ci sia un luogo nel traffico cittadino in cui io abbia precedenza rispetto ai motoveicoli e agli autoveicoli. Questa aspettativa è formalizzata dal Codice della strada. ⭑ Voglio che i miei figli rimangano con me. Aspettativa stabilizzata fino ai 18 anni e poi no. Con queste procedure di selezione successiva viene ridotto il tasso di complessità e di incertezza: il sistema giuridico ha la funzione di mettere ordine nell’insieme disordinato delle aspettative di comportamento. Il diritto risolve i conflitti, le dialettiche, le contraddizioni tra le diverse aspettative di comportamento. Un'altra definizione di questo autore è ‘il diritto è una tecnica di riduzione della complessità’. Lezione 4 Ci stiamo occupando di teorie del diritto (le principali), poi inizieremo una parte storica dedicata alla nostra tradizione giuridica occidentale, ci occuperemo poi di storia, di fatti e in particolare del processo di codificazione che è al centro del corso, e la crisi di questo processo. Poi la parte politica del corso: la storia dello stato moderno e le sue evoluzioni, e da quel momento storia del pensiero, di autori e di correnti di pensiero rilevanti e importanti per la filosofia del diritto. Tutta questa parte che stiamo facendo è introduttiva. Il concetto diritto. Abbiamo visto esserci teorie che mettono l’accento su aspetti particolari dell’esperienza giuridica, teorie che hanno l’ambizione di essere ‘teorie generali’ del diritto (termine che non piace al prof, lui preferisce storicizzare)... ci stavamo occupando, dopo la teoria istituzionalistica e quella normativistica, del pensiero di Niklas Luhmann: la concezione funzionalistica → il diritto serve a mettere ordine nel complesso disordinato intervenendo con una logica binaria del ‘lecito-non lecito’… così da stabilizzare certe aspettative di comportamento di condotta da parte dei membri di una comunità, che diventano a far parte dell’area del giuridico (le aspettative). Con questo intervento si riduce il tasso di complessità e di incertezza. Il diritto risolve i conflitti, le contraddizioni tra diverse aspettative di comportamento. “Il diritto è una tecnica di riduzione della complessità”. Riflessione. Per il prof è una teoria molto importante perché, seppure non possa essere una teoria generale, effettivamente per i giuristi nella nostra cultura giuridica occidentale (civil law + common law) questa preoccupazione della distinzione (della 'differenziazione’ direbbe Luhmann) è un tratto culturale molto importante che consente di estendere questa idea ad altre esperienze giuridiche. La teoria luhmanniana risponde a un problema molto presente nella filosofia del diritto: il problema dell’ordine sociale, che il diritto, come un collante insieme ad altri meccanismi, deve risolvere. È un meccanismo sociale che si incarica di dare una soluzione al problema dell’ordine, il quale ‘nasce’ di fronte all’evidenza antropologica di uomini che hanno la capacità di sviluppare passioni, desideri (→ aspettative di comportamento) nei confronti degli altri tendenzialmente all’infinito. E’ una riflessione che affonda le radici in Thomas Hobbes, ma la ritroviamo con altri autori importanti: ad es. il problema del ‘conatus essendi’ di Spinoza, cioè il problema dell’impulso, della tensione, dell’energia vitale oppure dell’energia che richiede condotte agli altri. Questa energia, tensione vitale-sociale (il conatus essendi) è tendenzialmente anomica, anarchica: e invece l’esigenza delle società (come insieme di individui) è l’ordine. E questo è un punto che Luhmann ricava anche da altri autori. L’uomo vuole l’ordine. Da un lato, è un essere in grado di desiderare all’infinito con grandi aspettative anche nei confronti delle condotte degli altri; ma contemporaneamente cerca all’esterno un’istanza, una fonte di autorità che gli impone dei limiti, delle regole. Il diritto seleziona fra le aspettative sociali, ne stabilizza alcune e cerca di coordinarle fra di loro con l’obiettivo: di massimizzare l’ordine sociale e di minimizzare il comportamento irregolare. È una teoria interessante che effettivamente fa vedere come nella nostra tradizione giuridica questo problema della differenziazione delle regole è molto importante. È una teoria che considera il diritto come elaborazioni, sviluppi, combinazioni che partono dalle culture regolative dei gruppi presenti all’interno della società più grande che accoglie le varie entità collettive. Quello che dicevamo in conclusione insomma. Ci rendiamo conto di questa dimensione dal fatto che la cultura giuridica ufficiale assorbe delle idee che si sono affermate all'interno delle varie entità collettive. A di stanza di tempo, su uno stesso argomento possono esserci diverse considerazioni dovute al cambio di orientamenti culturali. La storia del nostro diritto è fortemente condizionata da questa idea che ci sia un’area di attività specificamente giuridica distinta da altre sfere. E questa concezione costituisce uno dei tratti fondamentali della nostra tradizione giuridica occidentale. E dal punto di vista del prof, questa idea di differenziazione è uno dei tratti della tradizione giuridica occidentale che affonda le sue radici nel mondo greco-romano. Quest’idea è un po’ diversa a quella che incontreremo negli studi successivi in cui si tende a differenziare molto (eccessivamente secondo il prof) l’area del nostro diritto continentale (civil law) dall’area anglo- americana (common law). Nell’idea del prof andando indietro nel tempo a quei processi di ‘lunga durata’, ci rendiamo conto che in un certo momento queste due tradizioni imboccano strade diverse, tuttavia il ceppo è comune. Ci sono comparatisti importanti che sostengono un’idea di questo tipo anche se c’è differenza nell'individuare il punto in cui queste strade si separano. Alcuni esempi: Maurizio Lupoi ha l’idea che questa radice comune si percepisce nei secoli dell’alto medioevo caratterizzati dalla fusione di elementi tardo romano e germanici; un altro autore invece pensa che questa dimensione comune si percepisca successivamente della riforma gregoriana (XI/XIII sec); il prof ha invece l’idea che questi elementi comuni abbiano un'origine ancora più risalente (un’idea anche di Mario Bretone che dice che questo elemento caratteristico è l’importanza dell’attività del ceto di specialisti, fondamentale per qualificare determinate attività regolative come attività distinte). All’interno della storia ricaviamo un’indicazione importante: cioè che in realtà incontriamo il diritto (il simbolo visibile di un'area di giuridicità) quando incontriamo il lavoro del giurista (nella veste del giudice, dell’esperto, del consulente, del funzionario, dell’avvocato, del giurista accademico…). È il contrassegno esteriore. Il giurista trova il diritto, propriamente trova la regola, quel principio di decisione, da applicare al caso concreto. Questa è l’attività fondamentale del giurista in entrambe le due sub-culture giuridiche (civil law e common law). In questa sua attività, il giurista è un interprete nel senso del diritto romano, nel senso più forte del termine: non semplicemente interprete di parole, ma mediatore tra una determinata tradizione giuridica e problemi sempre nuovi che emergono dalla vita di relazione. Questa tradizione nel suo punto di partenza può essere rappresentata da molte cose: può essere una consuetudine applicativa rappresentata come consolidata, i costumi degli antenati, i pareri di esperti qualificati, oppure un testo normativo dotato e provvisto di prestigio molto forte, o un codice… Per quanto riguarda la tradizione continentale il ruolo del giurista si modifica in maniera significativa a partire dall’età moderna con il processo di codificazione (che sarà il prossimo argomento di cui parleremo): la legge si oppone, almeno in apparenza, alla tradizione e per l’interprete si propone un ruolo di mero applicatore della volontà del legislatore. Nel corso delle lezioni successive vedremo l’inizio del processo di codificazione e parleremo anche della crisi di questo processo soprattutto negli ultimi decenni. Crisi che ha riportato in primo piano il problema della dimensione della regola, della regola non legale, delle regole consuetudinarie, dei precedenti giurisprudenziali, degli atti di autonomia privata che producono effetti ultra-partes o contratti collettivi di lavoro… è una realtà per cui, dopo la grande affermazione del processo di codificazione, viviamo in una crisi evidente della dimensione legislativa in cui siamo ritornati alla dimensione più consueta del giurista della nostra tradizione: il giurista che tende a presentarsi come il mediatore, il soggetto che deve mettere in contatto una certa tradizione giuridica (sia pure mobile) con un caso concreto. Per riassumere: è il grande ruolo degli agenti, la presenza di agenti culturali particolari che sono i giuristi, l'elemento fondamentale della nostra tradizione giuridica. Oltre l’idea della differenziazione delle regole giuridiche da altre regole (giuridico e non giuridico), è un elemento importante e costitutivo della nostra tradizione giuridica occidentale anche un altro aspetto che abbiamo già approcciato: la sensibilità al problema della giustizia, il richiamo al diritto naturale, l’influenza del cristianesimo, l’origine culturale di gran parte (quasi totalità) delle regole giuridiche che nascono prima come regole sociali avvertite come vincolanti… quest’aspetto, elemento imparziale in una dimensione dialettica rispetto alla prima dimensione, è un altro elemento importante della mentalità del giurista europeo. Il prestigio della regola non è dato solo dal fatto di essere il distillato di un’operazione tecnica adeguata, formale; un’altra ragione di autorità intrinseca della regola è la correttezza sostanziale (non solo formale della legge): la ‘correttezza materiale della regola’, cioè la sua adeguatezza assiologica, la sua bontà, la sua giustizia. Questo elemento di valutazione, non soltanto meramente formale, ma sostanziale, qualitativa è della massima importanza. Un altro elemento: quando parliamo di diritto molto spesso diciamo ‘studiamo legge’... c’è necessità di una riflessione storico-comparativa per renderci conto che questa identificazione del diritto con la legge non è propriamente caratteristica della nostra tradizione giuridica. Nel senso che il legislatore, per quanto riguarda la tradizione di common law è sostanzialmente molto poco presente → per quanto riguarda invece la nostra sub-tradizione continentale (di civil law) l’importanza del legislatore è un fenomeno relativamente recente che si afferma con il processo di codificazione. Questa circostanza (il fatto di rendersi conto che diritto non equivale a legge) ha importanti conseguenze: il primato della regola giuridica si afferma in una condizione di assenza o debolezza dell'ordinamento giuridico (inteso come insieme coordinato di regole). Solo con il processo di codificazione, gli ultimi tre/quattro secoli della nostra storia, l'ordinamento giuridico statale ha rivendicato per sé un ruolo egemone e tendenzialmente di controllo di tutta l’area giuridica. Però poi la nostra dimensione giuridica ha -sempre di più- previsto una pluralità di ordinamenti giuridici in cui lo Stato-ordinamento non è ormai più in una posizione dominante → Lo Stato dipende da altri ordinamenti giuridici internazionali: nel nostro caso l'Italia dipende dall'ordinamento dell’UE; ma ci sono anche ordinamenti giuridici che vivono una dimensione sub-statuale come gli ordinamenti regionali; oppure al di fuori dello Stato come gli ordinamenti sportivi, dei sindacati… i quali sono espressione diretta delle culture regolative orizzontali, sia pure assumendo in un certo momento una veste giuridica. L’altra conseguenza importante del ruolo modesto e limitato della legislazione è la crisi, la progressiva dismissione di un’idea (che incontreremo fortissimamente nelle lezioni successive), prima del giusnaturalismo razionalistico e poi dell'illuminismo, di una legislazione universale che dovrebbe avere la capacità di intervenire su tutti gli aspetti della vita. E invece, in conseguenza dei processi che ricordavamo, ci rendiamo conto che l'ordinamento giuridico in posizione autoritativa (lo Stato) non è in grado di fare tutto questo. Sempre di più la società orizzontale ha ripreso anche in questo campo del diritto la sua centralità. Una centralità antica: il centro della vita giuridica, nell’esperienza millenaria del diritto romano e poi in quella del diritto comune, è l’autonomia privata. E’ vero che poi come manifestazione del potere-comando lo Stato- ordinamento ha prodotto documenti importanti e significativi proprio per quanto riguarda l'autonomia privata (i codici civili), ma in realtà ci renderemo sempre più conto (con lo studio ecc.) che gli schemi della vita di relazione tendono a uscire fuori dal Codice civile e ad agire con relativa autonomia rispetto alle norme standard che si trovano in esso (esempio significativo: lex mercatoria → un insieme di consuetudini commerciali/affari che si genera al di fuori del Codice). Dal punto di vista della struttura sociale ci sono delle regole che si occupano della vita di relazione (regole della società orizzontale) e altre che riguardano il funzionamento delle istituzioni pubbliche e il loro rapporto con gli individui e i gruppi (regole della società verticale). Il tema della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato. Ma riprendendo quanto detto poco sopra: prima di queste regole in qualche modo formalizzate, ci sono le culture regolative, c’è questa dimensione pan-regolativa che è espressa da diverse entità collettive che compongono le nostre comunità → l’area del pre-giuridico costituita da indirizzi di valore, da costumi, mentalità, idee religiose, politiche… è l’importante dimensione culturale del diritto senza la quale non potremmo concretamente approcciare l’area del ‘giuridico’ propriamente detto (diritto pubblico e privato) poiché questa dimensione (pre-giuridica) la condiziona fortemente. Lezione 5 Di cosa ci siamo occupati finora e di cosa ci occuperemo. → Abbiamo concluso la parte teorico-concettuale: abbiamo visto quei tentativi di dare una definizione in generale del fenomeno giuridico (istituzionalismo, normativismo, funzionalismo e realismo giuridico). → Abbiamo parlato degli elementi fondamentali della nostra tradizione giuridica. Per quanto ci riguarda, per concludere la risposta alla domanda su cosa sia il diritto, possiamo dire che nella nostra tradizione incontriamo il diritto quando incontriamo i giuristi, che sono dei tecnici che hanno l’ambizione di trovare la regola corretta/giusta rispetto un caso particolare della vita di relazione. → Nelle prossime lezioni ci concentreremo sulla storia: storia di eventi e storie di teorie. Restringiamo il nostro campo visivo: temporalmente → vedremo il processo della modernità e poi la contemporaneità; spazialmente → ci concentreremo sulla nostra specifica tradizione di ‘civil law’. Ci occuperemo in primo luogo del processo giuridico principale generalmente chiamato ‘processo di codificazione’ (il prof preferisce parlare di una ‘tendenza alla razionalizzazione del diritto’, a costruire il diritto come un sistema ordinato -anche se poi non ci si riesce mai davvero-) → è quell’orientamento verso l'ordine, quell’idea di Luhmann di cui abbiamo parlato e che caratterizza la nostra storia continentale. Successivamente parleremo del fenomeno politico: la nascita dello stato moderno. Per una migliore chiarezza espositiva quindi ci occuperemo prima del momento specificamente e direttamente giuridico, e poi legato a questo, il momento specificatamente politico. Nel selezionare gli argomenti (non si può parlare di tutto) che tratteremo successivamente ci concentreremo su due argomenti di cui non si può fare a meno nel corso di filosofia del diritto, legati strettamente al processo di codificazione costituzionale: se si guarda ad esempio la Francia ci rendiamo conto che ci sono due questioni fondamentali: ❃-il problema dei diritti → diritti soggettivi pubblici ❃-l’articolazione della forma di governo → l’articolazione dei poteri di vertici. Poi un altro argomento cui il prof vuole fare riferimento è il tema della ❃ giustizia penale, un tema che emerge fin dalle prime ordinanze criminali -prima delle codificazioni penali- di alcuni sovrani assoluti. Quali sono le prerogative più importanti dei cittadini nei confronti del potere politico? quelle di non essere perseguiti ingiustamente, soprattutto dalla più energica reazione da parte dei vertici della comunità politica. Il problema penale è molto importante. Infatti, se diamo un’occhiata alle Carte dei diritti, ad esempio (la più importante per il prof) la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” della Francia rivoluzionaria dell’agosto del 1789, troviamo indicazioni generali sui diritti, sull’articolazione dei poteri della sovranità e soprattutto troviamo molto evidente una preoccupazione sul tema del diritto penale e sulla procedura penale, cioè come delimitare convenientemente il potere più intenso e preoccupante perché soggetto continuamente a un pericolo di arbitrio… Resteranno invece un po’ sullo sfondo le tematiche di diritto privato… tenendo comunque conto (quanto abbiamo già detto più volte) che il fenomeno dell’autonomia privata, cioè dell’autoregolazione della società orizzontale, è un fenomeno molto importante. Ma è meglio concentrarsi, in un corso di filosofia del diritto, su quei tre temi centrali. E in conclusione parleremo delle teorie dei giuristi e non solo dei giuristi. ⇝ Storia Il nostro diritto condivide con altri ordinamenti giuridici -con altre tradizioni- l’ambizione di voler costituire un ordinamento giuridico strutturato. La nostra storia giuridica è simile e molto condizionata da quella di altri paesi come la storia francese, ma anche vicina alla storia tedesca (a partire dal Sacro Romano Impero). Ci confrontiamo soprattutto con questi paesi: la nostra tradizione giuridica è quella degli ordinamenti detti ‘romanisti’ oppure ‘romano-germanici’. - ‘Germanici’ in quanto l'elemento imperiale è molto rilevante in questa storia (prima quello germanico e poi austriaco); -‘Romanisti’ perché questi sistemi (italiano, francese, spagnolo, portoghese… america latina, indonesia… -a causa della colonizzazione-) si fondano sulla scoperta e sull’utilizzazione, a partire dal XII secolo, del diritto romano → in questi sistemi il diritto moderno affonda le sue radici su una tradizione giuridica che al momento della sua recezione era già vecchia di oltre un millennio… un fenomeno di conservazione/aggiornamento del passato molto interessante e per certi aspetti anche paradossale. fino ai giorni nostri; l’elemento più importante dell’Europa dal punto di vista politico è, per almeno un paio di secoli, la monarchia francese. N.B. L’Europa si ‘nutre di molte anime’: l’anima tedesca (il Sacro Romano Impero germanico), la rivoluzione religiosa (Riforma protestante), e, per l’altro ‘pezzo’ di Europa, l’Inghilterra è fondamentale per i processi economici → dalla Rivoluzione industriale -alla fine del’700- sino alla Prima guerra mondiale è il paese guida del capitalismo mondiale. E anche l’Inghilterra ha conosciuto l’assolutismo e una sua rivoluzione, la ‘Rivoluzione Gloriosa’ non violenta del 1688/89… Ma torniamo in Francia. La condizione della ❃ BORGHESIA (il ‘terzo stato’) sotto l’assolutismo è un po’ particolare. C’è un evidente incontro tra le esigenze del sovrano per un accentramento dell’amministrazione del diritto con le aspirazioni dei ceti borghesi per la razionalizzazione, sistemazione del diritto. Il sovrano riconosce l'importanza dei nuovi ceti produttivi e cerca di legarli a se, ma, proprio per il fatto che siano attività economiche così importanti e significative per gli interessi politici della monarchia, il sovrano cerca contemporaneamente di controllare -direttamente o indirettamente- creando monopoli statali, sostenendo determinate manifatture, fissando i prezzi delle terre, attraverso la politica doganale ecc. → troviamo in questo periodo detto dagli economisti ‘mercantilistico’ una sorta di proto-capitalismo di stato, cioè di attività economiche controllate o dirette dall’attività dello Stato. Questo per dire che la borghesia è certo aiutata dai sovrani assoluti, ma allo stesso tempo viene controllata e sottoposta alla pressione fiscale (particolarmente forte prima della Rivoluzione). Ma soprattutto l’elemento fondamentale è che la borghesia è esclusa dalla partecipazione al potere politico: non ha alcuna voce in capitolo nella guida dello Stato assoluto. La Rivoluzione francese risolve a favore della borghesia queste contraddizioni, questo rapporto fatto di accordo e conflitto con il sovrano. Nel momento in cui arriva al potere, la borghesia è nella condizione di affermare la sua esigenza di libertà (di iniziativa economica, di impresa, di commercio, libertà dai controlli oppressivi dello Stato, dai vincoli venerati dal potere assoluto del sovrano), ma queste esigenze, prevalentemente economico-sociali per un diritto unitario e coerente, si incontrano con le ispirazioni ideali e culturali delle correnti illuministiche che sono (lo vedremo) altrettanto decisive quanto gli interessi materiali della classe borghese nel dare impulso al processo rivoluzionario. L’ ❃ ILLUMINISMO proclama la libertà degli individui a tutti i livelli, non solo la libertà di iniziativa economica, ma anche la libertà di pensiero, di religione, di critica, di associazione… l’illuminismo si batte per la tolleranza contro il fanatismo religioso, degli autori affermano il primato della ragione giusta e corretta, la primazione del progresso, della scienza ‘contro’ ignoranza e superstizione, l’importanza dell’istruzione… → gli impulsi fondamentali di tutti i processi storici sono da un lato gli interessi e dall’altro i valori tra loro collegati (idea di Weber). La Rivoluzione francese è una dimostrazione evidente di questa circostanza: da un lato interessi economici e dall’altro una forte e autentica rivendicazione di una nuova società improntata a valori nuovi. È da questa duplice fonte (lotte politiche della borghesia e illuminismo) che nasce il processo di codificazione vero e proprio. Il codice è una ‘creatura nuova’: è una raccolta strutturata e ordinata che vuole mettere ordine all’interno delle regole di un determinato settore del diritto. A partire dal diritto costituzionale: la prima rilevante, che anticipa tutte le altre codificazioni istituzionali… ♚ LA CODIFICAZIONE COSTITUZIONALE La codificazione è il compimento naturale di un processo di lunga durata che comincia già con la recezione del diritto romano e la nascita del diritto comune. Prima della codificazione in senso proprio -il Codice civile- i documenti francesi più importanti sono la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789 e il Codice napoleonico civile de 1804. Un processo secolare che ha una manifestazione molto forte e sostenuta ideologicamente. La codificazione costituzionale è la più importante per quanto riguarda il corso di filosofia del diritto in quanto fornisce alcuni dei temi principali del corso: l’articolazione della forma di governo, i diritti fondamentali. Van ricordati due documenti giuridici in modo particolare: -ꕥ- la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” adottata dall'assemblea nazionale alla fine dell’agosto 1789. Che per altro fa riferimento ad altri testi precedenti, in modo particolare ai Bill of Rights delle colonie americane prima dell’indipendenza: soprattutto è molto forte il rapporto con quello della Virginia del 1776, anche se questo ‘rapporto’ nella storiografia francese non è messo in evidenza. Questo documento è ancora adesso parte integrante della costituzione francese. Un documento i cui costituenti rivoluzionari avevano una fonte di ispirazione fondamentale: l’opera del grande autore filosofo- politico “Il contratto sociale” di Jean Jacques Rousseau. Di cui parleremo. Dovremo anche affrontare un problema più avanti: questa dichiarazione dei diritti francese ha una titolazione un po’ ambigua ‘dell’uomo e del cittadino’ che sono due entità politiche diverse. Se parlo di 'diritti dell’uomo’ faccio riferimento all’uomo noumeno di Kant, all’umanità in generale; se parlo di ‘diritti del cittadino’ faccio riferimento a un uomo che è membro di una comunità politica determinata. E questa contraddizione è importante perché all’origine degli stati nazionali durante l’età moderna. La Dichiarazione si compone di 17 articoli e proclama quali diritti naturali inviolabili la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza. I primi due sono diritti molto in evidenza in John Locke (un’altra fonte del documento, come Rousseau). Si afferma il principio di uguaglianza dei cittadini (in particolare nell’accesso alle cariche pubbliche) e s’introduce un principio di civiltà giuridica centrale (presente anche nella nostra Costituzione) che dà molto rilievo al tema penale: il principio di irretroattività della legge penale per cui si può essere puniti solo per leggi entrate in vigore prima del reato commesso, ed è l’articolo 8 (nella nostra Costituzione articolo 25). Sempre sul tema delle garanzie penali questo testo afferma la presunzione di innocenza nei processi penali nell’articolo 9 (da noi c’è una versione più attenuata di questo principio: ovvero il divieto di presumere la colpevolezza, nell’articolo 27 c.2). Ci sono molti autori che con le loro teorie contribuiscono idealmente su questo testo per cui lo riprenderemo continuamente. -ꕥ- l’altro testo fondamentale del periodo rivoluzionario è la Costituzione del 1791. In questo caso la presunzione da parte dei rivoluzionari di far riferimento a un altro grande autore giurista del Settecento, ovvero Montesquieu. I costituenti francesi credono di ispirare questo testo a “Lo Spirito delle leggi” del 1748. La forma di governo che troviamo in questo documento è quella di una monarchia parlamentare: il potere di fare le leggi è attribuito a una camera elettiva (l’Assemblea nazionale) eletta a suffragio non universale, ma censitario (solo i cittadini attivi con certo patrimonio: votavano circa 4 milioni di cittadini su 24/25): non era una democrazia perfetta, era una costituzione liberale di una classe di proprietari o redditieri. Il re diventa titolare del solo potere esecutivo (far eseguire le leggi) e, per esercizio di questa funzione, nomina e/o revoca i ministri, i quali, per il principio della separazione dei poteri affermato da Montesquieu (sarebbe meglio dire secondo le interpretazioni della sua opera dei costituenti), non possono essere contemporaneamente membri dell'Assemblea nazionale. I poteri del re sono limitati e inferiori rispetto a quelli di una monarchia costituzionale, come sarà l’Italia dello Statuto albertino in cui il re contribuisce all’attività legislativa. Tuttavia, su questo percorso evolutivo (da monarchia costituzionale a parlamentare) il modello storico di riferimento è l’Inghilterra. Poi si assisterà in Francia a vicende fortemente rivoluzionarie e violente in quegli anni. Un anno dopo ci sarà la proclamazione della Repubblica e la condanna di Re Luigi XVI: vicende traumatiche che porteranno ad un superamento della costituzione del 1791. E da lì a poco si vedranno altre due costituzioni: quella giacobina del ‘terrore’ del 1793 (mai formalmente entrata in vigore) e quella del Direttorio del 1795. Lezione 6 La Francia oggi… Abbiamo visto cosa è accaduto durante il periodo rivoluzionario: la Dichiarazione del 1789 e la Costituzione del 1791. Per quanto riguarda la Francia attuale: -la Costituzione richiama alla Dichiarazione del 1789, quindi è ancora in vigore anche se interpretata diversamente; -invece per quanto riguarda la forma di governo, la Costituzione attuale (della quinta repubblica) è quella del 1958 che prevede una forma semipresidenziale: il presidente è eletto dal popolo e ha diverse funzioni di potere esecutivo. Il presidente è indipendente dal Parlamento dal quale non riceve la fiducia però il potere esecutivo è ripartito con un governo da lui nominato, il quale invece deve avere la fiducia. La costituzione di Weimar La costituzione della Repubblica di Weimar è molto importante: è la prima del Novecento e costituisce l’antecedente più significativo di questa forma di semipresidenzialismo francese. E tra l’altro, la richiameremo per la sua importanza nel catalogo dei diritti, anche la nostra carta costituzionale del 1748 ne è ispirata largamente, nonostante purtroppo abbia avuto una vita non felice: la Costituzione della Repubblica di Weimar arriverà solo fino all’instaurazione del Terzo Reich. Ritornando alla Francia rivoluzionaria… Per quanto riguarda le forme della codificazione costituzionale dell’esperienza francese, questa si è affidata, durante il processo rivoluzionario, a due documenti diversi: l’enunciazione delle libertà e dei diritti fondamentali e un documento che si occupa dell’articolazione dei poteri della sovranità (forma di governo). Non è la normalità: se guardiamo ad esempio la costituzione americana (che tra le costituzioni interamente scritte è la più antica del mondo) la prima parte interviene sulla forma di governo (ed è molto ‘veloce’, solo 7 articoli), mentre 27 articoli sono dedicati ai diritti (il cosiddetto Bill of Rights che viene aggiornato). La codificazione del diritto privato: il Codice napoleonico Torneremo a parlare largamente di costituzioni. Tuttavia, per quanto riguarda la codificazione privata la vicenda francese è in primo piano con l’autentico monumento di codificazione che è il Codice -civile- napoleonico che si serve dell’elaborazione dottrinale dei secoli precedenti, a partire da Jean Domat, Pothier che vedremo, e tiene conto dello straordinario fenomeno della costruzione del diritto comune che recepisce il diritto romano… Il Codice civile francese vige ancora ora: ovviamente integrato e modificato. Gli elementi fondamentali: grande spazio e rilievo viene dato alla libertà contrattuale, libertà di iniziativa economica (marchio borghese), una tutela molto forte della proprietà privata, per quanto riguarda i rapporti tra le persone introduce il matrimonio civile e il divorzio (immagine di un documento che reagisce alle religioni tradizionali, qualcuno lo definisce un documento ‘ateo’ anche se non è del tutto corretto, ma comunque improntato a un carattere laico), il codice elimina gli istituti medievali sorti indipendentemente dal diritto romano, mentre sopravvivono quelli della grande costruzione del diritto reale e le obbligazioni contrattuali: la matrice romanistica è chiara. Il Codice civile francese ha influenzato moltissimo le codificazioni civili dei più importanti paesi europei, a partire dal nostro primo codice del 1865, che su certi