Scarica Luiso volume 2 con Riforma Cartabia ultima edizione e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! 1) IL PROCESSO DI COGNIZIONE Il processo di cognizione è il mezzo con il quale si impartisce la tutela dichiarativa. Accanto al modello “ ordinario” di processo di cognizione sussistono processi di cognizione “ speciali”, come il processo del lavoro. Il processo di cognizione ordinario costituisce il rito “ ordinario” in contrapposizione ai riti “ speciali”. Il processo di cognizione ordinario trova applicazione per tutte le controversie per le quali non sia previsto un rito speciale. Il processo di cognizione è il mezzo con il quale si impartisce la tutela dichiarativa, una delle tre forme di tutela giurisdizionale conosciute. Piuttosto che parlare di tutela giurisdizionale di cognizione, dobbiamo parlare di tutela giurisdizionale dichiarativa, poiché essa consiste nella dichiarazione dei comportamenti leciti e doverosi di due o più soggetti circa un bene della vita protetto dall’ordinamento. Il quid proprium è ciò che l’organo dichiara con il suo provvedimento : ecco perché si dovrebbe chiamare tutela dichiarativa. La disciplina del processo di cognizione ordinario è contenuta essenzialmente nel 2 libro del codice. Il secondo libro del codice, dedicato al processo di cognizione, è diviso in 5 titoli: - i primi due titoli riguardano il processo di primo grado, - il terzo le impugnazione, - il quarto il processo del lavoro - Il quinto il processo in materia di persone, minorenni famiglie. Questi ultimi due sono processi di cognizione speciali. Il processo di primo grado si può suddividere in 3 momenti logici: 1) l’introduzione : fanno parte dell’introduzione della causa quegli atti che servono ad individuare l’oggetto del processo, cioè la situazione sostanziale di cui si chiede la tutela. 2) La trattazione : ha la funzione di acquisire tutti gli elementi che servono per la decisione: elementi di fatto, elementi di diritto e soprattutto l’istruzione probatoria, che si rende necessaria quando vi è necessità di accertare il modo di essere dei fatti storici introdotti nel processo. 3) La fase decisoria: è quella in cui l’organo giurisdizionale, sulla scorta di tutta l’attività svolta, emette il provvedimento con il quale da o nega la tutela richiesta. 2) LA CITAZIONE La citazione costituisce l’atto introduttivo del processo di cognizione ordinario. La funzione della citazione è duplice: - individua l’oggetto del processo, cioè la situazione sostanziale di cui si chiede la tutela. - Dall’altro lato, la citazione porta la domanda giudiziale a conoscenza quanto meno di altri due soggetti . Infatti, il processo è l’attività di 3 persone: colui che chiede la tutela ( attore ), colui contro il quale la tutela è richiesta ( convenuto) e il giudice. La domanda va portata a conoscenza del giudice perché questi, per decidere, deve sapere cosa gli è chiesto; va portata a conoscenza della controparte, per il rispetto del diritto di difesa o principio del contraddittorio (art. 24 e 111 costituzione). Il contenuto della citazione consente di distinguere in essa due profili : - la cosiddetta editio actioni, che coincide con la proposizione della domanda giudiziale; - e la cosiddetta vocatio in ius consistente nel portare la domanda a conoscenza degli altri soggetti. Qualunque atto introduttivo del processo deve comprendere la proposizione della domanda giudiziale. In particolare conosciamo 2 diverse forme di atti introduttivi del processo: - una, quella del rito ordinario, è la citazione ( art. 163-163 bis c.p.c.); - l’altra adottata per il processo del lavoro, dei minorenni, delle locazioni è il ricorso. Le differenze intercorrenti fra questi due atti non sono di contenuto, ma riguardano il fatto che la citazione viene prima notificata alla controparte e poi depositata nella cancelleria del giudice, che quindi ne prende cognizione successivamente alla controparte; nel ricorso, invece, prima si deposita l’atto presso la cancelleria del giudice e poi si notifica alla controparte. Secondo gli artt. 163-163 bis c.p.c. gli elementi della citazione sono i seguenti : 1) l’indicazione del giudice al quale la domanda è rivolta; 2) l’indicazione delle parti: attore, convenuto e, se è un processo con una pluralità di parti, anche le altre parti; 3) l’indicazione della cosa oggetto della domanda. Questo elemento integra il petitum, ossia ciò che è richiesto. Ma con il termine petitum si intendono due cose diverse: -da un lato, il cosiddetto petitum immediato, che è il provvedimento che si chiede al giudice; (il provvedimento di accertamento del diritto) -dall’altro, il cosiddetto petitum mediato, che è la situazione sostanziale dedotta in giudizio. (il diritto di proprietà sul bene). L’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni delle domande, vale a dire la causa petendi ossia alla fattispecie costitutiva del diritto, è prevista dal n. 4 dell’art. 163 c.p.c. La causa petendi riveste un ruolo diverso a seconda che si tratti di: - diritti auto individuati - o etero individuati. Tale distinzione rileva per ciò che attiene all’individuazione del diritto oggetto del processo. Poiché i diritti auto individuati hanno, come elementi di identificazione, il soggetto, il bene ed il tipo di utilità garantita dall’ordinamento, la causa petendi non costituisce elemento di identificazione degli stessi. Esempio: i diritti assoluti in genere, i diritti reali e della personalità, ed anche diritti personali di godimento. Al contrario i diritti etero individuati si identificano ( anche ) attraverso la fattispecie costitutiva, cioè la causa petendi perché, al moltiplicarsi delle fattispecie costitutive, si moltiplicano i diritti. La causa petendi si unisce quale elemento di individuazione dei diritti in questione. Esempio: il contratto di mutuo. Tornando ora all’art. 163 c.p.c., quanto appena visto significa che : la citazione deve enunciare la causa petendi, se si tratta di un diritto etero individuato; non è invece necessaria l’indicazione della causa petendi, se dedotto in giudizio è un diritto auto individuato. La mancanza di causa petendi, mentre porta alla nullità dell’atto introduttivo nel caso di diritti etero individuati, non comporta la stessa conseguenza nel caso di diritti auto individuati. Se l’attore rinnova la citazione nel termine assegnatogli, il vizio si sana con efficacia retroattiva. Se, viceversa, la rinnovazione non viene eseguita, o viene eseguita oltre il termine perentorio il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e si ha estinzione immediata del processo (cioè senza i tre mesi di quiescenza). Il potere del giudice di rilevare la nullità della citazione per i vizi attinenti alla vocatio in ius e di disporre la rinnovazione della stessa dovrebbe auspicabilmente essere esercitato in prima udienza. Tuttavia, niente impedisce che, in qualunque momento del processo, anche in fase decisoria, il giudice, che accerti l’esistenza di detta nullità, debba ugualmente disporre la rinnovazione della citazione nulla. Le conseguenze di tale tardivo ordine di rinnovazione comportano che: - il giudice, dichiara la nullità della citazione, - fissa una nuova prima udienza 70 giorni prima della quale il convenuto può costituirsi depositando la comparsa. In nessun modo, quindi, il convenuto incorre in decadenze o preclusioni a causa del fatto che il giudice, anziché dichiarare la nullità della citazione alla prima udienza, l’abbia dichiarata in un momento successivo. SANATORIA PER COSTITUZIONE DEL CONVENUTO I vizi relativi alla vocatio in ius sono sanati, oltre che per rinnovazione, anche per la costituzione spontanea del convenuto: a ciò consegue il prodursi degli effetti sostanziali e processuali della domanda dal momento della notificazione della stessa. La sanatoria per costituzione spontanea, come quella per rinnovazione, ha quindi efficacia retroattiva. Con la costituzione del convenuto si acquisisce la condizione per la pronuncia di merito, che è la regolare instaurazione del contraddittorio. Una convalidazione oggettiva si ha solo se il convenuto si sia difeso pienamente: la sola costituzione, in questa direzione, non è sufficiente. Si prevede che il giudice, ove il convenuto lo richieda, deve fissare una nuova udienza di prima comparazione per consentire al convenuto di depositare una comparsa di costituzione 70 giorni prima dell’udienza fissata. Il convenuto ha diritto di chiedere la fissazione di una nuova prima udienza, senza, quindi , incorrere in decadenze o preclusioni. Ritenere diversamente significherebbe far ricadere sul convenuto incolpevole l’errore dell’attore ( che ha redatto una citazione nulla ) e l’errore del giudice ( che non si è accordo di tale nullità). NULLITA’ AFFERENTI ALL’EDITIO ACTIONIS La seconda parte dell’art. 164 c.p.c. si occupa dei vizi attinenti alla editio actionis. Dispone che l’omissione o l’assoluta incertezza del requisito di cui al n. 3 (indicazione oggetto della domanda) o la mancata esposizione dei fatti di cui al n. 4 dell’art. 163 c.p.c. determinano la nullità della citazione. L’individuazione delle parti in senso sostanziale (cioè dei titolari della relazione giuridica dedotta in giudizio ) rientra nell’editio actionis, in quanto elemento identificatore del diritto fatto valere. Diverso e più delicato discorso dobbiamo fare per la mancata esposizione dei fatti di cui al n. 4 dell’art. 163 c.p.c. E’ noto che la fattispecie costitutiva di un diritto è elemento per la identificazione dello stesso solo per i diritti c.d. etero individuati, mentre per i diritti c.d. auto individuati l’allegazione ( e la prova ) di una fattispecie costitutiva è condizione per l’accoglimento nel merito della domanda ma non per l’identificazione del diritto fatto valere. Ne consegue che: la omessa esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda comporta un vizio della citazione a causa della mancata individuazione del diritto fatto valere solo per i diritti etero individuati, mai per quelli auto individuati. Resta quindi da chiedersi se la nullità per una citazione che non contenga l’allegazione della causa petendi si riferisca solo ai diritti etero individuati o anche ai diritti auto individuati; L’art. 164 c.p.c. richiama le carenze relative ai requisiti di cui al n. 4 dell’art. 163 c.p.c. solo nei limiti in cui tali carenze impediscono l’individuazione della situazione sostanziale fatta valere. Dunque va espunto il riferimento alla causa petendi per i diritti auto individuati. SANATORIA PER RINNOVAZIONE O INTEGRAZIONE Allorché vi sia nullità della citazione con riferimento alla proposizione della domanda giudiziale è evidente che la sola costituzione del convenuto non è sufficiente a sanare tale nullità né si può pensare che l’identificazione del diritto possa provenire dal convenuto stesso. La sanatoria può provenire soltanto da un’attività dell’attore che integra la propria domanda individuando la situazione sostanziale controversa. Conseguentemente , se il convenuto è contumace, il giudice dispone la rinnovazione della citazione, integrata con gli elementi carenti della editio actionis. Se invece, il convenuto è presente, il meccanismo previsto è costituito dal deposito, da parte dell’attore di una memoria contenente le necessarie integrazioni. Infatti, essendo il convenuto costituito , sarebbe superfluo compiere un atto che contenga ( anche ) la vocatio in ius. La sanatoria conseguente ai vizi della editio actionis non ha efficacia retroattiva: gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono dal momento della rinnovazione della citazione ( se il convenuto è contumace ) e cioè dal momento della notificazione di tale atto, oppure dal momento della integrazione della domanda ( se il convenuto è costituito) e cioè dal deposito, notificazione o scambio della memoria, contenente la necessaria integrazione, a seconda del meccanismo di comunicazione utilizzato per tale memoria. La sanatoria è irretroattiva per necessità, e non per scelta del legislatore. Infatti, finché resta indeterminato il diritto fatto valere, non è possibile che operino gli effetti sostanziali e processuali della domanda, perché non si saprebbe a quale diritto riferirli. 