Scarica Linguistica generale e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! LA NEGAZIONE IN PROSPETTIVA SEMANTICO-PRAGMATICA MARIA CRISTINA GATTI CAPITOLO I – FACULTAS LOQUENDI E FACULTAS NEGANDI Solo l’uomo propriamente parla, perché solo l’uomo è quel livello della realtà vivente in cui la facultas loquendi si dà nel contempo come facultas negandi. Accenniamo solo brevemente le principali differenze fra comunicazione umana e animale. L’uomo comunica mediante segni, l’animale mediante segnali. Il segno induce una risposta linguistica e quindi dialogica. Il segnale produce, invece, un comportamento, una risposta- azione. 1.1 Che cosa si fa quando si nega Quando neghiamo non facciamo sempre la medesima cosa. Negando, sicuramente, possiamo esprimere un giudizio come presa di posizione rispetto alla verità o falsità di un certo stato di cose. In tal caso la negazione può porsi come un giudizio di natura verocondizionale (Non piove ≠ Piove, Milano non è la capitale d’Italia ≠ Milano è la capitale d’Italia) oppure come affermazione di diversità (Questa rosa non è rossa. → E’ di un colore diverso dal rosso). Far coincidere il non con è falso che comporta una confusione di piani fra il linguistico e il metalinguistico. Se Luigi non mangia è un’asserzione relativa a un frammento di mondo, E’ falso che Luigi mangi è chiaramente un’asserzione su un’asserzione. La negazione di una proposizione e l’asserzione metalinguistica che una proposizione è falsa non si situano sullo stesso piano. Inoltre dal negare come giudizio si distanzia nettamente il negare come rifiuto, che è chiaramente un atto performativo (→ Non ti prometto di venire, Non accetto scuse). La natura performativa trova riscontro nella struttura morfologica: la prima persona singolare del presente indicativo che troviamo in entrambi i nostri enunciati è condizionante rispetto al performativo. Se proferendo l’enunciato Non ti prometto di venire compio un rifiuto di promessa, con Non ho promesso di venire o Egli non promette di venire descrivo un rifiuto di promessa, mio o altrui, ma non lo compio. In ogni caso, il rifiuto si sottrae ad una valutazione di natura verocondizionale, quindi non ha senso chiedersi se enunciati come Non accetto scuse oppure Non ti prometto di venire siano veri o falsi. Atti linguistici come il rifiuto possono essere al massimo valutati in base alla loro maggiore o minore felicità, che altro non è se non la loro rispondenza alle attese degli interlocutori coinvolti nell’interazione comunicativa. BADA A COME RIFIUTI: ASPETTI DI PRAGMATICA INTERCULTURALE - Vieni in piscina? - Sono raffreddato. In questo semplice scambio di battute, l’interlocutore B, asserendo che è raffreddato, ha declinato l’invito di A. Affinché A comprenda tale rifiuto, è necessario che inferisca l’illocuzione primaria a partire da quella letterale. La cortesia, in molte culture, tra cui in particolare quella cinese, è la motivazione principale che induce all’uso di atti linguistici indiretti. Gli atti linguistici indiretti non fanno che ricondurre la negazione al rifiuto di asserire, o viceversa. Enunciati negativi come He is not poor oppure The cat is not on the mat verrebbero in tal caso messi sullo stesso piano di I don’t say he’s poor/the cat is on the mat. Di fronte a tale identificazione conviene chiedersi se asserire che non, ad esempio asserire che qualcuno non è povero, equivalga realmente a rifiutare di asserire che qualcuno è povero. Non equivale, perché in presenza di un atto illocutivo assertivo, l’eventuale implicazione del rifiuto di una assunzione del destinatario non giustifica la sua identificazione con un atto linguistico di rifiuto. 