punti è quasi una traduzione, ma anche quello attuale del 1942, che conserva tracce evidenti della codificazione francese. Sempre in Francia e ai tempi di Napoleone entrano in vigore gli altri codici: di procedura civile, procedura penale, di commercio e penale. Quando si parla del processo di codificazione anche nel campo delle relazioni private certamente l’esempio francese costituisce un punto di riferimento imprescindibile. Questo per quanto riguarda la codificazione in generale. ♚ LA FORMA DI GOVERNO e LA FORMA DI STATO Parleremo ora della forma di governo e la forma di stato: una trattazione più analitica per quanto riguarda il problema dello Stato. Innanzitutto una precisazione significativa e necessaria: è legittimo, anche se troviamo espressioni diverse in molte analisi storiografiche, parlare di Stato facendo riferimento a un fenomeno relativamente recente, lo Stato moderno, quel fenomeno che inizia a delinearsi nell’Europa del XV secolo con la formazione delle grandi comunità politiche monarchiche (Francia, Inghilterra e Spagna). In alcune analisi si parla di ‘stato romano’, in altre di ‘stato feudale’, ma in realtà il fenomeno dello Stato è un fenomeno tipicamente moderno. ♚ Lo Stato assoluto Nei secoli immediatamente successivi al XV, successivi alla formazioni di queste monarchie, quindi tra il XVI e XVII secolo, lo Stato moderno che si affaccia alla modernità, si organizza come ‘Stato assoluto’: si caratterizza per l'affermazione di un potere molto intenso e accentrato da parte del sovrano, con fenomeno caratteristico la creazione di una potente burocrazia, all’interno della quale è fondamentale il ruolo di giuristi tecnici di formazione accademica, e, tra gli altri fenomeni, anche un controllo molto forte sull'organizzazione religiosa reagendo al fenomeno dei secoli precedenti per cui il papato aveva avuto un ruolo anche politico. Con lo Stato moderno e con il suo consolidamento come ‘assoluto’ si supera la frammentazione del potere politico che era uno dei tratti distintivi del feudalesimo, che era sorto per la necessità di organizzare un ceto guerriero con funzioni politico-religiose e reagire all’avanzata dell’islam per difendere la cristianità e riconquistare Gerusalemme con le crociate. Prima dello Stato assoluto: la frammentazione tipica del feudalesimo Il tipico beneficio feudale (=la cessione di beni e diritti) da parte del re o dell'imperatore a vantaggio dei vassalli, si diffuse con questo obiettivo fondamentale: creare un esercito composto di cavalieri equipaggiati e preparati per rispondere alla chiamata del re… La distribuzione di terre a favore dei cavalieri-vassalli era la liberalismo politico che è la corrente politica ‘al potere’ (ci saranno poi anche marxismo, socialismo e pensiero anarchico…). Frequentemente il liberalismo politico va di pari passo, ma occorre distinguere, con il liberalismo economico. Lo Stato deve garantire il principio di libertà ai cittadini, e tra queste libertà il liberismo economico dà particolare importanza al libero e pacifico svolgimento delle relazioni economiche, attività produttive. Si afferma con la cd. ‘economia politica classica’ rappresentata da diversi autori (Adam Smith soprattutto), una corrente di pensiero che riguarda prevalentemente la libertà economica, il principio della mano invisibile di Adam Smith: principio della naturale armonia della possibilità di comporre gli interessi tra di loro. Poi ci sono declinazioni anche precedenti rispetto a Smith su questo punto, l’idea di fondo è sostanzialmente questa: la ricerca del proprio interesse va a vantaggio dell’interesse dell’intera società. Mandeville (filosofo-medico) nella sua famosa opera “La favole delle api” dice che i vizi privati diventano in qualche modo delle virtù pubbliche perché seguendo il proprio particolare interesse si favorisce il progresso, lo sviluppo della società tutt’intera. Da questa idea liberale declinata alle attività economico-pratiche deriva una richiesta fondamentale al vertice della comunità: lo Stato deve astenersi da ogni attività regolativa del mercato, diversamente da quanto avevano fatto i sovrani assoluti. Lo Stato non deve intervenire. La metafora di Adam Smith viene ripresa alla fine dell’Ottocento dall’economia ‘neoclassica’ che ancora adesso è l’orientamento dominante di economia politica (Leon Walras, Vilfredo Pareto). La ricerca della massima soddisfazione individuale conduce al benessere collettivo della società perché questa spinta egoistica favorisce in qualche modo l’evoluzione delle società nel suo complesso. Sarà un orientamento fortemente criticato nel corso dell'Ottocento dall’economista inglese Keynes. Per altro è importante anche la sua vicenda: l'ideologia liberale tra la fine dell’Ottocento e nel Novecento entrerà in crisi, ma alla fine dell’Ottocento vi fu una potente e forte rinascita del pensiero liberale (sia liberalismo politico che nella versione delle attività economico-pratiche). Dal punto di vista della classe che cos’è lo Stato di diritto? È uno Stato monoclasse, cioè è lo Stato della classe borghese protagonista della Rivoluzione e detentrice del potere economico. La dimostrazione più chiara ed evidente di questo carattere classista è la limitazione del suffragio: il diritto di eleggere e la facoltà di essere eletti compete soltanto ai cittadini che siano o proprietari o con un determinato livello di reddito. Quindi una minoranza della popolazione. Dal punto di vista del popolo la questione è molto complicata. Lo Stato è uno Stato ‘nazionale’, un principio politico che si lega ad un alto principio di appartenenza politica che è quello di ‘nazione’ (lo vediamo dopo). ♚ Un paio di narrazioni e vicende rispetto alle grandi rivoluzioni politiche sul garantismo ✾ La prima interviene tra 800 e 900 e vede come protagonista Georg Jellinek (grandissimo autore di diritto pubblico del Novecento) che si contrappone polemicamente ai costituzionalisti francesi: sosteneva -con qualche ragione dice il prof- il primato della rivoluzione americana rispetto alla francese, in modo particolare per quanto riguarda il documento simbolo, ovvero la Dichiarazione dei diritti: (lo avevamo accennato) documento che ricalca molto da vicino i Bill of Rights degli stati americani. ✾ Ma la prima polemica sulle rivoluzioni e contemporaneamente sui diritti avviene in ‘tempo reale’ e vede contrapposti due autori inglesi: Edmund Burke e Thomas Paine. Entrambi sostenitori dell'indipendenza americana (e quindi quella rivoluzione), tuttavia su posizioni che si rilevano piuttosto diverse: diversa è l’interpretazione del processo rivoluzionario. Burke è considerato uno degli iniziatori dello storicismo contemporaneo, uno storicismo però di segno conservatore. È noto soprattutto per l'opera del 1790 “Riflessioni sulla rivoluzione in Francia” scritta sotto l’impressione delle vicende tumultuose di quel paese e in difesa della ragione storica contro l’opposta ragione 'antistorica', astratta e rivoluzionaria in senso radicale dei francesi. Alle violenze dei francesi Burke contrappone il mito della rivoluzione inglese e pacifica, ‘gloriosa’, anche se (a dirla tutta) la dittatura puritana calvinista con Cromwell cominciò con la decapitazione del sovrano Carlo I nel 1649, alla quale seguiranno altri episodi cruenti come la terribile esecuzione postuma dello stesso Cromwell nel 168 (quindi proprio pacifica e incruenta non fu neanche la rivoluzione inglese). Comunque Burke, alla Dichiarazione del 1789, che fa riferimento a una radice razionale, universale e naturale dei diritti, oppone le carte americane e la stessa carta dei diritti inglesi che sono diritti storici legati a una particolare comunità politica e non ad un ideale ‘antistorico’, universale (come quello francese). Non i generici e indifferenziati diritti dell'uomo, ma i diritti di una comunità individuale ben chiara e precisa, che si affermano attraverso la storia, attraverso vicende storiche precise e che si trasmettono di generazione in generazione. È un punto rilevante. Tra l’altro i costituzionalisti francesi non avevano un’idea chiara su come definire i diritti, parlando infatti di diritto dell’uomo e del cittadino… due entità differenti. Il fatto che Burke passasse dalla difesa della rivoluzione americana alla condanna aspra della Rivoluzione francese fu considerato da molti come un tradimento dei suoi principi: per sottolineare il carattere ‘antistorico’, violento e cruento della Rivoluzione francese, Burke si riferisce alla rivoluzione Gloriosa inglese evitando di ricordare anche gli episodi relativamente cruenti della rivolta dei coloni in America alla fine del Settecento. Sia pure con una posizione non proprio trasparente e chiara, è evidente che Burke pensava che anche la rivoluzione americana non avesse il carattere iconoclasta, radicale ed estremista dei fatti francesi, oltretutto scrivendo nel 1790 quando ancora non c’erano state le migliaia di esecuzioni attraverso la ghigliottina a partire da quella di Luigi XVI del 1792. Indubbiamente quella francese fu un sovvertimento molto forte, mentre in America all'inizio i coloni avevano sostanzialmente richiesto la stessa libertà di cui godevano gli inglesi (cioè la rappresentanza politica e la protezione dagli abusi di potere) e di fronte ai dinieghi dell'Inghilterra, le colonie iniziarono a produrre delle carte autonome dei diritti. Thomas Paine è un protagonista, un vero e proprio combattente, delle due rivoluzioni (sia americana che francese). Di quella americana fu un importante ispiratore e fu un combattente nell’esercito di Washington. Rispetto a questa vicenda va ricorda la sua opera “Il senso comune” del 1766 che fu rilevante per mettere le colonie sulla strada dell'indipendenza in un momento in cui ancora non si era pensato ad un esito così radicale dei rapporti con l’Inghilterra. Poi nel 1791 pubblica i “Diritti dell’uomo”: un’opera che si oppone direttamente a quella di Burke dell’anno prima esaltando l’evoluzione francese. È una delle opere giuridiche più vendute di tutti i tempi. In Francia Paine fu un membro della Convenzione nazionale francese, venne poi arrestato per le sue proteste contro l’esecuzione di Luigi XVI, e caduto Robespierre riebbe la libertà e il suo posto nella Convenzione fino al 1895. Un’altra sua opera importante è “L’età della ragione”: un pamphlet fortemente polemico e dal tono molto acceso nei confronti delle religioni storiche tacciate di essere delle credenze magico-religiose e irrazionali, e, nonostante il loro statuto debole, desiderose di ingerirsi nella vita politica. Il libro sostiene anche una moralità basata su una religione naturale (posizione deista, che vedremo). Nell’opera “Diritti dell’uomo” Paine sostiene contro Burke che i diritti sono diritti naturali, cioè spettano all’uomo fin dalla nascita. Tuttavia può accadere che questi diritti possano essere esercitati solo se vengano riconosciuti e trasformati in diritti civili con l’intervento attivo della comunità politica (es. diritto di proprietà deve essere riconosciuto, mentre il diritto alla vita rimane intrinsecamente naturale): Paine li chiama ‘diritti naturali trasformati’ e sostiene che non siano meno naturali degli altri → l’idea che il potere è limitato dai diritti e soltanto se li rispetta può essere valutato come un potere razionale. Burke e Paine sono i due rappresentati capostipite di due figurazioni contrapposte dei diritti. ⫸ La prima è tipica dell’esperienza giuridica inglese per cui i diritti sono ‘storici’, il risultato di una cultura, traduzione giuridica specifica autoctona, all’origine per esempio anche del romanticismo politico. ⫸ La seconda è propria della vicenda francese per quanto verbalizzata da un autore inglese. Secondo questa accezione i diritti sono universali, naturali, spettano a tutti gli uomini indistintamente. ♚ Cosa accade dopo lo Stato liberale? → Lo Stato democratico In conseguenza di molti processi, in conseguenza dell’affermazione di correnti che mettono in crisi il pensiero liberale (tra cui l’imperialismo che determinerà le guerre mondiali), in conseguenza di fenomeni complessi, si afferma uno Stato democratico. Lo Stato di diritto non è rinnegato: continuano a valere i principi sulla subordinazione di tutti i poteri della sovranità a regole giuridiche prefissate, a valere il principio sulla tutela dei diritti; sono però fortemente ridisegnati i poteri tra Stato e società civile → si profila un ordine regolativo pubblico a più livelli in cui lo Stato non è più la sola e unica prevalente autorità, ma dal basso c’è il riconoscimento di un livello sub-statale e verso l’alto il riconoscimento di autorità sovranazionali. Ma soprattutto si afferma il principio che i diritti, e non l’autorità statale, sono a fondamento dell’ordine costituzionale: è questa la grande differenza → i diritti alla base della costruzione dell’ordine politico. Il nuovo costituzionalismo democratico comincia a delinearsi con la prima costituzione democratica del 1919, quella di Weimar, poi con quella austriaca del 1920 (cui contribuisce Kelsen), tuttavia queste vicende furono travolte dalle guerre e quindi il nuovo costituzionalismo democratico si affermerà solo dopo il 1945. Lezione 7 ✮ Lo Stato democratico del 900 dà molta importanza ai diritti, ai principi fondamentali tanto che la dottrina costituzionalistica parla di un costituzionalismo nuovo giustamente, non semplicemente liberale, con l’idea che i diritti costituiscano pietra angolare delle nuove costituzioni giuridiche. ✮ L’altra novità fondamentale legata al tema dei diritti è l’estensione progressiva del suffragio fino a un suffragio universale. Alla fine del 900 tendono a votare tutti purché maggiorenni, senza limiti di sesso, censo o matrimonio. L’Italia il voto alle donne compare soltanto nel decreto luogotenenziale della primavera del 1945, ancora la guerra e attuato concretamente dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale per le elezioni amministrative del marzo 1946; e poi si ricorda soprattutto la partecipazione delle donne al referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 per cui la partecipazione delle donne fu superiore a quella degli uomini. Siamo arrivati un po’ tardi, ma anche altri paesi sono arrivati tardi (anche più tardi di noi): motivo per cui l’estensione del suffragio la indichiamo per tutto il secolo. La Svizzera lo fa con referendum a livello federale nel ’70 (molti cantoni continuavano a vietarlo invece, fino al ’90). ✮ In conseguenza dell’estensione del suffragio, lo Stato democratico, diversamente da quello liberale, si presenta come uno Stato pluriclasse → cioè un’organizzazione politica che, almeno in linea di principio, considera tutte le classi su un piano di uguaglianza… lo Stato è aperto alla partecipazione di tutti i gruppi, di tutte le formazioni sociali. Anche se di fatto ci sono degli impedimenti di fatto per cui ragionando secondo gli altri commi le cose non vanno secondo la stessa direzione. ✮ Per quanto riguarda i rapporti con le attività economiche e pratiche (mercato, commercio), lo Stato democratico si presenta come uno Stato sociale. Per reagire alle crisi economiche che colpirono le società europee e mondiali tra 800 e 900 (dopo rivoluzione industriale, capitalismo maturo, c’era l’idea che il progresso sarebbe stato sempre una linea ascendente di sviluppo… invece shock a fine 800 con la grande depressione del 1873 e poi la grande crisi economica del 1929, in Italia crisi anche nel ’18 e ‘19) cosa succede? Il pensiero liberale va in crisi: si vede un aumento esponenziale della disoccupazione, fallimenti delle imprese, caduta dei prezzi delle materie prime… insomma in questo quadro complesso lo Stato tende ad intervenire. È una caratteristica dello Stato democratico del 900: con la crisi del pensiero liberale vengono abbandonati i dogmi, i principi, le idee fondamentali del liberismo economico tipici dello Stato liberale. Dalla fine dell’800 (da anni ‘70, ‘80 dopo la crisi della Grande depressione), gli Stati cominciano ad intervenire con misure protezionistiche (dazi doganali per proteggere prodotti interni e scoraggiare l’importazione di prodotti stranieri), sostenere in varie forme la produzione industriale e agricola autoctona. La Grande crisi del’29 (uno shock incredibile) fu uno dei fattori più importanti e decisivi per l’ascesa del nazionalsocialismo in Germania che in quel periodo (anni ‘20 e ’30) dipendeva dai capitali americani → la crisi partita dagli USA investe come un ciclone l’economia e la politica tedesca determinando sostanzialmente il crollo della Repubblica di Weimar. La crisi del 1929 accelera fortemente questa tendenza all’intervento dello Stato che interviene a disciplinare e regolamentare l’attività economica, a controllare il credito, i prezzi e i salari. Lo Stato si affianca alle imprese con vari interventi di sostegno e divenendo, a volte, direttamente stato-imprenditore. Si diffonde, per reagire alla crisi e ai fenomeni di disoccupazione, la pratica dei lavori pubblici. La stazione fondamentale di questa straordinaria grande trasformazione del rapporto Stato-mondo privato (dell’economia) è il cosiddetto NEW DEAL (= nuovo corso) del grande presidente americano Roosevelt (l’unico presidente eletto per quattro mandati tanta era la sua autorevolezza e il suo rapporto stretto con la società americana in questo momento difficile → una tendenza poi considerata non democratica per cui dal ’51 si aggiungerà un 22esimo emendamento (tuttora) che consentirà solo due mandati). Gli USA da pochi decenni avevano sostituito l’Inghilterra come prima nazione capitalistica del mondo, ma la crisi economica produsse un crollo rovinoso della produzione, una disoccupazione enorme, il crollo della borsa di New York e il fallimento di molte banche. Il New Deal è una sconfessione netta e radicale del principio del liberismo economico: si afferma l’idea che il capitalismo debba essere riformato dal principio per cui lo Stato deve intervenire nell’economia. “La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” è un’analisi importante del grande autore dell’economia del ‘900 Keynes, con cui diede un importante sostegno teorico a questa posizione d’intervento statale nelle economie. Dunque negli USA, ma anche negli altri paesi prevalentemente occidentali, vengono adottate misure a sostegno delle masse popolari, a sostegno del reddito, misure politiche contro la povertà e favorevoli Oppure si pensi alla libertà di movimento che può scontrarsi con il diritto alla sicurezza… e un altro tema importante legato alla pandemia è il diritto alla libera disposizione della propria vita, del proprio corpo con il diritto alla salute della collettività. Si possono fare tantissimi esempi… il problema dei trattamenti sanitari obbligatori e del vaccino: la disciplina dei vaccini obbligatori che riguarda i minori di età, che ha suscitato molte discussioni perché fa collidere diritti diversi → la libertà personale (decidere se far vaccinare i figli) si scontra con il diritto alla salute e il diritto all’istruzione (riferimento: legge 119 discussa del 2017 che ha previsto 10 vaccini obbligatori per i minori di certe età…). Questo per dire che il decisore politico, di fronte a questo elenco allungato di diritti, fa scelte di implementazione, di privilegio in base alla forza delle istanze, in base alle sue convinzioni di valore (proteggere più la libertà o l’uguaglianza? Proteggere più i diritti di prima, terza o quarta generazione?), ma scelte che sono anche inevitabilmente incondizionate dalle risorse di cui la comunità politica dispone in quel momento. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una grave crisi finanziaria protratta sostanzialmente per dieci anni, iniziata nel 2007 e innescata da un mercato del credito ‘drogato’ da strumenti finanziari inaffidabili, poco trasparenti e spesso fraudolenti. È stata la crisi economica più grave dal dopoguerra e le risposte dai sovra- stati (le istituzioni europee) non sono state sempre efficaci, ma soprattutto non sono stati toccati gli squilibri di reddito e di ricchezza della maggior parte dei paesi occidentali: un problema fondamentale che tocca l’uguaglianza. Squilibri che erano rimasti nonostante il “trentennio glorioso”, “l’età dell’oro” dello Stato sociale. In questi ultimi 30/40 anni le disuguaglianze sono molto cresciute e questo quando c’è meno ricchezza. È un problema sotto diversi punti di vista: si abbassano i consumi delle masse e quindi la crescita economica è indebolita (il nostro Paese è la dimostrazione più evidente di questa circostanza); la disuguaglianza provoca disagi e tensioni sociali. ♚ Stato nazionale Dal punto di vista della popolazione (stato, territorio, popolazione) molti Stati (soprattutto quelli europei) dall’800 in avanti si sono caratterizzati come ‘Stati nazionali’. La nazione è diventata, nella storia contemporanea dello Stato, un meccanismo fondamentale di legittimità delle istituzioni. Su questo tema c’è un testo di Hannah Arendt, una grande donna del 900 di religione ebraica, che ha riflettuto con grande lucidità sul tema del nazionalismo e sul rapporto di esso con l’imperialismo (forza che si affaccia a fine 800): l’idea che il conflitto tra gli Stati-nazione (come rappresentati di culture politiche anche differenti) e l’imperialismo fu la causa delle guerre mondiali. Su questi temi Arendt scrisse “Le origine del totalitarismo” pubblicato nel 1948. Lo Stato moderno viene prima della nazione. Lo Stato moderno nasce con la crisi degli ordinamenti feudali attorno del quindicesimo secolo. Il concetto di nazione compare e si afferma qualche secolo dopo tra 700 e 800 con la Rivoluzione francese e il movimento romantico. Una testimonianza di questa apparizione del concetto di nazione, un’apparizione problematica, emerge proprio dalla Dichiarazione del 1789 nell’articolo 3 dichiara: ‘il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nelle Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa’. Una disposizione che risolve quella contraddizione di cui abbiamo parlato per cui si parla ‘distintamente’ di diritti dell’uomo e del cittadino, sostenendo: se si parla di diritti dell’uomo si parla in prospettiva ideale e utopistica, ma sostanzialmente se parliamo di diritti, parliamo prevalentemente dei diritti dei cittadini, cioè dei membri in pieno diritto di una comunità politica. Lezione 8 Stavamo parlando di Hanna Arendt e il tema è lo Stato nazionale e la congiunzione di queste due entità (Stato-Nazione). Il testo di questa filosofia a cui facciamo riferimento è “Le origini del totalitarismo” del 1988: è un’analisi in primo luogo storiografica, precisa e corretta. La circostanza è questa: lo Stato viene prima, il problema della nazione si pone successivamente → il principio della Nazione emerge con la Rivoluzione francese (art. 3 Dichiarazione del 1789, tendenzialmente i diritti valgono esclusivamente per i cittadini) e si afferma anche con il Romanticismo. C’è in primo luogo una diversità di date, di periodi: lo Stato inizia con l’età moderna e la crisi degli ordinamenti feudali, mentre la nazione si afferma tra 700 e 800. Hanna Arendt però a parte questa analisi sulle date analizza anche i principi ispiratori dello Stato e della Nazione, e sono diversi. ❁ Il principio ispirato dello Stato è tendenzialmente formale → individuazione delle tutele e dei privilegi (di ciò che è consentito richiedere alla comunità politica e ciò che è vietato) sulla base di elementi oggettivi, formalizzati in un certo territorio e una certa popolazione compresa in esso. ❁ La Nazione si fonda invece su un principio materiale e sostanziale (non formale) che è anche un principio escludente → si immagina, si analizza o si cerca di figurare una comunità omogenea per origine, nascita e limitata soltanto ai cittadini. La cosa più importante che dice Arendt e che discende da queste due premesse è che nel corso dell’800 con l’età è dell’imperialismo c’è una progressiva conquista della comunità politica -intesa come Stato- da parte della Nazione → il principio che si è affermato dopo (quello nazionale) nella configurazione dello Stato e diventa la configurazione principale di esso. Hannah Arendt conclude questo suo ragionamento con un’analisi molto lucida e convincente (secondo il prof): questo predominio progressivo del concetto di Nazione diventa fatale nell’epoca dell’imperialismo. L’imperialismo è quel periodo di fine 800 in cui si afferma la retorica della rivalità tra le nazioni per quanto riguarda l’aspetto economico, la conquista del mercato, dei beni e delle materie prime… imperialismo responsabile delle politiche occidentali di colonizzazioni… imperialismo che si afferma con prevaricazioni di questo tipo → siamo comunità nazionali diverse, combattiamo per il nostro spazio vitale, oppure siamo una grande nazione, abbiamo una responsabilità nei confronti della storia, dobbiamo affermare i nostri valori e la nostra civiltà. Questa retorica, una miscela esplosiva di nazionalismo e imperialismo, porta al primo conflitto mondiale e poi anche al secondo. Facciamo un’analisi storico/teorica per cercare di capire come si è sviluppato questo principio e quali fonti lo hanno alimentato. Ci sono concezioni diverse: Concezione volontaristica o contrattualistica, prevalentemente francese, e influenzata fortemente dal pensiero di Rousseau → la Nazione è l’insieme dei cittadini, è il popolo che stipula un contratto sociale politico di cittadinanza per cui determinate persone si riconoscono in una determinata comunità politica. Questa è la prima e forse la più significativa concezione guardando alle idee della Rivoluzione francese. Rousseau è una fonte fondamentale. Concezione storicistica, romantica in cui si vede il contributo non dell’illuminismo politico-francese, ma una concezione che si afferma in altri paesi meno toccati dal processo rivoluzionario. È una concezione molto forte -quella romantica- che si afferma in Germania e in Italia → l’idea che la Nazione si fonda su fattori oggettivi quali l’etnia, la lingua, la religione... È un’idea molto importante perché riconosciamo che questa idea ha alimentato il Risorgimento italiano. Ha alimentato anche altri processi di unificazione nazionale: come quello tedesco del 1870/71 → la riunificazione di alcuni paesi tedeschi dopo la guerra franco prussiana da parte del cancelliere di Bismarck (Secondo Reich). Ma questa idea dell'unità oggettiva ha alimentato anche un altro processo di riunificazione: quello tedesco del 1990 dopo la caduta del muro di Berlino. Concezione più teorica che pratica, (che convince il prof) una figurazione intermedia rappresentata da Max Weber che ha più chiaramente legittimato la Nazione ad una sua funzione evidente: la funzione di generare legittimità delle istituzioni. Secondo Weber una omogeneità oggettiva può anche mancare (come manca in molti stati, come quelli federali…), ma allo stesso tempo (diversamente dalla concezione francese) non basta semplicemente l’accordo, non basta la volontà politica per fare una Nazione: per fare una Nazione c’è necessità di un elemento soggettivo più forte, un sentimento nazionale → è il sentimento nazionale che fa la Nazione, non un accordo né dei fattori oggettivi. Il sentimento nazionale è un’idea più complessa, di identità culturale, di appartenenza reciproca, di condivisione di determinati ideali, di avere degli obiettivi di crescita e di sviluppo, delle aspirazioni comuni. Magari siamo diversi, non parliamo la stessa lingua, abbiamo diverse tradizioni, però condividiamo gli stessi ideali. Weber usava l’esempio degli alsaziani: questi non parlavano il francese, ma un dialetto germanico ed erano stati uniti al Secondo Reich di Bismarck, tuttavia non si sentivano tedeschi → nonostante le diversità di tradizioni e di lingua, si sentivano francesi perché avevano l’ideale della grande missione civilizzatrice della nazione francese, il mito della Rivoluzione e l’idea di far parte soggettivamente di una grande visione culturale. Ma quest'idea di Weber sul sentimento nazionale si evidenzia soprattutto negli stati federali come la Svizzera che ha quattro lingue e tuttavia tutti i cantoni che la compongono si riconoscono in certi ideali che sono soprattutto quelli della democrazia diretta, della partecipazione diretta del popolo con l’ideale del referendum (in quel paese largamente esercitato); oppure anche gli USA che si riconoscono, anche se di origini e lingue differenti, nella grande missione civilizzatrice della nazione americana. Comunque rimane la circostanza che il prevalere intenso e violento dei sentimenti nazionalistici ha obiettivamente avuto delle responsabilità nella genesi dei conflitti mondiali e nell’affermazione delle dittature. La retorica dello ‘spazio vitale’ che fu molto forte nel tragico decennio nazista. Ancora qualche riflessione su questo punto è necessaria. La ripresa terribile del nazionalismo: la vicenda della Jugoslavia Ci fu una ripresa violenta e terribile del nazionalismo nel territorio balcanico: una ripresa considerata da tutti gli osservatori che pensavano di costruire un'Europa pacificata, e un fenomeno seguito con grande preoccupazione → le guerre nei territori della ex Jugoslavia risvegliarono bruscamente la tragedia delle guerre mondiali. Dal 1945 Serbi, Croati, musulmani avevano vissuto in uno stato di relativa tranquillità sotto la ‘cappa’ della repressione del regime comunista di Tito, ma alla sua morte, e in un contesto di crescente crisi economica, nacquero contrasti interni tra le varie componenti ‘etniche’ della federazione Jugoslavia... poi ci fu la caduta del muro Berlino e il crollo dei regimi comunisti e cominciò di fatto la disgregazione politica della Jugoslavia: uno dopo l’altro gli ‘stati’, che avevano mal sopportato il predominio serbo all’interno della federazione, dichiarano la loro indipendenza. In Slovenia, che era una repubblica ‘etnicamente’ omogenea, gli scontri con l’esercito federale jugoslavo durarono pochi giorni e si affermò come Stato indipendente. In Croazia iniziò una lunga guerra fino al’95: la minoranza serba fu costretta alla fuga. La guerra si spostò in Bosnia Erzegovina dove un referendum sull'indipendenza del 1992 diede inizio alla spaccatura di quella che era la repubblica più multietnica della Jugoslavia. Le comunità musulmana e croata votarono a favore della secessione, mentre i serbo-bosniaci boicottarono la consultazione… In questa regione, relativamente piccola e vicina all’Italia, scoppiò la guerra più violenta succeduta alla dissoluzione della Jugoslavia, che provocò moltissime vittime, sfollati ed episodi gravissimi di genocidio. L’assedio di Sarajevo dall’esercito serbo è il simbolo di questa guerra. Violenze, massacri in prevalenza contro le minoranze croate e musulmane: il caso più terribile è l’eccidio di Srebrenica del 1995 in cui