4) LE DIFESE DEL CONVENUTO COMPARSA DI RISPOSTA L’attività del convenuto è prevista negli artt. 166 e 167 c.p.c. Il convenuto si difende attraverso una comparsa di risposta, che è l’atto speculare della citazione. La comparsa di risposta manca necessariamente della vocatio in ius; manca anche della editio actionis, a meno che essa non contenga una domanda riconvenzionale o la dichiarazione della volontà di effettuare la chiamata in causa di un terzo. Se, con la comparsa di risposta, non si propongono nuove domande, o non si manifesta l’intenzione di chiamare in causa terzi, essa costituisce un atto che appartiene esclusivamente alla trattazione. Distinguiamo le difese di rito ( che riguardano la correttezza del processo ) dalle difese in merito ( che riguardano la fondatezza della domanda ). Il convenuto per prima cosa può rilevare i vizi del processo che ne impediscono la decisione di merito; dunque i vizi attinenti ai presupposti processuali. Tale rilevanza può essere fatta anche successivamente tranne i casi in cui il difetto del presupposto processuale non sia rilevabile anche di ufficio. In tali ipotesi, vale la regola esattamente opposta: il convenuto deve sollevare la questione di rito, a lui riservata, nella prima difesa utile. Per quel che riguarda invece le difese di merito, il convenuto può proporre delle difese che si distinguono in : - difese semplici, o mere difese, se il convenuto contesta quanto affermato dall’attore, - ed eccezioni, quando il convenuto introduce in giudizio dei nuovi fatti storici che si pongono come impeditivi, modificativi o estintivi del diritto vantato dall’attore. Le eccezioni, si dividono in: - eccezioni rilevabili solo dalla parte - ed in eccezioni rilevabili anche di ufficio. Un altro possibile elemento della comparsa di risposta è la richiesta di mezzi di prova e la produzione di documenti. Come l’attore con l’atto introduttivo può richiedere mezzi di prova o produrre documenti, così il convenuto con la comparsa di risposta può richiedere mezzi di prova o produrre documenti. Le attività sopra indicate (mere difese, eccezioni e prove) possono essere compiute anche nell’ulteriore corso del processo, tranne le eccezioni in senso stretto, che debbono essere inserite nella comparsa di risposta. Il convenuto deve, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, proporre, le eccezioni in senso stretto. Egli deve, sempre a pena di decadenza, dichiarare la volontà di chiamare in causa un terzo, non importa se in forma innovativa ( cioè proponendo una domanda nei suoi confronti ) oppure in forma non innovativa (cioè per farlo partecipare in via adesiva al processo, al solo fine di poterlo vincolare al futuro giudicato). DOMANDA RICONVENZIONALE Inoltre, egli deve proporre le domande riconvenzionali. La nuova domanda del convenuto aumenta l’oggetto del processo: avremo quindi un processo con cumulo oggettivo poiché i diritti fatti valere sono più, anche se il processo rimane unico. Gli strumenti che, ad hoc, ha a disposizione il convenuto sono: 1. la domanda riconvenzionale 2. e la chiamata in causa del terzo (che si utilizza nei confronti di chi non è ancora parte del processo), da inserirsi entrambe, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta. La domanda riconvenzionale e la chiamata in causa sono gli strumenti processuali con i quali si propone una nuova domanda rispettivamente contro chi è già parte e contro chi non lo è ancora. La principale differenza fra domanda riconvenzionale e la chiamata in causa di un terzo è la seguente: la prima, essendo diretta nei confronti di chi è già parte, non contiene la vocatio in ius; la seconda, essendo diretta nei confronti di chi ancora non è parte, contiene la vocatio in ius, per la necessità di instaurare il contraddittorio. Domanda riconvenzionale e chiamata in causa sono quindi il veicolo processuale per proporre nuove domande in corso di causa. CHIAMATA IN CAUSA DEL TERZO Il convenuto deve, a pena di decadenza, con la comparsa di risposta manifestare la volontà di chiamare in causa un terzo. Ovviamente, l’ordinanza del collegio è vincolante per il g.i. , che deve decidere le cause che gli rimette il collegio. Al contrario, l'ordinanza dell'istruttore non è vincolante per il collegio. Se il processo è strutturato con cumulo oggettivo vi è attrazione da parte del collegio, il quale decide di tutte le cause cumulate, anche quelle che di per sé dovrebbero essere decise dal g.i.. Se il collegio decide una causa che avrebbe dovuto decidere il g.i. e viceversa si applica la nullità della sentenza. NOMINA DEL GIUDICE ISTRUTTORE La nomina del g.i. avviene con provvedimento del presidente del tribunale: il giudice, così designato, non può essere sostituito se non in caso di assoluto impedimento o di gravi esigenze di servizio. Questo perché il legislatore avrebbe voluto garantire la concentrazione del processo, cioè che fosse la stessa persona fisica ad istituire la causa. 6) I CONTROLLI PRELIMINARI Una delle novità più importanti della riforma Cartabia è costituita dall'anticipazione della trattazione ad una fase antecedente la prima udienza. Ora si posticipa la prima udienza rispetto alla trattazione del merito. La riforma ha quindi previsto che il giudice debba effettuare, di ufficio, una verifica nei 15 giorni successivi alla scadenza del termine della costituzione del convenuto: quindi antecedentemente alla scadenza del termine per il deposito delle memorie integrative ma successivamente al termine per la costituzione in giudizio delle parti. Il giudice deve accertare che: 1. il litisconsorzio necessario sia integro 2. Sia opportuno l'intervento del terzo per ordine del giudice 3. La citazione non sia viziata 4. La domanda riconvenzionale non sia viziata 5. Le parti siano correttamente costituite, altrimenti ne dichiara l’incontumacia 6. Le parti siano adeguatamente rappresentate e munite di difesa tecnica 7. La contumacia del convenuto sia volontaria e non dipenda da un vizio della notificazione 8. Non vi siano atti da notificare al contumace Ognuna delle questioni indicate potrà poi essere rilevata nel corso del processo di primo grado e quasi sempre anche nei gradi successivi. Rientrano in questa categoria le questioni di rito che non sono sanabili in quel processo. Appartengono a questa categoria anche tutte le questioni di merito che comportano la rilevanza di elementi della fattispecie ulteriori e diversi rispetto a quelli dedotti in giudizio. L'indicazione alle parti delle questioni rilevabili d'ufficio è opportuno che venga in questa sede. Se ciò non avviene le parti potranno svolgere tardivamente ciò che tardivamente indicato dal giudice e ciò finanche in fase decisoria. Il giudice deve indicare nel provvedimento pronunciato se vi sono i presupposti per procedere con rito semplificato. Il giudice potrà così segnalare da subito presupposti per il passaggio dal rito ordinario a rito semplificato. Su tutte le questioni indicate dal giudice le parti possono esercitare il contraddittorio. In particolare potranno discutere sulla fondatezza dei vizi del processo. Le parti potranno anche discutere sulla sussistenza dei presupposti per il passaggio a rito semplificato e potranno introdurre in giudizio tutte le novità che ritengono rilevanti. Dal punto di vista procedimentale ove necessario il giudice dilazionerà l'udienza fissata in citazione per consentire alle parti di compiere quanto stabilito. Il giudice può dilazionare la prima udienza per esigenze di ufficio. In entrambi i casi i termini decorrono per tutti dalla nuova udienza fissata. 7) LE ATTIVITA’ PROPEDEUTICHE ALLA PRIMA UDIENZA PRINCIPIO DI PRECLUSIONE L'articolo 171 Ter c.p.c introduce nel nostro ordinamento le preclusioni richiamate in vita dal rito del lavoro nel 1973. Il processo, strutturato secondo le preclusioni, è caratterizzato dalla divisione della fase di trattazione della causa in un primo momento, dedicato all'allegazione dei fatti e alle richieste istruttorie, ed in un secondo momento, dedicato alla prova di quelli, fra i fatti allegati, che siano controversi. Proprio per l'impossibilità che le allegazioni e le richieste istruttorie siano effettuate nell'arco di tutta la trattazione il processo così strutturato si dice caratterizzato dal principio di preclusione. Per quanto riguarda la struttura la fase destinata all'acquisizione delle allegazioni e delle richieste istruttorie, possiamo costatare la presenza di vari modelli. Il processo del lavoro realizza quanto di più rigido si possa immaginare: le allegazioni e le richieste istruttorie possono essere contenute nei solo atti introduttivi. Il principio di preclusione è stato reintrodotto allo scopo di fissare fin dall'inizio del processo le questioni controverse evitando la diluizione della fase di trattazione in una serie di udienze. Nella fase di trattazione propria del rito ordinario è stata abbandonata la versione rigida del principio di preclusione propria del rito del lavoro e inoltre attraverso memorie integrative sono possibili acquisizioni ulteriori rispetto al contenuto degli atti introduttivi. NOVITA’ DERIVANTI DALLO SVOLGIMENTO DIALETTICO DEL PROCESSO Il primo gruppo di poteri è disciplinato dalla prima parte dell'articolo 171-ter c.p.c. : Le parti, a pena di decadenza, con memorie integrative possono: - almeno 40 giorni prima dell'udienza proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto o dal terzo, nonché precisare o modificare le domande, eccezioni e conclusioni già proposte e l'attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo se l'esigenza è sorta a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta. L'attore in generale può anche compiere ulteriori allegazione di fatti quando tali allegazioni costituiscono la replica alle difese del convenuto o ai rilievi del giudice. Quanto visto finora non vale soltanto per l'attore ma anche specularmente per il convenuto. NOVITA’ DERIVANTI DALL’ESERCIZIO DEI POTERI OFFICIOSI Il principio del contraddittorio non riguarda solo le parti ma anche il giudice il quale deve far osservare ed osservare lui stesso il principio del contraddittorio. La rigorosa osservanza di tale regola è necessaria conseguenza dell'adozione del principio di preclusione. Il giudice, con la sua attiva partecipazione, può indicare alle parti la corretta impostazione della controversia; le parti possono così operare le opportune modifiche alle loro difese e soprattutto introdurre in giudizio fatti. Inoltre si stabilisce che se la questione rilevata d'ufficio non è sottoposta all'esame delle parti la sentenza è nulla. Le parti possono in ogni caso precisare e modificare domande, eccezioni e preclusioni. La precisazione delle domande e delle eccezioni consiste nell'allegazione dei cosiddetti fatti secondari. Si ha al contrario la modificazione della domanda quando la parte allega in giudizio nuovi fatti storici principali . Non è possibile proporre domande nuove o chiedere la tutela di diritti diversi rispetto a quelli individuati con gli atti introduttivi. Gli eventuali diritti che il convenuto possa vantare nei confronti dell'attore e che costituiscono fatti modificativi, impeditivi ed estintivi del diritto dedotto in giudizio dall'attore possono essere fatti valere nella loro veste di eccezioni e non possono fondare domande riconvenzionali che il convenuto avrebbe dovuto proporre con la comparsa di risposta. Per quanto riguarda l'allegazione di nuovi fatti costitutivi del diritto fatto valere bisogna richiamare la distinzione tra diritti auto individuati e diritti etero individuati. Per i diritti auto individuati è pacifica la possibilità di allegare altre fattispecie acquisitive. Per i diritti etero individuati, invece, l'allegazione in giudizio di nuovi fatti è consentita purché ciò non porti alla modificazione del diritto dedotto in giudizio (purché il fatto nuovo allegato non identifichi una diversa situazione sostanziale). SECONDA E TERZA MEMORIA INTEGRATIVA Le parti possono, a pena di decadenza, almeno 20 giorni prima dell'udienza depositare una memoria integrativa per replicare alle domande e alle eccezioni nuove o modificate dalle altre parti, proporre le eccezioni che sono conseguenza delle nuove domande. Le parti possono, a pena di decadenza, almeno 10 giorni prima dell'udienza depositare una memoria integrativa per replicare alle eccezioni nuove e indicare la prova contraria. Mentre la prima memoria è destinata alle allegazioni. La seconda ha contenuto misto: da un lato essa costituisce la replica, dall'altro le parti provvedono all'attività istruttoria. La terza memoria invece può contenere solo le repliche alle novità introdotte dall'altra parte con la seconda memoria. ONERE DI CONTESTAZIONE I fatti allegati negli atti introduttivi e nella prima udienza debbano al più tardi essere contestati con la prima memoria; i fatti allegati in questa memoria e quelli che possono essere allegati in seguito devono essere contestati nella prima difesa successiva. Una volta chiusa la fase della trattazione in senso stretto ulteriore allegazioni non sono in linea di massima assimilabili. Eccezionalmente è possibile introdurre in giudizio nuovi fatti. Si deve precisare che dove, dopo la prima udienza di trattazione, sopravvenga un fatto rilevante per la decisione della causa non pare dubbio che esso debba essere allegato in causa. in altri termini, un processo che ancora si trova nello stato della trattazione è strutturalmente in grado di recepire i nuovi fatti. Analogamente avviene anche per le sopravvenienza di diritto. Aldilà di questi casi non sembra possibile allegare fatti nell'ulteriore svolgimento del processo. 