1.1.1 Una curiosa asimmetria: a proposito di da e net Quando assentiamo o dissentiamo, il punto di vista da cui partiamo varia a seconda della nostra comunità linguistica. Si consideri ad esempio l’affermazione There is no table in the room; a seconda della assenza/presenza dell’oggetto in questione nella stanza, l’interlocutore inglese confermerà con un No, there isn’t oppure obietterà con un Yes, there is. Il parlante, proferendo sì o no, si riferisce alla cosa, assumendo come punto di vista la realtà oggettuale. Al contrario, il parlante russo, confermando con Da, ne est’ o obiettando con Net, est’, non prende immediatamente posizione rispetto alla realtà, ma si riferisce all’asserzione relativa all’assenza del tavolo nella stanza. Fin qui abbiamo cercato di mettere a fuoco le funzioni fondamentali che la negazione può assumere nei diversi contesti comunicativi. È emersa innanzitutto la radicale differenza fra la negazione come giudizio e la negazione come rifiuto. Entro la negazione come giudizio si è colta una duplice possibilità: in quanto giudizio, la negazione può sottolineare la funzione di asserzione di falsità di un giudizio o di una assunzione presente in qualche modo nel contesto, o porsi soprattutto come caratterizzazione di un certo stato di cose. Per quanto riguarda il rifiuto, esso può realizzarsi come rifiuto di aderire a una proposta di azione o come rifiuto di credere a una proposizione. Questo secondo tipo di rifiuto è peraltro implicato dalla negazione come giudizio. Le diverse modalità di dire di no che sono emerse possono essere rappresentate nel seguente grafo. 1.2 Un primitivo semantico-concettuale A qualunque comunità linguistica appartenga, l’uomo dispone di strategie espressive per parlare al negativo. L’universalità largamente riconosciuta della negazione trova una DIRE DI NO ALLA REALTA’ MENTENDO PER RIFIUTARE L’ADESIONE A P PER AFFERMARE ALTRO DA P PER ASSERIRE LA FALSITA’ DI P PER RIFIUTARE DI FARE Infine il principio oppositivo opera a livello fonologico, dove ovviamente si rileva una opposizione usata per distinguere le espressioni. La teoria fonologica di Trubeckoj afferma, infatti, che il fonema vive di opposizione: senza opposività non si dà capacità di distintività. Un fonema è quello che è, non solo per le sue proprietà intrinseche, ma anche perché non è tutti gli altri fonemi presenti in un determinato sistema linguistico. Vediamo pertanto come il paradigma è all’opera entro il testo, considerando le espressioni seguenti. - Stefano non è laureato, ma diplomato. V - Stefano non è laureato, ma sposato. X - Luigi non beve Barbera, ma Barolo. V La congiunzione avversativa, nel primo e nel terzo caso, oppone al primo elemento un secondo nell’ambito di un paradigma che viene circoscritto entro il testo stesso e i cui elementi si oppongono fra loro per il fatto di condividere la medesima base di comparazione. Da qui l’impossibilità di opporre sposato a laureato, che appartengono a due paradigmi diversi. Inoltre, a livello testuale si rileva quanto l’affermazione e la negazione si implichino reciprocamente. Se l’affermazione consente, da un lato, di attivare nel testo una determinata categorialità, dall’altro, viene a escludere dal testo tutte le altre possibilità previste dal paradigma. Se neghiamo enunciati affermativi come Non è venuto ieri oppure Questo tavolo non è bianco, affermiamo che quella data persona è venuta in uno dei tempi possibili ad eccezione di ieri e che il tavolo è di uno dei colori previsti dal paradigma cromatico, ad eccezione del bianco. La negazione come strumento espressivo di alterità e diversità, che apre al paradigma, ha una storia antica, che vede una sua prima messa a fuoco nell’opera intitolata Sofista di Platone. Qui, il filosofo afferma che quando parliamo di non-essere non dobbiamo intendere il contrario dell’essere, bensì il diverso. Quindi quando parliamo di non-grande/non-bello/non-giusto, non dobbiamo intendere il contrario di grande/bello/giusto, ma il diverso da grande/bello/giusto. In quanto insieme di elementi equivalenti in rapporto alla funzione del sintagma, il paradigma è sostanzialmente l’ambito