le truppe serbo-bosniache guidate da Mladic causarono migliaia di vittime (+8.000) tra i musulmani bosniaci. Mladic venne poi arrestato e processato, per ora è vivo e sconta un ergastolo, condannato da un tribunale internazionale. Finalmente dopo questo episodi, nel 1995 vennero firmati gli accordi di pace che misero fine alla guerra e rimase la Bosnia Erzegovina come Stato formalmente unitario ma suddiviso in due entità distinte: Repubblica serba e Federazione croata musulmana. La riflessione del prof… Ripensando ad Hannah Arendt e a questa fusione terribile di nazionalismo-imperialismo a fine 800 e a questa vicenda che ha scosso moltissimo la coscienza europea (il nostro continente dopo le guerre mondiali pensava di essere diventato ‘pacifico’, ma si è risvegliato con questa grave vicenda…): per il prof la questione dell’identità culturale (il problema sollevato da Weber) è una questione molto importante ed è normale ed inevitabile che questa identità collettiva venga costruita con elementi emotivi, culturali, affettivi. Il prof crede che la Nazione non sia la destinataria più adeguata di questo bisogno. La grande patria (la nazione) è stata spesso un pretesto per scatenare risentimenti, vendette, frustrazioni di status… il caso della ex Jugoslavia, su questo punto di vista, è davvero paradigmatico. Se a distanza di qualche decennio e avendo presente anche la storia precedente riflettiamo meglio su queste faccende e pensiamo al luogo degli affetti, e non necessariamente alla patria, al milite ignoto, al Risorgimento… tendenzialmente quando cerchiamo una risposta al problema della identità non pensiamo alla Patria, ma alla patria: il luogo dove ci si sente a casa, dove ci sono gli affetti, amici, borgo, le persone che parlano con la medesima inflessione e stesso gergo. E l’idea che esprime questa concezione ‘di piccola patria’ è la parola tedesca ‘heimat’ (pronuncia haimat) che è intraducibile… si avvicina a piccola patria, borgo natio... non ha un corrispettivo preciso in altre lingue. Pensando a come è nato il progetto europeo, con contributi anche di grandi italiani (Colorni, Rossi, Altiero Spinelli), il prof crede che dopo quello vissuto e dopo il risveglio brusco, improvviso e traumatico, il progetto europeo sia fondamentale: l’idea di un’Europa unita (che si nutre anche delle idee della resistenza per esempio di Sophie Scholl “dobbiamo costruire una nuova Europa fondata sui principi di libertà e di uguaglianza”), che nasce da una valutazione negativa sui disastri dello Stato nazionale e allo stesso tempo da un’aspettativa positiva sulle opportunità di arricchimento culturale e il miglioramento delle condizioni economiche e lavorative dei cittadini europei… non dobbiamo negare le piccole patrie che ciascuno ha il diritto di portarsi dietro nel proprio vissuto sentimentale. Però il progetto europeo invita a pensare ad una umano e prodotto da un’autorità contingente e storicamente mutevole- non ha alcun rapporto necessario con la morale o con la religione. Tuttavia, facendo riferimento alle cose di cui abbiamo già parlato precedentemente, è importante ricordare che dopo la tragedia dei regimi totalitari del 900 e dei crimini più odiosi della storia dell’umanità (olocausto, sterminio, campi di concentramento) sono molti gli autori che hanno ripudiato il positivismo giuridico assumendo delle posizioni neo-giusnaturalistiche. Questo per dire che il giusnaturalismo non è una corrente di pensiero ‘morta’: il tema della giustizia è un tema universale. Peraltro Hans Kelsen era un pensatore liberal-democratico, odiatore del Terzo Reich (costretto a fuggire dall’Austria quando venne annessa), ma tuttavia esprimendo la sua posizione di oggettiva primazia del diritto positivo, pensava semplicemente di formulare un principio di realtà per cui il diritto è quello che proviene da un’autorità e può avvenire che sia un diritto ingiusto. A ripresa delle posizioni giusnaturalistiche il prof ricorda un caso clamoroso del filosofo del diritto e penalista tedesco legato a Weber che fu anche ministro della giustizia durante gli anni agitati della Repubblica di Weimar, Gustav Radbruch: tra le altre cose è famoso per il principio che afferma nel 1946 che una legge intollerabilmente ingiusta (non tutte le leggi, solo quelle che sono in maniera evidente contro i principi di giustizia) deve essere considerata antigiuridica. Il problema era quello dei giudici e dei funzionari che avevano dato esecuzione a un diritto ingiusto e omicida… è il problema di Antigone che ritorna, di Sophie Scholl e la rosa bianca… I positivisti ‘rispondono’ dicendo che è facile proclamare un principio di questo tipo (riferendosi a Radbruch), il problema -come sempre- parlando dei funzionari che devono dare attuazioni a delle leggi omicide, è che vale il principio per cui dovrebbero disobbedire… Durante le dittature, in particolare quella nazista, questo coraggio non abbondò… Una vicenda sulla quale è intervenuta Hannah Arendt è il processo a Eichmann che, era un ufficiale delle SS, fu uno dei principali organizzatori della cd. ‘soluzione finale’ dello sterminio degli ebrei. Venne arrestato dal Mossad (servizio segreto israeliano) quando si rifugiò a Buenos Aires e venne processato a Gerusalemme. Un processo che Arendt seguì da vicino, e che si concluse con l’impiccagione del tedesco (nonostante la pena di morte non fosse prevista dall’ordinamento israeliano), processo in alcune parti filmate (si trovano su YouTube, il prof ci invita a vederle) in cui alle contestazioni da parte del tribunale di aver dato seguito a degli ordini sostanzialmente omicidi, Eichmann ripeteva come un disco rotto ‘io ho fatto un giuramento di fedeltà e obbedienza, ero vicino alla sensibilità di queste persone destinate evidentemente alle morte, ma io eseguivo degli ordini legittimi’. Arendt scriverà il famoso resoconto del processo ad Eichmann “La banalità del male”: la fedeltà cieca senza coscienza e senza morale. ↝Samuel von Pufendorf ↜ Tornando a Tarello, iniziamo dal sassone (tedesco) Samuel von Pufendorf (1632-1694). Abbiamo accennato prima al suo giusnaturalismo di tipo laico, razionalista nonostante fosse un fervente cristiano luterano. La sua opera più importante è un’opera del 1672 “Del diritto di natura e delle genti”. A Heidelberg (centro culturale importante) venne istituita la prima cattedra di diritto naturale delle genti, e per molto tempo questo sarà il nome della ‘filosofia del diritto’: questo per sottolineare quanto fu importante e significativo il suo pensiero giusnaturalistico nella nostra materia. Pufendorf crede nell’esistenza di una legge superiore che si ricava dai precetti e dalla giusta ragione (recta ratio). Il diritto naturale che ha in mente è un diritto universale, cioè vale per tutti gli uomini, è un diritto che va oltre i confini delle comunità politiche, e che ha come obiettivo fondamentale la conservazione della pace sociale come il bene più importante e prezioso. Su questo si costruisce la sua opposizione al pensiero di Hobbes a partire da premesse storico-teoriche comuni: l’idea del patto sociale e del filone contrattualistico. La pace sociale è una condizione necessaria affinché ciascun uomo possa godere dei propri beni e delle proprie fortune e valorizzare in generale la propria esistenza. Proprio con questa caratterizzazione intensamente universalistica, il diritto naturale non si può fondare su basi religiose. Questo perché dobbiamo riconoscere che le religioni (sebbene Pufendorf fosse cristiano) sono diverse a seconda dei popoli e delle epoche storiche (es. evento traumatico della divisione tra i cristiani con la Riforma protestante di Lutero nel 1517). Il diritto naturale invece stabilisce che la regola delle azioni e dei rapporti tra tutti gli uomini debba essere una regola che vale per tutti: non in quanto cristiano o musulmani o... quindi il diritto naturale deve distinguersi dalla teologia morale: deve essere distinto per la diversità della fonte da cui promana: nel caso del diritto naturale universale la fonte è la ragione giusta, corretta; nel caso della teologia morale è la rivelazione di una qualche entità riconosciuta superiore alla natura umana; deve essere distinto per lo scopo, il fine, l’obiettivo perseguito: nel diritto naturale quello di promuovere la socievolezza nell’uomo con norme che valgono esclusivamente per la vita terrena; mentre nella teologia il fine delle ‘norme’ è la salvezza dell'anima attraverso l’osservanza dei precetti indicati dall’ente supremo; deve essere distinto per l’oggetto: l’oggetto del diritto naturale universale (lo vedremo soprattutto in Thomasius) è quello di regolare, dare un principio di condotta alle azioni esterne, ai comportamenti tra gli umani e reciproci; mentre la teologia morale si occupa solo della coscienza e delle azioni interne. Su queste convinzioni l’obiettivo di Pufendorf è costruire un sistema organico e strutturato di diritto naturale universale che deve valore tendenzialmente per tutte le comunità politiche, per tutti. In questa finalità sistematrice intensamente razionalistica possiamo antivedere lo spirito che animerà il processo di codificazione. Un’altra sua idea è che il diritto naturale può diventare l’oggetto di una scienza sociale rigorosa analoga alla fisica → un’idea fisicalista: l’idea di un confronto con le scienze naturali. Secondo Pufendorf il mondo, la realtà si divide in elementi fisici studiati dalla scienza della natura; mentre nel mondo delle relazioni umani e del diritto naturale che deve disciplinare troviamo delle entità diverse altrettanto reali ed oggettive, queste entità specifiche del mondo ‘umano’ (che deve disciplinare l’attività e le relazioni tra gli umani) sono gli enti morali → anch'essi oggettivi come i fatti fisici studiati dalla scienza della natura. Gli enti morali sono i modi che gli esseri intelligenti applicano alle cose e ai comportamenti per dirigere e regolare la libertà delle azioni volontarie dell’uomo e attribuire un ordine alla vita umana. Gli enti morali sono i valori che sono i meccanismi di guida regolativa delle relazioni e delle condotte tra gli uomini. Lezione 9 Pufendorf è molto interessante anche perché ha una concezione di verità in qualche modo calibrata anche in un confronto con le scienze naturali, nel senso che queste si occupano di una porzione di realtà che sono gli enti fisici, mentre per quanto riguarda la scienza giuridica, e in generale le scienze sociali, si occupa di un’altra porzione di mondo, di realtà, altrettanto importante e significativa quanto gli enti del mondo naturale, e sono gli enti morali che sono concretamente i valori che Pufendorf ritiene i meccanismi di guida e di orientamento delle condotte degli uomini e delle loro relazioni. È molto interessante perché tutta la teoria di Pufendorf si costruisce in un confronto tra scienze naturali e scienze sociali. ♛ Negli enti fisici si può osservare la perfezione dell'universo naturale. ♛ Negli enti morali si può osservare la perfezione della vita umana, sociale. I primi fatti del mondo naturale sono sottoposti alle leggi fisse e uniformi della causalità, sono leggi che non vengono mai cambiate, sono sempre le stesse; mentre invece gli enti morali sono dominati dalla libertà, cioè sono la manifestazione più importante della cultura dell’uomo, in cui il punto di partenza è questo: la sostanza metafisica dei fenomeni culturali che dipendono dal comportamento degli uomini è la libertà, l’essere possibile, il poter essere altrimenti. La cultura è il regno della libertà e di conseguenza è anche il regno dell’imprevisto, dell’inatteso. Però questo punto di partenza ‘antropologico’ è anche la difficoltà specifica dello sviluppo del ragionamento di Pufendorf: da questo regno della libertà come si genera il regno della necessità (la dimensione delle condotte be ordinate, ben disciplinate)? Intanto possiamo individuare un punto cardinale della sua teoria. Pufendorf ha una posizione, come altri giusnaturalisti, di cognitivismo etico: i valori sono oggettivi e conoscibili dalla ragione, dei valori si può parlare, come per gli enti fisici, in termini di verità. Il procedimento razionale (la retta ragione, la ragione ben guidata) giudicherà i valori che sono veri, che devono valere e i valori che invece devono essere respinti. Si tratta di una posizione da molti punti di vista criticata: secondo i non cognitivisti i giudizi morali non seguono questa logica ‘fisicalista’ di Pufendorf, ma sostengono invece che i valori sono l’espressione di un punto soggettivo che può essere diverso e che non può avere validità universale. Bisogna capire come dal mondo degli enti morali, il mondo delle azioni e delle condotte uomini e delle relazione, come da questo mondo dominato dalla libertà possa alla fine generarsi e prodursi il diritto naturale, che si afferma e deve affermarsi e imporsi alle coscienze come dei precetti obbligatori. Pufendorf per sciogliere questo nodo problematico fa ricorso alla storia: sostiene che ci sia un processo storico, di svelamento progressivo, guidato e diretto dalla ragione, e alla fine di questo processo possiamo conoscere che la libertà è stata in grado di riconoscere i valori veri e oggettivi e convertirsi nella necessità. Come si manifesta questa ragione nella storia del mondo? è un altro punto fondamentale che ci fa dire che Pufendorf appartiene alla corrente di pensiero contrattualistica. Questa ragione che si rivela nella storia, si manifesta concretamente attraverso la stipulazione di patti, intese e accordi. Attraverso questo meccanismo con cui gli uomini riflettono e discutono insieme sulle cose davvero necessarie e i valori da seguire, si rende sempre più manifesta la circostanza (che è la pietra angolare del pensiero di Pufendorf) per cui il bene più prezioso di cui l’uomo dispone, e che deve valorizzare nei patti, è una condizione di socievolezza pacifica (che il filosofo indica con il termine latino ‘socialitas’). Questo pensiero di Pufendorf fu molto importante nell’indirizzare Thomasius e Kant sulla pace perpetua. Lo stato di natura (un elemento teorico fondamentale di molti contrattualisti) che precede la formazione genesi della società civile è immaginato dall’autore come una condizione di libertà originaria (immagine che tornerà anche ne “Il contratto sociale” di Rousseau): una condizione di libertà e reciproca indipendenza, senza dominazione per cui né dominati né dominati. Secondo Pufendorf vige in particolare un regime di proprietà indivisa: non esiste la proprietà privata e la terra è a disposizione di tutti. Un tema che ricorre continuamente nella filosofia. -Rapida incursione nel 800: l’idea dell’assenza di proprietà privata sarà uno dei miti del materialismo storico di Marx ed Engels, soprattutto nel secondo in “L’origine della famiglia, della proprietà e dello Stato” (1884)- Per Pufendorf, nello stato di natura domina il più intenso dei sentimenti umani: l’amor proprio, l’amore di sé. Tuttavia, in questa dimensione di sviluppo di eventi e di facoltà intellettive, della retta ragione, si fa strada la consapevolezza, da parte di ciascuno, della propria fragilità. Proprio perché preoccupato dalla necessità dell’autoconservazione, dell’istinto di vita (il già accennato conatus essendi di Spinoza) e mosso da istinti egoistici, l’individuo cerca il sostegno e la collaborazione di altri individui → se non si vive in gruppo (piccolo o grande) è difficile difendere la propria esistenza. Per ottenere la collaborazione dei simili e l’aiuto reciproco ciascun individuo è indotto a comportarsi in maniera pacifica in modo da non offrire agli altri l’occasione di nuocere a sé stesso → è indotto a comportarsi inevitabilmente in maniera non aggressiva, pacifica, conciliante tendendo all’accordo (vedremo che in Hobbes l’idea è esattamente contraria). E il riconoscimento di questa realtà, dell’importanza vitale di ciascuno di noi, apre alla stipulazione (progressivamente più ricca e articolata) di accordi, intese, patti. All’inizio questi patti sono di natura prevalentemente privatistica (sono concentrati sul tema della proprietà privata) e poi assumono un contenuto specificamente e direttamente politico, quindi accordi di natura pubblicistica. L’inizio del processo di stipulazioni di accordi comincia proprio con la proprietà, con una questione di diritto privato. L’idea di Pufendorf, che da quella situazione originaria dello stato natura (proprietà indivisa) si arriva, attraverso gli accordi, ad una spartizione concordata, di tipo pattizio. Gli uomini stabiliscono tra di loro, in base alle loro necessità, che determinati beni debbano essere sottratti all’uso comune. La proprietà privata è un diritto naturale perché una delle prime creazione del diritto naturale razionale, tuttavia la sua origine si spiega sulla base di un accordo. L’idea invece che incontreremo in Rousseau è molto diversa rispetto a questa: la figurazione originaria è la stessa (stato di natura con proprietà indivisa), ma la genesi della proprietà privata non avviene attraverso un accordo, ma con la violenza, il sopruso del primo occupante. Per questo, come vedremo, Rousseau appartiene a una corrente di pensiero che considera con grande sfavore l’istituto della proprietà privata. Ma ci sono altri modelli di spiegazione su come sia nata l’idea della proprietà privata… un terzo modello è quello del filosofo inglese John Locke per cui la spiegazione va ricercata nel lavoro, che svolto su terre incolte e improduttive, legittima l’istituto della proprietà privata. Per Pufendorf i patti successivi segnano il passaggio vero e proprio dallo stato di natura alla società politica, e sono i passaggi decisivi per cui possiamo renderci conto che siamo arrivati a una dimensione di vita diversa e tendenzialmente superiore: lo stato civile. una più libera spiritualità interiore). Il pietismo, corrente religiosa il cui nome è scelto dal fondatore teologo alsaziano Philipp Jacob Spener, valorizza la pietà interiore, l’esperienza mistica, cioè un confronto diretto con il messaggio evangelico. Questa congiunzione particolare tra pietismo ed illuminismo fa sì che Thomasius si presenti come un pensatore autenticamente liberale: in campo religioso sostiene la lotta al dogmatismo religioso; in campo ‘illuminista’ sostiene la necessità della libertà di critica e di pensiero. Anche lui quindi è un vivace sostenitore della necessità della libertà religiosa e di conseguenza che sia fortemente limitato il potere dello stato nel campo dei fatti di coscienza → lo Stato può fare determinate cose, ma non introdursi nel foro delle coscienze degli individui della comunità politica. Ricordiamo molte opere. Nel 1697 scrive “Se la eresia possa essere considerata un crimine”. Thomasius nega la punibilità della eresia (praticata soprattutto dal cattolicesimo) in quanto deve essere considerato solamente un peccato di pensiero che non dovrebbe essere represso → rientra nella libera disposizione dell’individuo. In “Sul crimine della magia” (1701) sostiene la necessità di abolire i reati di stregoneria e di magia. Una vicenda terribile che occupa alcuni secoli e merita di essere ricordata → la ‘caccia alle streghe’, un fenomeno che compare già nel basso medioevo (sembra che il primo caso di strega bruciata sul rogo avvenne a Tolosa 1275) e che ha la sua massima diffusione in età moderna, tra la fine del 400 per tutto il 600 (su questo le fonti non sono pienamente attendibili, ma pare che l’ultimo rogo di una strega avvenne in pieno illuminismo, in Polonia nel 1793). Cinque secoli di roghi… è un fenomeno in un certo senso trasversale per quanto riguarda la vicenda del nostro cristianesimo, che coinvolge sia i paesi cattolici che quelli riformati (protestanti). È sostenuto principalmente da credenze popolari, ma in qualche caso anche dalle opinioni che provengono da eruditi ed ecclesiastici. I diversi movimenti religiosi un po’ si limitano a tollerare e un po’ sono in prima linea nella repressione. In Italia il fenomeno non è molto diffuso, però rispetto al problema dell’eresia dobbiamo ricordare il caso di condanna del filosofo italiano Giordano Bruno, noto per le sue idee eretiche, che venne condannato e arso vivo in Campo de Fiori del 1600. Ma perché vengono colpite soprattutto le donne considerate streghe (anche alcuni maghi ed eretici)? Le donne erano considerate esseri inferiori e maggiormente influenzabili dal potere di seduzione del demonio. Questo atteggiamento è descritto molto bene nel romano storico (con elementi di fantasia) “La chimera” di Sebastiano Vassalli, che racconta la vicenda di una donna accusata di stregoneria, ambientata nelle campagne di Novara nei primi del 600. Tutta l’opera penalistica di Thomasius è molto rilevante ed è sviluppata nello scritto giovanile “Le istituzioni della giurisprudenza divina” (1688). Sulla base delle idee viste, quest’opera esprime un orientamento molto forte nella direzione della secolarizzazione del diritto penale, un processo che idealmente inizia con Hobbes (in cui il diritto penale è quello più energico del Leviatano, che deve essere però istituito non da un'entità divina, ma dal dio mortale, lo stato), prosegue con Thomasius e si conclude con l’opera di Beccaria “Dei delitti e delle Pene”. Nella sua opera Thomasius afferma che il giurista non è un teologo: non si occupa di peccati, colpe e pene divine, ma il suo campo è solo quello delle pene umane, ovvero nel caso in cui ci sia stata trasgressione di precetti umani. All’interno delle pene umane il filosofo distingue tra quelle tipiche dello stato di natura e quelle dello stato civile (anche lui ha l’idea della distinzione dei due stati): ❂ la pena propria dello stato di natura è la → VENDETTA: una pena ‘privata’ che si limita esclusivamente alla considerazione del male passato e che tende a suscitare nel trasgressore il timore e la paura della violenza… ha un obiettivo limitato di questo tipo. ❂ la pena propria dello stato civile è un → male inflitto dal sovrano con uno scopo più elevato (non solo la paura e la sofferenza): il miglioramento dei sudditi (grande modernità). Questa pena superiore deve avere come obiettivo un bene futuro: l’intimidazione del potenziale delinquente (→ funzione di prevenzione speciale negativa per impedire che le persone con atteggiamenti antisociali diano concretamente corso a queste inclinazioni), ma soprattutto l’intimidazione rivolti a tutti i membri dell’attività politica, non soltanto ed esclusivamente alla persona con sentimenti antisociali, ma a tutte le persone che versano in questa condizione di avere istinti aggressivi (→ funzione di prevenzione generale negativa). Un messaggio indirizzato e al singolo e a tutta la comunità. Però poi la pena deve avere anche una funzione di educazione alla socialità di tutti i membri della comunità politica → straordinaria modernità di Thomasius, è più avanti delle idee tipiche dell’illuminismo giuridico penale che vedono la pena come una retribuzione del male commesso, la pena guarda ancora al passato. Invece Thomasius auspica una pena che vada oltre al castigo, una sanzione che promuova il bene collettivo. Questa espressione è rimasta famosa “la sanzione penale deve essere considerata come una pena medicinale, un farmaco che certamente fa male, ma che consente di prevenire e curare”. E’ una posizione non semplicemente illuministica, ma già proto-positivistica: una concezione che ritroveremo più di un secolo dopo in Jeremy Bentham e che è ancora attiva nella nostra ideologia giuridico-penale: è un’idea che incontriamo anche all’articolo 27 della Costituzione italiana “la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” → effetto di risocializzazione della pena (il termine adoperato dal costituente è impegnativo e un po’ paternalistico, il prof più che di ‘rieducazione’ preferisce parlare di ‘risocializzazione’) e quindi di reinserimento del condannato all’interno del tessuto sociale. Il tema della tortura… Thomasius scrive nel 1705 un testo “Sulla tortura” in cui troviamo sviluppate delle considerazioni, riflessioni che incontreremo un secolo dopo nell’italiano Pietro Verri in “Osservazioni sulla tortura” (1804), con ideali simili a quelli di Beccaria. Thomasius sviluppa ulteriormente la sua posizione liberale: la tortura va abolita → non soltanto perché serve ai fini di un’inquisizione che è crudele e inefficiente perché può portare a confessioni non veritiere; ma soprattutto perché è una pena di tipo ‘primitivo’, e non ‘civile’, che maschera fini di vendetta che non è adeguata ai sovrani dello stato civile. È un tema importante e che continua ad essere attuale: ci sono regimi nel mondo che tuttora ammettono la tortura... vi era una lacuna evidente nel nostro ordinamento sottolineata più volte dalle Corte europee e non solo → mancava una legge sulla tortura, che è poi arrivata nel 2017… Lezione 10 Ci eravamo lasciati ricordando le grandi sollecitazioni avvenute dal Consiglio d’Europa e la Corte europea dei Diritti dell’uomo dirette al nostro paese in quanto aveva (ha ancora, secondo il prof) una lacuna grave: non era previsto il reato di tortura → la causa delle censure riguardava episodi gravi avvenuti a Genova in occasione del G8 del 2001 nella scuola Diaz di torture da agenti della pubblica sicurezza e poi in una caserma a Bolzaneto… episodi noti che generarono processi non sanzionati adeguatamente (per il prof)… Su questa forte pressione, un po’ dell’opinione pubblica e un po’ delle istituzioni europee, alla fine la legge che avrebbe colmato questa lacuna c’è stata, intervenendo sul reato di tortura. Tuttavia, la legge del 14 luglio 2017 non è ben formulata. Su questo tema davvero rilevante occorrerebbe intervenire meglio. Non è una buona legge perché non punisce i singoli atti di tortura, ma soltanto quelli reiterati (il campo di applicazione si restringe), ma soprattutto non definisce la tortura come un reato compiuto da un pubblico ufficiale: la gravità è quando la tortura è compiuta da un esponente dello Stato (come un agente penitenziario, un poliziotto…). La tortura non è definita in maniera adeguata e precisa, si parla genericamente di trattamento inumano e degradante per la dignità della persona... quindi si usano criteri molto vaghi. E un’altra circostanza molto grave è che impone l’onere della prova alla vittima che dovrebbe dimostrare di aver subito un verificabile trauma psichico, se non lo prova il reato non c’è. E non è punibile chi tortura applicando la legge: “questa legge non si applica nel caso di sofferenze risultati unicamente dalla esecuzioni di misure legittime privative o limitative dei diritti”, per cui un pubblico funzionario può giustificarsi sostenendo che stava applicando la legge... Dovremmo ritornare più avanti sull’argomento occupandoci di Pietro Verri e Manzoni… Ma concludiamo con l’unica opera tradotta in italiano di Thomasius che è il suo libro principale e dà indicazioni precise sul fatto che il diritto non è da solo ma si inserisce in un oceano più vasto di istruzioni regolative. È un’opera del 1705 e si intitola “I fondamenti di diritto di natura e delle genti”, fondamenti ricavati dal senso comune: una dizione che tende a tornare nelle opere di diversi autori. In quest’opera, punto che abbiamo toccato, Thomasius delinea una sorta di volontarismo giuridico già abbastanza vicino al positivismo giuridico, ma in realtà la direzione del giusnaturalismo (tanto più se si tratta di un giusnaturalismo razionalistico), la sua destinazione finale è il codice, la legge → l’idea di un diritto posto da una qualche autorità, ma conforme al diritto naturale. Sono volontaristiche tutte quelle concezioni per cui le regole giuridiche sono il prodotto di una volontà di un’autorità legittima (legislatore, sovrano, assemblea parlamentare come vertice della comunità politica…). Thomasius continua a parlare di diritto naturale, ma di fatto si occupa del diritto positivo del sovrano che dovrebbe avvicinarsi il più possibile ai principi, ai dettami della ragione, e in modo particolare al bene più importante e principale che, come in Pufendorf, è la pace fra uomini: una situazione di socialità pacifica. Perché questo libro è importante? Perché Thomasius ha un’idea pluralistica dei sistemi e dei principi regolativi che si trovano nelle nostre comunità. ❁ In primo luogo, per Thomasius ci sono le regole morali (nelle quali considerare anche quelle morali- religiose) che sono le regole del ‘honestum’ → sono i principi che hanno come obiettivo fondamentale la bontà: la pace interiore del soggetto. Il precetto fondamentale della morale che riassume tutte le regole del honestum secondo Thomasius è: “fa' a te stesso ciò che vuoi che gli altri facciano a sé stessi”. Cioè: cerca di imitare il comportamento giusto, corretto, ideale dei virtuosi, degli uomini dotati di un'elevata moralità. L’honestum dovrebbe portare l’individuo alla coscienza, alla piena consapevolezza dei propri limiti morali e quindi mettere l’individuo sulla strada del perfezionamento morale. Questo è il primo sistema di regole. ❁ Poi ci sono altri sistemi regolativi altrettanto significativi: ci sono precetti che sono i principi del ‘decorum’ (del decoro) cioè le regole sociali che prescrivono una buona convivenza tra i membri di un’entità collettiva. Queste regole secondo Thomasius possono essere sintetizzate dall’imperativo: “fa’ agli altri quello che vuoi gli altri facciano a te”. Cioè (sono tipo le regole di galateo, buona educazione): se voglio che gli altri siano cortesi e gentili nei miei confronti, allora io per primo devo rivolgermi agli altri in maniera educata e cortese. Il fine perseguito dei precetti del decorum è la benevolenza reciproca, un buon livello di socialitas. ❁ Ci sono poi le regole del diritto (iustum), quelle che si occupano della pace esterna, dell’uomo con i suoi simili. Il principio fondamentale che riassume tutti gli altri può essere espresso con la massima “non fare all’altro quello che non vuoi venga fatto a te”. Obiettivo dello iustum è qualcosa di più della semplice benevolenza e della buona educazione, ma si tratta del rispetto attivo degli altri, di non intralciare in maniera fraudolenta o violenta il godimento dei diritti altrui. ⇉ Dal punto di vista della qualità morale/etica è chiaro per Thomasius che le regole più elevate, principali, da mettere ‘in cima’, sono quelle morali (o morali-religiose per chi crede). Quindi soggettivamente per l’individuo: 1. le regole più importanti sono quelle del honestum che permettono il perfezionamento morale dell’individuo, il diventare una persona, buona, giusta, con dei valori. 2. A livello intermedio stanno le prescrizioni del decorum, regole che assicurano semplicemente dei rapporti educati e cordiali di benevolenza tra gli individui. 