8) LA PRIMA UDIENZA L'articolo 183, I, cpc stabilisce che alla prima udienza le parti debbano comparire personalmente e la mancata comparizione, senza giustificato motivo, sia valutabile come argomento di prova. L'interrogatorio libero delle parti, la richiesta di chiarimenti e il tentativo di conciliazione devono svolgersi nella prima udienza. Il giudice ha facoltà di fissare un'udienza per la comparizione personale delle parti. La comparizione personale sia disposta dalla legge o dal giudice non cambia il fatto che sempre di comparizione personale si tratta e quindi non vi è motivo per differenziare la disciplina della comparizione delle parti. La non contestazione si ha invece quando il difensore del convenuto implicitamente riconosce come veri fatti allegati dall'attore o più semplicemente non prende posizione sui fatti allegati dall'attore. Sia l’ammissione che la non contestazione postulano una difesa attiva del convenuto e cioè che il convenuto sia costituito. Ammissione e non contestazione sono fenomeni che non possono mai aversi se il convenuto rimane contumace. Nel nostro sistema la contumacia viene considerata una finta contestazione; mentre in altri ordinamenti la contumacia viene considerata finta confessione, e quindi i fatti, affermati dall’attore, si considerano esistenti qualora il convenuto rimanga contumace. Si impone alle parti l’onere della contestazione specifica dei fatti allegati dalle controparti : in mancanza, il giudice pone a fondamento della sua decisione i fatti allegati e non specificamente contestati. L’onere della specifica contestazione vale solo per la parte costituita e non per il contumace. Con l’ammissione e la non contestazione i fatti allegati dalle parti sono considerati pacifici, in quanto non controversi. Ora, il fenomeno dei fatti pacifici non può verificarsi nei processi che hanno ad oggetto diritti indisponibili. Se il diritto è indisponibile, occorre che i fatti siano provati attraverso strumenti non dipendenti dalla volontà dispositiva delle parti. Per la stessa ragione, i mezzi di prova dispositivi (confessione e giuramento) NON sono utilizzabili in relazione a diritti indisponibili. FATTI PACIFICI I fatti pacifici non hanno bisogno di essere provati: ad essi non si applica la regola sull’onere della prova ( art. 2697 c.c.). Il fatto pacifico NON è quindi un fatto provato, ma è un fatto che non ha bisogno di essere provato; è un fatto la cui esistenza deve darsi senza bisogno che sia confermata da mezzi di prova. Ecco perché se i fatti sono pacifici vi è controversia solo in punto di diritto: si tratta solo di stabilire le conseguenze giuridiche di tali fatti. CAUSA DOCUMENTALE ISTRUITA Un’altra ipotesi di causa matura per la decisione si ha quando vi sono fatti controversi ma provati attraverso una prova documentale. Le prove documentali NON si assumono ma si acquisiscono al processo attraverso la produzione del documento, cioè attraverso il deposito dello stesso agli atti. La causa, ove istruita documentalmente, non ha dunque bisogno di assunzione di mezzi di prova. MANCATA ATTIVITA’ ISTRUTTORIA DELLE PARTI E DEI POTERI ISTRUTTORI DI UFFICIO Un’ulteriore ipotesi di causa matura per la decisione, che non è frequente, è la seguente: vi sono fatti controversi, non istituiti documentalmente (quindi la causa avrebbe bisogno dell’assunzione di mezzi di prova), però nessuna delle parti chiede l’assunzione di mezzi di prova, né vi sono mezzi di prova ammissibili d’ufficio che siano in concreto utilizzabili. Quando vi sono fatti controversi e le parti non richiedono mezzi di prova, la causa è matura per la decisione solo se non vi sono in concreto mezzi di prova disponibili di ufficio. Quando la causa è matura per la decisione senza bisogno di assunzione di mezzi di prova, la trattazione è estremamente abbreviata: addirittura la causa può benissimo passare in decisione fin dalla prima udienza. 10) LE QUESTIONI PRELIMINARE E PREGIUDIZIALI Si prevede una rimessione al collegio per la decisione anche se la causa non è totalmente istruita quando vi sia una questione preliminare o pregiudiziale. Perché ciò possa accadere è necessario che: - la causa non sia totalmente istruita - e che vi siano mezzi di prova da assumere. E’ quindi necessario ipotizzare : - che vi siano fatti controversi; - che in relazione a questi fatti siano state avanzate richieste istruttorie ( oppure vi siano prove disponibili di ufficio); - che quindi non sia stato raccolto tutto il materiale rilevante per la decisione, e tuttavia il g.i., anziché dar corso alle richieste istruttorie, decida di non compiere affatto , oppure di interrompere l’istruzione probatoria, e di rimettere la causa in decisione. - Se, al contrario, la causa è completamente istruita, oppure non ha bisogno di istruzione probatoria, il giudice non ha di fronte a sé un’alternativa: può soltanto rimettere la causa in decisione. QUESTIONI PRELIMINARI DI MERITO Siamo dunque di fronte ad un fenomeno che può apparire strano: la causa ha bisogno di essere istruita; sono state avanzate richieste istruttorie; e tuttavia il giudice ritiene di non procedere affatto, oppure di interrompere l’istruttoria. Ciò accade quando vi è una “questione di merito avente carattere preliminare” tale che “la decisione di essa può definire il giudizio” . Il giudice accoglie la domanda, quando ritiene integrata la fattispecie costitutiva ed al tempo stesso ritiene inesistente tutti i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi; viceversa, rigetta la domanda, quando manca anche uno solo dei fatti costitutivi o è presente anche uno solo dei fatti impeditivi, modificativi, estintivi. In termini sostanziali, perché si verifichi l’effetto giuridico bisogna che la fattispecie costitutiva sia integrata e che non vi siano fatti impeditivi, modificativi, o estintivi altrimenti l’effetto giuridico non si produce. Lo scopo della norma è quello di risparmiare attività inutili, e quindi qualunque fatto costitutivo ( accertato inesistente) e qualunque eccezione ( accertata esistente) sono idonei a dar luogo ad una rimessione su questione preliminare. Ogni elemento della fattispecie costitutiva ed ogni eccezione costituiscono, in astratto, una questione preliminare di merito. La rimessione al collegio su questione preliminare presuppone il mancato completamento dell’istruttoria. Se l’istruttoria è terminata, la rimessione al collegio non è più una scelta, ma è l’unica via percorribile dal g.i. QUESTIONI PRELIMINARI DI RITO Il discorso è simile per le questioni pregiudiziali. Condizione per poter decidere nel merito è la sussistenza di tutti i presupposti processuale c.d. positivi e l’assenza di tutti i presupposti processuali c.d. negativi : basta che manchi o sia viziato anche un solo presupposto processuale positivo, o la presenza anche di un solo presupposto processuale negativo, perché il giudice debba, con pronuncia di rito, chiudere il processo dichiarando l’impossibilità di scendere all’esame nel merito. Tutte le questioni attinenti ai presupposti processuali sono quindi in astratto idonee a definire il giudizio; in concreto sono idonei a definire il giudizio solo la mancanza o il vizio di un presupposto processuale positivo o la presenza di un presupposto processuale negativo. In tal caso è inutile compiere l’attività istruttoria sul merito. Nella stessa logica già vista per le questioni preliminari di merito, il g.i. rimette la causa in decisione solo quanto ritiene carente o viziato il presupposto processuale positivo; oppure quando ritiene esistente il presupposto processuale negativo. Gli errori di valutazione del g.i. sulla fondatezza delle preliminari o pregiudiziali comportano un’inutile spendita di attività processuale. - Se il giudice ritiene erroneamente di essere competente, completa l’istruttoria; quando poi, in sede di decisione, si dichiara incompetente, si perde l’istruttoria sul merito che è stata inutilmente svolta. - Se, al contrario, il g.i. ritiene erroneamente di essere incompetente, rimette immediatamente la causa in decisione senza completare l’istruttoria; quando poi, in quella sede, si dichiara competente, allora si sarà svolta inutilmente la fase decisoria. Nel prevedere che le questioni pregiudiziali di rito possono essere decise unitamente al merito viene confermato un importante principio generale. Fra questioni di rito e questioni di merito c’è di solito un ordine di pregiudizialità : la questione di rito viene prima della questione di merito. Se non sono rispettate le regole del processo, la pronuncia di merito è istituzionalmente inaffidabile, perché non è stata raggiunta secondo le regole che l’ordinamento si è dato. Si evidenzia che la pregiudizialità fra rito e merito è incondizionata solo al momento della decisione, e non anche al momento della trattazione. E’ soltanto al momento della decisione che il giudice, dovendo affrontare questioni di rito e questioni di merito, deve decidere prima quelle di rito, e soltanto di fronte ad un certo esito della decisione può passare all’esame nel merito. La pregiudizialità invece non sussiste in sede di trattazione. Se, nella trattazione della causa, sorgono questioni di rito, non è affatto obbligatorio procedere alla loro trattazione prima di procedere alla trattazione di quelle di merito. Le sentenze non definitive siano meno frequenti nel processo a decisione monocratica rispetto a quello a decisione collegiale. Nel primo caso esse nascono necessariamente da un ripensamento del giudice istruttore, mentre nell’altro caso esse possono più frequentemente nascere da una diversa soluzione che danno alla questione gli altri componenti del collegio. 11) LE ORDINANZE DI ACCOGLIMENTO E DI RIGETTO L'ordinanza di accoglimento della domanda, disciplinata dall’art. 183 ter c.p.c, si distingue dall'ordinanza di quegli articoli 186 bis,quater c.p.c. perché non è destinata a risolvere la controversia ma a fornire al richiedente solo un titolo esecutivo. L’ambito di utilizzazione dell'ordinanza di accoglimento è il processo di primo grado in tribunale, relativo a diritti disponibili. Non si applica ai processi di competenza del giudice di pace e della corte di appello e non si applica alle controversie relative a diritti indisponibili. I presupposti per l'accoglimento dell'istanza sono: - l’acquisita prova di fatti costitutivi della domanda e la manifesta infondatezza delle difese di controparte. In caso di pluralità di domande i presupposti devono essere presenti rispetto a ciascuna di esse. - L'istanza deve essere proposta con riferimento a tutte le domande - L’istanza può essere accolta solo se ciascuna di tali domande presenti requisiti di accoglibilità. Gli effetti dell'ordinanza sono indicati nel comma tre: 1. essa non è un provvedimento decisorio; 2. ha un'efficacia di titolo esecutivo; Dal secondo punto di vista, lo scopo dell’istituto è quello di semplificare la conclusione del processo. Soprattutto, l’ordinanza non è utilizzabile quando riguarda una domanda ( di condanna ) dipendente da altra domanda. 13) IL RITO SEMPLIFICATO La riforma Cartabia ha abrogato il processo sommario di cognizione che era collocato nel libro IV del codice civile ed ha introdotto un rito che è stato collocato nel II libro del codice in tutto e per tutto alternativo a quello ordinario. L'articolo 281-decies c.p.c da le coordinate per l'utilizzazione del rito semplificato. Esso si applica in presenza di uno solo di questi presupposti: - quando i fatti di causa non sono controversi - Quando la domanda è fondata su prova documentale o di pronta soluzione - Quando la domanda richiede un'istruzione non complessa. Al momento della proposizione della domanda non è certo che i presupposti sopraindicati sussistano. Cosa succede se la causa è introdotta nelle forme del rito modificato senza che ve ne siano le condizioni? Si avrà il mutamento del rito ai sensi dell’art. 281-duodecies c.p.c. Nessuna nullità, nessun pregiudizio si riscuoterà sul processo. Analogamente accadrebbe qualora una causa che presenti le caratteristiche indicate venisse introdotta nelle forme del rito ordinario. La domanda può essere proposta, scelta dell'attore, con l'uno o l'altro rito. L'eventuale errata valutazione che l'attore circa il rito applicabile non ha alcuna conseguenza negativa sul processo. Il rito viene corretto ai sensi dell’articolo 283-bis c.p.c (passaggio dal rito ordinario al rito semplificato) o dall’art 281-duodecies c.p.c (passaggio dal rito semplicato al rito ordinario). La domanda assume la forma del ricorso il cui contenuto ricalca esattamente quello dell'articolo 163 c.p.c. fatto ovviamente eccezione per l'indicazione dell'udienza di comparizione. Ne consegue che la disciplina della nullità del ricorso è quella dell'articolo 164 c.p.c. ad esclusione di ciò che riguarda l'indicazione della data dell'udienza di comparizione e l'assegnazione del termine a comparire. I passaggi successivi sono quelli consueti dei procedimenti che si introducono con ricorso: deposito dello stesso, designazione del giudice istruttore, fissazione della data di udienza da parte del giudice, notificazione del ricorso del provvedimento di fissazione dell'udienza al o ai convenuti. Il termine minimo a difesa del convenuto è di 30 giorni (50 se la notificazione è effettuata all’estero). Egli deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza fissata dal giudice. La costituzione del convenuto ha luogo mediante il deposito della comparsa di risposta il cui contenuto ricalca quello di cui all'articolo 167 c.p.c. con un'omissione: non è previsto espressamente che gli debba indicare le proprie generalità e il codice fiscale. Nell'ipotesi in cui intenda chiamare in causa un terzo si procede con la dichiarazione nella comparsa, istanza di fissazione di una nuova udienza, notifica al terzo dell'atto di chiamata in causa. La costituzione del terzo in giudizio ricalca quella del convenuto. Per la trascrizione della domanda giudiziale occorre presentare copia autenticata del documento che la contiene, munito della relazione di notifica alla controparte. Quando la domanda giudiziale si propone con ricorso, la parte che tiene la trascrizione presenta copia conforme dell'atto che la contiene munita di attestazione della data del suo deposito presso l'ufficio giudiziario. Il rito semplificato è un rito a cognizione piena. L'introduzione, con rito semplificato, di una controversia che non ha le caratteristiche previste dall'articolo 281-decies I c.p.c. comporta il passaggio a rito ordinario. Se all'udienza di trattazione il giudice ritiene che la controversia non ha i presupposti dispone il passaggio a rito ordinario con ordinanza non impugnabile. Tale passaggio avviene fissando l'udienza dalla quale decorrono i termini. In sostanza la causa riparte dal momento in cui, nel rito ordinario, scade il termine per la costituzione delle parti. Si aggiunge inoltre che il passaggio a rito ordinario si ha quando ciò che è stato reso opportuno dalla complessità della lite e dell'istruzione probatoria. La valutazione circa la utilizzabilità del procedimento semplificato deve essere fatta unilateralmente per tutte le cause cumulate. La domanda riconvenzionale non può quindi avere sorte diversa dalla