entro cui avviene la scelta. Questa è garantita senza dubbio dall’equivalenza degli elementi in rapporto alla funzione svolta. Il paradigma non è in ogni caso un semplice insieme di elementi, ma piuttosto una disgiunzione di elementi, ciascuno degli altri è in disgiunzione con tutti gli altri: se X è sorella di Y, non è madre, zia, nonna, ecc.. Analizziamo la nozione di valore linguistico dal punto di vista del Cours de Linguistique Générale saussuriano. Il linguista ginevrino afferma che nella lingua non vi sono se non differenze: nella langue come sistema di elementi solidali, il valore di un elemento non risulta che dalla presenza simultanea degli altri. In relazione ai concetti di signifiant e di signifié, la lingua comporta solo differenze concettuali e differenze foniche. Il segno, in quanto vive nella solidarietà segnica, si caratterizza per opporsi a tutti gli altri segni. 2.1.1 Enantiosemia e indeterminatezza del codice A questo punto del nostro percorso, contrariamente a quanto fatto fin ora, rivolgiamo l’attenzione al fenomeno dell’enantiosemia per cui una stessa parola veicola significati opposti. L’interesse per le parole con significato antitetico, presente già dall’antichità, ha assunto una rilevanza del tutto particolare sul finire dell’800, grazie agli studi del glottologo tedesco Carl Abel sulle parole primordiali. Nella lingua egizia, per esempio, la radice ķn designava originariamente sia il concetto di forza che quello di debolezza. Partendo, quindi, da osservazioni sulle lingue più antiche, estese anche alle lingue semitiche e indoeuropee, Abel crede di vedere una tendenza della mentalità primitiva a formare i concetti per comparazione e per opposizione: il concetto di forza non può che emergere dal concetto di debolezza, il concetto di luce per opposizione a quello di tenebra e così via. La parola enantiosemica sottolineava, dunque, la base comune dei due opposti che venivano distinti di volta in volta nell’uso. Per enantiosemia si intende il fenomeno per cui una parola esprime significati fra loro polarmente opposti. Aufheben in tedesco significa sia preservare che cancellare; baro in ebraico indica sia creare che annullare; avanzare in italiano significa sia andare avanti che rimanere. Il fenomeno dell’enantiosemia non va confuso con quello di antonimia (buono-cattivo, freddo-caldo, grande-piccolo), in cui i due significati polari vengono espressi da due parole diverse. Le parole enantiosemiche, come è stato rilevato, sono un fenomeno di polisemia, anche se di tipo particolare. Non si può dire siano un fenomeno di omonimia, perché tra i significati dello stesso significante enantiosemico si riconosce una certa relazionalità, data dalla stessa base del paradigma semantico. L’enantiosemia non è, pertanto, un fatto accidentale o casuale, come si è talora sostenuto. È una regolarità polisemica. Va pensata come copertura di due sensi contrari da parte di un senso globale, e non come compresenza di due sensi contrari. 2.1.1.1 Apollo, ovvero un carrefour di ipotesi ermeneutiche: a proposito di alfa privativo e alfa inclusivo Andiamo ora alle pagine del Cratilo che edono Platone alle prese con la correttezza del linguaggio, ossia con la questione se esso sia posto per natura o per convenzione. Dopo aver trattato l’ipotesi della correttezza del nome per natura, egli presenta una serie di tipologie suggestive di nomi di dei, fra cui quello di Apollo. Il prefisso greco a- ha la possibilità di veicolare nel contempo significati opposti (“con” e “senza”), quindi si presenta come enantiosemia. Con valore privativo, il prefisso è molto produttivo e compare in prefissati sia nominali che aggettivati. Con valore inclusivo presenta minore produttività. Compare con questa accezione per lo più nell’ambito del lessico dell’intersoggettività. Tornando al discorso di Platone, questo prefisso pare suggerirci che se la realtà è complessa e indecifrabile è giusto che anche il linguaggio lo sia, quasi per ricordarcelo. 