3. Il livello di moralità più basso è quello delle regole del iustum (la morale e il diritto sono quasi in opposizione tra di loro) che promuovono, da questo punto di vista, soltanto un bene minimo: quello di evitare di portare danni alle altre persone, di comportarsi in maniera aggressiva, violenta… ⇉ Però (interessante) se non facciamo riferimento al livello morale del bene, ma teniamo in considerazione il criterio della gravità del male, questa gerarchia di rilevanza/importanza deve essere capovolta: 1. i precetti più importanti sono quelli giuridici (dello iustum) perché impediscono il male esiziale per la collettività che è lo stato di inimicizia, di guerra (il conflitto di tutti contro tutti di Hobbes nel “Leviatano”); 2. ad un livello medio troviamo i precetti del decorum che impediscono che si diffondano costumi incivili permettendo un buon livello di educazione nelle relazioni tra individui; 3. al gradino inferiore le regole del honestum con le quali si combattono dei conflitti interiori, che sono certamente quelli più gravi per le soggettività concrete, ma anche quelli con impatto più modesto (se non nullo) nei confronti delle vite degli altri. Quello di Thomasius è un pensiero molto ricco e attuale in quanto segnala la circostanza che il diritto non sta da solo, ma sta insieme a regole, istruzioni regolative di altro tipo e ne viene condizionato. Ci siamo occupati della prima corrente che secondo Tarello anticipa il processo di codificazione. Ora ci occupiamo della seconda corrente: la corrente sistematica. esplicitato dal predicato. Leibniz è un grande inventore di etichette che hanno poi avuto fortuna straordinaria nella storia della filosofia. 𓇼 Le verità contingenti sono per esempio le verità di una scienza significativa come la storiografia, si basano sul principio di ragione sufficiente. Per esempio, la comprensione e la spiegazione di fatti storici. Come si fa in storia quando si vuole spiegare determinati avvenimenti? Si fa riferimento alle cause, al principio eziologico, ai motivi più o meno soggettivi che hanno determinato l’evento. Quando ad esempio si dice ‘i rivoluzionari presero la Bastiglia il 14 di luglio del 1789’ (esempio del prof, non di Leibniz) si enuncia una verità di fatto a posteriori. Troviamo anche qui un predicato connesso al soggetto, ma qui il predicato non è all’interno del soggetto stesso, ma nella realtà storica. Questo tipo di verità può aumentare la conoscenza, ma allo stesso tempo non è logicamente necessaria. Cioè l’idea di conoscenza di Leibniz è un’idea intensamente fisicalista, è l’idea di un fisico (lui lo fu), l’idea di un grande matematico → Le verità assolute sono le verità logicamente necessarie. Il problema è che questa idea, non convincete per il prof, viene applicata al diritto… Se qualcuno non avesse studiato bene la storia potrebbe dire che la Bastiglia fu presa dai rivoluzionari perché volevano la abolizione del carcere (si dà una giustificazione non giusta). Una spiegazione causale scorretta come questa però non si può dire che sia anche logicamente falsa. Per Leibniz il diritto ideale (questo è il punto oggettivamente più debole della sua costruzione giuridica secondo il prof) deve elaborare un sistema fatto di proposizioni giuridiche logiche assolutamente vere in cui abbiamo delle definizioni, dei termini fondamentali, dei mattoni, delle monadi fondamentali che compongono l’universo giuridico come giudizi analitici a priori. Cioè dei giudizi che enunciano delle verità assolute, delle verità logicamente incontrovertibili, di ragione, che sono in qualche modo un rispecchiamento della ragione divina. Ma vediamo cosa c’è che non va: → La proprietà è il diritto di godere e di disporre delle cose → Il contratto è un rapporto giuridico che vincola due o più persone. → Queste proposizioni per Leibniz sarebbero incontrovertibili: come potremmo diversamente definire la proprietà o il contratto? → Ma per il prof si tratta di una posizione erronea di realismo concettuale: è come se i concetti potessero dirci qualcosa dell’essenza, della natura e della realtà. Ad un concetto di ragione dovrebbe corrispondere una realtà univoca, già precisa e perfetta di un istituto giuridico determinato. Purtroppo, o per fortuna a seconda dei punti di vista, le cose non sono così semplici. Kant nei confronti di questo tipo di posizioni ‘fisicaliste’ riguardanti i concetti (soprattutto quelli che noi formuliamo rispetto al nostro mondo sociale) avrebbe detto che non sono la realtà e neanche la riproducono, ma i concetti hanno una funzione indubbiamente fondamentale. Tuttavia, la loro funzione non è questa → ma è quella di dare ordine alla realtà. Leibniz auspica che lo Stato (o meglio: la pubblica autorità) emani un codice breve, chiaro e sufficiente che faccia emergere con maggiore forza e chiarezza questi principi di ragione. Questa ragione che è umana e funziona se ispirata da Dio, se riconosce i precetti fondamentali che derivano dalla volontà divina. Da questo punto di vista, l’intenso razionalismo di Leibniz (perfino eccessivo) è conseguente nell’indicare come strada maestra quella della codificazione. Mette in evidenza questo aspetto. Questa istanza di razionalizzazione del diritto è centrale nell’opera dell’altro autore che Tarello considera, insieme a Leibniz, rilevante nel costruire le diverse ideologie della codificazione: ↝Christian Wolff ↜ Vive 1679-1754, e viene fortemente ispirato da Leibniz. Non è particolarmente originale, ma è molto importante per lo sviluppo della cd. ‘cameralistica’ (cameralismo). La cameralistica è una dottrina dello stato, delle tecniche del buon governo che si diffonde tra 600 e 700 dopo l’importantissima Pace di Westfalia del 1648 che mise fine alla Guerra dei Trent’anni che produsse molte altre conseguenze rilevanti… Il termine ‘cameralistica’ deriva da ‘Kammer’ → l’organo che nei paesi tedeschi si occupava del patrimonio del sovrano, della finanza pubblica. Ma i compiti dei funzionari e dei tecnici si estero sempre di più al di là di questi obiettivi finanziari originali arrivando a occuparsi di molte altre cose: politica economica, organizzazione burocratica (è in questo momento che si afferma il mito della grande burocrazia di impronta germanica e prussiana), problemi della popolazione, assistenza pubblica e razionalizzazione del diritto… La cameralistica tedesca è un’altra evidenza di quello detto nelle lezioni precedenti: lo stato moderno è tendenzialmente interventista, cioè tende a regolare l’attività amministrativa ed economica e non semplicemente ad occuparsi di diritto. Concretamente le teorie di Wolff sono state decisive per quello che abbiamo chiamato ‘Stato di polizia’ di alcuni sovrani dei paesi tedeschi e soprattutto per quello prussiano di Federico II. Wolff è significativo per convincere il sovrano sulla necessità di una codificazione. Una codificazione verrà realizzata a distanza di qualche anno: Federico II non la vedrà perché morirà prima nel 1786, mentre la codificazione è del 1794 → il cd. Allgemeines Landrecht (ALR), il Codice prussiano. In realtà il nome tedesco ‘landrecht’ significa diritto territoriale, e non codice (come viene tradotto normalmente). Tuttavia, sostanzialmente si tratta di un codice, cioè di un’organizzazione sistematica, soprattutto del diritto civile. Negli obiettivi non è troppo diverso dal Codice civile Napoleonico di qualche anno dopo (1804), anche se quello prussiano ha certamente un’impronta meno moderna, meno contemporanea, meno borghese rispetto al napoleonico. L’opera principale di Wolff è un trattato scritto nei primi decenni del 700 in più volumi “Il diritto naturale”, (termine che ricorre ossessivamente) un trattato analizzato in maniera scientifica. Per lui le leggi fondamentali del diritto naturale sono l’uguaglianza e la reciprocità. Cosa vuol dire? Nella natura dell’uomo sono insite, ingenite, connaturate, determinate obbligazioni naturali che sono: il rispetto della vita, l’obbedienza all’autorità, il dover del bene e della giustizia. E queste obbligazioni sono e devono essere uguali per tutti. Allo stesso tempo (riprende un’idea di Leibniz, quindi non è proprio originale) queste obbligazioni, proprio perché uguali per tutti, implicano la garanzia di determinate posizioni soggettive a favore degli altri: se io devo rispettare la vita e la proprietà degli altri consociati, questi oltre ad avere dei doveri godranno specularmente, in conseguenza di quella obbligazione, di determinati diritti (è un punto che vedremo sviluppato da molti autori del 600). E anche questi diritti, di cui godono specularmente le altre persone, sono uguali. Il diritto positivo ha la funzione di perfezionare questo diritto naturale uguale e simmetrico. Il sovrano, come supremo rappresentante dello Stato, dirige le leggi verso questi obiettivi di beni comuni. Solo che Wolff non si limita a generiche enunciazioni di principio, principi generali della convivenza: il suo sistema di diritto naturale positivizzato concretamente delimita, tratteggia un quadro di interventi normativi, diretti dal sovrano, molto ampio, articolato → Certamente un punto centrale è la sistemazione del diritto civile, ma non c’è soltanto quello: nel suo trattato si occupa di disciplina urbanistica, non distinguendo il diritto pubblico dal privato, di organizzazione di sanità pubblica e di assistenza sociale. È molto chiaramente un indirizzo di tipo cameralistico decisivo per capire, in modo particolare negli stati germanici e in Prussia ancora di più, la vicenda dello Stato di polizia (assolutismo illuminato). Con Wolff abbiamo terminato anche la corrente sistematica. Lezione 11 Costruzioni per mettere ordine al diritto vigente Ci siamo occupati delle due ideologie della codificazione secondo Tarello: due correnti tedesche con punti di contatto: una di giusnaturalismo razionalistico e l’altra più orientata verso una concezione religiosa in Leibniz, e il suo continuatore Wolff interessante per la cameralistica. Infine c’è la terza ideologia della codificazione che è invece francese e riguarda direttamente il processo di codificazione dal punto di vista civile con Jean Domat e Robert Joseph Pothier. ↝Jean Domat ↜ Tarello chiama Domat (1625-1696) il ‘nonno del codice napoleonico’ anche se in realtà è un autore del 600, ma comunque la sua opera giuridica è stata indubbiamente molto importante al momento della codificazione napoleonica nei primi dell’800. Il primo elemento da sottolineare è la grande distanza di Domat dall'ideologia camerale vista con Wolff. Una delle caratteristiche, dei principi evidenti della sua opera, è la distinzione molto chiara e precisa tra diritto pubblico e diritto privato. E qui inizia una storia della cultura giuridica, o meglio viene a maturazione, con il grande rilievo che dà a questa distinzione, che diviene uno dei temi di discussione, analisi e riflessione all’interno della nostra cultura giuridica. Una grande diversità rispetto all’ideologia del diritto camerale, perché quella sorta di diritto naturale positivizzato di Wolff non conosce questa distinzione. È importante a questo punto fare una rapida sinossi storico-giuridica dei criteri più significativi che sono stati elaborati dalla nostra cultura giuridica per individuare questa linea di confine tra diritto pubblico e privato. ♞Un primo criterio (secondo il prof è il più importante) è il criterio dei rapporti, delle relazioni. Nel diritto pubblico ci sono rapporti tra soggetti in posizione di disuguaglianza (rapporti tra chi è idealmente in alto, vertice comunità politica, e idealmente in basso, sudditi e poi cittadini); invece nel diritto privato si danno dei rapporti tra soggetti in condizione di parità. È il criterio più efficace. Cioè il diritto pubblico è diritto del potere, dell’autorità, che abbiamo anche chiamato diritto verticale; invece il diritto privato è il diritto della società orizzontale, il diritto pattizio e non imperativo della vita di relazione. Autori molto importanti delle scienze sociali, per quanto riguarda la pretesa condizione di uguaglianza formale nel diritto privato, hanno da ridire qualcosa: molte critiche... di fatto la condizione di perfetta uguaglianza nel diritto privato non si realizza quasi mai. Nelle relazioni contrattuali, già Karl Marx lo pensava, c’è sempre chi ha una posizione di potere rispetto ad un altro… e un’opinione simile aveva anche Max Weber a distanza di qualche decennio. Tuttavia, a grosso modo per dare una distinzione tra diritto pubblico e privato, questo funziona abbastanza. ♞L’altro criterio è quello degli interessi protetti e fa riferimento a Ulpiano (diritto romano) del III secolo d.C. che sosteneva che il diritto pubblico è ciò che tocca lo stato romano, è il diritto che riguarda l’organizzazione politica della società romana; mentre il diritto privato è ciò che tocca l’utilità degli interessi dei singoli. Da una parte l’interesse collettivo; e dall’altra l’interesse individuale. Anche questo è un buon criterio. ♞Ha una qualche ragione anche il criterio delle norme: anche se ciò non è sempre vero, che sono norme imperative quelle del diritto pubblico; mentre sono dispositive e derogabili quelle del diritto privato. Ma nel diritto privato si trovano anche norme impositive… non sono tante, ma nel complesso nel norme del diritto privato si distinguono per essere appunto dispositive e derogabili. ♞Un altro criterio è quello delle pretese create dai rispettivi diritti: il diritto pubblico crea dei diritti soggettivi ‘pubblici’ (libertà associazione, critica, pensiero…), e per quanto riguarda in Italia crea anche degli interessi legittimi (art. 24 Cost.); il diritto privato crea diritti soggettivi ‘privati’ (diritto del lavoratore nei confronti del datore di avere lo stipendio…). Vedremo poi quale sarà il criterio molto singolare di Jean Domat. Ma prima dobbiamo fare un'ulteriore riflessione sui due tipi di giusnaturalismo… Per quanto riguarda l’indirizzo religioso, sulla natura religiosa della riflessione di Domat non siamo troppo lontani da Leibniz. Il suo giusnaturalismo è fortemente razionalista, come peraltro era quello di Leibniz nell’indicare la finalità: la necessità di avere un diritto vigente razionalizzato, sistemato e organizzato. Però è una concezione giuridica fortemente religiosa nelle premesse. Quello che Domat considera il diritto naturale immutabile, quello che non cambia mai perché non può essere cambiato è il diritto naturale fondato sui principi basilari del cristianesimo: l’amore di Dio e l’amore per il prossimo. Già emergeva con Leibniz, ma qui si conferma quella distinzione tra giusnaturalismo razionalistico e religioso che comunque trova dei punti di mediazione. Domat è un autore fortemente condizionato da convinzioni religiose. Di questo autore va ricordata una circostanza importante e rilevante che ha influito molto sul suo pensiero: fu amico intimo di un altro principe della filosofia → Blaise Pascal, su cui spendiamo quale parola. Pascal è una mente universale: filosofo, teologo, matematico, fisico (con molti punti di contatto con Leibniz)… L’opera “I pensieri”. Punto importante: teoria del riconoscimento, sviluppata da molti altri autori in filosofia anche in Hegel nell’800, ma anche in sociologia in questo momento. Che cosa è il riconoscimento? Pascal dice che la grande felicità aspirazione dell’uomo è avere il riconoscimento, la stima, l’ammirazione degli altri. E’ un meccanismo sociale molto importante. L’illuminismo Le prossime lezioni saranno tendenzialmente dedicate al 700 e alla corrente di pensiero illuminismo, della quale daremo rilevanza particolare a determinate aree geografiche: l’area francese che accoglie sia il movimento di proto-codificazione (con ordinanze e assolutismo) che l’evento decisivo della nostra contemporaneità, ovvero la Rivoluzione francese; l’area italiana che ebbe il privilegio di accogliere correnti dell’illuminismo, soprattutto giuridico, molto importanti e significative… Parleremo prima di illuminismo giuridico, restando nella cerchia degli autori dando rilievo al filone tematico oggettivamente prioritario del corso: il diritto, la giustizia penale e la procedura penale. Tema oggettivamente rilevante anche se si guarda alla storia. Per rendersi conto di questa circostanza basta guardare i testi: se facciamo riferimento alle dichiarazioni dei diritti (tutte, ma in particolare quella francese) ci rendiamo conto che quasi la metà delle disposizioni si occupando di diritto e procedura penale. Mettendo insieme questa duplice selezione: Italia e Francia + primato del tema penale → individuiamo tre grandi autori principali di cui tratteremo: Montesquieu, Voltaire e Beccaria. Al di fuori dall’illuminismo giuridico propriamente detto, che è quella corrente che più direttamente ha influenzato il processo di codificazione, dalle lezioni successive ci occuperemo di illuminismo politico con l’importantissima figura di Jean Jacques Rousseau. Sono autori forse meno importanti sulle questioni giuridiche di dettaglio, ma comunque decisamente rilevanti e significativi per la formazione della complessiva ideologia politico-culturale del processo rivoluzionario in Francia. In entrambi i ‘tipi’ di illuminismo (giuridico e politico) il primato dell’area culturale francese è dominante. Complessivamente per entrambi siamo confrontati con autori e con correnti di pensiero che hanno una carica innovativa, rivoluzionaria, di opposizione al potere costituito molto forte (forse meno spiccata in Montesquieu). Tutti questi autori si distinguono nettamente dall’illuminismo ‘burocratico’, ‘paternalistica’ delle esperienze austriache-prussiane della teoria cameralistica e dello Stato polizia. Nelle esperienze di area germanica prevale un indirizzo più moderato, un'attenzione ideologica più modesta, un atteggiamento pragmatico indirizzato alla soluzione di problemi piuttosto che alla costruzione di grandi sistemi ideali di pensiero. Ma una grandissima eccezione a questo atteggimaneto di area germanica è Kant, rientrante sia nell’illuminismo giuridico che politico. Immanuel Kant - (argomento non da esame) Il pensiero di Kant si sviluppa nel 700 (1724-1804). La sua è una figura straordinaria, la cui influenza sul pensiero contemporaneo continua ad essere molto presente e attiva. Per altro si confronta con alcuni autori che abbiamo considerato in precedenza (Pufendorf, Leibniz…). Tarello non ne parla: all’esame non verrà chiesto (si può portare come argomento a scelta). Le opere che ci interessano sono tre e le considereremo insieme: “Risposta alla domanda: cos’è l’illuminismo?” del 1784 “Per la pace perpetua” del 1795 “La metafisica dei costumi” del 1797 Per ragioni rilevanti, anche perché alcuni temi di teoria della conoscenza li abbiamo visti anche nell’opera di Leibniz, dovremmo spendere qualche parola anche sulla sua opera maggiore, che egli stesso definiva un testo 'non chiaro', ma che è fondamentale nella vicenda del pensiero di tutti i tempi: “Critica della ragion pura” del 1781. In questo testo è fondamentale la nozione di ‘filosofia trascendentale': il trascendentalismo di Kant. Sarebbe improprio tralasciare la questione. Il prof legge un passo: “Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti, quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti (la cd. ‘rivoluzione copernicana di Kant’), in quanto questa conoscenza deve essere possibile a priori” → Non ci occupiamo dell’oggetto conosciuto, ma dei modi del nostro conoscere. La filosofia trascendentale di Kant è l’analisi del cd. ‘a priori’, l’analisi di ciò che non deriva dall’esperienza, che è però condizione della conoscenza del mondo, delle realtà, degli oggetti ecc. Conosciamo una cosa a priori se possiamo dire che la conosciamo senza averla sperimentata, cioè prima dell’esperienza. Se guardiamo ai meccanismi del nostro intelletto ci rendiamo conto che l’intelletto è in grado di formulare dei giudizi analitici a priori. Analitico vuol dire vero per definizione, come le proposizioni analitiche studiate in Leibniz. Analitico indica ciò che è vero senza necessità di sperimentazione, esperienza, osservazione. Se dico che ‘tutti i maschi sono di sesso maschile’ non ho bisogno di un’indagine particolare: igiudizi analitici sono semplicemente delle definizioni che non aggiungono nulla alla nostra conoscenza, ma si limitano a rappresentare la maniera con cui abbiamo definito un determinato termine (un altro esempio di giudizio analitico a priori può essere ‘lo scapolo non è sposato’). Una posizione vicina a quella di Leibniz: nella definizione stessa sono indicate le informazioni essenziali che possiamo dedurre da quel concetto. Questa è la conoscenza analitica, vicino alla posizione di Leibniz. Contrapposta alla conoscenza analitica è la conoscenza sintetica, quella conoscenza che richiede l’esperienza, l’osservazione. Questo tipo di conoscenza aumenta, implementa il nostro sapere. Con l’esperienza possiamo conoscere il mondo fenomenico. Sono giudizi sintetici a posteriori: non possiamo dire che ‘gli agrumi sono aspri’ per definizione, ma abbiamo bisogno di assaggiarli (esperienza). Un esempio kantiano più serio è ‘ogni corpo è pesante’: fino a Galileo si pensava a corpi pesanti come acqua e terra e corpi senza peso -leggeri- come aria e fuoco (idea da Aristotele), per arrivare a stabilire che tutti i corpi senza eccezioni avessero un peso specifico è stato necessario ricorrere all'esperienza (l’esperimento). Quando si fa riferimento all'esperienza siamo di fronte a un giudizio sintetico a posteriori che aumenta la nostra conoscenza. Diversamente da Leibniz, Kant pensa però che ci siano anche dei giudizi sintetici a priori, giudizi che aumentano la conoscenza (in quanto sono sintetici e non analitici, quindi non mere definizioni), ma sono allo stesso tempo anche universali, necessari e veri in quanto a priori. Per Kant la matematica, la geometria, la fisica si basano su questo tipo di giudizi, mentre per Leibniz questo tipo di scienze facevano affidamento soltanto su giudizi di verità analitica (a priori). Un esempio indicato da Kant: ‘la linea retta è la più breve tra due punti’. È un giudizio sintetico perché aumenta la conoscenza 🡪 il mio concetto di retta non contiene nulla che riguardi la distanza, ma solo la qualità di essere diritta; il concetto ‘più breve’ (nel predicato) è qualcosa di interamente aggiunto e allo stesso tempo non è ricavato mediante l’analisi del concetto della linea retta, ma è venuta in soccorso la intuizione da parte dell’intelletto che ha reso possibile una sintesi di questo tipo. Perché parliamo di questo, perché è un punto fondamentale nella storia del pensiero. Affermando/scoprendo i giudizi sintetici a priori, Kant ha realizzato una mediazione tra i razionalisti come Leibniz (che andavano avanti servendosi -o pensando di servirsi- di giudizi analitici a priori) e gli empiristi (che invece privilegiano l’altro tipo di giudizi, quelli sintetici posteriori). Kant, ed è questo il punto davvero fondamentale della sua teoria della conoscenza, in sostanza dice che possiamo allargare, implementare la nostra conoscenza non soltanto l’esperienza, l’osservazione, le prove ecc., ma anche attraverso delle attività meramente speculative: attraverso l’intelletto. Però non possiamo pensare che queste due vie si escludano a vicenda, ma occorre avere un'idea di integrazione tra queste due direzioni della conoscenza. Lettura di altro passo celebre della “Critica della ragion pura”: “La nostra conoscenza trae origine da due sorgenti fondamentali, di cui la prima consiste nel ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni), e la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto per mezzo di queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). [...] Nessuna di queste due facoltà è da anteporsi all’altra. Senza sensibilità (senza i sensi, l’osservazione, l'esperimento), nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto però nessun oggetto potrebbe essere pensato. I pensieri senza contenuto (senza referente, senza oggetto) sono vuoti, le intuizioni però senza concetto (senza l’ausilio dell’intelletto) sono cieche”. Parliamo ora degli scritti propriamente giuridico-politici di Kant. Parliamo dell’illuminismo, dello scritto del 17854 “Che cos'è l’illuminismo?” che secondo il prof fornisce ancora oggi una delle più efficaci definizioni dell'illuminismo: “L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità, uno stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso (è sua la colpa se vive in una condizione di minorità intellettuale). Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Questa minorità è imputabile a se stessi, se la causa di essa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dipende quasi sempre dalla mancanza di decisione e d coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude (citazione dalle Epistole di Orazio: abbi il coraggio di conoscere, di attivare l’intelletto)! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'illuminismo. La pigrizia e la viltà sono cause per cui tanta parte degli uomini rimangono volentieri minorenni per tutta la vita, per cui riesce tanto facile agli altri diventare loro tutori. E’ molto comodo in effetti essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene ecc., io non ho più il problema di darmi pensiero. Purché io sia in grado di pagare non ho questa necessità ‘fastidiosa’ di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione”. Adoperare la propria intelligenza, avere il coraggio della auto-formazione, della coscienza critica, autonomia della volontà e autonomia del pensiero critico e sviluppare il proprio intelletto. Questo, per Kant, è l'illuminismo ed è anche l’essenza fondamentale della libertà (pensiero liberale). Ci sono molti autori che sono intervenuti su questa storia del pensiero critico, dell’autonomia della volontà declinata su questa facoltà fondamentale dell'uomo che è il pensiero. Forse un autore molto importante nel solco di Kant è lo Svizzero Carl Gustav Jung (psichiatra, psicologo) che dice che la vita appartiene a noi stessi, però nel momento in cui abbiamo la responsabilità della nostra vita abbiamo anche la responsabilità di educarci all’autonomia e alla libertà morale. È uno sviluppo del pensiero di Kant. Per Kant, illuminismo e libertà sono strettamente legati. La libertà è l’obiettivo a cui è indirizzato il diritto dall'intelletto. Il prof aggiunge alla riflessione di Kant che è sostanzialmente anche il fine dell'evoluzione biologica. L’essere dell’esistere, l’essere dell’esserci, che cos’è? Qual è l’essenza della nostra esistenza? È il poter essere altrimenti, è la facoltà che abbiamo momento per momento di poter decidere, scegliere… per Kant lo Stato deve rispettare questa libertà universale che è innata connaturata nell’uomo. La libertà è l’unico vero diritto originario da cui derivano tutti gli altri. Però concretamente quale Stato può garantire un’effettiva realizzazione di questo principio di libertà? Su questo Kant ha una posizione molto critica verso la cameralistica, una concezione ‘paternalistica’ per cui lo Stato decide per noi perché siamo dei ‘minorenni’. La concezione del dispotismo illuminato dello Stato di polizia è il più grande assolutismo che si possa immaginare. In queste concezioni, molto vicine temporalmente a quando scrive Kant, i sudditi sono trattati eternamente come dei minorenni che non sanno distinguere ciò che per loro è utile e dannoso, e quindi sono costretti a comportarsi solo passivamente e dipende dalle indicazioni provenienti dal sovrano. L’ideale di Kant è chiaramente lo Stato liberale, stato in cui ciascuno può cercare la propria felicità coi mezzi che ritiene giusti e opportuni con la condizione fondamentale che non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere a uno scopo simile, allo scopo di autorealizzazione personale. Il fine di un’organizzazione politica davvero rispettosa della legge universale è quello di assicurare attraverso il diritto la coesistenza pacifica delle libertà individuali (“La metafisica dei costumi”). Ancora più significativo è che il Kant illuminista vede ancora più lontano: guarda allo sviluppo possibile di una società universale che comprenda tutta l’umanità in cui si realizzino stabilmente questi beni fondamentali: la libertà e la pace (la quale è strettamente connessa alla libertà perché solo in una condizione pacifica è possibile la conciliazione responsabile di tutte le libertà individuali). In questa idea universalistica, vicina nello spirito ma anche oltre alla Rivoluzione francese, i singoli Stati sono soltanto una tappa del superamento dello stato di natura. Perché gli Stati che si sono sviluppati dalla Pace di Westfalia (1648) nonostante questo tentativo di pacificazione delle comunità politiche, appaiono costantemente in conflitto tra di loro. Per questa ragione Kant critica Pufendorf, un autore dal quale è partito nell’idea della socievolezza pacifica, perché si limita a una considerazione limitata agli Stati nazionali → per Kant occorre pensare più in grande: occorre pensare a un coordinamento razionale delle libertà delle varie comunità politiche, con l’intervento di un diritto superiore che ragioni effettivamente in universale e che si ponga effettivamente il problema fondamentale della conciliazione della massimizzazione della libertà. E questo diritto superiore è il diritto internazionale. Con questo sforzo di conciliazione delle libertà delle singole comunità politiche, il diritto universale ha come unico compito fondamentale quello di costruire l’unione di tutti i popoli. Una direzione utopistica. Però a questo proposito bisogna far notare che questa idea di Kant, formulata in “Per la pace perpetua”, si è in qualche modo realizzata, se pur in maniera imperfetta, nel nostro Novecento: con la società delle Nazione a conclusione del primo conflitto mondiale (anche se sappiamo che purtroppo le rivalità tra i vari Stati sono rimaste, se non ulteriormente acuite) e poi dopo la Seconda guerra mondiale con le Nazioni Unite nel 1945. Contemporaneamente questo pensiero implica un’altra cosa: il superamento della centralità dello Stato. Nel ❀ Monarchia: il governo è (o dovrebbe essere) saggio, moderato e temperato. Il principio che dovrebbe guidare la monarchia è l’onore, il prestigio, l’ambizione personale del sovrano moderati però dall’autorità delle leggi, le quali sono presenti e il monarca non è legibus solutus (non è sciolto dalle leggi). ❀ Dispotismo: l’autorità non ha leggi né regole, è espressione di mera forza (quello immaginato nel “Leviatano” di Hobbes). Il principio del dispotismo è quello della paura, il timore di una forza che non è governata da regole, ma semplicemente dall’arbitrio del monarca assoluto. Coerentemente con questa sua visione ‘relativistica’ dei problemi del diritto del potere, la democrazia per Montesquieu è adatta a paesi poco estesi. La monarchia invece si adatta a paesi di media