domanda principale: tutte le domande devono seguire lo stesso rito. Se per una di esse rito semplificato è ritenuto non utilizzabile anche tutte le altre passano al rito ordinario. Il passaggio dal rito semplificato il rito ordinario, e viceversa, può venire una sola volta. I poteri delle parti sono in entrambi i riti perfettamente equivalenti. La prima udienza costituisce il fulcro del procedimento semplificato. In primo luogo l'attore può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, se l'esigenza è sorta dalle difese del convenuto. In tal caso il giudice autorizza l'attore a chiamare in causa il terzo e fissa una nuova udienza. Il punto più delicato è costituito dal maturarsi delle preclusioni. Arrivati alla prima udienza sono precluse, per il convenuto,: - La domanda riconvenzionale, - la chiamata in causa del terzo - e l'eccezioni in senso stretto. La garanzia del contraddittorio di quell'articolo 101 c.p.c., che impone di dare sempre una possibilità di replica alle novità introdotte in giudizio dalla controparte, è associato al principio per cui questa replica deve trovare luogo nella prima difesa successiva al momento in cui l'interesse sorto. Abbiamo visto che nessuna preclusione rispetto all'attività istruttoria è prevista nella disciplina degli atti introduttivi; dal canto suo l'articolo 281-duodecies c.p.c. impone, pena di decadenza, solo attività corrispondenti alla trattazione non facendo cenno le prove. Il giudice deve concedere i termini per le memorie quando le parti motivano tale richiesta con l'intenzione di svolgere l'attività probatoria. Il che è anche logico poiché l'attività istruttoria segue l’attività di trattazione. L’ultimo comma dell'articolo 281-duodecies c.p.c. indica cosa può accadere al termine della prima udienza, salvo che il giudice autorizzi la chiamata in causa del terzo, nel qual caso fissa una nuova prima udienza. Se il giudice concede le memorie può alternativamente fissare una nuova udienza oppure riservarsi di provvedere una volta scaduto il termine per il deposito delle stesse. Se la causa è matura per la decisione la causa passa nella fase decisoria. Se vi sono da assumere mezzi di prova il giudice procede la loro assunzione. Questa è un'altra differenza fondamentale tra rito sommario e rito semplificato. Nel rito sommario il giudice, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzioni più rilevanti in relazione all'oggetto del provvedimento richiesto. Nel rito semplificato, invece, le prove sono assunte nei metodi previsti dal codice civile e dal codice di procedura civile ed hanno efficacia prevista dalle norme che disciplinano il rito ordinario. La differenza fondamentale fra il procedimento sommario e quello semplificato sta nella fase decisoria e nel regime delle impugnazioni. Il procedimento semplificato ha una regolamentazione della fase decisoria e delle impugnazioni identiche a quella del rito ordinario. 14) L’ISTRUZIONE PROBATORIA L’attività istruttoria serve per provare i fatti storici allegati che siano controversi. L’attività istruttoria ha quindi luogo se le parti : - non danno, implicitamente o esplicitamente, una comune versione dei fatti storici allegati, - oppure se si tratta di diritti indisponibili, - o infine se la causa non è documentalmente istruita. E’ vero, infatti, che il documento è un mezzo di prova semplicemente presentato dalla parte al giudice dunque per acquisirla non c’è bisogno di svolgere un’attività istruttoria particolare. Bisogna pertanto operare una prima distinzione tra le prove precostituite e le prove costituende. Le prove precostituite esistono già fuori dal processo, e sono acquisite al processo stesso con una semplice modalità: la loro produzione. Le prove costituende devono, invece, essere formate all’interno del processo. Se vi sono dei fatti allegati dalle parti occorre fornire al giudice gli strumenti per sapere se i fatti allegati sono effettivamente venuti ad esistenza. Lo strumento, per acquisire quel tanto di certezza che serve per affermare l’esistenza o l’inesistenza dei fatti storici allegati, è dato dalle prove. La prova, quindi , è quello strumento idoneo a convincere il giudice della verità di quanto affermato dalle parti nel processo. Gli strumenti probatori hanno la caratteristica della tipicità: i mezzi di prova sono solo quelli previsti dal legislatore. Non possono essere utilizzati mezzi di prova atipici cioè non previsti dal legislatore. I mezzi di prova si possono distinguere in 3 categorie: 1. Vi sono pertanto le prove dirette; 2. le prove indirette o rappresentative; 3. ed infine le prove critiche o presuntive o indiziarie. 1. Prove dirette sono quelle attraverso le quali il giudice percepisce direttamente il fatto allegato con i propri sensi. Nelle prove dirette, tra il fatto storico e la percezione del giudice non vi sono strumenti intermedi, ma il fatto storico è direttamente percepito dal giudice. I mezzi di prova diretti sono utilizzabili solo qualora il fatto da provare sia permanente e rilevante nella sua attuale esistenza. (Es: ispezione). 2. Prove indirette o rappresentative sono quelle in cui tra il fatto storico e la percezione del giudice c’è uno strumento rappresentativo: il giudice percepisce il fatto non immediatamente, ma attraverso una rappresentazione dello stesso che può essere contenuta in un oggetto (la prova documentale ) oppure può consistere nella narrazione di un soggetto. La prova rappresentativa pone il problema della sua attendibilità. La prova rappresentativa è l’unica utilizzabile per dimostrare che un certo fatto storico si è verificato nel passato. 3. La prova critica o indiziaria può avere ad oggetto alternativamente o fatti che integrano direttamente la fattispecie del diritto dedotto in giudizio, oppure fatti che non la integrano direttamente ma dai quali si può giungere, attraverso un ragionamento presuntivo (attraverso un’operazione mentale ) ad affermare l’esistenza o l’inesistenza dei fatti che integrano la fattispecie. Le presunzioni legali assolute, che ammettono prova contraria, si distinguono in 2 categorie: -presunzioni che ammettono solo certi tipi di prova -e presunzioni che possono essere combattute solo proponendo un’apposita domanda. LE PRESUNZIONI LEGALI SEMPLICI La presunzione legale semplice opera un’inversione dell’onere della prova. Esempio: un esempio di presunzione legale semplice è costituito dalla presunzione di possesso intermedio.la struttura della presunzione è la seguente: tizio prova di possedere nel 2020 e di aver posseduto nel 1992; si presume che abbia posseduto tra il 1992 e il 2020. Si tratta di una presunzione legale semplice, quindi ammissibile la prova contraria. È ammissibile qualunque prova volta dimostrare che tra il 1992 e il 2020 tizio non possedeva il bene. Le presunzioni legali semplici costituiscono uno dei meccanismi con cui il legislatore ripartisce il rischio della mancata prova. LE PRESUNZIONI SEMPLICI Le presunzioni semplici sono definite come le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Questo è l’elemento caratteristico della prova critica : - La presunzione è il ponte logico, che il giudice istituisce tra il fatto provato, ma di per sé irrilevante, e il fatto non provato , ma rilevante. Le prove presuntive o indiziarie non necessariamente hanno un’efficacia probatoria inferiore alle altre prove. L’efficacia della prova presuntiva sta nella forza dell’inferenza che lega il fatto noto a quello ignoto. Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Nelle presunzioni semplici, quindi, l’inferenza fra il fatto noto e quello ignoto è istituita dal giudice, sulla base di una regola che non è legale perché non è prevista dalla legge. L’inferenza, nelle presunzioni semplici, è invece rimessa alla scelta del giudice, che la trae dalla massima d’esperienza, dalle regole di valutazione che sono proprie di una certa società in un certo momento storico, e quindi anche del giudice non come esperto di diritto, ma come cittadino che vive in un certo tempo. Le presunzioni semplici devono essere gravi, precise e concordanti: con tale espressione il legislatore invita il giudice a stare attento alla scelta della regola di esperienza. LIMITI ALLA UTILIZZAZIONE DELLE PRESUNZIONI SEMPLICI Ci sono però dei limiti normativi alla utilizzazione delle presunzioni semplici: esse non possono essere usate nei casi in cui è esclusa la prova per testimoni. Limiti legali di ammissibilità si pongono per tutte le prove, tranne forse che per le prove dirette come l’ispezione, che non ha limiti di ammissibilità ma solo di rilevanza. L’iniziativa per l’acquisizione delle prove al processo può provenire dalle parti o dal giudice. La regola è che il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove acquisite al processo su iniziativa delle parti. L’eccezione sono i casi, previsti dalla legge, in cui il giudice può assumere prove anche di sua iniziativa. I poteri istruttori del giudice sembrerebbero l’eccezione rispetto alla regola. In realtà non c’è margine per applicare questa contrapposizione fra regola ed eccezione: i poteri istruttori d’ufficio sono tutti quanti già predeterminati dalla legge. Sono i mezzi di prova disponibili d’ufficio: 1. l’ispezione di cose e di persone; 2. la richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione; 3. la testimonianza de relato (quando un testimone, nella sua deposizione, indica un altro soggetto che è a conoscenza dei fatti di causa, il giudice può d’ufficio sentire come testimone questo soggetto); 4. l’esibizione delle scritture contabili dell’imprenditore; 5. ed infine il giuramento suppletorio. Oltre i mezzi di prova di cui sopra, il giudice istruttore può disporre di ufficio la prova testimoniale. L’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio deve avvenire con riferimento ai fatti allegati dalle parti. Il giudice può utilizzare i propri poteri istruttori per provare l’esistenza di fatti allegati dalle parti; non ha, dunque, poteri di allegazione d’ufficio. La parte ha, infatti, il potere di allegazione e il potere istruttorio; il giudice ha solo il potere istruttorio. Un ulteriore profilo di parte generale dell’istruzione probatoria riguarda il giudizio di ammissibilità e di rilevanza dei mezzi di prova, cui ciascun mezzo di prova è soggetto; nel caso dei mezzi di prova costituendi, il giudizio di ammissibilità e rilevanza precede l’assunzione della prova. AMMISSIBILITA’ DELLA PROVA Il giudizio di ammissibilità riguarda i limiti che l’ordinamento pone alla utilizzazione di determinati mezzi di prova. Tali limiti riguardano sia il fatto da provare sia lo strumento probatorio; alcuni mezzi istruttori ( confessione, giuramento) trovano, ad es., un limite nella natura disponibile del diritto cui il fatto da provare si riferisce, nel senso che essi sono utilizzabili solo laddove il diritto è disponibile; RILEVANZA DELLA PROVA Il giudizio di rilevanza si base sulla qualificazione giuridica del fatto che si vuole provare. Rilevante è quel fatto storico che integra un elemento della fattispecie del diritto fatto valere o in via diretta oppure in via indiretta, cioè come fatto base su cui svolgere un ragionamento presuntivo. Il giudizio di rilevanza viene effettuato sulla base della ricostruzione delle fattispecie; siccome la ricostruzione della fattispecie avviene in via definitiva soltanto al momento della decisione. Quando il giudizio di rilevanza è effettuato al momento della decisione della causa è chiaro che possibilità di discrepanze non ce ne sono; il problema nasce quando il giudizio di rilevanza è anticipato rispetto alla decisione, perché, allora, è necessariamente effettuato in via ipotetica. Rilevante non è mai il mezzo di prova, ma il fatto oggetto della prova. VALUTAZIONE DI AMMISSIBILITA’ E RILEVANZA Il giudizio di ammissibilità e rilevanza è effettuato in momenti diversi, a seconda che si tratti di prove precostituite o di prove costituende. Le prove precostituite sono soggette al giudizio di ammissibilità e rilevanza soltanto al momento della decisione. Le prove precostituite sono svincolate da qualunque giudizio preventivo di ammissibilità e rilevanza. Per le prove costituende, che devono essere “ costruite” nel processo, e quindi danno luogo a spendita di attività processuale notevole. Qui il giudizio di ammissibilità e rilevanza è preventivo rispetto all’acquisizione delle prove al processo, proprio per evitare un’inutile spendita di attività processuale. L’anticipazione della valutazione può portare ad un contrasto di opinioni perché non è detto che ciò che si ipotizza nella fase istruttoria corrisponda a ciò che si stabilirà in sede di decisione. Ovviamente nel contrasto tra le due valutazioni, secondo i principi generali, prevale la valutazione emessa nella fase decisoria. - Pertanto, se non è stata assunta una prova, che è stata erroneamente ritenuta inammissibile o irrilevante, in sede decisoria viene emessa un’ordinanza con cui si dispone l’assunzione della prova. - Se, viceversa, è stata assunta una prova erroneamente ritenuta ammissibile e rilevante, in sede decisoria la prova non è utilizzata. PRINCIPI GENERALI DELL’ASSUNZIONE PROBATORIA Vi sono alcune norme che si applicano in generale a tutti i mezzi di prova. Art. 202 c.pc.: con quest’ordinanza, il giudice fissa il tempo, il luogo e il modo dell’assunzione. Art. 206 c.p.c.: all’assunzione dei mezzi di prova, le parti possono assistere personalmente , cioè non solo per mezzo dei loro difensori. Art. 207 c.p.c. : dell’assunzione dei mezzi di prova deve farsi un processo verbale. La verbalizzazione è essenziale perché fissa con efficacia di prova legale l’attività compiuta. L’art. 208 c.p.c. : se non si presenta la parte, che aveva chiesto l’assunzione della prova e la controparte non chiede che si proceda ugualmente all’assunzione, il giudice dichiara la decadenza dal diritto a farla assumere. Ovviamente la norma non è applicabile nel caso di mezzi di prova ammessi d’ufficio , per i quali non c’è decadenza. Art. 209 c.p.c. : il giudice dichiara chiusa l’istruttoria quando ha assunto tutti i mezzi di prova, oppure quando ravvisa superflua, per i risultati già raggiunti, la prosecuzione dell’assunzione. Può darsi, cioè , che il giudice ammetta certe prove e disponga per la loro assunzione ; se, ad un certo punto dell’assunzione , il giudice si convince che ormai è raggiunta la prova del fatto e che quindi sarebbe superfluo proseguire nell’assunzione dei mezzi di prova, può dichiarare anticipatamente la chiusura dell’assunzione. Art. 203 – 204 c.p.c. : se i mezzi di prova devono assumersi fuori dalla circoscrizione del tribunale, si procede all’assunzione attraverso una prova delegata: il g.i. investe dell’assunzione della prova il tribunale del luogo dove la prova si deve assumere. Eccezionalmente è il g.i. che si reca sul luogo dove la prova deve essere assunta. 