2.2 La negazione come strumento di sviluppo della categorialità Ci accosteremo, in questa seconda parte del capitolo, a un utilizzo particolare della negazione che ne evidenzia non solo il potenziale espressivo, ma anche un funzione rilevante nell’incremento della categorialità. Può offrire un primo spunto nella considerazione del tema la distinzione di massima entro la concettualità fra osservabili e costrutti. I primi possono considerarsi gli strumenti concettuali con cui riscontriamo e protocolliamo i fenomeni che l’esperienza ci attesta: servono a fissare i dati. La loro origine è l’esperienza stessa. Il fatto è che la conoscenza comincia ad essere interessante quando oltrepassa il livello dei dati e punta a capire i fatti che per le loro dimensioni più rilevanti restano nascosti all’esperienza diretta. Parole come pensare, comprendere, riflettere, capire sono esito della categorialità metaempirica. Talvolta gli stessi contenuti sono espressi mediante procedimenti diversi: spirituale vs. incorporeo/immateriale. Il ricorso alla negazione è tanto più insistito quanto maggiore è la lontananza dall’esperienza dei dati. A titolo esemplificativo, segnaliamo i nomi attribuiti a varie divinità greche con l’aiuto dell’a- privativo per chiamarle invisibili, ineffabili, inafferrabili, senza nome e irraggiungibili. 2.2.1 Apporto della negazione alla formazione lessicale Dalla lingua greca, l’alfa privativo è entrato nelle lingue europee neolatine, germaniche e slave, dove lo troviamo, oltre che nei grecismi, in numerose forme aggettivali con base di origine latina. Dal punto di vista semantico, il prefisso a- veicola il significato di “assenza di quanto designato dalla base”. Il suo semantismo differisce, pertanto, da quello del prefisso aggettivale in-, a ben vedere solo apparentemente sinonimico. Se per esempio amorale e apolitico indicano un prescindere dalla morale e dalla politica perché se ne sta al di fuori, immorale e impolitico indicheranno piuttosto una non conformità per opposizione ai dettami della morale e della politica. Affine al prefisso a-, oltre a in-, è il prefisso un- delle lingue germaniche. Vediamo ora la natura semantica di questi due prefissi, nonché le analogie e le differenze in rapporto al prefisso a- mutuato dal greco. La maggior parte degli aggettivi prefissati in un- e in- presenta “affective evaluatively negative coloration” ( injust, imperfect, untrue, unhappy). 2.2.1.1 Regolarità o indecidibilità? <<Any word could be negatived by adding the affix un->>, recita uno dei principles of Newspeak. Non può a questo punto non sorgere un interrogativo sulla plausibilità della sinonimia piena delle forme prefissate in un- con il contrario polare della loro base (ungood vs. bad). Prendiamo in esame alcune forme aggettivali in un- come l’inglese unhappy, untrue e unclean. La ricca produttività del prefisso, sia in inglese che in tedesco, potrebbe far pensare alla possibilità della formazione di prefissati analoghi con gli aggettivi negativi inglesi unsad, unfalse, undirty. In realtà, una restrizione vuole che la base dei prefissati in un- sia positiva o semanticamente neutra. Tale restrizione è valida anche per il prefisso in-. Infatti l’istinto linguistico naturale indurrebbe il parlante ad evitare la sofisticata scelta di rendere negativo un negativo per ottenere un positivo. 2.2.1.2 Inhuman, unhuman o nonhuman? I prefissi in- e un- rappresentano in realtà una certa differenza semantica, che cercheremo di far emergere contrastandoli con un ulteriore prefisso negativo, non-, particolarmente produttivo in inglese (nonrational, nonnatural, nonmoral). Consideriamo un primo gruppo di coppie aggettivali costruite sull’opposizione in-/un- vs. non-. Immoral vs. nonmoral Irrationnel vs. non-rationnel Irrealistico vs. non realistico Unchristian vs. non-christian