grandezza come gran parte degli Stati europei: Montesquieu fa riferimento alla Francia con orientamento critico in quanto durante la vita di Montesquieu è ancora un governo assoluto (sebbene le ordinanze…); e l’Inghilterra per la quale ha una forte propensione. Il dispotismo invece, pensa ai paesi orientali come la Russia, tende ad affermarsi dove il territorio è molto esteso: il sovrano non riuscendo a controllare tutto il paese deve ricorrere principalmente alla forza e all’imposizione violenta. Anche questa è una riflessione che troviamo in Tocqueville (per il prof è il continuatore di Montesquieu nel corso dell’800, anche se spesso lo critica). Pur manifestando la sua preferenza, non sempre esplicita, per la forma monarchica di tipo inglese (perché una monarchia regolata che mette insieme le caratteristiche positive di monarchia e repubblica… c’è la camera dei comuni, il popolo governo o quantomeno fa le leggi; ma c’è anche l’altra camera… è una forma mista che combina gli elementi migliori delle quattro forme di governo che abbiamo considerato), Montesquieu ribadisce continuamente nella sua opera che non crede che sia possibile stabilire in astratto la forma di governo migliore perché dipende dalla comunità politica a cui si applica: una concezione relativistica, ma anche realistica della forma di governo. Indubbiamente Montesquieu dà privilegio al valore della libertà politica: così come è critico sul principio democratico, lo è ancora di più su quello dispotico. Già in “Lettere persiane" critica l’assolutismo senza vincoli. Per Montesquieu la libertà politica è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono. In regime di totale assenza di regole, governato solo da forza e paura, la libertà non è logicamente possibile. Allo stesso tempo però la libertà politica si afferma meglio e più agevolmente nelle forme moderate. Non è un autore rivoluzionario (la carica rivoluzionaria è molto più forte in altri autori quali Rousseau, Voltaire). I motivi di critica nei confronti del governo democratico saranno al centro dell’opera di Tocqueville. Sostanzialmente l’idea che emerge già da “Lo spirito delle leggi” che Tocqueville svilupperà compiutamente, è questa: in un regime tutto democratico a un certo punto si può affermare la tirannia della maggioranza → non è possibile che tutto il popolo governi, solo una frazione del popolo riesce ad imporsi nei confronti della minoranza e ad imporre il suo principio di governo. Un altro punto molto in evidenza è che per Montesquieu le forme di governo più libere (quelle moderate… tra aristocrazia e monarchia, e ancora meglio quella mista inglese dove c’è anche un po’ di popolo) sono quelle in cui nessuna autorità può abusare del potere che gli è stato attribuito. Perché in queste forme vediamo che il potere è ripartito, è diviso tra autorità differenti. C’è una sua formula famosa: ‘il potere arresta il potere’, nel senso che il potere limita gli altri poteri. Dobbiamo pensare, per regolare al meglio la libertà politica, ad un equilibrio dinamico tra poteri distinti in cui ciascun potere controlla l’altro e così si impedisce che in un qualche momento si affermi un potere illimitato, indiviso, senza regole e senza. In queste forme di governo moderato -per lui aristocrazia e monarchia- da preferire perché è possibile affermare un principio efficace di libertà politica, i poteri sono appunto divisi e sono tendenzialmente tre: -ꕥ- il potere legislativo -ꕥ- Il potere esecutivo -ꕥ- il potere giudiziario ꕥ Potere legislativo: principio per cui un'autorità fa le leggi per un certo periodo di tempo (o per sempre), o le modifica, o cancella quelle esistenti. Vedremo comunque che Montesquieu ha l’idea (che abbiamo già incontrato in altri autori come Leibniz) che quando si è arrivati alla condizione che il diritto positivo corrisponde al diritto naturale adeguato per quella comunità politica, poi le leggi non vadano più modificate. Su questo punto la soluzione migliore è quella di un parlamento bicamerale (per Montesquieu): una parte controlla l’altra. Evidentemente sta pensando al modello inglese in cui c’è un’assemblea che rappresenta da un lato il popolo -Camera dei comuni- e dall’altro l’aristocrazia – Camera dei Lords-. ꕥ Potere esecutivo: è il potere del sovrano che regola i rapporti con gli altri stati, quindi amministra il ‘diritto internazionale’, delle genti (firma pace o dichiara guerra; invia o riceve ambasciate; si occupa della sicurezza interna; detiene la forza militare e previene invasioni…). Brano: “Il potere esecutivo deve essere nelle mani di un monarca perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d'una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi; mentre ciò che dipende dal potere legislativo è meglio ordinato da parecchi anziché da uno solo”. ꕥ Potere giudiziario: è il potere dei magistrati che devono decidere tendenzialmente del diritto privato e penale, cioè delle controversie tra privati e dei comportamenti devianti in comunità politica. Montesquieu parte da una considerazione molto critica nei confronti dell’ordine giudiziario del suo tempo. L’idea generale di Montesquieu è questa: il potere giudiziario non deve essere affidato ad un senato… per senato intende un collegio permanente, stabile: il sistema del collegio stabile (terminava con la vita del giudice) è quello francese dei cd. Parlamenti (già criticato dai sovrani) che venne poi abolito definitivamente nel 1790 con la Rivoluzione francese e che prevedeva in Francia 13 Corti di Appello e di Cassazione in materia civile per le controversie riguardanti il terzo stato, e che contemporaneamente funzionavano come tribunali speciali per le cause relative ai membri della nobiltà (mentre i problemi relativi al clero erano amministrati direttamente dalla Chiesa con i tribunali ecclesiastici). I giudici erano titolari della carica acquistata ed erano inamovibili… anzi si poteva anche trasmettere la carica in eredità. Era una funzione affidata a un certo particolare di giudici permanenti, criterio che faceva di questi parlamenti la cd. ‘nobiltà di toga’. Montesquieu è critico nei confronti del sistema dei Parlamenti in Francia, riservato ai privilegiati che potevano acquistare la carica giudiziaria. E la sua idea era che la funzione giudiziaria dovesse essere esercitata da persone tratte dal popolo in determinati periodi dell’anno nella misura prescritta dalla legge per formare un tribunale che duri solo quanto lo richiede la necessità. Montesquieu pensa alla struttura giuridica romana all'editto del pretore del periodo repubblicano che indicava gli schemi d’azione a cui nel suo anno di carica si sarebbe attenuto. In questa maniera non c'è una preparazione tecnica specifica (normalmente nella nostra tradizione giuridica però i giudici sono giuristi). L’idea è di una magistratura a tempo e svincolata dal principio della carica acquistata ed ereditabile. In ciò possiamo dire che il giudice Montesquieu ha un’idea rivoluzionaria. Montesquieu conclude la sua analisi dicendo che in tal modo il potere giudiziario è terribile tra gli uomini (perché uno dei motivi della Rivoluzione è che la giustizia penale era arbitraria, senza garanzia, limiti e regole certe), e non essendo legato né a un certo status né ad una professione stabile e duratura diventa un potere ‘invisibile e nullo’. Ma lui non si ferma a ciò (a indicare la necessità di una magistratura temporanea), ma soprattutto svincolata dal ‘traffico’ della carica. In altri luoghi di “Lo spirito della legge” prende posizione nei confronti dell’invasione del potere legislativo da parte dei Parlamenti → l’idea che i giudici hanno troppo potere, che invadono la sfera del potere legislativo. Ed effettivamente ai suoi tempi, in quanto giurisdizione di ultima istanza, i Parlamenti avevano un potere sostanziale reale di unificazione del diritto attraverso i cd. Decreti di regolamento in cui erano sintetizzati gli orientamenti giurisprudenziali dei Parlamenti sulle diverse materie (cristallizzando certi indirizzi di gestione delle pratiche dei processi). A proposito di Roma e dei pretori, Montesquieu è uno dei tanti autori che si sono interrogati sulla fine della civiltà romana e il contrasto tra lo splendore di questa civiltà con il lungo periodo del medioevo. Nello scritto “Considerazioni sulla causa della grandezza dei romani e della loro decadenza” del 1734 esalta la Roma repubblicana, un periodo caratterizzato da una grande coesione politico-sociale grazie alle virtù del popolo e del ceto dirigente (secondo l’autore). Poi la politica di espansione e l’estensione del diritto di cittadinanza generarono un mutamento radicale nei modi di organizzare il governo non più basato sulle virtù della coerenza e accortezza politica, ma esclusivamente sul principio della forza militare. Quando la corruzione penetrò nell’esercito la rovina fu inevitabile e i romani dovettero lasciare il posto ad altre popolazioni differenti (invasioni barbariche). Ha un atteggiamento molto critico verso l’impero bizantino (romano d’oriente) considerato un regno di sommesse, violenze, soprusi e disordini, nonostante ad essi si debba la codificazione del diritto romano con il Corpus Iuris Civilis. Max Weber pensava all'opposto: che fosse stata la pacificazione dell’impero a farlo crollare. A conclusione di queste analisi sulle forme di governo e le divisioni dei poteri, per quanto guarda quello giudiziario, Montesquieu ha una posizione netta: un'immagine che è stato a lungo quella tradizionale dei magistrati → il giudice deve essere la ‘bocca della legge’ che mette in circolo la volontà del legislatore quando si occupa di casi determinati nel diritto civile e penale. Il magistrato dev’essere un essere inanimato che dovrebbe limitarsi ad un’applicazione automatica del diritto legislativo. Per il prof però il giudice è molto più di questo, per lui dovrebbe interpretare una tradizione regolativa nel suo complesso, è un mediatore tra una determinata tradizione regolativa e la complessità del caso singolo che ha delle sue peculiarità e quindi il giudice non deve limitarsi ad un’applicazione automatica… Tuttavia quest’idea di ‘formalismo interpretativo’ per cui il giudice deve essere ‘inanimato’ la incontreremo in altri autori importanti dell’illuminismo giuridico come Voltaire, Verri, Filangeri… è un’idea che resiste, sebbene non corretta (per il prof). Un tema molto rilevante pensando all’idea dei rivoluzionari francesi è che mettendo capo alla Dichiarazione dei diritti del 1789 (seguendo “il contratto sociale” di Rousseau) e al documento costituzionale del 1791 sulla forma di governo, i costituenti cercano di seguire le idee di Montesquieu in “Lo spirito delle leggi”. In realtà… certamente non solo l’esperienza continentale tiene conto di Montesquieu, ma ne tiene conto anche l’esperienza angloamericana (soprattutto quella americana)... e secondo il prof la Costituzione americana del 1787 dà un’interpretazione più aderente e corretta del pensiero effettivo di Montesquieu. I rivoluzionari francesi nel 1791 diedero un’interpretazione un po’ schematica del pensiero di questo importante autore facendo coincidere ‘divisione’ con ‘separazione’ dei poteri così da delineare delle autorità autonome e separate → dei giudici funzionari che erano soltanto funzionari burocratici, separati sia dal potere legislativo che esecutivo (idea arrivata fino a noi); degli uomini di governo separati dai rappresentanti del popolo in Parlamento e chi era al governo non poteva essere al Parlamento (e viceversa). Però Montesquieu (che predilige la monarchia inglese) aveva un’immagine molto più articolata e meno schematica di questa divisione dei poteri: questa divisione non è separazione come hanno inteso meccanicamente i costituenti, ma è propriamente ripartizione del potere → l’idea inglese poi ripresa e perfezionata nella democrazia americana: l’idea dei pesi e contrappesi, l’idea di realizzare un equilibrio costituzionale dinamico. Separazione nel senso di confronto, di dialettica continua tra i poteri con l’idea che un potere limita quello degli altri. Sempre da “Lo spirito delle leggi”: “Dei tre poteri di cui abbiamo parlato, quello giudiziario è in qualche senso nullo (nel senso che nel momento in cui l’abbiamo costruito in quella maniera -a tempo e svincolato dalla cariche- non incide, perché si deve limitare a mettere in circolo la volontà del legislatore nei casi concreti portati alla cognizione del giudice). Non ne restano che due; se il corpo legislativo è diviso in due parti, ciascuna di queste due parti terrà a freno l’altra con la reciproca facoltà di impedire dei passaggi impropri. Entrambe queste camere saranno vincolate dal potere esecutivo, che sarà a sua volta vincolato da quello legislativo (il potere arresta il potere - idea di un confronto continuo e dialettica tra poteri così che non ci sia in una comunità un potere che domina sugli altri)”. A questa immagine di bicameralismo, Montesquieu aggiunge una cosa a cui abbiamo accennato: l’obiettivo di ciascuna comunità politica è quella di arrivare a un punto tale in cui il diritto positivo corrisponda allo spirito generale di quella comunità politica, al diritto naturale ideale per quella specifica comunità… quando si arriva a questa condizione è bene che le leggi rimangano stabili e non siano soggette a mutamenti, cambiamenti continui. E su questo punto completa il suo pensiero dicendo: “è vero che talvolta occorre cambiare qualche legge, però il caso è raro (dovrebbe essere raro) e quando questo avviene, bisogna ritoccare le leggi esistenti con mano tremante (con accortezza e prudenza), con tanta solennità e con tante precauzioni che il popolo debba concluderne che le leggi sono sante, e con tanta chiarezza che nessuno possa dire di non averle capite”. Montesquieu sarebbe contento del nostro ‘lento’ parlamento bicamerale, ma non sarà contento della circostanza che produca continuamente non solo leggi, ma anche modifiche di leggi. E soprattutto se → il dio del deismo non delle religioni storiche. Crede nell’esistenza di una legge naturale universale che deve in qualche modo affermarsi. Un’idea non lontana da Leibniz, e un’idea opposta a Montesquieu (che invece ha una visione relativistica: per cui non esiste un diritto universale, ma un diritto che si lega allo spirito generale di una determinata comunità politica). Il diritto universale naturale, a cui pensa Voltaire, verso il quale tutte le comunità politiche dovrebbero rendere, dovrebbero seguire pochi elementi: ✯ tutti gli uomini nascono liberi → il principio di libertà deve affermarsi in tutti i campi della vita di relazione: devono essere liberi il commercio, la proprietà, i contratti e la libertà di espressione fondamentale; ✯ e l’altro principio è che non è permesso fare agli altri ciò che non si vorrebbe venisse fatto a sé stessi (idea vista anche in Thomasius e in Kant): sono illeciti il furto, la violenza... Un punto di contatto con Montesquieu: anche Voltaire pensa che il diritto inglese sia il migliore → perfetto e più equilibrato, mobile e giurisprudenziale, in grado di adattarsi alle circostanze, ma anche dal punto di vista degli equilibri di potere... Voltaire parlando del diritto francese (ma in generale di quello continentale) dice che leggi positive che vigono in quel momento sono molto lontane dal diritto naturale: sono leggi insufficienti, equivoche che provocano incertezza (necessità della certezza delle relazioni e conseguenza che parla solo la legge → i giudici sono applicatori automatici). La cosa migliore dinanzi a questo giudizio negativo nei confronti dell’esistenza sarebbe bruciare, togliere tutte le legislazioni vigenti, fare tabula rasa e stabilirne di nuove conformi, chiare e precise, al diritto naturale universale. In questo atteggiamento verso un diritto naturale universale vanno sottolineate due circostanze: ➤ la istanza di creazione del diritto → l’idea di un codice universale per quanto riguarda la forma di governo e per il diritto delle relazioni private (diritto privato più importante). Prospettiva codificatoria tendenzialmente universale (Voltaire su questo non è troppo lontano da Leibniz); ➤ la critica dell'interpretazione con argomenti ricavati da Montesquieu → il giudice come bocca della legge. In una comunità politica, dice Voltaire, l’uomo è davvero libero solo quando dipenda esclusivamente dalla legge e non da giudici fallibili che interpretano; interpretare la legge, per Voltaire, significa corromperla, dare all’interprete un potere arbitrario. Una posizione da ‘formalismo interpretativo’: il giudice deve essere un funzionario burocratico e l’interpretazione deve essere dichiarativa, letterale in cui ’interprete deve sforzarsi di interpretare correttamente le parole. Il compito di creare il diritto nuovo spetta al sovrano che deve essere guidato dalla ragione (un sovrano illuminato) e libero da condizionamenti. Voltaire considera come condizionamenti: - i condizionamenti del clero, del diritto canonico, della Chiesa cattolica e la sua centralità… (era contrario al potere spirituale, soprattutto quando diventa temporale); - i condizionamenti della società feudale. Il sovrano non deve guardare alle istanze del clero e neanche a quelle della nobiltà feudale. Allora concretamente, andando per esclusione, anche se Volteir non adopra questa etichetta, sta pensando a un diritto borghese incentrato su proprietà e libertà di commercio e che, in generale, riconosca come valore supremo la libertà personale. Cosa vuol idre libertà? Per quanto riguarda la vita relazione → libertà contrattuale e di commercio. Per la libertà della persona → libertà di pensiero, di critica e di religione. Soprattutto negli scritti giovanili e nelle “Lettere filosofiche” nello specifico sono esplicitate le conseguenze politiche del primato naturale della libertà che dovrebbe essere riconosciuto come principio supremo delle leggi positive: ♔ uguaglianza dei ceti → superamento della società di antico regime; ♔ fine privilegi nobiliari e temporali ecclesiastici. Nel corso della sua esistenza, Voltaire fu molto ammirato come scrittore brillante (venne invitato dai sovrani) tanto che si illuse che il suo progetto di un codice naturale universale possa essere portato avanti dai sovrani di quel tempo → aspettative in gran parte deluse. La contraddizione nelle cose: l’aspirazione di Voltaire era per un codice borghese → un codice che poteva affermarsi solo in conseguenza di un processo politico che sancisse la presa di potere della borghesia e non in conseguenza della illuminazione di ragione, di razionalità da parte di un sovrano. Infatti, soltanto con la Rivoluzione la sintonia di diritto e potere creerà effettivamente le premesse decisive per un processo di codificazione borghese. L’idea, a partire dalla sua concezione deistica, da una concezione naturale universale, di un progetto di codificazione estremamente ambizioso che vuole l’affermazione di una duplice fondamentale libertà: quella di relazione (di critica e pensiero) e di religione. Sul tema della libertà religiosa: è l’aspetto forse più noto e conosciuto di questo autore → la tolleranza religiosa. Libertà di religione vuol dire tollerare le altre religioni. Il tema è affrontato continuamente da questo autore e in particolare nel celebre “Trattato sulla tolleranza” del 1763. Un trattato di occasione → nel senso che muove, nasce dall’analisi critica di alcuni processi di protestanti che erano stati accusati ingiustamente di aver ucciso i propri figli che invece si erano convertiti al cattolicesimo: con l’assolutismo la condizione delle minoranze religiose in Francia era estremamente difficile e problematica. In questo trattato troviamo idee che non sono completamente nuove (già viste in Pufendorf, Thomasius ma anche nella “Epistola sulla tolleranza” di John Locke). Quello che caratterizza questo autore è il tono → la critica feroce, quasi un’invettiva, un’ingiuria delle religioni mondane partendo da posizioni deistiche. Le critiche sono rivolte soprattutto al cattolicesimo romano, considerato (da Voltaire) la religione più intollerante di tutte. Su questo punto l’idea di Voltaire è simile a Locke. Voltaire si distingue anche per la radicalità delle soluzioni che propone su questo tema: non si tratta, secondo lui, di garantire la libertà religiosa statuendo una linea di separazione tra potere statuale e religiose, ma di affermare questo principio fondamentale: affermare la subordinazione di tutti i credi religiosi (nessuno escluso) al potere dello Stato. Idea che potrebbe assomigliare alla sottoposizione della chiesa anglicana alla corona inglese (anche lui guardava con favore l’Inghilterra). Soltanto così, subordinando tutte le religioni al potere statale, si riuscirà ad evitare che una religione particolare diventi troppo potente in grado di fare guerre ad esempio Guerra dei Trent’anni. Per Voltaire sarebbe ideale la presenza contemporanea di molte confessioni: se ci sono molte religioni, una contrasta l’altra e nessuna in posizione di supremazia. Così nessuna religione può diventare troppo forte e grazie alla contemporanea sorveglianza attiva del controllo dello Stato, si può avere una situazione di pace imposta, ‘artificiale’… Questa idea è sviluppata soprattutto da Tocqueville quando pensa, non tanto all’Inghilterra ma, a quello che è conseguenza dell’emigrazione degli inglesi verso le Americhe con la fondazione coloniale → ci sono molti credi religiosi che si sono aggiunti a quelle degli indiani d’America. Il movimento migratorio ha fatto sì che negli Stati Uniti ci siano molte confessioni, con le loro varie sfumature (protestanti, cattolici, ebraici, religioni dei nativi d’America). Voltaire è polemico e feroce nei confronti della Chiesa di Roma. Orientamento anti-monastico, anti- conventuale, contrario a tante cose tra cui indissolubilità del matrimonio → è favorevole al divorzio e all’eliminazione di tutti i privilegi ecclesiastici a partire da quelli feudali (diritti feudali del clero). Queste pronunciazioni rigide han generato l’immagine di ‘Voltaire mangiapreti’ → molti scritti messi all’indice dalla Chiesa cattolica. Colpo di scena. Tutte le storie, anche quella di Voltaire, possono avere uno sviluppo alternativo: una narrazione alternativa ha suscitato uno scandalo di segno opposto. La narrazione recente relativa al racconto di una presunta conversione del filosofo al cattolicesimo in punto di morte. Trovata una Confessione di fede. Generò molte polemiche e discussioni. Alcuni han pensato che la conversione fosse dettata da ragioni di convenienza: per avere una degna sepoltura in terra consacrata. Altri la ritengono una confessione falsa perché contraria al suo indirizzo per tutta la vita. Stando ai fatti: la sola dichiarazione scritta di suo pugno recita quanto segue → “muoio adorando Dio, amando i miei amici, non odiando i miei nemici e detestando ogni forma di superstizione” (riferimento ad alcune religioni che erano fanatiche e superstiziose). Riguardo il riferimento a Dio → intende l’adorazione di una entità suprema: fa un riferimento generico compatibile con la sua fede di tipo deista. In conclusione, riflessione del prof, ogni esistenza ha diritto ai suoi segreti… Illuminismo politico (Rousseau, il marchese di Condorcet, protosocialisti, scuola fisiocratica, Enciclopedia) Ci siamo occupati dell’illuminismo giuridico, vedremo poi anche la trattazione del diritto penale, però adesso iniziamo un ciclo di alcune ore di lezioni dedicate all’illuminismo politico: non parliamo direttamente di diritto, ma verrà spesso richiamato su molte questioni. ↝Jean-Jacques Rousseau ↜ Partiamo da un importante filosofo: Jean Jacques Rousseau (1712-1778). Anche lui come Voltaire (tra loro ci sono molti punti di contatto anche se molto diversi nel pensiero: Rousseau era un democratico, mentre Voltaire un liberale) muore nel 1778 e non vede la Rivoluzione francese, ma come lui e forse anche di più è un punto di riferimento importante per i rivoluzionari: la sua influenza nella storia del pensiero in Occidente è enorme… in filosofia, in politica e in pedagogia. Ha influenzato Marx, ma anche Hegel, Kant, poi per le caratteristiche oggettivamente romantiche e l’idealizzazione della società naturale anche il Romanticismo europeo, ma anche altri autori che si sono occupati di altre cose come per es. dare un nuovo senso e significato alla dottrina cristiana, come Tolstoj. Rousseau nasce a Ginevra: importante perché è un cantone svizzero (i francesi si attribuiscono Rousseau, ma in realtà anagraficamente è svizzero); poi la città di Calvino quindi in un certo senso una città religiosa → Rousseau era calvinista, ma diventerà anche cattolico e infine deista (un percorso travagliato dal punto di vista delle credenze religiose). La sua famiglia era di origine francese. Comunque sul tema della democrazia, l'influenza che riceve dell’organizzazione politica della confederazione elvetica che valorizza molto gli istituti di democrazia diretta è un elemento biografico certamente rilevante nella sua vita. La Chiesa cattolica metterà all’indice anche molti libri di Rousseau, additato come nemico della Chiesa. Ebbe una vita molto complicata, difficile, inquieta… condizionata da un umore ‘saturnino’, francamente depresso. È un autore perseguitato per le sue idee, ma allo stesso tempo ci metteva anche del suo → era afflitto palesemente da manie di persecuzione. Come Voltaire, era molto conosciuto al suo tempo e già nel corso della sua vita: nel 700 comincia un fenomeno straordinario, un vero e proprio culto della sua personalità che arriva fino ai nostri tempi. Lévi- Strauss (un autore di cui parleremo a proposito del carcere e della pena detentiva) nel suo libro “Tristi tropici” parla di Rousseau come “nostro maestro e nostro fratello. Ogni riga della mia opera dovrebbe essere dedicata a lui se non fosse che questa dedica è sacrilega perché sono troppo lontano alla sua grandezza”. Rousseau è personaggio complesso, con aspetti caratteriali complessi… uniti all’evocazione fortemente empatica effusiva del primitivo, dell’originario e contemporaneamente alla valorizzazione di quello che è stato (e spera ritorni) e alla critica molto forte verso la nuova civiltà, il progresso, la contemporaneità (o quasi) che si annuncia soprattutto con la rivoluzione industriale. Tutti questi aspetti per dire che… da un lato dovevamo collocarlo da qualche parte → compare sotto questa etichetta dell'illuminismo politico, ma Rousseau non si fa facilmente “incasellare” in questa maniera. Anzi è un illuminista molto particolare dalla sensibilità più ottocentesca, romantica soprattutto per la sua grande enfasi ed ammirazione nei confronti del primitivo e di tutto ciò che ha proceduto il progresso, la civiltà contemporanea o che sta diventato civiltà contemporanea. Frequenta (inevitabilmente: Parigi è il centro) e divenne amico di Diderot (artefice dell’Enciclopedia). Pare anche (non è sicuro) che nell’ultimo anno di vita conobbe Robespierre del quale fu un punto di riferimento. Nei suoi viaggi fu ospite di Hume, ma anche con lui (così come con Diderot) i rapporti si guastarono presto per futili motivi… così come con Voltaire → nemici dichiarati in questa situazione politico culturale, in questa vicenda europea… Voltaire di Rousseau pensava che fosse un mezzo matto, scriveva “si ha pietà di un folle, ma quando la demenza diventa furore, lo si lega. La tolleranza, che è una virtù, sarebbe in quel caso un vizio”. Ma diciamo due parole sul rapporto con David Hume. Un rapporto significativo per spiegare in cosa consiste la differenza tra un liberale e un democratico. Hume pensa che non sia possibile essere perfetti, occorre invece essere realisti; se si vuole una pacifica convivenza occorre innanzitutto impedire all’uomo di nuocere al prossimo. Date queste chiare premesse di estrema idealizzazione della condizione di libertà e uguaglianza insieme originarie dello stato di natura; per Rousseau si tratta di dare alla società una forma completamente diversa → costruire un’entità collettiva in cui l'uomo possa recuperare quello che ha perduto: il rapporto con la natura. Che in qualche modo possa recuperare la propria umanità perduta… trovare una forma di organizzazione politica in cui la legge civile abbia lo stesso valore della legge ‘principale’ che si conosce dallo stato di natura (la legge di natura); anzi se ci si riesce (scrive Rousseau) anche una legge civile persino superiore a quella naturale. Lettura pezzo da “Il contratto sociale”: “Abbiamo bisogno di una forma di associazione che difenda e protegga con la forza comune la persona e (aggiunge, ovvero il suo pensiero si è evoluto) i beni di ciascuno”. Il giudizio nei confronti della proprietà privata resterà sempre negativo, però in questo passo Rousseau ci dice che tornare completamente indietro non si può: la proprietà è divenuta in gran parte una proprietà privata e allora abbiamo bisogno di accettare l’esistente per qualche parte. Allora serve “una forma di associazione nella quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a sé stesso e rimanga però, contemporaneamente, libero quanto prima”. Per realizzare questo passaggio ad una società completamente nuova e differente che recuperi la condizione ideale di libertà, di uguaglianza e felicità, abbiamo bisogno di un contratto sociale: però un contratto (punto fondamentale di differenza con altri contrattualisti studiati), diversamente da giusnaturalisti, che ancora non ha avuto luogo → è questa la dimensione autenticamente rivoluzionaria del pensiero di Rousseau, ed è questa l’idea sulla quale convergono molti dei rivoluzionari: quello che abbiamo fatto fino a questo momento è una società imperfetta, il vero contratto sociale che porti di nuovo libertà, uguaglianza e felicità è un contratto che deve ancora realizzarsi. Una tendenza rivoluzionaria che ci fa capire che stanno arrivando dei tempi nuovi che hanno bisogno di far riferimento anche ad immagini, teorie come quella di Rousseau palesemente utopiche. Senza l’energia di questa figurazione ideale probabilmente la Rivoluzione francese non ci sarebbe stata... Lezione 14 Stiamo affrontando “Il contratto sociale” di Rousseau. L’idea di un nuovo patto di comunità politica, l’idea di un nuovo Stato e la formula apparentemente paradossale che usa è questa: un'organizzazione nella quale ciascuno si dà a tutti (all’insieme della comunità), ma in questa maniera nessuno si dà realmente a nessuno. Una concezione di libertà diversa rispetto a quella dei liberali… Il concetto fondamentale, che tiene in piedi tutta questa costruzione teorica, questa idea di un nuovo Stato perché i patti precedenti non andavano bene erano imperfetti e limitati, è la volontà generale. Nessuna comunità politica potrebbe esistere davvero in maniera compiuta, se non ci fosse qualche punto, o