15) L’INTERROGATORIO LIBERO E LA CONSULENZA TECNICA L’interrogatorio libero e la consulenza tecnica sono mezzi istruttori in senso lato, senza essere propriamente mezzi di prova. L’interrogatorio libero ( o non formale ) è disciplinato dall’art. 117 c.p.c. ed è previsto come facoltativo. Ora il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’art. 117 c.p.c. Quindi le risposte delle parti, in sede di interrogatorio libero, non formano prova in senso pieno, ma solo argomenti di prova. Al contrario, le dichiarazioni delle parti, rese in sede di interrogatorio formale, hanno efficacia di prova, se i fatti dichiarati sono sfavorevoli al dichiarante; non hanno alcuna efficacia di prova, se i fatti dichiarati sono favorevoli al dichiarante. L’interrogatorio libero è espletato nella fase della trattazione e non nella fase dell’istruzione probatoria. Ha sempre una funzione di integrazione e mai sostitutiva degli elementi propri della trattazione della causa in quanto esso proviene dalla parte direttamente e non dal rappresentante tecnico. Le risultanze dell’interrogatorio libero non possono essere poste dal giudice direttamente a fondamento della decisione. Gli artt. 61-62-63-64 c.p.c. si occupano del consulente tecnico; gli artt. 191 e ss .c.p.c. si occupano della consulenza tecnica. Formano atti pubblici: il notaio, il segretario comunale in certe materie, il cancelliere che forma il verbale della causa o attesta che un certo giorno la sentenza è stata depositata in cancelleria, l'ufficiale giudiziario. Tali soggetti hanno come funzione quella di accertamento. Tutti gli altri soggetti non formano atti pubblici perché esercita una diversa funzione primaria. Occorre tenere presente che la corte di cassazione adottò una nozione ampia di pubblico ufficiale, e quindi di atto pubblico, che va molto al di fuori di quella sopra elencata. Per la giurisprudenza è pubblico ufficiale ogni soggetto munito di pubbliche funzioni, e con atti pubblici tutti gli accertamenti da lui effettuati nello svolgimento di tali funzioni. EFFICACIA L’efficacia dell’atto pubblico è disciplinata dall’art. 2700 c.c. L’atto pubblico fa “ piena prova”, cioè ha l’efficacia di una prova legale. Il giudice non può, sotto nessun profilo, ritenere non attendibile quello che ha attestato il pubblico ufficiale. Il giudice, che negasse attendibilità all’atto pubblico, violerebbe la norma che gli impone una regola di comportamento, che in questo caso è di porre a fondamento della decisione i fatti risultanti dall’atto pubblico. L’atto pubblico fa piena prova circa : - < la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato> : il giudice non può porre in dubbio che il pubblico ufficiale abbia formato quel documento. Ciò non significa che il documento faccia piena prova anche della qualità di pubblico ufficiale del soggetto che lo ha formato. Affinché la provenienza del documento dal soggetto che lo ha rogato sia coperta dalla pubblica fede, occorre che quel soggetto sia effettivamente pubblico ufficiale. - < di tutto ciò che è avvenuto di fronte al pubblico ufficiale>. L’atto pubblico fa pubblica fede del c.d. estrinseco, cioè di tutto ciò che il pubblico ufficiale può attestare che sia avvenuto in sua presenza, o che lui ha compiuto. In presenza del pubblico ufficiale possono essere anche rese dichiarazioni delle parti, cioè il c.d. intrinseco. L’atto pubblico accerta in maniera piena che il soggetto ha reso la dichiarazione , ma la verità di ciò che è stato dichiarato non è affatto coperta da pubblica fede. Il pubblico ufficiale non può attestare che sia vero quello che le parti gli hanno dichiarato, perché non può entrare nella mente di chi fa la dichiarazione. L’intrinseco della dichiarazione resa di fronte al pubblico ufficiale di per sé non è affatto coperto da pubblica fede. ES: se Tizio va dal notaio e dichiara di aver restituito a Caio la somma che Caio gli aveva dato a mutuo rimane incontrovertibile che tizio ha reso la dichiarazione ma la dichiarazione ha ad oggetto fatti favorevoli al dichiarante dunque non ha valore probatorio. L’atto pubblico serve soltanto a dimostrare che la dichiarazione è avvenuta. Se un contraente vuole contrastare le risultanze dell’atto pubblico, sostenendo, ad es., di non aver mai reso la dichiarazione in esso attestata, deve utilizzare la querela di falso, perché l’affermazione contrasta con quanto attestato dal notaio. Se un contraente vuole contrastare le risultanze dell’atto pubblico sostenendo, ad es., che il contratto è simulato, non serve la querela di falso, perché l’affermazione non contrasta con quanto attestato dal notaio, non urta con la pubblica fede dell’atto . Quindi, per contestare l’intrinseco, occorre utilizzare gli strumenti normali che l’ordinamento prevede. Per contrastare l’estrinseco invece si deve utilizzare la querela di falso, che serve appunto per contrastare ciò che dall’atto pubblico è attestato con efficacia di prova legale. FALSO IDEOLOGICO E FALSO MATERIALE Al documento si possono imputare 2 tipi di falsità: 1. il falso ideologico 2. ed il falso materiale. Si ha falso ideologico quando si afferma che il pubblico ufficiale ha attestato fatti diversi da quelli che sono avvenuti in sua presenza. (esempio: una parte afferma che il prezzo dichiarato di fronte al notaio e a 100.000 € ed il notaio ha scritto che il prezzo dichiarato era 10.000 €). Si ha falso materiale quando l’atto nasce ab origine genuino, mentre successivamente ne viene alterato il testo. Del falso ideologico è responsabile necessariamente il pubblico ufficiale, mentre nel falso materiale l’alterazione materiale può provenire anche da soggetti diversi. QUERELA DI FALSO IN VIA PRINCIPALE La querela di falso si propone in via principale oppure in via incidentale. Si ha querela di falso in via principale quando il processo ha ad oggetto immediato ed esclusivo la falsità dell’atto. Non c’è bisogno di attendere che il documento sia usato per poter proporre querela di falso: essa può essere proposta anche in via preventiva. Se io so che c’è un atto pubblico falso che mi riguarda, per poter proporre querela non c’è bisogno che attenda che qualcuno lo usi contro di me, ma posso prendere l’iniziativa e chiederne la dichiarazione di falsità in via principale. QUERELA DI FALSO IN VIA INCIDENTALE Si ha querela di falso in via incidentale quando l’atto è usato come prova in un processo avente un diverso oggetto, e colui, contro il quale è usato come prova, ne afferma la falsità. La proposizione della querela di falso è uno di quegli atti che sono riservati alla parte, e che il procuratore non può compiere, a meno che non abbia un mandato speciale con il quale gli si è conferito il potere di proporre la querela di falso. Proposta la querela di falso in via incidentale, il giudice deve interpellare la parte che ha prodotto il documento e chiederle se vuole mantenerne la produzione oppure lo vuole ritirare. Se la parte decide di ritirarlo, perché magari pensa di raggiungere ugualmente la prova di quel fatto in altro modo e non vuole esser invischiata in un processo di falso, allora il documento non è più utilizzabile in quel processo. Chi produce il documento può avere interesse a ritiralo, proprio per evitare la sospensione del processo, nel quale il documento è stato prodotto. Se la parte non lo ritira, allora il giudice deve valutarne la rilevanza: è questo l’unico caso in cui la prova documentale è soggetta ad una valutazione preventiva di rilevanza. La rilevanza si determina sulla base del fatto rappresentato nel documento : - se il giudice ritiene che il fatto rappresentato nell’atto è rilevante, perché integra direttamente o indirettamente un elemento della fattispecie del diritto dedotto in giudizio, ammette la proposizione della querela di falso. - Se il giudice, invece, ritiene che il fatto, rappresentato nel documento, non integri né direttamente né indirettamente la fattispecie del diritto dedotto in giudizio, non ammette la proposizione della querela di falso. Se il giudice che ammette la querela di falso è un giudice di pace o una corte di appello, occorre che la causa di falso sia riassunta di fronte al tribunale e ciò comporta la sospensione necessaria del processo originario. Se, invece, il processo pende di fronte al tribunale, allora il g.i. può istruire solo il processo di falso e sospendere l’istruzione della causa originaria; oppure istruire sia la causa originaria sia la causa di falso, e rimettere in decisione ambedue. Si ha così una sentenza con due capi : uno sulla querela di falso e l’altro sulla domanda originaria. 18) LA SCRITTURA PRIVATA La scrittura privata è un documento cioè un oggetto che contiene dei segni grafici enuncianti manifestazioni di volontà o di scienza e si distingue dall’atto pubblico perché non è formata da un pubblico ufficiale, ma è, appunto, un documento formato “ privatamente”. Il meccanismo tradizionale con cui un soggetto fa propria una dichiarazione scritta è la sottoscrizione. Le dichiarazioni contenute nella scrittura privata sono imputabili non a colui che l’ha redatta, ma a colui che l’ha sottoscritta. (chiunque può sottoscrivere il documento sotto falso nome). I meccanismi per accertare la genuinità della sottoscrizione sono tre: 1. il riconoscimento, 2. l’autenticazione 3. e la verificazione della sottoscrizione. Il riconoscimento può essere espresso e tacito. E’ espresso quando la parte dichiara espressamente di riconoscere la propria sottoscrizione. Si impone a colui, cui si vogliono imputare le dichiarazioni contenute in un documento che appare da lui sottoscritto, di attivarsi per disconoscere la propria sottoscrizione. Egli deve negare formalmente, quindi esplicitamente, che la sottoscrizione provenga da lui. Se il disconoscimento non avviene si ha il riconoscimento tacito della sottoscrizione. Si stabilisce che il disconoscimento deve essere effettuato nella prima difesa successiva all’udienza in cui è prodotta la scrittura: quindi nel primo momento utile successivo a quello in cui la parte viene a conoscenza che la scrittura è stata prodotta. Inoltre la scrittura si ha per tacitamente riconosciuta anche se la parte è contumace, salvi però 2 correttivi. Il primo: - il contumace che, in qualunque momento, si costituisce può disconoscere la scrittura privata. il contumace può sempre disconoscerla, anche se si costituisce all’udienza di precisazione delle conclusioni. - Il secondo correttivo è stato introdotto dalla Corte costituzionale: perché la scrittura privata possa essere utilizzata, occorre che il contumace abbia avuto notizia della sua produzione. Se il contumace resta tale, il giudice può porre la scrittura a fondamento della sua decisione. In ogni caso, se il contumace si costituisce in un momento successivo, può sempre disconoscerla. AUTENTICAZIONE L’autenticazione della sottoscrizione si ha quando essa è apposta in presenza di un pubblico ufficiale, il quale ha previamente identificato il soggetto che sottoscrive. Il pubblico ufficiale attesta che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza da un soggetto della cui identità egli è certo; ciò dà certezza della sottoscrizione quindi il contenuto della dichiarazione è imputabile al soggetto che appare averla sottoscritta. La scrittura privata, sebbene autenticata, rimane tale, e quindi è soggetta al regime delle scritture private e non degli atti pubblici. L’autenticazione, invece, costituisce un atto pubblico: quindi, se l’interessato vuole sostenere di non aver sottoscritto l’atto, deve usare la querela di falso. VERIFICAZIONE Il giudizio di verificazione è il terzo meccanismo che dà certezza della genuità della sottoscrizione. 