un insieme di più punti intorno ai quali gli interessi di ciascuno potrebbero accordarsi con gli interessi di tutti. Il legame che deve legare gli associati tra loro è ciò che è comune agli interessi particolari. La volontà generale può essere descritta come il punto di incontro tra le volontà degli interessi particolari e la volontà del bene comune. IMPORTANTE. La volontà generale non è la volontà di tutti ma è la volontà del bene comune, la volontà dell’interesse comune, la volontà che nasce dall’accordo, che nasce da un processo, dalla deliberazione, dalla discussione su ciò che è comune agli interessi di tutti. Questa idea di una democrazia che deve essere deliberativa (perché altrimenti non è democrazia) arriva sino ai nostri giorni, ad esempio ne parla il contemporaneo filosofo tedesco Jurgen Habermas. In quanto volontà comune, e non mera somma di interessi particolari, ciascun individuo in un’entità collettiva fondata su un patto sociale ‘vero’, può riconoscerla come propria, può riconoscersi in questa volontà comune e conseguentemente sottomettersi ad essa liberamente. Il ragionamento di Rousseau sembra complesso, ma in realtà è chiaro. Sta pensando a quello che deve essere il meccanismo fondamentale delle democrazie, dei patti sociali ragionevoli che devono essere instaurati tra gli individui della comunità politica razionale. Esempio. Se c’è ciascuno di noi è interrogato come singolo farà necessariamente riferimento al proprio particolare interesse individuale. Se qualcuno ci chiede “preferisci pagare il 5% di tasse oppure il 20%?”, è evidente che la maggior parte degli interrogati preferirà pagare il 5%. Ma questa non è la volontà generale: è semplicemente ciò che tutti dicono di volere se lo si chiede senza nessuna considerazione della totalità, del fatto di avere delle relazioni sociali. È solo la volontà di tutti, della maggioranza. Ma la volontà generale è qualcosa di più 'impegnativo’. La volontà generale è quella decisione che tutti dovrebbero volere nel momento in cui si guarda non al particolare, ma si guarda all’interesse della comunità nel suo insieme e dunque si prescinde dal punto di vista egoistico, particolare. Far prevalere la volontà generale significa passare sopra all’interesse dei singoli, e concentrarsi sul bene comune. Se si fa una valutazione razionale senza interesse egoistico su utilità e servizi fondamentali come le scuole, la sicurezza, i presidi sanitari, allora la valutazione anche da parte del singolo sarà decisamente diversa. Tutte queste prestazioni devono essere tutte finanziate con le tasse per il bene della comunità. Allora la valutazione sarà che le tasse devono essere abbastanza alte per consentire di fruire di questi servizi, avvicinandosi quindi alla volontà generale. Per Rousseau la vera libertà consiste nell’appartenere ad una collettività di individui che si preoccupano in primo luogo, non del proprio particolare e della loro piccola limitata visione, ma danno importanza all’interesse comune. Le leggi devono creare una società in cui tutte le persone siano incentivate a sentirsi in sintonia con la volontà generale invece di perseguire degli interessi egoistici. Allora la libertà di Rousseau è quella condizione nella quale l’individuo aliena alla volontà generale, a questa associazione che lui chiama Stato (a seguito del patto sociale nuovo) cede i suoi diritti di natura e se li trova restituiti nella forma di diritti civili sanzionati dalla volontà generale, stabiliti dall’entità collettiva chiamata Stato. Si tratta di una condizione di libertà superiore a quella naturale. Quella naturale è limitata necessariamente dalla forza degli altri individui; la libertà civile in questa forma invece è completamente diversa → è la libertà consapevolmente realizzata dall’uomo, non quella libertà che uno si trova senza aver fatto nulla dalla condizione naturale. La vera libertà è sottoposizione alla volontà generale in quanto comune, fondata su una deliberazione sugli interessi comuni, non è qualcosa di estraneo ed esterno alla sua vita individuale. Quindi si tratta di un concetto non liberale di libertà: su questo il dissenso con Hume è radicale, e anche con Kant → nei liberali la libertà è ‘non impedimento’: la libertà è fare tutto ciò che si vuole a condizione che non si sia di intralcio agli altri. La libertà di Rousseau è invece una libertà democratica che comporta un’auto-obbligazione (che nasce da questa speculazione in cui si riconosce il primato della volontà generale) e obbedienza alle statuizioni tutte intere che il popolo si è dato a partire dalla volontà generale. E’ una concezione che da un lato ricorda certe forme democratiche delle città greche, ma anche la libertà democratica di alcuni cantoni svizzeri… ma è una riflessione centralissima per quanto riguarda il nostro costituzionalismo democratica (non quello liberale) → il concetto di volontà generale anti-vede chiaramente l’idea di sovranità popolare che nasce da una deliberazione razionale sull’interesse comune. La legge è statuizione del popolo su tutto il popolo. Per Rousseau (diversamente da Montesquieu) in questa maniera il popolo è allo stesso tempo sovrano perché depositario della sovranità, e suddito in quanto soggetto passivo delle leggi. Questa è anche la descrizione sintetica di democrazia di Montesquieu, ma la differenza è fondamentale: Montesquieu non pensa che sia la forma di governo migliore delle comunità politiche perché c’è il rischio di un dispotismo della maggioranza (idea seguita da Tocqueville). Per Rousseau la sovranità spetta soltanto al popolo, non è divisibile (è contrario alla separazione dei poteri) e non è alienabile: in linea di principio non può essere delegata a rappresentanti (punto di vista utopico). Su questo aspetto (la sovranità non può essere delegata, non può avvenire attraverso l’azione di rappresentanti) emerge l’anima ginevrina svizzera di Rousseau → la vera democrazia è la democrazia diretta, in cui tutto il popolo partecipa alle deliberazioni. L'ideologia egualitaria e antiassolutistica di Rousseau è stata sicuramente decisiva per la Rivoluzione francese. E i francesi avevano quest’idea di aver assorbito direttamente da “Il contratto sociale” e di averlo realizzato: i patti precedenti erano come quelli descritti da Rousseau, ovvero imperfetti che non consentivano la vera libertà ed uguaglianza all'interno della comunità politica. La traccia più chiara di questo forte legame nella testa dei rivoluzionari con le sue teorie la troviamo soprattutto nell’articolo 6 della Dichiarazione del 1789: “La Legge è l’espressione della volontà generale”, ‘l’ maiuscola perché volevano dare il senso di sacralità di questo testo normativo. Però sul punto come si arriva alla volontà generale, processo che richiede una deliberazione che non può esser realizzata come nei piccoli cantoni svizzeri in cui il popolo si riunisce in piazza e vota per alzata di mano… l'articolo 6 procede “tutti i cittadini hanno diritto di comporre personalmente oppure attraverso i loro rappresentanti alla formazione della volontà generale” → questo è un mezzo ‘tradimento’ della concezione di Rousseau, il quale pensava a forme complesse di democrazia diretta, mentre questo pezzo di Costituzione francese apre la porta ad una democrazia che si esercita attraverso la rappresentanza. Un grande ammiratore di Rousseau è il marchese di Condorcet → protagonista della Rivoluzione di cui Tarello non si occupa… fu Presidente dell’Assemblea legislativa durante la Rivoluzione e come tanti venne arrestato durante il periodo del Terrore per ordine di Robespierre, si suicidò… Condorcet riprende l'idea di Rousseau della volontà generale come volontà di tutto il popolo che nasce attraverso un processo deliberativo e il popolo è titolare del potere legislativo. Era consapevole delle difficoltà tecniche di una democrazia tutta diretta, e ammette che la democrazia diretta è sicuramente preferibile, ma in una comunità politica che sta estendo progressivamente il suffragio, anche la soluzione di una democrazia che parla attraverso dei rappresentanti dev’essere considerata come corretta. Nel suo saggio “Sulla costituzione” del 1793 afferma cose importanti: la Dichiarazione del 1789 deve essere considerata come un fondamentale documento costituzionale e allo stesso tempo bisogna rendersi conto che questo processo di codificazione costituzionale è a due tappe, espletate entrambe, e bisogna avere cognizione del fatto che la costituzione ideale si compone sia della parte sui diritti che della parte sulla organizzazione della forma di governo. Un altro aspetto di questo saggio: la volontà generale, che Rousseau vedeva coinvolta nel processo deliberativo, deve intervenire anche relativamente al sovrano, all’indicazione del sovrano all’interno della comunità politica. È un’idea democratica: il sovrano elettivo. Dobbiamo arrivare a sviluppare l’idea di volontà generale di Rousseau pensando che anche il vertice della comunità politica debba essere eletto → è l’idea di molte forme presidenziali, come gli USA, ma anche semipresidenziali come quella dei francesi in cui il potere esecutivo è condiviso dal Presidente della Repubblica con il Capo del Governo, ma il PdR ha prerogative importanti a suo capo. Idea espressa chiaramente per la prima volta da Condorcet. A testimonianza ulteriore degli ideali democratici 'rousseauiani' di Condorcet va ricordata un’altra circostanza: prima della Rivoluzione francese Condorcet nel 1788 aderì alla Società degli amici dei Neri che si opponeva allo schiavismo praticato soprattutto in molte parti degli USA. La soluzione evidente e prevalente nel nostro costituzionalismo democratico che tanto deve a “Il contratto sociale” è quella della democrazia dei rappresentanti. Dopo la Rivoluzione e questa formulazione che è stata favorita dai Giacobini di introdurre una correzione nella figurazione rousseauiana della volontà generale, il problema è che la questione della volontà generale non riguarda solo il processo deliberativo in sé (cioè decidere cosa è davvero il bene comune, quali sono davvero i punti sui cui si può convergere sulla base di una valutazione complessiva dell’interesse comune), c’è un altro problema sostanziale significativo (che i costituzionalisti francesi non potevano ben vedere fino in fondo) cioè quello di immaginare un processo, individuare dei meccanismi che portano all’indicazione dei rappresentati. Meccanismi che ancora non c’erano sostanzialmente in quanto non c’era l’idea di un’attività politica esclusivamente rivolta a fare da ‘cinghia di trasmissione’ tra il popolo e la volontà generale. Solo l’800 ‘inventerà’ questo meccanismo di collegamento tra popolo e volontà generale → ii partiti politici. Sia pure con le varie correzioni delle sue teorie, nell’immagine dei rivoluzionari, Rousseau è uno dei padri della Rivoluzione e nella concezione di molti la fonte più importante. A testimonianza di ciò un episodio del 1794 quando la convenzione nazionale ordinò che i resti di Rousseau venissero trasferiti al Pantheon di Parigi: ci furono tre giorni di ‘festa’ di lutto, manifestazioni… una sorta di ‘culto’ della personalità con tono quasi religioso. Nel Pantheon, tra l’altro, si è trovato a fianco del ‘nemico’ Voltaire scomparso lo stesso anno. Un altro episodio singolare è che dopo la Restaurazione un movimento di opinione molto forte dei cattolici avrebbe voluto togliere i resti di Voltaire dal Pantheon perché la ritenevano una presenza scandalosa in una Chiesa e il sovrano Luigi XVIII si oppose a questo trasferimento con una famosa simpatica battuta “lasciamo Voltaire dove sta, è abbastanza punito dal fatto di dover sentire messa tutti i giorni”. Anche Condorcet si trova nel Pantheon insieme ad altri importanti personaggi della Rivoluzione francese. Morelly pensa che nello stato di natura le persone vivono in una condizione di uguaglianza e ricorre il mito proprietà indivisa, i beni sono comuni → l'abbondanza e la disponibilità dei beni fan sì che nello stato natura regnino pace e armonia. L’idillio viene meno con l’istituzione della proprietà privata che corrompe la natura dell’uomo rendendolo depravato, egoista, si dà libero sfogo alle passioni più cieche e violente, si perdono di vista i criteri del bene e del giusto. Bisogna pensare ad un cambiamento deciso e radicale. La legislazione conforme al codice deve innovare completamente lo stato di cose presente: la proprietà privata va soppressa (neanche Rousseau pensava a ciò) e tutte le attività da quelle economiche a culturali devono essere integralmente pianificate (idea di pianificazione economica che sarà quella dei socialisti e poi della dittatura del proletariato con Marx ed Engels). I cittadini porteranno i prodotti del loro lavoro a dei magazzini pubblici (una sorta di centri di raccolta) i quali provvederanno a distribuire questi beni secondo i bisogni e le necessità di ciascuno. Le sue idee influirono probabilmente su Rousseau, e furono uno dei motori di una nota vicenda della Rivoluzione francese: la 'Società degli uguali’ fondata dal rivoluzionario ‘Gracco’ Babeuf che aveva l’obiettivo abbattere e deporre il Direttorio. L’idea era quella di affermare una democrazia egualitaria facendo a meno di ogni privilegio e della proprietà privata. La cospirazione venne scoperta e nel 1797 vennero ghigliottinati. ↝Mably ↜ L’abate di Mably è un autore interessante per molti aspetti. È autore di due opere: ✬ una che precede “Il contratto sociale” di Rousseau che è “I diritti e i doveri del cittadino” ✬ e l’altra del 1776 dedicata alla legislazione che è “I principi della legge”. Mably è stato molto importante, non tanto quanto Montesquieu per la divisione dei poteri, e manco come Rousseau per la democrazia egualitaria e della volontà generale, ma significativo per altre cose. In primo luogo, per una critica molto forte nei confronti della proprietà privata in opposizione alle correnti economiche entranti in quel momento prima della Rivoluzione, che sono le teorie che appartengono anch’esse all’illuminismo politico dei fisiocratici... delle teorie diverse tra di loro, ma in Quesnay (prn. kenè, fisiocratico più importante) si vede una santificazione del ruolo della proprietà privata. Per altro, se diamo uno sguardo alla dichiarazione dei diritti, ci rendiamo conto che la proprietà privata insieme alla libertà è un diritto fondamentale… C’è però un tema che rende particolarmente interessante e rilevante Mably, in quanto contribuisce anche lui, indirettamente perché non arriva alla Rivoluzione (muore prima), alla Dichiarazione di diritti. Nelle due opere accennate c’è una critica come altri autori della società di ancien regime, dell’assolutismo regio e del potere dei nobili. A queste organizzazioni di potere Mably oppone gli antichi diritti della nazione franca (fa riferimento al Regno dei Franchi, Merovingi e poi Carolingi, e Carlo Magno): nell’atto di fondazione è la nazione franca, non ha una connotazione fortemente germanica come avrà poi. Dalla nazione franca viene, dalle sue tradizioni e consuetudini, Mably pensa che quella organizzazione aveva riconosciuto e dato importanza al tema della resistenza all’oppressione. Per questo motivo principalmente ricordiamo Mably → il diritto di resistere all’oppressione, articolo 2 della Dichiarazione di diritti del 1789, è riconosciuto come un diritto fondamentale. Piccola riflessione sulla nazione franca. Chi sono i primi francesi? I Galli? I Galli erano una popolazione celtica venuta chissà da dove… I Franchi erano poi così diversi dalle popolazioni germaniche? I Franchi erano in realtà anche loro una popolazione germanica che comincia a parlare una lingua romanza vicino alle nostre che però conserva le tracce sia della lingua celtica precedente che del ‘francone’ (lingua germanica occidentale)... A parte questa analisi della nazione franca, il tema del diritto di resistenza è un grande tema. L’importanza di questo tema è dovuta a Mably. Cosa bisogna fare quando un governo è tirannico, ingiusto e viola le leggi? Un documento fondamentale nella storia del costituzionalismo è la Dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio 1776: un lungo documento in cui si giustificano i motivi dello strappo con l’Inghilterra; nel preambolo si fa riferimento proprio al diritto di resistenza → “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti (differenza fondamentale rispetto alla vicende francese fortemente influenzata da concezioni deistiche o critiche nei confronti delle religioni storiche; i documenti americani hanno un tono religioso più intenso rispetto a quelli francesi), che tra questi diritti ci sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità (componente importante del cd. ‘sogno americano’); che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio adatta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”. Dopo le varie esperienze tragiche passate nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, la legge fondamentale del 1949 in Germania proclamava all’articolo 20, 4 c.: “Tutti i tedeschi hanno diritto di resistere a chiunque tenti di rovesciare questo ordinamento qualora non vi sia altro rimedio possibile”. È una vicenda che ci tocca da vicino: in Italia in Assemblea costituente ci fu la proposta di un giurista genovese e uomo politico democristiano (Giuseppe Dossetti) di inserire anche nella nostra Costituzione, riprendendo l’esempio americano, il diritto di resistenza. Una proposta che non venne accolta per la difficoltà di tradurre in termini giuridici un fatto che rimane sostanzialmente politico. Ma indubbiamente è un problema a partire dall’identificazione tecnico-giuridica di questo diritto. Francesi, americani, tedeschi intendono con le loro vaghe formulazioni di considerare legittimo qualche tipo di resistenza (anche attiva e violenta)... sembrerebbe che questa sia la loro intenzione… Però su questo problema c’è una declinazione alternativa: un famoso libro dell’americano Thoreau “Disobbedienza civile” (1849) che ebbe anche fortuna… che risponde e un po’ al tema su come si fa la resistenza? C’è anche la resistenza passiva: la non collaborazione con l’autorità. Non c’è solo la rivolta violenta contro un regime oppressivo. Un esempio di resistenza passiva è quella che abbiamo visto parlando di Sophie Scholl e la Rosa Bianca. Un effetto tangibile significativo di questo testo si è avuto nella vicenda dell'indipendenza nazionale indiana dall’Inghilterra con appunto la resistenza passiva (con la non collaborazione con l’autorità) di Gandhi. Ci sono anche altri esempi… a volte lotte attive, energiche e violente, ma molte lotte degli afroamericani negli USA fanno riferimento a questa idea di resistenza passiva di non collaborazione. Una vicenda importante e nota è quella del religioso ed educatore Don Lorenzo Milani che scrisse nel 1965 “L’obbedienza non è più una virtù” a sostegno della obiezione di coscienza (rifiuto di fare determinate cose) contro il servizio militare. Lezione 15 Troviamo una traccia importante di Mably nell’articolo 2 della Dichiarazione dei diritti che parla dei diritti fondamentali, naturali e imprescrittibili che sono libertà, proprietà, sicurezza e resistenza all'oppressione. Quest’ultimo è un diritto che si può imputare idealmente a Mably. Mentre invece la proprietà privata è fortemente criticata. Per Mably il progresso nella modernità nell'industria, nelle arti, nel commercio ecc. ha determinato dei fenomeni di corruzione… e la corruzione fondamentale è l’uscita traumatica dall'armonia dello stato di natura in conseguenza dell’introduzione della proprietà privata. Nello stato di natura la proprietà privata non esiste, e questa mancanza assicura la felicità, la libertà e l’uguaglianza degli uomini. Uscire da questa condizione naturale è stato un errore fatale. Tuttavia, un elemento di congiunzione con Rousseau: fare il percorso inverso è ormai impossibile → ormai il diritto di proprietà non può essere sradicato dall’uomo però il sovrano legislatore deve cercare di mettere capo ad una legislazione che si ispiri allo stato di natura e contemporaneamente contenga gli effetti, i danni più gravi dall’uscita della condizione naturale (egoismo, avarizia, ambizione...). L’idea che il diritto di proprietà ce lo teniamo ma attorno ad esso mettiamo dei vincoli e dei limiti che generino meno danni possibili. È un’idea non dei rivoluzionari, come vedremo con la scuola fisiocratica che scrive nello stesso periodo di Mably, Morelly e Rousseau, i quali hanno un’idea completamente differente: la proprietà è il diritto più importante, che deve essere considerato un diritto assoluto e imprescrittibile... e così fu per molte legislazioni civili dell’800 a partire dal Codice Napoleonico del 1804 fino al nostro Codice civile del 1865 che erano sostanzialmente una traduzione di quello napoleonico... Ma ora le cose sono cambiate guardando alla nostra legislazione: la proprietà privata è riconosciuta e garantita, ma non è più un diritto assoluto → Art. 42 Costituzione italiana: “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti". La scuola fisiocratica (Du Pont de Nemours e Quesnay) I fisiocratici non sono giuristi, ma sono in gran parte economisti. Quesnay è il più importante (già l’abbiamo accennato). Hanno in generale una posizione molto forte di ‘santificazione’ della proprietà privata come diritto fondamentale insieme alla libertà. Il termine ‘fisiocrazia’ vuol dire ‘dominio della natura’ → è un termine coniato da Du Pont de Nemours: una personalità importante della Rivoluzione francese → fu presidente dell’Assemblea Nazionale costituente che approvò la Dichiarazione dei diritti del 1789 e la Costituzione del 1791 ispirata a Montesquieu. Du Pont pensa che il governo della società deve essere fondato sulle leggi naturali. Il compito di trasferire, far applicare l’ordine naturale e farlo diventare ordine positivo, spetta all’autorità sovrana. Tuttavia, quest’autorità sovrana, sia un monarca o un’assemblea legislativa, deve essere un’autorità meramente esecutiva, ‘di conservazione’ scrive Du Pont: le leggi naturali, qualunque esse siano, devono essere tendenzialmente riprodotte nell’ordine positivo. Du Pont de Nemours ha l’idea che i principi fondamentali siano la libertà e la proprietà (non l'uguaglianza come invece pensano gli autori visti fin qua). Per Du Pont sono due principi tra di loro strettamente collegati. Pensiero approvato dalla Rivoluzione (art.2), e ancor di più nel momento in cui si sancisce la fine dell’antico regime. La proprietà privata è immaginabile, è concepibile soltanto in una condizione che assicuri libera circolazione e la libera di disposizione dei beni. E questo, sulla base dell’assetto della società di antico regime, non è possibile perché dal punto di vista economico è una struttura fondata incentrata sul servaggio ereditario di contadini coloni che sono legati alla terra, e questa terra è quella dei signori feudali (o dei vescovi-conti) → le terre sono sottratte alla libera circolazione (intangibilità e unità delle terre feudali). Bisogna cambiare questo stato di cose, e ciò avviene con la Rivoluzione. Per Du Pont lo sviluppo della società è possibile soltanto se l’individuo è nella posizione di perseguire i propri interessi, di poter commerciare liberamente con l’unico sostanziale limite di non intralciare gli interessi e il godimento di diritti altrui: una posizione evidentemente liberale e liberistica → quando si fa riferimento al mondo della produzione (per i fisiocratici il mondo della produzione principale è il mondo agricolo, ragionano al passato), con questo orientamento liberale, con questa posizione liberistica, si esprime con il motto “lasciar fare, lasciar passare, il mondo va per conto proprio” → nei meccanismi della produzione non bisogna intervenire: lo Stato non deve intromettersi. A questa concezione liberistica che riguarda soprattutto la proprietà delle terre e la libertà della loro circolazione, si lega strettamente la polemica dei fisiocratici nei confronti degli altri economisti dalle posizioni ‘statalistiche’ che loro (i fisiocratici) definiscono ‘mercantiliste’. Il termine ‘mercantilismo’ lo ritroviamo nel libro sulla ’ricchezza delle nazioni’ di Adam Smith che abbiamo accennato la scorsa lezione: il mercantilismo è la politica economica caratteristica delle monarchie assolute nel 600 e nel 700 (in modo particolare in Francia) che ha come obiettivo principale non la ricchezza economica in sé, ma la potenza e la ricchezza dello Stato dal punto di vista delle sue finanze. E questa potenza dello Stato per i mercantilisti si deve realizzare con interventi diretti nell’economia da parte dell’autorità politica (in quel periodo del sovrano). Quindi per esempio politiche di difesa della produzione nazionale, limitando le importazioni, mettendo dazi doganali e provvedimenti favorevoli all’esportazione dei prodotti e favorevoli alla produzione nazionale. Tutti i fisiocratici hanno l’idea che la ricchezza non è creata dallo Stato e nemmeno dal commercio internazionale (che invece per il mercantilismo va incentivato). La vera ricchezza della comunità politica tutta intera (non dello Stato) viene dalla classe dei liberi produttori; e in questo si vede che la Francia non è ancora un paese sviluppato dal punto di vista capitalistico in quanto tendenzialmente agricolo e di manifattura, non è ancora un paese industriale. I liberi produttori a cui pensa Du Pont e poi soprattutto Quesnay sono gli imprenditori agrari: da lì viene la ricchezza dello Stato. ↝François Quesnay ↜ Quesnay non arriva alla Rivoluzione (1694-1774). Pensa che soltanto la terra è in grado di creare nuova ricchezza, che è superiore rispetto a quella consumata. Ancorché molto legato ad un orizzonte economico relativamente arretrato, ha quest’idea fondamentale che per apprezzare concretamente una condizione di sviluppo economico dobbiamo misurare questo elemento: che è il sovrappiù che alla fine dell’anno ci permette di dire che abbiamo un livello di ricchezza superiore all’anno precedente → abbiamo creato ricchezza. Le sue idee sono esposte nella sua opera principale “Tableau économique” (trad. “Quadro economico”) del 1758. In essa rappresenta il sistema economico complessivo di una comunità politica come una struttura proprietà privata e la condanna alla stessa… insomma troviamo diversi principi per cui la coerenza non è sicuramente la principale virtù dell’Enciclopedia. Quest'opera non ha obiettivi di proposizione politico-culturale, di opposizione, di critica dell’assolutismo regio piuttosto che di costruzione e darà l’immagine di un progetto unitario scientifico coerente. Anche Diderot partecipa in un certo senso alla Dichiarazione. All’inizio era amico di Rousseau, poi ha una visione contrattualistica vicino a quella del contratto sociale. Il vincolo sociale fondamentale è la sottomissione alla volontà generale, alla quale spetta il potere legislativo e nel momento in cui questo potere promana direttamente dal popolo “il popolo non sbaglia mai” (secondo Diderot). Affermazione molto forte. Il contributo concreto più significativo di Diderot al processo costituzionale è quanto afferma: “Non c’è altro sovrano che la nazione, non può essere altro legislatore che il popolo”. Grazie (per alcuni ‘per colpa’) a Diderot compare il ‘principio’ della nazione → l’art. 3 della Dichiarazione francese introduce il concetto di nazione (riflessione che abbiamo fatto in precedenza): “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa”. Un altro autore molto importante e significativo e vicino alla Enciclopedia (anche se non è un collaboratore diretto) è Claude-Adrien Helvétius. Non arriva alla Rivoluzione francese neanche lui (1715- 1771), ed è di origine svizzera/tedesca. È un grande amico e ammiratore di Voltaire. La sua opera più importante è “Dello spirito” del 1758, che andrà anch’essa all’indice per il suo spirito materialista e antireligioso, ma in realtà anch’esso è un deista come Voltaire ecc. Cosa fa Helvetius? è importante perché introduce una corrente di pensiero, delle idee ancora adesso centrali nella storia del pensiero filosofico. Helvetius elabora un’etica naturalistica fondata sul principio dell’amore di sé. L’uomo tende al piacere e a fuggire da tutto ciò che può provocargli dolore e sofferenze. Il bene comune però richiede il superamento della manifestazione degli interessi meramente individuali ed egoistici, e richiede la fusione che deve essere in qualche modo realizzata con interessi con un punto di vista collettivo. Questa finalità superiore, di armonizzazione degli interessi e degli impulsi, deve essere realizzata dal legislatore. Siamo lontani dall’immagine mitica dello stato di natura per cui il legislatore deve solo tradurre i principi naturali in legge. Il legislatore secondo Helvetius ha un compito impegnativo: deve coordinare gli interessi individuali, coordinare il particolare con l’utilità generale. Come? basandosi sul calcolo di ragione, sul calcolo razionale → una buona legge è quella che riesce ad ottenere la felicità del massimo numero di individui (criterio della felicità). Massimizzazione della felicità: se realizza questo obiettivo, il sentimento originario dell’amore di sé non è in contrasto, anzi si accorda con il sentimento sociale di giustizia. È una concezione problematica… però lo si ricorda in quanto è l’antecedente più significativo di una corrente importantissima che è l’utilitarismo a cui appartiene Jeremy Bentham. Fine dell’illuminismo politico. Ricordiamo il programma che ci siamo dati nell’impostare il corso… tre elementi nuclei fondamentali al centro riflessione: il problema dei diritti, il problema dell’organizzazione del potere (della forma di governo) e il terzo blocco (che inizieremo ora) che è il problema del diritto penale. Il problema del diritto penale Il problema penale ci guiderà nelle incursioni veloci che faremo in 800 e 900… introduciamo il tema… il problema penale compare abbastanza tardi nella storia della nostra tradizione giuridica occidentale: comincia ad affacciarsi con Hobbes (Leviatano), ma poi diventa di grande attualità nell’illuminismo giuridico con ad esempio Montesquieu, Voltaire (che riprenderemo), Bentham e soprattutto Beccaria (con l’importantissima opera “Dei delitti e delle pene” del 1764). Nel momento in cui il problema penale, grazie a questi pensatori, afferma la sua centralità, diventa una questione fondamentale tanto da mettere in cima alla lista delle preoccupazioni dei rivoluzionari francesi. C’è una ragione politica molto forte: le teste che diedero vita alla Dichiarazione dei diritti (il primo documento generato della Rivoluzione) vollero sostanzialmente reagire alla pratica arbitraria della giustizia penale del re → una giustizia senza regole e senza garanzie, completamente oscura: giustizia delle cd ‘lettres de cachet’ trad. lettere di sigillo. Si trattava di lettere firmate dal re e controfirmate da un ministro in cui il soggetto malcapitato veniva condannato (ad es. alla reclusione, alla deportazione...) senza alcun processo ufficiale. Tra i primi atti dell’Assemblea nazionale costituente (ancor prima della Costituzione del 1791) ci sarà l’abolizione delle lettere di sigillo. Poi un paio di anni dopo il re sarà deposto e decapitato quindi non si farà più riferimento neanche ad un’autorità monarchica. Il problema della giustizia arbitraria del re è certamente tra le cause della Rivoluzione francese (altre cause: avversione nei confronti della monarchia assoluta, la politica economica, norme di tassazione che colpivano la borghesia, privilegi nobiltà clero, grande carestia del 1778…). Avevamo già anticipato che la Dichiarazione dei diritti del 1789 in gran parte si compone di disposizioni che riguardano la giustizia penale. E sono gli articoli: 7, 8, 9 ma non solo. E non diversamente avviene nei Bill of Rights americani. ༄ Articolo 7: “Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi previsti dalla Legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente; opponendo resistenza si rende colpevole” ༄ Articolo 8: “La Legge deve stabilire solo pene strettamente ed evidentemente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto, e legalmente applicata” → Principio fondamentale della irretroattività della legge penale. ༄ Articolo 9: “Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge” → un principio molto rigoroso: principio della presunzione di innocenza… nella nostra Costituzione italiana all’articolo 27 si stabilisce una presunzione di non colpevolezza: “L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva”, qua non è considerato innocente… c’è il problema che una persona viene tratta in arresto e rimane in custodia cautelare fin quando tutti i gradi di giudizio non sono conclusi… è l’istituto della custodia cautelare che dovrebbe essere limitata al massimo, ma che poi non avviene sempre. Da questi articoli emerge quali sono i punti fondamentali principali del problema penale. Sono sostanzialmente quattro questioni che interagiscono: ☞ l’indicazione sui reati, delitti più gravi. Quali sono i comportamenti irregolari, devianti più gravi e quindi ‘meritevoli’ di una sanzione penale? Si trovano molte risposte diverse tra di loro… ☞ chi ha il diritto di punire e quindi di intervenire con lo strumento penale? Per Hobbes è lo Stato, ma non è stato sempre così... ☞ quali sono le punizioni lecite? Nella vicenda rivoluzionaria, la pena di morte viene considerata come una sanzione lecita, anzi le ghigliottine saranno molto utilizzate… ☞ chi sono i trasgressori, i soggetti devianti? Quali caratteristiche naturali, antropologiche, sociali o economiche hanno? Sono persone come noi oppure evidenziano in qualche modo delle anomalie, delle difficoltà…? Il problema penale ruota ancora adesso rispetto a questi quattro grandi temi. La questione storiografica che dobbiamo vedere all'inizio è la medesima: qual è la ragione, il motivo per cui si inizia con tanto ritardo ad affrontare un problema giuridico che a noi appare rilevantissimo? Perché, mentre la questione giuridica dei contratti, degli scambi, della famiglia, della proprietà… si pone con il diritto romano, i problemi penali invece vengono affrontati davvero soprattutto nel 700 da parte dei pensatori illuministi? Possiamo dire che in occidente, nella nostra tradizione giuridica, c’è stato per un lungo periodo di tempo un accordo di fondo, un ‘idem sentire’, su quali fossero i comportamenti devianti non conformi e quindi meritevoli delle sanzioni più gravi: ed erano quei comportamenti che violavano i precetti fondamentali della religione (in particolare quella cristiana) come non uccidere, non rubare… I problemi iniziano inevitabilmente ad emergere con l’età moderna emergono dal processo di secolarizzazione quando autori che se pur si definiscono cristiani (es. Pufendorf, Thomasius…) dicono che bisogna mettere una linea di confine precisa tra diritto e religione → una cosa è lo Stato e un’altra cosa è la teologia morale. Questo, a livello complessivo culturale, determina la progressiva autonomia delle istituzioni temporali dalla religione, autonomia dal potere delle chiese (processo di secolarizzazione) → sempre di più gli Stati si appropriano del monopolio della potestà punitiva (di punire). Si sostituiscono a cosa: in primo luogo sostituendosi sempre più ai tribunali ecclesiastici, alla giustizia repressiva della Chiesa e dall’altro lato intervenendo sulle faide private (conflitto tra gruppi parentali basato su vendetta o indennizzo, tipico germanico). Quanto più si va avanti nel processo di secolarizzazione che investe il diritto repressivo, gli Stati non solo sottraggono potere ai privati e ai tribunali ecclesiastici, ma pretendono anche di mettere ordine nella lista dei comportamenti devianti meritevoli di essere repressivi: avviene in particolare l’aggiunta di nuove figure criminose come i delitti di lesa maestà, gli attentati all’onore o al prestigio del sovrano o delle altre istituzioni, infedeltà negli affari di Stato, lo spionaggio… Quello che fino a questo momento era apparso scontato diviene, con l’intervento del sovrano, una questione più complicata… l’affermazione del diritto penale come diritto tendenzialmente laico è uno degli effetti della secolarizzazione → lo stato aggiunge nuove figure di reato, delle fattispecie che non smuovono particolarmente le coscienze morali, eppure comincia l’assolutismo e questi nuovi reati vengono considerati immediatamente i più gravi. La cosa interessante è che poi se guardiamo gli illuministi, ad esempio a Beccaria, questa posizione la ritroviamo anche in “Dei delitti e delle pene”: i comportamenti più gravi solo la offesa all’entità collettività, l’offesa all’autorità dello Stato? E questo conferma quel punto di vista sviluppato da Tarello: l’idea che il processo rivoluzionario non comprare all'improvviso, ma si innesta su una tradizione che aveva già affermato l’importanza dei reati che offendono la personalità pubblica delle istituzioni. Invece il problema di chi sia il delinquente, il deviante, il trasgressore non viene toccato da questi autori. Le questioni centrali sono le prime tre (quali sono i comportamenti più gravi, chi punisce e con quali strumenti)… la quarta e ultima questione si afferma con il positivismo criminologico della fine dell’800 (per quanto ci siano già delle anticipazioni che vedremo in J.Bentham). Una vicenda singolare: nell’ambito del problema penale abbiamo un primato importante, abbiamo la posizione tradizionale dell'illuminismo giuridico ben sintetizzata dall’opera di Beccaria, però poi il positivismo criminale alla fine dell’800 si specchia in autori prevalentemente italiani (il più importante è Cesare Lombroso e la fossetta occipitale, ma anche altre personalità). Lezione 16 Quelle viste finora sono le ragioni storiche per cui il problema penale si è presentato relativamente tardi… vediamo ora quali sono le ragioni teoriche. Cerchiamo di capire quali sono le teorie, le correnti di pensiero, le idee che hanno messo sulla strada dell’illuminismo giuridico penale l’indicare determinate soluzioni (alcune le abbiamo già viste negli articoli della Dichiarazione dei diritti del 1789)? Queste tre correnti di pensiero, ideologie, non sono perfettamente conciliabili tra di loro. In particolare, i problemi maggiori li dà la ideologia retributiva. Perché? L'utilità e la docilità del diritto penale potrebbero, teoricamente, permettere al giudice di attenuare oppure inasprire la sanzione penale a seconda delle circostanze. Ma di fatto, l’ideologia retributiva sarà messa davvero in discussione più avanti dai positivisti, quando verrà affermato il principio (che vale ancora per il nostro Codice penale) per cui il giudice può graduare le pene in base alle caratteristiche del soggetto da un lato, e dall’altro lato ad una sorta di “prognosi” sulla pericolosità di quel determinato soggetto. Non pene fisse, ma pene che possono essere graduate. All'interno della corrente propriamente illuministica soltanto Genovesi ha un’idea di questo tipo. Nonostante questi problemi e le differenze di impostazione tra questi tre principi, è avvenuto che i sostenitori delle ideologie retributive abbiano elaborato delle scale di gravità dei reati (vedremo in particolare con Beccaria), scale corrispondenti delle pene che coincidono con le richieste dei portatori delle ideologie umanitarie, e di quei portatori delle ideologie utilitaristiche che predicavano essere più convenienti, giuste e corrette delle sanzioni moderate. Prima di Beccaria… ci sono degli autori molto importanti da cui, Beccaria stesso lo riconosce, è influenzato. Tra questi: Montesquieu e Voltaire ad esempio. Sono autori che affermano l’esigenza di riformare la giustizia arbitraria del sovrano assoluto, prima della Rivoluzione francese, ed elaborano idee nuove per il tempo → uno dei grandi meriti di Beccaria fu di riprendere alcune di queste idee, metterle insieme a principi di autori di altre correnti di pensiero e averle ordinate in un sistema coerente e compatto. Per Montesquieu il riferimento principale è la sua grande opera Lo spirito delle leggi. Sappiamo che questo autore è monarchico per convinzione e per nascita, e sappiamo qual è il criterio fondamentale nella sua analisi complessiva → all’interno delle diverse forme di governo, enuclea quelle forme che lui chiama moderate rispetto alle quali esprime il suo apprezzamento: è contrario al dispotismo, e per quanto riguarda la democrazia ha qualche perplessità → rimangono dunque le forme moderate come la monarchia e l’aristocrazia o ancora meglio la forma mista inglese in cui c’è anche un po’ di democrazia (poca: presenza del popolo nella Camera dei comuni), oltre che un po’ di aristocrazia e monarchia. Nelle forme moderate, quelle forme a cui Montesquieu è favorevole, i principi della giustizia penale sono sostanzialmente questi: - il principio di legalità è fondamentale: - p. legalità sia dei reati, delle condotte che la comunità politica dice che devono essere vietate; - sia delle pene → e quindi una previsione specifica di quali siano le sanzioni penali ammissibili. È un discorso fondamentale di cui abbiamo già parlato e su cui si basa la procedura penale: il grande difetto della giustizia regia (delle lettere di sigillo) fu quella di non distinguersi chiaramente dal dispotismo → occorre un testo legislativo indichi a tutti e chiaramente quali siano i comportamenti vietati e il catalogo delle pene, ovvero come può concretamente intervenire lo Stato nel momento in cui si trova a dover reprimere le condotte devianti. - la necessità di separare i poteri, in particolare tra quello regio che era titolare sia del potere esecutivo che legislativo che giudiziario. C’era stato un tentativo da parte dei sovrani assoluti, in particolare di Luigi XIV, di intervenire sull’eccesso di potere da parte dei Parlamenti, delle coorti esistenti prima della Rivoluzione... Montesquieu quando parla della figura del giudice, parla di un giudice che non ha discrezionalità nell'applicazione della legge penale (deve essere “la bocca delle legge”) e non soltanto questo → deve essere anche un potere separato dal vertice della comunità politica e deve avere delle garanzie tipo quelle che avevano i Parlamenti. Tuttavia, i Parlamenti erano delle coorti permanenti… e questo non va bene: bisogna immaginare un sistema tendenzialmente elettivo, come era nell’esperienza romana del pretore prima urbano e poi peregrino. - la moderazione delle pene: le sanzioni penali non devono essere né eccessive né troppo frequenti (ragionamenti che ritroveremo in altri autori) perché altrimenti, se il diritto penale intervenisse troppo frequentemente, finirebbe per essere meno efficace e meno utile. Sono considerazioni utilitaristiche che verranno riprese da Beccaria e poi soprattutto da Bentham (autore dell’utilitarismo, che segna, per il fatto di essere in parte un autore ottocentesco, una transizione dalle concezioni illuministiche a concezioni più positivistiche da positivismo criminologico). Altro autore importante, di grande rilievo su questi temi è Voltaire di cui abbiamo ricordato già diversi suoi scritti, e in particolare il Trattato sulla tolleranza. I testi di Voltaire sono sempre molto critici, e lo sono soprattutto in questo trattato in cui si occupa del caso di Jean Calas: un protestante accusato ingiustamente di aver strangolato il proprio figlio perché si era convertito al cattolicesimo. La sua vicenda è molto interessante: in realtà il figlio si era suicidato e i genitori erano preoccupati dal fatto che il comportamento suicidario prevedeva il divieto di sepoltura religiosa → per questo motivo i genitori affermarono, senza essere creduti, che il ragazzo era stato strangolato… e la conclusione presa dalla Corte di giudizio fu che era stato il padre ha ucciderlo a seguito della sua conversione. Quello di Jean Calas è un caso molto famoso, e non è l’unico… venne torturato per affermare la sua colpa che non c’era, venne strangolato (idea della sanzione simmetrica rispetto al comportamento violento) e infine venne pure bruciato → una tortura sostanzialmente. Eppure, questo a dimostrazione della grande influenza di Voltaire, il filosofo -su richiesta dai familiari di Jean Calas- riuscì a provocare una revisione del processo procurando ai familiari un incontro con Luigi XV. Questo processo riconobbe l'innocenza di Calas, anche se ovviamente non si poteva rimediare alla sua morte... ma almeno il suo onore fu salvo. Questa battaglia di Voltaire è molto importante e rilevante: una battaglia per la secolarizzazione del diritto penale → occorre che il diritto repressivo si separi ‘dall’abbraccio mortale’ con la religione: motivo per cui il diritto penale inizia a camminare sulle proprie gambe; è arrivato il momento di depenalizzare reati fantasiosi, come la stregoneria ad esempio… idea che abbiamo già visto enunciata anche nell’opera di Christian Thomasius. Anche ‘noi’ abbiamo avuto questi problemi → tra le condanne per eresia ricordiamo il panteista Giordano Bruno arso vivo nel Campo dei Fiori nel 1600… e a questo proposito ricordiamo anche che il pontefice Giovanni II a distanza di 400 anni esprimerà il suo rammarico per la morte di Giordano Bruno, ribadendo comunque l’incompatibilità delle teorie panteistiche con la dottrina cristiana (è comunque un pontefice, deve fare il suo lavoro). Questo è il primo pezzetto della critica di Voltaire. L’altro pezzetto riguarda il diritto penale procedurale → interviene sui processi. Voltaire si scaglia contro il processo inquisitorio, un processo modellato sull’inquisizione cattolica, in particolare quella istituita da Paolo III nel 1542 con l’obiettivo di contrastare l’affermazione in alcune aree di Europe di dottrine protestanti. I processi come quelli di Giordano Bruno, a Galilei o a Tommaso Campanella, nascono da questa affermazione del processo dell'inquisizione cattolica. A proposito dell’inquisizione cattolica è bene parlare de “La leggenda del Grande Inquisitore - I fratelli Karamazov” di Dostoevskij (testo in Aulaweb) → è una leggenda raccontata da uno (ateo) dei due fratelli Karamazov all’altro fratello. È un racconto immaginario: Gesù ritorna sulla terra a Siviglia (Spagna) ai tempi della grande inquisizione, riprende la sua predicazione e viene imprigionato quale eretico. Il Grande Inquisitore, che non ha un nome, lo va trovare e nonostante comprenda chi ha di fronte, gli comunica comunque la sua condanna a morte esprimendo tutta la sua diffidenza nei confronti della libertà, quel dono che Dio ha fatto l’uomo: molto meglio una fede fondata sull’autorità, specie per quanti sarebbero condannati dalla libertà ad una angoscia senza fine…. Gesù ascolta le parole senza dire nulla per poi, alla fine, congedarlo e salutarlo con dolcezza. L’idea è molto chiara: il primato dell’amore e del perdono: è l’amore la strada da percorrere seppur con difficoltà → stretti tra, da un lato la libertà di credere o di non credere, e dall’altro l’autorità religiosa. Nel processo inquisitorio laico prevale l'interesse dello Stato ad assicurare l'ordine e la sicurezza pubblica. La funzione di indagine investigazione è affidata ad una figura mista: un giudice che è contemporaneamente un accusatore, dipendente dallo Stato che rappresenta nell’accusa, senza garanzie per la difesa (o comunque garanzie molto modeste). La procedura è scritta e segreta, e tutta nelle mani del giudice-accusatore. Anche in seguito allo svolgimento del processo le garanzie dell’imputato vengono in secondo piano rispetto alla protezione degli interessi statali. In particolare, uno dei problemi del processo inquisitorio è la possibilità della carcerazione preventiva prima della decisione, ancorché la disposizione costituzionale preveda che vi sia una presunzione di non colpevolezza. Anche con il Codice penale attuale continua, qualora si preveda il processo accusatorio, ad essere consentita la custodia cautelare (questo è uno dei diversi problemi della pena detentiva). Invece nel processo accusatorio anglosassone (Voltaire come Montesquieu fa riferimento anche alle istituzioni penali inglesi) il potere positivo dello Stato è bilanciato dalla garanzia dei diritti di libertà dei cittadini → l'accusato è presunto innocente e dunque è tendenzialmente libero fino alla sentenza. Le indagini sono affidate ad organi senza potere di formazione delle prove e senza disposizioni di misura cautelare. I diritti della difesa sono già previsti in questa fase, sono garantiti e stabiliti dalla legge, o addirittura da un documento costituzionale quando esiste. Il processo ‘vero’ (il dibattito) tende ad assomigliare ad un processo civile nel senso che un giudice ricostruisce alla fine i fatti che hanno dato origine al procedimento penale, all’azione penale, e questo giudice è, o dovrebbe essere, in una posizione di terzietà tra il pubblico accusatore da un lato (rappresentato in Italia dal Pubblico Ministero) e da una parte privata… i quali si confrontano, combattono come nel processo americano (la forma più pura del processo accusatorio), si confrontano in contradditorio tra di loro e su un piano di parità dei diritti. Per l’altro dopo la riforma del 1989 alcuni dei principi fondamentali del processo accusatorio sono stati messi in Costituzione, in una disposizione un po' lunga, ma di garanzia che è l’articolo 111 della Costituzione: “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, di fronte ad un giudice terzo imparziale. La legge le assicura la ragionevole durata” il problema dell'imparzialità in realtà... il Pubblico Ministero da noi appartiene allo stesso organo giudiziario, cioè allo stesso corpo giudiziario quindi propriamente la terzietà non è così garantita come nel processo anglosassone. Tuttavia, il principio è indubbiamente affermato: il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione delle prove. Si tratta di problematiche sollevate giustamente da Voltaire che continuano ad essere molto importanti e che non hanno perso assolutamente nulla del loro rilievo. Voltaire solleva la questione fondamentale → la giustizia penale non è assicurata semplicemente da una buona, corretta e razionale legislazione sui delitti e sulle pene, ma deve essere necessariamente accompagnata da un processo giusto, di ragione, corretto. L’illuminismo giuridico italiano (Verri, Beccaria) Siamo ancora al ‘prima di Beccaria’... ma cominciamo ad avvicinarci a questo autore: parliamo, in generale, di alcuni tratti dell'illuminismo giuridico italiano (o solo illuminismo italiano) → è un illuminismo che vive in aree molto ben individuate della nostra penisola, e distinte per le nostre grandi aree geografiche: - c'è un illuminismo lombardo e anzi più chiaramente, più direttamente milanese; - c'è un indirizzo illuministico meridionale e concentrato nella città di Napoli; - e poi c'è l'Illuminismo toscano. Nel suo complesso l'illuminismo italiano, in questi tre centri principali, genera i risultati più importanti, proprio nell’ambito della giustizia e della procedura penale. In ambito teorico l'esito più importante, non soltanto in Italia, è certamente “Dei delitti e delle pene” di cui stiamo per trattare. Ma nel campo della prassi la realizzazione più nota è certamente la “legge di riforma della legislazione criminale toscana” → una legge di riforma del 1786 denominata tipicamente come Leopoldina o Codice Leopoldino perché fu una riforma della giustizia e del diritto della giustizia penale promossa dal Granduca Pietro Leopoldo d'Asburgo (peraltro fratello di Maria Antonietta → l'austriaca odiata → e alla fine i delitti contro la pubblica tranquillità: il procurato allarme, disturbo al riposo, giochi d’azzardo, ubriachezza… quelli che il nostro Codice penale chiama ‘semplici contravvenzioni’. Dalla concezione contrattualistica deriva l’idea di un diritto penale minimo, mite e umanitario. L'individuo cede allo stato solo quel pezzetto di libertà necessaria per garantire la difesa della società. Qualsiasi cessione di libertà in più deve essere considerata un abuso. Le pene che vanno oltre all’obiettivo di difendere utilmente l’ente collettivo devono essere considerate pene ingiuste. D’altra parte (già visto in Montesquieu), Beccaria scrive “uno dei più grandi freni alla commissione dei reati non è la crudeltà delle pene, ma la certezza delle pene”. La certezza di un castigo, ancorché moderato, farà impressione maggiore del timore di un castigo terribile però rispetto al quale c’è la speranza della impunità. Su questo tema (sul castigo moderato), prima di arrivare alla pena di morte, il sistema americano va in una direzione contraria rispetto alle idee di Beccaria → il sistema americano prevede la somma algebrica del massimo degli anni che potrebbe essere applicata per ciascuna imputazione. Per comportamenti molti gravi che si sommano tra di loro si può arrivare anche a centinaia di anni… In Italia questo non è possibile: esiste il principio del cumulo giuridico → si tiene conto dei vari reati considerando la pena più alta, aumentata eventualmente di un terzo (non si può andare oltre all’ergastolo). La pena di morte. Beccaria pensa tendenzialmente due cose (introduzione): → la pena di morte ha una scarsa utilità preventiva: non è che la previsione di una di morte distolga il deviante dalla commissione di un reato… → la pena di morte è contestata sotto il profilo della legittimità: in un contratto sociale un individuo può mettere in conto di rinunciare alla sua libertà o ai suoi beni materiali se violerà la legge penale, però non può mettere sulla bilancia del patto sociale la vita → perché la vita deve essere considerata un diritto naturale fondamentale: un bene indisponibile. Tuttavia, ancora adesso purtroppo (il prof è contrario alla pena di morte) il problema continua ad essere molto discusso: esistono ancora molti stati (come in USA) che la prevedono. Lezione 17 Il tema principale di Beccaria è quello della pena di morte, nonostante gli altri elementi importanti quali l’oggettivismo penale, il fondamento contrattuale, l’ideologia della difesa sociale, la costruzione speculare dei delitti e delle pene… ma certamente quando si ricorda Beccaria si dice che sostiene la necessità di abolire la pena di morte, con due motivazioni entrambe importanti: - La prima di tipo sociologico-statico è dimostrata dalle evidenze: la pena di morte non ha efficacia preventiva generale evidente, anzi i paesi che la hanno, hanno tassi di omicidi particolarmente elevati… - l’altra, fondamentale e assolutamente inoppugnabile per il prof, è che la pena di morte non è una pena legittima: nel patto sociale che si rinnova tra il socio di un’entità collettiva e il vertice non si può mettere sul piatto il bene della vita perché la vita è un bene indisponibile. Molti autori pensano che la vita sia il diritto fondamentalissimo degli uomini e non può rientrare nel patto sociale. Il tema della pena di morte, soprattutto per chi ritiene l’inefficacia e l’illegittimità, è un tema che continua ad essere dibattuto, infatti in molti paesi è ancora lecita. Dal punto di vista quantitativo non è il caso più rilevante, ma certamente il caso che viene discusso a ragione è quello degli USA perché rappresenta una grande democrazia europea dal punto di vista costituzionale, e il tema è particolarmente rilevante rispetto a questo paese… per altro bisogna sottolineare la circostanza che tendenzialmente l'opinione pubblica americana ha un orientamento favorevole alla pena di morte. Questo è dimostrato dalla circostanza che dal 1976 è molto evidente quando un presidente degli USA arriva al potere ha intenzione di intervenire su questo tema, ma anche sul tema delle armi, ma poi l'opinione pubblica è favorevole a mantenerlo. Quindi nonostante le buone intenzioni che posso avere volta per volta, poi dal punto di vista pratico si fa poco perché il presidente non se la sente di andare contro l’opinione pubblica. È un grave problema. Poi lo vedremo meglio con Bentham che ha una posizione molto ferma sul tema del possesso delle armi: il possesso è un fattore criminologico… La Corte suprema, c’era stata una moratoria negli USA durata negli anni dello Stato sociale per quanto riguarda la pena di morte, ma nel 1976 la Corte sollecitata da più parti è intervenuta direttamente sul tema, facendo riferimento all'articolo 8 del Bill of rights federale → sostanzialmente ha detto che la pena di morte non va contro la costituzione e non contro l’art. 8 perché limita solo la punizione che non deve essere inusitata (non comune) e non deve essere crudele… in alcuni stati che continuano a prevedere la pena di morte si sono allineati a questa pronuncia sostenendo che la pena di morte debba essere non crudele… e questo nell'opinione di alcuni stati ha legittimato la pratica dell’iniezione letale considerata legittima, rispetto magari ad altre pratiche terribili come la camera a gas, la sedia elettrica, l’impiccagione. Lo stato dello Utah fino al 2004 prevedeva la fucilazione… ora non è più ammessa da nessuna parte. Molte case farmaceutiche si sono rifiutate di fornire le sostanze per l’iniezione letale, anche perché in qualche caso non è istantanea… ci possono comunque essere delle morti crudeli anche così. A dimostrazione che la pena ha una funzione satisfattoria nei confronti dell’opinione pubblica, in alcuni stati in cui si prevede la pena di morte è possibile la presenza dei parenti delle vittime per avere in qualche modo la soddisfazione di un castigo eseguito. Per quanto riguarda gli USA, lo stato che adopera più frequentemente la pena di morte è il Texas, però ci sono altri paesi con cifre superiori → attualmente lo Stato che più frequentemente fa uso della pena capitale è l’Iran che ha la metà delle esecuzioni registrate ed insieme Arabia Saudita, Iraq e Pakistan ha una percentuale di circa l’80% di tutte le esecuzioni capitali a livello mondiale… ma mancano i dati della Cina che ammette la pena di morte, e non si sa quante pene capitali vengano eseguite. È una delle tante battaglie, come quella sul tema della pena detentiva, dell'organizzazione internazionale Amnesty international premiata anche con un premio Nobel. Anche in America si è dimostrato che la pena capitale ha una modesta (nel senso che ne ha molta poca) efficacia deterrente… Beccaria pensava (speculazioni di tipo psicologico) che il criminale teme più l’ergastolo (la detenzione a vita) rispetto alla pena di morte. Questo dato è confermato da statistiche ufficiali: dove c’è la pena di morte non c’è una diminuzione dei reati più gravi. Però i giuristi americani affermano che dal punto di vista della prevenzione speciale negativa, indubbiamente è efficace: una volta tolto di mezzo chi ha commesso un reato molto grave (pluriomicida ad esempio) sicuramente quella persona non può più ricommettere quel reato… Nel paragrafo ventotto ne “Dei delitti e delle pene” Beccaria pensa che in casi eccezionali la pena di morte possa essere legittima → per tutelare la sicurezza dello Stato limitare i soggetti che anche reclusi potrebbero con la loro influenza mettere in pericolo l’integrità delle istituzioni, sovvertire la forma di governo oppure nel caso in cui la pena possa essere “l’unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti”. La pena più grave, in condizioni ordinarie, per Beccaria dovrebbe essere la chiama schiavitù perpetua. Anche sull’ergastolo c’è molta discussione 🡪 il ‘fine pena mai’ non si realizza quasi mai, almeno per quanto riguarda il nostro ordinamento… Oltre all’ergastolo, Beccaria prevede: ✿ la detenzione semplice → la mera privazione libertà personale; ✿ la detenzione con il lavoro → il lavoro ha un duplice effetto positivo: uno rispetto alla società (con la prestazione utile il reo ripaga l’ente collettivo); l’altro rispetto al soggetto detenuto (i detenuti lamentano il non fare nulla, quindi sono disponibili a lavorare); ✿ confisca dei beni; ✿ ma anche pene corporali → nell’ammetterle Beccaria (traghettatore tra assolutismo e il nuovo periodo) sente molto forte l’esigenza di una simmetria formale: i delitti contro il patrimonio vanno puniti con sanzioni pecuniarie, mentre quelli commessi con violenza contro le persone occorre, secondo questa ideologia retributiva, che la punizione sia altrettanto violenta. Per ora fine Beccaria… ora parliamo dell’illuminismo giuridico penale in altri ambienti italiani… L’illuminismo napoletano (Giannone, Genovesi, Filangeri) ↝Pietro Giannone ↜ (pre-illuminismo napoletano) Prima di parlare di diritto facciamo un cenno ad un autore ricordato da Tarello (può essere chiesto all’esame), un autore del pre-illuminismo napoletano: Pietro Giannone (1676-1748) pugliese di nascita, formato a Napoli, era un giurista ed era in contatto con Giambattista Vico. Ricordiamo la “Istoria civile del Regno di Napoli” del 1723: ancora oggi è una delle opere di riferimento per la comprensione del problema della questione meridionale. Dove nasce la questione meridionale? Giannone cerca di dare una sua risposta, la sua analisi sulla questione meridionale è molto nota: Giannone accusa il papato di aver messo fine in maniera traumatica all’esperienza normanno-sveva con la chiamata di Carlo d’Angiò nel 1266 (?) verso la fine del basso Medioevo. La grande avversione nei confronti degli angioini è il tema fondamentale di questo testo: la dinastia francese ha limitato il potere regio, ha rafforzato il potere dei signori feudali (per molti secoli la presenza di signori feudali con grandi patrimoni e grandi terre è un elemento culturale e sociale molto rilevante), e poi soprattutto gli angioini hanno riconosciuto il regno come feudo della Chiesa… a causa di questo elemento il meridione si sarebbe