19) LE ALTRE PROVE DOCUMENTALI Il telegramma ha l’efficacia di una scrittura privata se il testo originale è sottoscritto dal mittente, oppure se è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo anche senza sottoscriverlo. La sottoscrizione può essere autenticata dal notaio oppure può essere accertata dall’addetto alla posta; Nel primo caso , per contrastare l’autenticazione, si rende necessaria la querela di falso; nel secondo caso, invece, è ammessa qualunque prova contraria. Il telex e il fax lasciano l’incertezza sul fatto di essere stati spediti proprio da un certo soggetto e ricevuti da un altro. Questi mezzi danno infatti certezza degli apparecchi trasmittente e ricevente, ma non della persona che è agli apparecchi. Le scritture contabili fanno prova contro l’imprenditore: non però come prova legale, ma come prova che può essere contrastata con qualunque altra prova contraria. Il contenuto delle scritture contabili non può essere scisso: la scrittura contabile deve essere presa nella sua completezza e quindi complessivamente i risultati della scrittura stessa. Nei rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa, le scritture contabili possono far prova anche a favore dell’imprenditore che le ha tenute quando siano fatte valere contro un altro imprenditore ugualmente obbligato a tenere le scritture contabili. La norma vuole evidentemente incentivare la regolare tenuta delle scritture contabili. La norma sfavorisce quindi l’imprenditore che non tiene regolarmente le proprie scritture contabili. Sono documenti anche le riproduzioni meccaniche : per documento si intende qualunque oggetto idoneo a registrarne l’accadimento di un fatto storico. Le riproduzioni meccaniche sono le riproduzioni fotografiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche, oggi tutto quello che la tecnica offre per la rappresentazione meccanica dei fatti. Anche le rappresentazioni meccaniche, come tutti i documenti, possono contenere: - o la rappresentazione immediata del fatto direttamente o indirettamente rilevante, - oppure la sua narrazione. Quando la rappresentazione meccanica documenta un’altra rappresentazione, per determinare l’efficacia probatoria della rappresentazione meccanica, occorre stabilire l’efficacia probatoria di quanto in essa rappresentato. Le rappresentazioni meccaniche hanno efficacia di prova legale, quindi di piena prova, dei fatti e delle cose rappresentate, a condizione che colui, contro il quale sono prodotte, non ne disconosca la conformità ai fatti e alle cose medesime, cioè non disconosca la fedeltà della rappresentazione meccanica, sostenendone, ad es., la sua alterazione. Di fronte al silenzio della parte contro cui tali rappresentazioni sono prodotte, il giudice è tenuto a qualificarle come non artefatte. Se c’è invece una contestazione sulla loro genuinità ove possibile occorre procedere ad un’indagine circa l’attendibilità di queste prove. - Se si giunge alla conclusione che non sono state artefatte, esse acquistano il valore di prova legale. - in caso contrario, non hanno alcuna efficacia probatoria. La rappresentazione di atti o fatti può essere anche informatica: è documento qualunque oggetto che ha capacità rappresentativa, e ciò accade anche per i documenti elettronici o informatici. La riconducibilità di un documento elettronico ad un certo soggetto ricorda uno strumento probatorio molto usato in tempi antichi: sigillo. COPIE DI ATTI Per terminare la regolamentazione statica delle prove documentali ci sono le copie degli atti . Le copie di atti pubblici hanno la stessa efficacia dell’originale. Ciò che entra in circolazione è sempre una copia, che è rilasciata e autenticata dal soggetto che custodisce l’originale. Sono quindi il notaio, il cancelliere , il funzionario dell’archivio notarile, etc., a rilasciare una copia gdell’atto, e ad attestarne la conformità all’originale da lui custodito. Stante l’impossibilità di circolazione dell’originale dell’atto pubblico , è evidente la necessità di un meccanismo per far si che la copia dell’atto pubblico possa circolare con la stessa efficacia probatoria dell’originale, altrimenti non sarebbe possibile utilizzare l’atto pubblico come prova. FOTOCOPIE Le fotocopie hanno la stessa efficacia delle autentiche se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente oppure non è espressamente disconosciuta. ES: Perciò, se la parte produce in giudizio la fotocopia di un documento, e la controparte non ne disconosce espressamente la conformità all’originale, la fotocopia del documento si presume rappresentare correttamente l’atto fotocopiato, ed ha quindi la stessa efficacia. Il problema nasce nell’ipotesi cui vi sia un espresso disconoscimento. Il disconoscimento deve essere effettuato nella prima difesa successiva al momento in cui la fotocopia è stata prodotta in giudizio. Il disconoscimento fa sì che l’atto perda la propria efficacia probatoria. Dopo l’espresso disconoscimento: - o quegli stessi fatti si provano con altri mezzi di prova; - oppure si produce l’originale da cui quella fotocopia è stata tratta . Secondo la giurisprudenza, il giudice può accertare la conformità della fotocopia all’originale attraverso altri mezzi di prova, ed anche mediante le presunzioni. La produzione di fotocopie in giudizio è usuale nella prassi. Anche qui l’incertezza sulla genuità della fotocopia comporta, finché tale incertezza perdura, la inutilizzabilità della fotocopia stessa come prova. Quanto c’è, ad opera della controparte, la contestazione della genuità , bisogna, per potere usare quella prova, accertarne la genuinità. In mancanza di tale accertamento la prova non ha alcun valore. Lo stesso accade per le fotocopie. ATTI DI RICOGNIZIONE Ultimo istituto da esaminare, in tema di prova documentale, sono gli atti di ricognizione e di rinnovazione. Gli atti di ricognizione sono previsti in relazione a rapporti di durata molto lunga nel tempo ed in pratica hanno lo scopo di rinnovare il titolo originario. Gli atti di ricognizione espressamente previsti dal nostro ordinamento sono 2. In tema di enfiteusi si stabilisce: L’enfiteusi può durare molto a lungo, e ogni 20 anni (tempo corrispondente a quello necessario per l’usucapione) è prevista la possibilità di riconfermare il titolo del rapporto. Vi è l’ipotesi, in tema di rendita perpetua, che stabilisce: un anno prima della scadenza (qui il termine corrisponde alla prescrizione ordinaria) si può chiedere la rinnovazione del documento. L’atto di ricognizione accerta in maniera piena ( con efficacia di prova legale ) il contenuto dell’atto originale. E’ possibile distruggere tale efficacia solo producendo l’originale e constatando che vi è stato un errore nella ricognizione. L'atto di ricognizione (la cui funzione è quella di rinnovare il titolo originario senza mutarlo), quando contrasta l’originale vede prevalere l’originale. Tutto ciò con una regola opposta a quella della consecuzione dei contratti, secondo la quale il contratto successivo nel tempo ( avendo contenuto diverso ) modifica quello anteriore. Solo in mancanza di produzione dell’atto precedente si ritiene che quello che è stato accertato successivamente sia conforme a quello che era il contenuto originario dell’atto. Come le prove documentali sono completamente acquisite al processo, in che modo sono utilizzate dal giudice per la decisione? PRODUZIONE Il meccanismo più semplice e ovvio di acquisizione della prova documentale è la sua produzione, che si ha inserendo il documento nel proprio fascicolo e dandone atto o nel verbale di udienza ( se il documento è prodotto in corso di causa ), o negli atti introduttivi o in altri atti scritti eventualmente formati nel corso del processo . Una volta che il documento è stato prodotto, esso è definitivamente acquisito al processo, e la parte che lo ha prodotto non lo può più ritirare senza il consenso di tutte le altre parti. Ciò costituisce una delle svariate manifestazioni di quell’importante principio, che è il principio dell’acquisizione. In applicazione di tale principio, una volta acquisito un documento, tale documento può essere utilizzato per provare, nei limiti della sua disciplina, qualsiasi fatto. Può essere quindi utilizzato sia a favore che contro colui che ha prodotto il documento. ESIBIZIONE La produzione del documento postula che chi lo vuole produrre abbia la materiale disponibilità della cosa che ha la capacità rappresentativa ( ossia il documento) in modo da poterla depositare agli atti di causa. Potrebbe essere per che questa cosa sia nel possesso o della controparte o di un terzo. L’ordinamento prevede, quindi, un meccanismo , per far che anche i documenti in possesso della controparte o dei terzi possano essere acquisiti al processo. Il meccanismo è l’esibizione, che si contrappone alla produzione perché quest’ultima è attività della parte che vuole usare quel documento; l’esibizione è invece l’attività di un altro soggetto che può essere la controparte oppure un terzo. Naturalmente l’esibizione può essere disposta solo se la parte che la richiede non ha la possibilità di acquisire il documento e di produrlo in causa. Si prevede che il giudice possa ordinare, su istanza di parte, all’altra parte o ad un terzo, di esibire in giudizio il documento. L’esibizione postula quindi la richiesta di chi ha l’interesse all’acquisizione del documento, e un ordine del giudice. L’esibizione è ordinata se essa può compiersi senza grave pregiudizio per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti nel codice di procedura penale. Affinché possa essere ottenuto l’ordine del giudice occorre, ove ciò sia contestato, che la parte istante dimostri il possesso della cosa da parte di colui a cui sarà rivolto l’ordine di esibizione; se questi nega di possedere la cosa da esibire, occorre che l’istante dimostri che invece la possiede; altrimenti l’esibizione non può essere ordinata. Il giudice può considerare come provati i fatti che si volevano dimostrare attraverso quel documento. Se invece rifiuta il terzo ad esso può essere irrogata una sanzione pecuniaria. Se il giudice si convince che l’ordine di esibizione non doveva essere dato, perché l’opposizione del terzo è fondata, revoca l’ordinanza di esibizione, che è un’ordinanza istruttoria come tutte le altre, e perciò modificabile e revocabile dal giudice che l’ha emessa. patti, senza che di essi sia stata redatta la documentazione. Bisogna calare il patto aggiunto o contrario nel modo di essere di quel rapporto. Al di là della valutazione di verosimiglianza, la prova testimoniale è sempre ammessa in 3 ipotesi : 1) quando vi è un principio di prova per iscritto. 2) quando il contraente era nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta. 3) Quando il contraente ha, senza sua colpa, perduto il documento che gli forniva la prova. FORMA SCRITTA AD PROBATIONEM L’art. 2725 c.c. disciplina la prova testimoniale dei contratti che esigono la forma scritta. Nei contratti con forma scritta ad substantiam, la forma scritta è un requisito di efficacia del contratto; se non ha tale forma, il contratto è nullo. I contratti con forma scritta ad probationem devono essere provati per iscritto, però sono validi ed efficaci anche se stipulati oralmente. In concreto, se il contratto ha la forma scritta ad probationem non è possibile usare la prova testimoniale, ma è possibile usare altre prove, come , ad es., la confessione o il giuramento; ciò che invece non è possibile per il contratto che ha forma scritta ad substantiam. FORMA SCRITTA AD SUBSTANTIAM Invece i contratti con forma scritta a substantiam hanno una disciplina diversa. Per essi, la forma è requisito di validità e di efficacia del contratto; occorre dimostrare che è stato stipulato in forma scritta. Vi è la possibilità di usare la prova testimoniale in relazione ad un contratto con forma solenne solo quando la parte dimostra di avere perduto il documento senza sua colpa. Per la prova testimoniale dei contratti aventi forma scritta, ad substantiam o ad probationem vale la medesima ratio ma la disciplina è più rigida , perché la parte non soltanto deve predisporre la prova scritta ma la deve anche custodire; se perde colpevolmente la prova scritta, la prova testimoniale non è ammissibile infatti nel momento in cui tale prova viene meno per colpa delle parti, essa non può essere sostituita dalla prova testimoniale. Vi è quindi, oltre all’onere di predisporre, anche l’onere di conservare la documentazione, e soltanto quando tale onere è stato adempiuto, e pur tuttavia il documento si è perso, è ammessa la prova testimoniale, prova avente ad oggetto che il contratto è nato con la forma scritta e che il documento si è perso successivamente senza colpa. DEDUZIONE DELLA PROVA TESTIMONIALE La prova testimoniale deve essere dedotta mediante l’indicazione delle persone da interrogare e dei fatti formulati per capitoli di prova. Non tutti possono deporre come testimoni. Fermo rimanendo che le parti non possono testimoniare ( per la definizione stessa di prova testimoniale) anche altri soggetti, diversi dalle parti non possono rendere testimonianza, secondo quando dispongono gli artt. 246-249 c.p.c. 1. L’art. 246 c.p.c. esclude coloro che hanno un interesse in causa che potrebbe legittimare la loro partecipazione al processo : coloro rispetto ai quali si sarebbe potuto realizzare il simultaneus processus. 2. L’art. 247 c.p.c. escludeva la testimonianza dei parenti e affini in quanto naturalmente non imparziali e portati a favorire la parte a cui sono legati. La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della norma, nella parte in cui pone un divieto assoluto alla testimonianza dei parenti ed affini. Pertanto, il coniuge, i parenti, gli affini , etc., possono essere sentiti dal giudice come testimoni, salva la valutazione della loro attendibilità, valutazione in relazione alla quale il giudice terrà conto che, per regola di comune esperienza ( le regole di comune esperienza costituiscono i criteri di valutazione della prova libera ), il testimone legato da parentela affinità ad una delle parti è portato a presentare le cose in maniera non imparziale. 3. La stessa dichiarazione di incostituzionalità ha subito l’art. 248 c.p.c. il quale affermava che i minori degli anni 14 possono essere sentiti solo quando la loro audizione è resa necessaria da particolari circostanze. Essi non prestano giuramento. Il testimone infraquattordicenne è inattendibile e quindi non deve essere sentito. Tale valutazione, però, secondo la Corte, deve essere fatta dal giudice volta per volta. 