staccato dal Regno d’Italia dove invece le altre dinastie regnanti erano state meglio in grado di contrastare le mire egemoniche dello Stato Pontificio. Il prof aggiunge che non c’è solo il problema angioini, ma anche quello più complesso della riforma gregoriana: il complesso di iniziative tra XI e XIII secolo che portano all'affermazione del potere sia spirituale che temporale dello Stato Pontificio… una storia che per quanto ci riguarda finisce molto tardi con la breccia di Porta Pia nel 1870 e al momento con la riunificazione completa dello Stato italiano. Torniamo alla questione penale e parliamo di Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri. ↝Antonio Genovesi ↜ Antonio Genovesi (1713-1769) va segnalato perché è uno di quegli autori (in rapporto con Vico) che sostiene un’idea che verrà poi sostenuta in D'Alembert nel proemio della Enciclopedia → l’idea che per lo sviluppo della cultura, dell'istruzione e della formazione estesa a tutti è fondamentale per la crescita economica. La sua opera più importante è “Della diceosina o sia della Filosofia del Giusto e dell’Onesto" del 1766 in cui Genovesi ha un’idea molto più contemporanea della legge penale che lo distacca decisamente dagli altri illuministi e lo avvicina ai proto-positivisti. Per lui le leggi non possono essere considerate in maniera astratta, separata dai casi singoli che richiedono concretamente l’applicazione di quella legge, e l’interpretazione, soprattutto quella dei giudici, non possiamo pensarla come meccanica, ma è la mediazione necessaria. Genovesi, diversamente a Beccaria, è contrario alle pene fisse: le pene devono essere adattate alla personalità del reo, alle esigenze di sicurezza, alle circostanze (positivismo criminologico). ↝Gaetano Filangieri↜ L’autore più noto e importante è però Filangieri (1752-1788) con l’opera “La scienza della legislazione” 1780- 1785 dalla straordinaria diffusione in Europa e America. Nel suo viaggio in Italia Goethe lo incontra e ne parla con grande ammirazione. Filangeri fu in rapporto anche con Benjamin Franklin, il quale sostenne espressamente che nella costruzione delle sue idee, nella stesura della Costituzione americana, fece riferimento all’insegnamento di Filangeri. Insieme a Beccaria è l’autore più significativo per l’illuminismo giuridico. Il pensiero economico di Filangeri è molto vicino a quello dei fisiocratici: centralità dell’agricoltura → la ricchezza proviene dall’elemento primario, dalla coltivazione delle terre. E coerentemente con l’idea di molti fisiocratici occorre superare i residui del sistema feudale liberalizzando la circolazione delle terre e dunque superando i vincoli tradizionali come quello della primogenitura (terre da padre a figlio automaticamente). Anche per questo, ma non solo per questo, l’opera venne messa all’indice dalla Chiesa cattolica. Per il fatto che la sanzione deve avere come fine quello della sicurezza sociale, il diritto penale può prevedere al limite se ci fosse necessità dal punto di vista del calcolo dell'utilità una sanzione positiva per l'autore del reato: sconto di pena ad esempio. Un comportamento di questo tipo da parte del giudice o degli organi del controllo sociale può essere previsto per i delatori quando il loro comportamento delazione si riveli concretamente utile all’impedimento di altri più gravi reati. Questo avviene ed è avvenuto in molte legislazioni: l’esempio più significativo forse è la nostra la legislazione → si è parlato della caratteristica specifica del diritto penale italiano come diritto penale premiale: che premia i delatori, i pentiti. È stato un meccanismo molto utilizzato soprattutto in due casi: per i cd. ‘pentiti’ nelle faccende di mafia e per i pentiti nel caso di reati di terrorismo. In entrambe le circostanze tendenzialmente il diritto penale premiale ha funzionato. E avevamo già ricordato parlando dell'Enciclopedia il caso di Louis de Jaucourt, il quale ha anche lui una posizione vicina ad Hutcheson dal momento che per l'efficacia della legge è necessario riflettere su quale sia il mezzo più efficace allo scopo, allora sanzione deve essere considerata tanto la minaccia, tanto la promessa di una ricompensa. Come Genovesi e coerentemente alla sua visione utilitaristica e la funzione preventiva della pena, Hutcheson è contrario alle pene fisse e all’immagine di un ruolo meramente meccanico dei giudici (mentre per Jaucourt meccanico). La determinazione della pena deve essere affidata al prudente apprezzamento del magistrato che terrà conto sia delle caratteristiche del deviante (la sua pericolosità) che allo stesso tempo guardare agli obiettivi generali di sicurezza sociale e delle valutazioni di opportunità. ↝Henry Fielding ↜ Henry Fielding (1707-1754) tra i tre è il più noto come scrittore (scrisse le avventure di Tom Jones), è un giurista di formazione, fu prima avvocato e poi giudice di pace, e anche Primo magistrato di Londra. Lo ricordiamo anche perché assieme al fratellastro John contribuì a mettere in piedi la prima forza di polizia regolare a Londra (in qualche modo antesignana di Scotland Yard). L’opera che ci interessa di questo autore è la “Indagine sulle cause e l’aumento dei furti” del 1851. Fielding come Butler si occupa della povertà e ha tre categorie molto precise di poveri: ⇸ i poveri inabili al lavoro (non possono lavorare per qualche impedimento fisico...) che meritano l’assistenza da parte della comunità politica; ⇸ i poveri abili al lavoro, disponibili a lavorare (favorevoli ad impiegarsi utilmente nella società) che possono rientrare nei programmi governativi di promozione del pieno impiego; ⇸ i poveri che sarebbero abili al lavoro, ma indisponibili a lavorare per la comunità: questa categoria dev’essere oggetto particolare specifico delle politiche criminali ed è oggetto dell’opera di Fielding → La povertà di queste persone può essere causa diretta dell’aumento dei reati, soprattutto quelli contro il patrimonio e la proprietà (furti, rapine). È un’argomentazione tipica della scuola positiva del diritto penale, come quella italiana (un ragionamento molto vicino lo troviamo in Enrico Ferri). Mentre i positivisti italiani pensavano che bisognasse agire sulle cause della miseria; Fielding pensa che si debba intervenire sulle circostanze che possono indurre i poveri-pigri alla ricerca illecita di denaro. L'argomentazione di Fielding reazionaria, poco umanitaria e poco illuministica negli intenti → ai poveri non togliamo la miseria, ma le condizioni che inducono loro ad attentare al patrimonio altrui… Così facendo possono rientrare, possono essere recuperati nella seconda categoria di poveri (abili e disponibili): rimangono dei poveri però sono indotti grazie a queste misure a lavorare e non a delinquere. Un’altra causa favorevole all’aumento dei reati per Fielding è il desiderio dei poveri più intelligenti e intraprendenti a vivere al di sopra delle loro possibilità → il reato sembra in questa categoria una sorta di ascensore sociale realizzata non con i mezzi leciti ordinari, ma attraverso il furto. Sembra un po’ l'anticipazione del sociologo americano Robert Merton “Teoria e struttura sociale” in cui dice che tutti aspirano ad avere benessere, aspirano ad un’ascesa sociale elevato, solo che le persone integrate e rispettose delle istituzioni e degli ordinamenti seguono le strade lecite; mentre i devianti per ottenere il benessere ecc. scelgono la scorciatoia del reato. Tornando a Fielding: le pene hanno una funzione di prevenzione generale negativa e per essere efficaci devono essere severe, rigorose e anche eseguite immediatamente. La pena di morte è consentita, tuttavia non dev’essere comminata troppo spesso per evitare che si generi una sorta di pericolosa assuefazione. Sono questi i precursori dell’autore utilitarista, non solo in campo giuridico o penale, ma dell’utilitarismo in filosofia… ↝Jeremy Bentham ↜ (no esame) Bentham (1748-1832) ha un’anima anche ottocentesca nel suo pensiero. Fatto curioso: per sua volontà il suo corpo è imbalsamato e si trova nell'University College di Londra. Dopo un po’ la testa si deteriorò e fu tenuta a lungo ai suoi piedi… venne poi trafugata da studenti che chiesero un riscatto… e per evitare problemi successivi la testa fu ricomposta e custodita nei sotterranei di questo college. Bentham è noto come filosofo, ma è un giurista importante che fu anche avvocato. La sua opera principale è la “Introduzione ai principi della morale e della legislazione” del 1789 di cui parleremo, insieme a un’altra opera che è il “Panopticon”: la costruzione architettonica di un carcere ideale, perfetto con finalità educative. Fu anche lui in relazione con D’Alembert e altri rivoluzionari, e seguì da vicino e con simpatia le vicende rivoluzionarie in Francia tanto che l'Assemblea legislativa gli concesse la cittadinanza onoraria francese. Bentham è un autore interessante che viene ricordato per molti temi… anticipa John Stuart Mill per le posizioni favorevoli al suffragio universale femminile… si ricordano anche le sue posizioni favorevoli ai diritti degli animali e la sua opposizione allo schiavismo. Fu un critico molto severo del giusnaturalismo, era critico sulle teorie del contratto sociale, era critico del sistema giuridico inglese (del common law) → sostiene la necessità di una codificazione in tutti i campi (non è daccordo con la costituzione un po’ consuetudinaria un po’ scritta), bisogna avere dei testi, di codificazione penale… e il giudice deve essere meccanico (per questa sua posizione è uno dei campioni del positivismo giuridico legislativo). Charles Dickens era un critico altrettanto severo e aspro del sistema del common law, ed era l’unico punto di accordo tra i due (Dickens critica molto Bentham). Lezione 18 Ieri era il 24 marzo 2021: una data abbastanza significativa per i temi che stiamo trattando: la Virginia (stato del sud) ha abolito la pena di morte diventando uno dei 23 Stati (su 50) che non praticano la pena di morte negli USA. E’ significativo per molti aspetti… per ragioni storiche → prima dell'indipendenza sancita dal Trattato di Parigi nel 1783, la Virginia fu il primo stato ad adottare una carta dei diritti: la Dichiarazione dei diritti (Bill of rights 1776) della Virginia è stato un documento concretamente seguito da molte altre colonie durante la guerra d’indipendenza e, sostengono molti autori, che ha ispirato la liberazione Dichiarazione del 1789 (Francese). La Virginia è il primo stato del sud ad abolire la pena capitale. La Virginia dopo il Texas è stato lo Stato che ne ha eseguite di più. Fondamentale è stata l’iniziativa dell’attuale governatore Ralph Northam, il quale inizialmente aveva una posizione favorevole ad essa (all’applicazione della pena di morte), si è poi convertito con gli anni definendola iniqua ed inefficace, oltre che contraria al principio di umanità. Significativo è stato anche il movimento Black Lives Matter → le vite dei neri contano: un dato significativo è la circostanza che le esecuzioni capitali hanno colpito (colpiscono) soprattutto le minoranze etniche. Ci sono attualmente nello stato della Virginia alcuni detenuti in attesa di pena capitale: la loro pena è convertita automaticamente in un ergastolo a vita. A proposito dell’ergastolo, l’ergastolo ostativo (art. 4 bis, legge sull’ordinamento penitenziario): per coloro i quali non vogliono collaborare con la giustizia si prevede l’impossibilità dei benefici di legge. Tuttavia, c’è stata una pronuncia della Corte di Strasburgo e poi della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità parziale dell’articolo 4 bis, nel senso che se il detenuto per gravi reati di mafia, terrorismo ecc. non vuole collaborare, però non ci sono indizi di pericolosità e legami ancora con l’esterno, i benefici possono essere concessi. Su questo tema il docente ha caricato un commento di una rivista online sulla piattaforma Aulaweb. Torniamo a Jeremy Bentham. Bentham è importante per il positivismo giuridico legislativo, per la sua vicinanza alla Rivoluzione francese, per la sua critica feroce al sistema di common law (unico punto in accordo con Charles Dickens). Bentham, per i nostri temi, è significativo anche per la sua collocazione temporale: la sua opera ‘traghetta’ il problema penale nel secolo successivo (l’Ottocento), ed è il rappresentante più importante e significativo dell’illuminismo inglese (Settecento). Quando parleremo della pena detentiva nelle prossime lezioni vedremo che un autore importante della filosofia contemporanea, il filosofo-psicologo Michel Foucault nel suo libro “Sorvegliare e punire” riserva un posto di onore a Bentham considerandolo l'esponente più rappresentativo, non dell’illuminismo giuridico penale, ma dell’illuminismo generale. Bentham si considera un illuminista, forse per i nostri temi è inferiore come impatto e rilievo a quello di Beccaria, però sicuramente è una figura di rilievo. D’altra parte la sua concezione utilitaristica che lo rende protagonista della corrente di pensiero dell’utilitarismo, la sua idea sul principio di utilità con la mediazione di un altro esponente importante quale John Stuart Mill, fanno dell’autore Bentham un proto-positivista. Questo aspetto, questo rilievo ottocentesco, emerge soprattutto dall’importanza data alla funzione preventiva della pena, rispetto a quella retributiva. Funzione preventiva e retributiva sono i due principi che si dividono il campo della filosofia giuridica penale. Vedremo che esiste anche una terza concezione… Tuttavia, al di là della filosofia del diritto, queste due idee sono le principali anche quando studieremo diritto penale. Al centro della filosofia di Jeremy Bentham vi è il principio di utilità: in base ad esso l’obiettivo politico culturale che un’entità collettiva (statale) deve perseguire è la più grande felicità del maggior numero di persone → la massimizzazione della felicità. Solo facendo riferimento a questo criterio concreto (della felicità, del benessere, della soddisfazione) si può ‘entrare’ con un criterio solido nel campo delle discussioni sul diritto e sul torto. Peraltro l’abbiamo già visto: non è una novità, il pensiero di Helvetius nel suo libro del 1758 dev’essere considerato quale un’anticipazione importante dell’utilitarismo di Bentham. E anche in Hutcheson il criterio della massimizzazione della felicità. N.B. Abbiamo visto anche un’altra cosa su questo tema: gli economisti, a partire dall’olandese Mandeville con “La favola delle api”, ma poi soprattutto arrivando alla “Ricchezza delle nazioni” di Adam Smith, trattano di questo principio della felicità quale fine perseguito dagli uomini, e si tratta, secondo questi due autori, di un principio che consente di moltiplicare la felicità a vantaggio di tutti perché appunto il perseguimento dell'interesse individuale per qualche misura va a vantaggio della comunità tutta intera. Le sanzioni penali, afferma Bentham con la sua visione realistica, producono sofferenza e dolore. Dobbiamo dare una definizione corretta alle sanzioni penali → le sanzioni penali sono il contrario della felicità, sono male, producono il male e generano dolore e sofferenza. Di conseguenza, se ci facciamo guidare dal principio di utilità e della massimizzazione della felicità di tutti, allora le sanzioni penali, che in sé sono male e dolore, devono essere considerate utili soltanto se servono a evitare dei mali peggiori. Bentham è quindi fortemente contrario a tutte le concezioni retributive, in particolare quella vista in Kant e in Hegel secondo i quali la pena è un bene che cancella il male… per Bentham invece la pena è dolore, sofferenza e male e va impiegata con giudizio e soltanto se si dimostra essere concretamente utile. Per le sanzioni penali è necessario un calcolo costo-benefici → occorrono delle sanzioni che effettivamente si dimostrino servire alla conservazione della felicità, del benessere del maggior numero di individui, e che, di conseguenza, non infliggano dolore e sofferenze eccessive. “Abbiamo bisogno di una aritmetica morale” sostiene Bentham. Per altro, sono i tempi in cui si afferma, all’interno delle scienze sociali, la nuova disciplina della statistica morale: la misurazione della moralità facendo riferimento a vizi o a mali degli individui della comunità tutta intera (come l’alcolismo, l’abbandono di minori, il divorzio, il reato, ma anche la morte volontaria...). Una disciplina che avrà importante diffusione tra 700 e 800. Bentham quindi sostiene che abbiamo bisogno di un aritmetica morale. Ed è questo il punto su cui interviene il grande autore inglese Dickens che in “Tempi difficili” parla con scherno e pesante ironia della concezione benthamiana descrivendo questa aritmetica morale quale “la morale del pallottoliere”, cioè un materialismo volgare che santifica la concretezza dei numeri, dei fatti, del calcolo, delle statiche di questa nuova disciplina… che tuttavia è l’etica dominante dell’epoca vittoriana. Sulla questione dei diritti vedremo la critica ugualmente feroce e sarcastica di Karl Marx. l'uomo politico arriva dal vertice come presidente degli Stati Uniti trova ‘l'impaccio’ di cui abbiamo accennato nella lezione precedente → pensa ragionevolmente che siamo di fronte ad un emendamento che dovrebbe essere corretto o quantomeno limitato, e tuttavia si fa concretamente molto poco perché spirito, un po' di frontiera, della nazione americana tiene molto (ovviamente non tutti) a questa disposizione. A proposito del tasso di omicidi. Negli Stati Uniti, per quanto riguarda le nazioni occidentali, il tasso è molto alto: circa 5 omicidi per 100.000 abitanti. Gli Stati Uniti si collocano nella fascia alta dei paesi che hanno tassi elevati di questo tipo: non è comunque il tasso più elevato di tutti. Il primato è tenuto da stati o del centro America o dell'America del Sud → la nazione con il tasso più elevato con più di 100 omicidi all'anno per ogni 100.000 abitanti è El Salvador seguito dall’Honduras e dal Venezuela. L'Italia, invece, si trova nelle ultimissime posizioni. Su 200 paesi censiti (in fondo alla ‘classifica’ si trovano piccolissimi stati come San Marino, Liechtenstein, Andorra o il Principato di Monaco… l’Italia è intorno alla posizione 180: tra le ultime. Questo a dimostrazione del fatto che non siamo un paese, almeno dal punto di vista dei comportamenti violenti, particolarmente violento. Riflessione del prof: forse siamo più violenti da un punto di vista verbale. Negli Stati Uniti ci sono troppe armi: si calcola che per circa 320 milioni di abitanti, le armi in circolazione siano ai 370 milioni. Il problema è che gli anni in cui si emise il secondo articolo Costituzione federale del 1791, un moschetto sparava 3 colpi al minuto, mentre oggi un'arma automatica, nelle mani di uno squilibrato, di un folle ecc., ne fa 100 di colpi → ha una potenza di fuoco infinitamente superiore. Comunque sul punto delle misure legislative indirette per contrastare il comportamento irregolare, su questa indicazione che proviene da Jeremy bentham, troviamo un'anticipazione del positivismo criminologico e in modo particolare del nostro positivismo criminologico che è stata la corrente di pensiero più influente all'interno delle diverse scuole positive che si trovano in Occidente. Per quanto riguarda l'Italia, in particolare si pensa al regime del doppio binario cioè la previsione che fa il nostro codice penale del 1930: è la previsione di misure diverse dalle pene, che hanno l'obiettivo di prevenzione speciale: - quindi da un lato una funzione negativa, cioè di neutralizzare la pericolosità - e dall'altro lato una funzione positiva, cioè di risocializzazione. A fianco delle pene, nel nostro ordinamento giuridico penale, troviamo le misure di sicurezza: che sono misure diverse dalle pene, come... - la libertà vigilata → la libertà sottoposta a controlli... - fino al 1988 nel nostro ordinamento era previsto anche il riformatorio giudiziario per i reati commessi dai minori. Adesso invece ci sono, dalla fine del secolo scorso, degli istituti minorili ad hoc con sconto di pena, con programmi di risocializzazione per quanto riguarda le persone che hanno commesso i reati entro i 21 anni... ...ma altre misure ancora come... - il divieto di soggiorno oppure... - il divieto di frequentare spacci di alcolici, osterie ecc. Sono delle misure che sono state possibili grazie all’orientamento molto chiaro e ben delineato da Bentham → l'idea che si interviene sulla devianza anche con misure misure differenti differenti dalle pene. Se consideriamo le cose che abbiamo detto fino a questo momento, quindi in primo luogo Bentham parla di prevenzione generale negativa (messaggio di intimidazione che la sanzione penale rivolge tendenzialmente a tutta la comunità politica) e poi di una funzione di prevenzione speciale (rivolta al singolo deviante) sia negativa che positiva... manca nello ‘specchietto ideale’ costruito da Jeremy Bentham una funzione importante (che è la terza funzione della pena) e poco considerata dai giuristi (peraltro la considerazione di questa terza possibilità di immaginare una funzione della pena viene da uno sociologo -filosofo di formazione- che è Emile Durkheim: un autore che dovremmo considerare velocemente nel corso delle prossime elezioni perché è intervenuto sul tema del carcere). Ma qual è questa terza funzione? Manca in Bentham, e nei positivisti, l'idea di una prevenzione generale, non negativa, ma di una prevenzione generale positiva → cioè una funzione, che indubbiamente esiste, e anche efficace e molto rilevante, di comunicazione simbolica diretta non ai devianti, non ai soggetti tentati dal comportamento dalla commissione di un comportamento deviante, ma una comunicazione diretta agli onesti, ai costumati cittadini. Una comunicazione che avrebbe l'obiettivo di rafforzare nei soci che credono nel principio di legalità e che valorizzano il comportamento conforme, i sentimenti di adesione alle norme. Questa terza funzione della pena è una funzione, nei termini di Durkheim, satisfattoria: cioè di rassicurazione degli onesti, di rafforzamento dell'integrità della coesione sociale. Funzione che è al centro del funzionalismo di Durkheim e del funzionalismo di Niklas Luhmann. Sulla funzione della pena Durckheim si allontana dai modelli che abbiamo considerato fino a questo momento (la concezione retributiva classica di Beccaria, Kant, Hegel soprattutto nella variante fondamentale proporzionalistica in evidenza nell'opera “Dei delitti e delle pene” -cioè l'idea che la pena è una espiazione del reato rapportata alla gravità del comportamento deviante- ; la teoria preventiva degli altri utilitaristi, degli altri autori inglesi e soprattutto di Bentham che considera la pena uno strumento di intimidazione, di prevenzione generale negativa e poi anche speciale sia positiva che negativa). Durkheim sostiene di dover considerare una terza funzione della pena, che in realtà è ancora più rilevante rispetto alle altre due → cioè la pena che parla con gli onesti, che parla alle persone che si identificano nel sistema giuridico e in particolare nel sistema della giustizia penale. A tal proposito leggiamo dall'opera “La divisione del lavoro sociale” un brano che individua bene il punto di vista di Durckheim su questo tema: “la vera funzione della pena è quella di mantenere intatta la questione sociale conservando alla coscienza comune, alla coscienza collettiva, tutta la sua vitalità. La coscienza comune (cioè il pensiero comune, i valori comuni) è negata dal reato, e la coscienza collettiva perderebbe parte della sua energia se una reazione emotiva da parte della comunità non intervenisse attivamente per compensare tale perdita perché il rilassamento della questione sociale, della solidarietà, sarebbe il risultato inevitabile: occorre allora che essa si affermi energicamente nel momento stesso in cui viene contraddetta (cioè la coscienza comune viene contraddetta) e il solo modo, il solo mezzo, che ha per affermarsi è esprimere con la sanzione penale la versione unanime che il delitto continua ad ispirare. Possiamo dire perciò senza cadere nel paradosso che il castigo è destinato soprattutto ad agire sulle persone oneste”. Agire non sui devianti, ma sulle persone che si riconoscono nei valori comuni della società. La sanzione penale dà soddisfazione agli onesti → funzione satisfattoria del diritto penale: li rassicura sulla protezione efficace, pronta, immediata e sicura dei valori comuni. Questo è un tema molto rilevante perché la storia della penalità in ogni tempo, dallo spettacolo, dall’esibizione dei supplizi applicati anche durante la Rivoluzione francese alla presenza di testimoni (tra l’altro l’usanza di testimoni che osservano le esecuzioni capitali sono rimasti adesso, in 12 stati su 27 degli USA è obbligatoria, di solito sono i parenti della vittima, di colui che è stato offeso dal soggetto condannato) è a testimonianza della circostanza per cui la sanzione penale è anche una comunicazione simbolica rivolta a coloro i quali si riconoscono nei valori comuni. Fine di Bentham. Introduciamo degli altri argomenti. Nella scelta dei temi di 800 e di 900 il docente ha seguito sostanzialmente i tre pilastri fondamentali del nostro corso cioè: - il tema dei diritti fondamentali e in modo particolare dei diritti sanciti dagli eventi rivoluzionari; - il tema della forma di governo → e questo riguarda l’800, quindi parleremo rapidamente di due autori certamente centralissimi, due grandi personalità, da un certo punto di vista vicine tra loro, vale a dire Marx e Nietzsche sui diritti fondamentali. Entrambi hanno una posizione molto critica verso l’illuminismo e la vicenda dei diritti; - E l'altro terzo autore dell'800 che vedremo è un altro pensatore importante, molto rilevante, e diversamente dai due precedenti è un giurista → il francese Tocqueville che sviluppa il tema della libertà dell'uguaglianza e della democrazia: quindi l'altro pilastro fondamentale del corso di filosofia del diritto Nella scelta degli autori del 900 invece ritorniamo al problema penale e in modo particolare ci occuperemo della ‘pietra angolare’ della giustizia penale delle nostre organizzazioni giuridiche, vale a dire → la pena detentiva. Marx e Nietzsche Iniziamo dal più recente → Nietzsche, ma sostanzialmente la distanza temporale non è grandissima. Max Weber (altro gigante del pensiero, autore del 900) ritiene giustamente (il prof è d'accordo con lui) che questi due autori siano imprescindibili: bisogna conoscerli per capire il mondo in cui siamo stati cacciati dal destino. Sono due rivoluzionari, certamente molto diversi tra di loro: qualcuno potrebbe dire, e avrebbe ragione, che sono anche due autori direttamente contrapposti, direttamente antitetici → - Marx è il rivoluzionario del popolo oppresso, lavoratore soprattutto nella grande fabbrica, nella grande industria, del lavoro alienante; - e l'altro (definizione di Domenico Losurdo, un grande studioso di Nietzsche) è il ribelle aristocratico che predica il pathos della distanza, che auspica la nuova vittoria dopo i Greci presocratici (che lui adorava e considerava gli uomini migliori di tutti): la nuova vittoria della morale dei signori contro il veleno dell’uguaglianza. La morale dei deboli, la morale del risentimento contro la nobiltà, la grandezza d'animo degli uomini forti. Entrambi di sicuro vorrebbero un cambiamento radicale: molto diverso negli obiettivi e anche nelle modalità, ma certamente un cambiamento radicale → quindi rivoluzionari entrambi. A parte questo aspetto, la natura iconoclastica delle loro costruzioni e idee, un altro elemento che li mette insieme, è la potenza straordinaria e l’efficacia della loro scrittura: entrambi gli autori hanno, scrivendo peraltro in tedesco che non è una lingua che si adatta particolarmente alla eleganza di stile, una straordinaria eleganza e raffinatezza, ed energia corrosiva. Mentre, ad esempio, Kant si legge con grande difficoltà Kant che pure è un autore fondamentalissimo della filosofia, Marx e Nietzsche si leggono sempre con grande e con straordinario piacere. Sono anche certe volte molto divertenti. Ma c'è ancora un altro elemento che li mette insieme → la valutazione, o meglio la svalutazione dell'illuminismo e delle presunte conquiste dell'illuminismo: la svalutazione delle cose che abbiamo studiato fino a questo momento (i diritti, la sovranità popolare, il costituzionalismo che poi da liberale diventa democratico). Marx e Nietzsche (e Michel Foucault) sono gli autori principali di quella corrente che qualcuno ha definito “la corrente del sospetto critico nei confronti dell’illuminismo e dei diritti”. Per loro i diritti sono l'apparenza della contemporaneità: sono il velo ideologico di libertà e di uguaglianza (le formule della Rivoluzione francese) che copre e non fa vedere i rapporti reali di potere, di dominio. Delle relazioni che non sono uguali, che non sono libere, ma sono delle relazioni di oggettiva sottomissione e di oggettiva di disuguaglianza sostanziale. Sono però poteri differenti: ✧da un lato abbiamo il potere economico dei capitalisti (per quanto riguarda Karl Marx); ✧e dall'altro lato abbiamo il potere pastorale (definito così da Foucault facendo riferimento a Nietzsche), delle guide spirituali. Peraltro Nietzsche era figlio di un pastore protestante e quindi a contatto diretto con quel modo di declinare il cristianesimo → il potere dei capi religiosi, dei sacerdoti che controllano con la paura e con il senso di colpa le condotte dei timorati di Dio. Un potere che non è economico, ma un potere culturale che è altrettanto forte e capace di imporre delle condotte dei comportamenti e di normalizzare in una certa direzione i comportamenti. Michel Foucault partendo proprio dal potere pastorale, di guida delle anime intraprende un percorso di congiunzione dei contributi di Marx e di Nietzsche. Non è il solo: c'è un'altra vicenda molto rilevante e importante di congiunzione del pensiero di Marx con quello di Nietzsche, ovvero la scuola di Francoforte, di Marcuse, di Horkheimer e altri ancora… ↝Friedrich Nietzsche ↜(no esame) È impossibile parlare di tutto... il testo fondamentale è “L’anticristo”, uno scritto dell'ultimo periodo di Nietzsche (1844-1900) dal titolo fortemente provocatorio. “L'anticristo o la maledizione del cristianesimo” riguarda l'ultima fase della vita di Nietzsche, prima della follia. Viene scritto a Torino probabilmente nel 1988 e pubblicato nel 1895 per via dei contenuti aspri, di invettiva ‘alla Voltaire’ nei confronti del cristianesimo. Tuttavia, c'è un altro singolare punto di contatto con Marx: entrambi gli autori non sono nell'indice dei libri proibiti dalla Chiesa Cattolica a differenza di molti altri autori anche abbiamo incontrato. C'è ancora da considerare questa circostanza: Nietzsche di formazione non è un filosofo, ma un filologo greco e peraltro