4. Vi sono poi dei soggetti che hanno facoltà di non testimoniare ( art. 249 c.p.c.) : sono questi i testimoni tenuti al segreto. ( segreto professionale, d’ufficio , di stato etc). INTIMAZIONE DEI TESTIMONI La presenza del testimone all’udienza fissata per l’espletamento della prova testimoniale si verifica o perché il testimone si presenta spontaneamente o perché egli viene invitato a presenziare a quella udienza. A tal fine, la parte predispone l’intimazione prevista dall’art. 250 c.p.c. , e l’ufficiale giudiziario notifica, ai testimoni ammessi dal giudice , un invito a comparire all’udienza. L’assunzione dei testimoni avviene previo loro giuramento, dopodiché il testimone dichiara le proprie generalità e i propri rapporti con le parti; quindi viene interrogato sui capitoli di prova che il giudice ha ammesso. Il giudice e le parti, possono chiedere al testimone le informazioni relative agli elementi che valgono a valutarne l’attendibilità e se alcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il g.i. può disporre d’ufficio che esse siano chiamate a deporre . E’ questo un altro dei poteri istruttori del giudice: si tratta del c.d. teste di riferimento. Ove, poi, si tratti di un processo a decisione monocratica, si consente al giudice istruttore di disporre d’ufficio la prova testimoniale anche quando la notizia dell’esistenza di un terzo a conoscenza dei fatti di causa provenga non da un altro testimone ma dalle allegazioni effettuate dalle parti stesse. 21) LA CONFESSIONE L’art. 2730 c.c. definisce la confessione come la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. E’ necessario individuare il criterio per valutare quando un fatto è sfavorevole e quando non lo è , perché solo nel primo caso si ha una confessione. In realtà i fatti, di per sé , non sono né favorevoli né sfavorevoli : i fatti storici sono un elemento neutro. Per determinare la portata confessoria di una dichiarazione, bisogna collocare il fatto dichiarato nella struttura della fattispecie del diritto dedotto nel processo. Se colui, che fa valere il diritto in giudizio, dichiara l’esistenza di un fatto costitutivo o l’inesistenza di un’eccezione, la dichiarazione è a lui favorevole, per cui non integra una confessione. Colui che fa valere il diritto in giudizio, al contrario, rende una confessione se dichiara l’inesistenza di un fatto costitutivo o l’esistenza di un’eccezione. La confessione è una prova, per la quale si rendono necessari i requisiti della disponibilità soggettiva e oggettiva. Per confessare è necessaria la capacità soggettiva di disposizione del diritto a cui i fatti confessati si riferiscono. Esempio: il minore non può mai confessare perché non ho la disponibilità dei suoi diritti. Oltre alla capacità soggettiva, è necessaria anche la disponibilità oggettiva del diritto: i fatti confessati si devono riferire a diritti oggettivamente disponibili. Diritti indisponibili sono quelli rispetto ai quali, sul piano del diritto sostanziale, la volontà negoziale delle parti non ha rilevanza. La dichiarazione confessoria, ove manchi la disponibilità soggettiva e oggettiva non ha efficacia probatoria di alcun genere perché la mancanza di disponibilità mina la possibilità di attribuire una qualunque efficacia probatoria alla dichiarazione. EFFICACIA L’efficacia probatoria della confessione trova la sua radice nella regola di comune esperienza, secondo la quale chi dichiara fatti a se sfavorevoli dichiara la verità. La confessione ha efficacia di piena prova il che significa che il giudice NON potrà mettere in dubbio l’attendibilità , e quindi la verità di quanto confessato. Vi sono però dei casi in cui la confessione, eccezionalmente, non ha efficacia di prova legale, ma di prova liberamente valutabile. 1. Questo avviene quando si presuppone che vi siano una pluralità di parti necessarie e che alcuni soltanto dei litisconsorti rendano la confessione. In questo caso, per la natura stessa del litisconsorzio necessario, che impone una decisione unitaria della controversia è evidente che il giudice non può né considerare prova legale la confessione resa da alcuno soltanto dei litisconsorti ( perché ciò pregiudicherebbe la posizione degli altri, i quali si vedrebbero vincolati ad un atto dispositivo che non hanno compiuto), ma neppure considerarla inesistente ( perché ciò toglierebbe efficacia ad una dichiarazione confessoria pienamente valida, in quanto rispetto ad essa sussistono i prescritti presupposti di disponibilità oggettiva e soggettiva ). La confessione è, quindi, liberamente valutabile. 2. La stessa esigenza di unitarietà della decisione si presenta anche per il litisconsorzio unitario o quasi necessario. Quindi, anche in queste ipotesi la confessione è liberamente valutabile dal giudice. Nel litisconsorzio facoltativo semplice, invece, la confessione fa piena prova nell’ambito del rapporto che fa capo al soggetto che ha reso la confessione; non ha invece efficacia probatoria sui diritti paralleli. In questo caso la confessione ha efficacia di prova legale limitatamente ad un diritto, e nessuna efficacia rispetto agli altri diritti cumulativamente trattati insieme a quello cui la confessione si riferisce. Nel litisconsorzio facoltativo, le cause sono abbinate e parallele, quindi è ben possibile che l’una abbia una decisione diversa dall’altra. Si verifica, così, un’eccezione al principio di acquisizione. DICHIARAZIONE COMPLESSA La confessione può essere liberamente valutata anche nel caso della dichiarazione complessa. La dichiarazione complessa si ha quando colui, che dichiara fatti a sé sfavorevoli, aggiunge anche la dichiarazioni di fatti a sé favorevoli. Si chiama complessa perché è una dichiarazione mista di fatti sfavorevoli e di fatti favorevoli. Il nostro ordinamento adotta il criterio dell’inscindibilità della dichiarazione. L’efficacia della dichiarazione complessa dipende dal comportamento della controparte. - Se la controparte contesta la verità delle circostanze aggiunte, cioè dei fatti favorevoli al confidente, tutta la dichiarazione diventa prova liberamente valutabile. - Se la controparte non contesta i fatti aggiunti favorevoli, la dichiarazione complessa ha efficacia di prova legale nella sua globalità. (fa < piena prova nella sua integrità> sia per i fatti sfavorevoli che per quelli favorevoli). CONFESSIONE RESA A UN TERZO Un’altra ipotesi di confessione liberamente valutabile è prevista relativamente alla confessione stragiudiziale. Si stabilisce che se la confessione è fatta ad un terzo, o se è contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice. I limiti naturali di ammissibilità del giuramento sono la disponibilità soggettiva e la disponibilità oggettiva. Nulla da aggiungere a quanto detto per la confessione in punto di disponibilità oggettiva e soggettiva. Bisogna fare una precisazione: La confessione è atto unilaterale e quindi la capacità soggettiva si riferisce al soggetto che confessa. Per il giuramento invece il discorso è diverso, perché il giuramento è costituito da una fattispecie complessa, composta dal deferimento e dalla prestazione. Ci dobbiamo quindi chiedere in capo a chi deve sussistere la disponibilità soggettiva. Quindi se le condizioni debbono sussistere in capo a chi deferisce il giuramento o in capo a chi è chiamato a prestarlo. Ora, l’atto dispositivo non è la prestazione ma il deferimento. Quindi capace di disporre deve essere colui che deferisce il giuramento e non chi lo presta (chi deferisce compie l’atto di disposizione del diritto, chi giura fa una pura e semplice dichiarazione di scienza a cui è costretto in virtù del deferimento operato dalla controparte). FATTO ILLECITO Un ulteriore limite riguarda l’impossibilità di deferire il giuramento su un fatto illecito. Il legislatore impedisce il giuramento su un fatto illecito in quanto vuole evitare che la parte, a cui il giuramento è deferito, si trovi di fronte alla seguente alternativa : - giurare, e quindi dichiarare l’esistenza di un fatto tale che possa sottoporla a procedimento penale oppure anche esporla al discredito sociale - oppure non giurare e perdere la causa. (Quindi l’espressione < fatto illecito> va ristretta al comportamento penalmente rilevante o socialmente disdicevole). CONTRATTO CON FORMA SCRITTA Si prevede che il giuramento non possa essere deferito per provare l’esistenza di un contratto con forma scritta ad substantiam. Inoltre, qui ritroviamo la differenza fondamentale fra i contratti con forma scritta ad substantiam e contratti con forma scritta ad probationem. La differenza non è riscontrabile nella disciplina della prova testimoniale, in relazione alla quale tutti e due i tipi di contratti contrano uguali limiti, ma si riscontra in relazione al giuramento, perché è possibile deferire il giuramento sulla stipulazione di un contratto per il quale è richiesta la forma scritta ad probationem e non anche per il contratto con forma scritta ad substantiam. Il giuramento NON è utilizzabile per smentire le risultante dell’estrinseco di un atto pubblico, cioè quelle risultanze che sono coperte da pubblica fede. Per smentire tali risultanze l’unico mezzo possibile è la querela di falso. FALSO GIURAMENTO L’eventuale accertamento della falsità del giuramento non può essere causa di revocazione della sentenza. In caso di falsità del giuramento, si può quindi chiedere non la revocazione della sentenza ma il risarcimento dei danni. Chi si trova a rispondere al giuramento non può giurare quello che vuole, perché c’è sempre la possibilità che si riesca a dimostrare, in sede penale , che ha dichiarato il falso e che quindi egli sia passibile non soltanto di sanzioni penali, ma anche del risarcimento danni. GIURAMENTO DE VERITATE E DE SCIENTIA Il giuramento deve essere deferito su un fatto proprio della parte che deve giurare o sulla conoscenza che essa ha di un fatto altrui. La distinzione è quindi fra il giuramento c.d. de veritate e il giuramento c.d. de scientia. Il giuramento de veritate è quello che ha ad oggetto il fatto proprio; il giuramento de scientia è quello che ha oggetto il fatto altrui di cui il giurante ha conoscenza , ma che non integra un suo comportamento. Nel giuramento de veritate se la parte, a cui è deferito il giuramento, dichiara di non sapere o di non ricordare, la dichiarazione si intende equivalente al rifiuto di prestare il giuramento, ed essa rimane soccombente. Nel giuramento de scientita la dichiarazione di non sapere è ritenuta equivalente alla prestazione del giuramento, e la parte vince la causa. Occorre distinguere a seconda che il giuramento di ignorare sia stato prestato in relazione: - ad un fatto che è stato allegato da colui che deferisce il giuramento, - oppure da colui che si trova a giurare. Nel primo caso la transazione viene allegata dal convenuto, che non riesce a provarla e deferisce il giuramento de scientia all’attore, il quale può rispondere non so, lo ignoro; ciò correttamente viene ritenuto un giuramento a lui favorevole, perché all’attore può benissimo non risultare che quella transazione, la cui esistenza è affermata solo dal convenuto, sia stata stipulata dal suo dante causa. Però il giuramento può essere ammesso anche quando il fatto è già stato provato e la parte contraria non ho prove sufficienti per smontare l'accertamento. La controparte visto che allo stato la causa è persa può deferire il giuramento a colui che ha allegato e provato il fatto chiedendogli di giurare il fatto da lui allegato. In questo caso la dichiarazione di ignorare il fatto potrebbe essere ritenuta come un rifiuto di giudicare: la parte verrebbe ad affermare di ignorare un fatto che lei stessa aveva allegato nel processo. LITISCONSORZIO NECESSARIO E UNITARIO Si prevede che , in caso di litisconsorzio necessario, il giuramento prestato da uno soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzato dal giudice: è la stessa regola che vale per la confessione. Il giudice non può dichiarare vincitore chi ha giurato, e ritenere soccombente chi non ha giurato, perché la decisione è necessariamente unica e inscindibile per tutti. La stessa disciplina vale anche per le ipotesi di litisconsorzio quasi necessario o unitario. LITISCONSORZIO FACOLTATIVO In caso di pluralità di parti facoltativa, la prestazione del giuramento da parte di alcuni litisconsorti, e la mancata prestazione da parte di altri, porta ad una decisione disomogenea delle cause: le parti che hanno giurato vinceranno , quelle che non hanno giurato soccomberanno. E’ possibile perché sono tollerate decisioni difformi trattandosi di cause parallele che non postulano una decisione unitaria. IL DEFERIMENTO Il deferimento è uno di quegli atti che non rientra nei poteri del difensore legale. Il giuramento deve essere deferito: - direttamente dalla parte - o da un procuratore munito di mandato speciale Il giuramento deve essere deferito in articoli separati in modo chiaro e specifico e con una formulazione favorevole a colui che si trova a giurare. Il giuramento deve essere formulato in termini favorevoli a colui che giura. L’inverso vale per il convenuto . Colui che si vede deferito il giuramento, oltre che giurare e non giurare, può anche riferire il giuramento. Riferire il giuramento vuol dire rimandare a colui che ha deferito il giuramento, con la semplice inversione del verbo della formula. Se il giuramento è stato deferito sulla esistenza di un fatto, viene riferito sulla inesistenza di quello stesso fatto; se, invece , è stato deferito sulla inesistenza di un fatto, viene riferito sulla esistenza di quello stesso fatto. Il giuramento non può essere riferito se il fatto non è comune ad entrambe le parti. REVOCA Il giuramento può essere anche revocato. Colui che ha deferito , o riferito il giuramento può revocarlo finché la controparte non ha dichiarato di essere pronta a prestare giuramento. AMMISSIONE Il giuramento, come tutte le prove costituende, è soggetto alla valutazione di ammissibilità e rilevanza da parte del giudice. Se ci sono più fatti controversi, il giuramento su uno solo di essi non è decisorio: bisogna che il giuramento li coinvolga tutti. Ciò nell’ottica dell’interpretazione della giurisprudenza, che intende il giuramento come mezzo di decisione della lite; il discorso sarebbe diverso se si considerasse il giuramento come mezzo di prova. L’ammissibilità del giuramento è fatta dal g.i. se tra le parti non sorge controversia sull’ammissibilità o rilevanza del giuramento; altrimenti il g.i. rimette al collegio la decisione circa l’ammissione del giuramento. L’ordinanza che ammette il giuramento è notificata alla parte personalmente (quindi non al difensore ). ASSUNZIONE Nell’ordinanza ammissiva del giuramento vengono fissati il giorno e l’ora per raccoglierlo. Ciò avviene in udienza. La parte deve prestare giuramento personalmente e, dopo aver giurato, prosegue leggendo la formula predisposta dalla controparte. Se il giurante modifica la formula del giuramento, il giuramento si considera non prestato, e ne segue la sua soccombenza. Se la parte non si presenta per giustificato motivo, il giudice fissa una ulteriore udienza per il giuramento. GIURAMENTO SUPPLETTORIO Nel nostro ordinamento esiste anche il giuramento suppletorio che è deferito dal giudice. Il presupposto del giuramento suppletorio è la prova semipiena, che quindi presuppone che i fatti non siano pienamente provati, ma neppure sforniti di prova. La funzione del giuramento suppletorio è quella di evitare l’applicazione della regola sull’onere della prova, che impone di ritenere non provato un fatto che non è totalmente provato. Il giudice può sopperire a quella residua percentuale di prova mancante, deferendo il giuramento suppletorio a quella delle due parti che ha provato di più, cioè a favore della quale il fatto è provato in misura maggiore. Se dunque la parte, cui è deferito il giuramento, giura , la prova si considera raggiunta ; altrimenti si considera non raggiunta. La funzione di integrazione della prova, propria del giuramento suppletorio, fa capire perché esso può essere deferito solo in fase decisoria. Si tratta dunque di una delle ipotesi eccezionali, in cui il potere di ammettere una prova non è del g.i. , ma del collegio. Ciò dipende dalla funzione del giuramento; se esso serve ad integrare la prova non esaustiva di un fatto, la sussistenza di tale presupposto può essere accertata soltanto al momento della decisione; perciò soltanto il collegio. Una volta assunti i mezzi di prova (sia quelli richiesti dalle parti sia quelli disposti d’ufficio), l’istruzione probatoria è finita. Il g.i. , esaurita l’istruzione , rimette la causa in decisione. La fine della fase istruttoria fa scattare l’ultimo atto della trattazione della causa che è la precisazione delle conclusioni; poi ha luogo la fase decisoria. La decisione della causa di solito è attribuita allo stesso g.i. ; nelle ipotesi previste dall’art. 50-bis c.p.c. , invece la decisione spetta al collegio. Il passaggio al collegio determina il passaggio dalla fase di trattazione a quella decisoria. La cerniera fra la fase di trattazione e quella decisoria è costituita dalla precisazione delle conclusioni, prevista dall’art. 189 c.p.c. L’udienza di precisazione delle conclusioni è rilevante in più direzioni. Anzitutto, essa è importante per ciò che attiene ai limiti temporali di efficacia della sentenza. Soltanto i fatti successivi a tale udienza possono essere posti a fondamento di una nuova domanda. In secondo luogo, la precisazione delle conclusioni è rilevante per determinare la soccombenza delle parti, che serve essenzialmente per stabilire la legittimazione ad impugnare. Per sapere se una parte è soccombente e quindi è legittimata ad impugnare, occorre far riferimento alla tutela che ha chiesto al momento della precisazione delle conclusioni. Con la precisazione delle conclusioni, le parti NON possono effettuare nuove allegazioni , produrre nuovi documenti e chiedere l’assunzione di nuovi mezzi di prova, perché queste attività devono essere compiute, a pena di preclusione, nell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. (1 comparizione o trattazione della causa). Però le parti possono modificare le conclusioni quando ciò non comporta nuove allegazioni o nuove richieste istruttorie. Le parti devono riproporre al collegio tutte le questioni che il g.i. ha risolto con ordinanza, e che non debbano essere affrontate di ufficio in sede decisoria. Senza l’esplicita riproposizione al collegio, il collegio non può riprendere in esame le questioni che il g.i. ha risolto con ordinanza. Con l’udienza di precisazione delle conclusioni la causa passa alla fase di decisione. Il g.i. si spoglia del potere sulla causa, che viene acquisito dal collegio, di fronte al quale si svolgono le successive attività processuali. Tali ulteriori attività consistono, anzitutto, entro il termine perentorio di 60 giorni dalla precisazione delle conclusioni, nello scambio delle comparse conclusioni, che costituiscono l’illustrazione delle ragioni in fatto e in diritto di ciascuna delle parti. Le parti, dopo le conclusioni, possono scambiarsi anche le memorie di replica alle comparse conclusioni. Il collegio deve emettere la decisione entro 60 gg dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Nella fase di discussione si ha anzitutto la relazione che il g.i. che partecipa al collegio come relatore. Dopodiché i difensori delle parti discutono oralmente la causa di fronte al collegio. La fase di deliberazione della sentenza avviene nel segreto della camera di consiglio, e di essa non risulta neppure traccia nel processo verbale. La decisione avviene affrontando le questioni nell’ordine logico. Viene presa a maggioranza dei voti e una volta raggiunta , viene steso il dispositivo della sentenza che è in sostanza la statuizione che il collegio emette. A questo punto è necessario stendere la motivazione della sentenza. Normalmente, ma non necessariamente, è il g.i. che stende la motivazione della sentenza; può anche accadere che la motivazione sia affidata ad un altro componente il collegio. La sentenza completa di intestazione, motivazione e dispositivo è depositata telematicamente in cancelleria. Il cancelliere vi appone la data e la propria firma: questa pubblicazione della sentenza. La fase decisoria di fronte al g.i. è sostanzialmente analoga solo che ovviamente non vi è la camera di consiglio e la sentenza è sottoscritta esclusivamente dal giudice che l’ha pronunziata. Il g.i. può anche decidere la causa oralmente. La sentenza, pronunciata in forma orale è trascritta nel verbale del processo. 25) LE ORDINANZE EMESSE IN SEDE DI DECISIONE Se la decisione è monocratica i provvedimenti sono emessi dal g.i. il quale ha, nella cause a decisione monocratica, gli stessi poteri che ha il collegio in quelle a decisione collegiale. Anzitutto ci sono le ipotesi in cui il giudice pronuncia ordinanza senza pronunciare sentenza, in quanto provvede unicamente sull’istruttoria della causa. Si prevede che, con ordinanza del collegio, il collegio deve fissare l’udienza di fronte al g.i. per la prosecuzione del processo: cioè per l’assunzione del mezzo di prova che il collegio ha ammesso con la sua ordinanza istruttoria. L’ordinanza del collegio ovviamente non è modificabile né revocabile da parte del g.i. perché le ordinanza sono modificabili e revocabili dal giudice che le ha pronunciate. Essa può invece essere modificata e revocata dal collegio stesso. Se la decisione è monocratica, l’ordinanza del g.i. , solo da esso è modificabile e revocabile. In conseguenza dell’ordinanza in esame, la causa torna nella fase di trattazione. Il fatto che, dopo la precisazione delle conclusioni, la causa torna in istruttoria, rende necessaria una seconda precisazione delle conclusioni; in pratica, le preclusioni correlate alla prima precisazione delle conclusioni, se la causa torna in istruttoria, si perdono completamente. RINNOVAZIONE DELLE PROVE Un ulteriore contenuto possibile dell’ordinanza collegiale prevede che se il collegio se è incerto circa la valutazione o il contenuto dei mezzi di prova acquisiti dal g.i. , può disporne la ripetizione di fronte a sé . In questo caso, però, la causa non torna in istruttoria, ma rimane in sede decisoria; la rinnovazione dei mezzi di prova non comporta la riapertura della trattazione ma è semplicemente un modo di svolgersi della fase di decisione, con la conseguenza che rimangono fermi gli effetti della precisazione delle conclusioni. Quindi, se il collegio ritiene necessario assumere prove nuove, deve rimettere la causa in istruttoria; se ritiene , invece, di rinnovare l’assunzione di prove già assunte, trattiene la causa presso di sé, e la causa non torna in trattazione , ma rimane in fase di decisione. Nella pratica, la facoltà di rinnovare l’assunzione delle prove non è mai utilizzata. COMPETENZA Il collegio pronuncia ordinanza quando decide soltanto questioni di competenza. Qui la ordinanza ha gli stessi effetti della sentenza. Si impone al giudice, che vuole fondare la sua decisione su una questione rilevata di ufficio, di riservare la decisione e di assegnare alle parti un termine per il deposito di memorie relative alla questione indicata nell’ordinanza. Ciascuna delle parti potrà quindi addurre argomenti per convincere il giudice che la questione rilevata di ufficio debba essere decisa in un modo o in un altro. Una volta realizzato il contraddittorio sulla questione rilevata di ufficio, il collegio pronuncerà sentenza tenendo conto di quanto dedotto dalle parti. La parte potrà , dunque, nella sua memoria, allegare un fatto reso rilevante dalla questione rilevata di ufficio ed effettuare la relativa attività istruttoria ( produzione di documenti e richiesta di prove costituende ). In tal caso, il collegio non potrà pronunciare sentenza , ma dovrà rimettere la causa in istruttoria per dare sfogo alle deduzioni delle parti. Si qualifica nulla la sentenza, emessa senza che sia stato attuato il principio del contraddittorio. 26) LA SENTENZA DEFINITIVA E NON DEFINITIVA La differenza sostanziale, che intercorre tra la decisione in forma di sentenza e quella in forma di ordinanza, sta in ciò, che l’ordinanza non priva il giudice del potere di ritornare sopra quanto deciso: qualunque cosa egli dica con l’ordinanza, può ripensarci, modificare e revocare l’ordinanza o più in generale, riesaminare la questione già decisa senza bisogno, quindi, di una revoca esplicita dell’ordinanza stessa. Invece, la decisione con provvedimento che ha forma di sentenza ha le seguenti caratteristiche: il giudice, con la pronunzia della stessa, esaurisce il potere ( e quindi anche il dovere ) giurisdizionale in ordine alla questione decisa. L’esaurimento del potere giurisdizionale, che consegue alla pronuncia di una sentenza, assume significato in 3 direzioni, che sono complementari ed interagenti fra di loro : A) il giudice non può modificare o revocare il provvedimento emesso; B) il giudice non può ridecidere ciò che ha già deciso; C) quando, nel processo che prosegue dinanzi a lui, si troverà ad affrontare questioni dipendenti da quella già decisa, il giudice dovrà attenersi a ciò che ha accerto con la precedente sentenza. L’essersi pronunciato con sentenza comporta per il giudice un vincolo assoluto. Se dunque , quella appena descritta è la posizione del giudice , la posizione delle parti è analoga, ma con una fondamentale differenza: anche le parti sono vincolate alla sentenza pronunciata, ma possono contrastarla attraverso i mezzi di impugnazione. - mentre il giudice è vincolato in modo assoluto , perché non potrà in nessun caso liberarsi dagli effetti della sentenza, - le parti possono utilizzare i mezzi di impugnazione per svincolarsi da tali effetti. La spendita dei mezzi di impugnazione, quindi, costituisce un onere per le parti: i mezzi di impugnazione sono l’unico strumento attraverso il quale queste possono cercare di sottrarsi agli effetti della sentenza. Bisogna stare molto attenti a non confondere l’effetto di cui abbiamo appena parlato ( che si produce in virtù della semplice pronunzia della sentenza), con il giudicato, che si produce quando la sentenza non è più soggetta a determinati mezzi di impugnazione, e quindi raggiunge una ( relativa ) stabilità. L’effetto di cui stiamo parlando prescinde dalla formazione del giudicato, e si verifica per il solo fatto che sia pronunziata una sentenza. La perdita del potere decisorio, derivante dalla pronunzia di una sentenza, secondo la giurisprudenza si verifica anche quando il giudice ha pronunciato una sentenza inesistente. ERRORE NELLA FORMA DEL PROVVEDIMENTO Il giudice NON può scegliere liberamente se adottare l’uno o l’altro tipo di provvedimento. La scelta è fatta dal legislatore, il quale stabilisce quando il giudice deve pronunciare sentenza, e quando invece deve pronunciare ordinanza. L’emanazione di una sentenza non definitiva, vuoi di rito , vuoi di merito, non impedisce che chi ha avuto torto sulla non definitiva, possa poi avere ragione sulla definitiva in modo pieno. Il soccombente sulla non definitiva ha scelta fra: - l'impugnazione immediata della stessa - e la riserva di decidere, quando sarà emessa la sentenza definitiva, si impugna la non definitiva. IMPUGNAZIONE IMMEDIATA Se il soccombente sulla non definitiva decide di impugnarla immediatamente possono accadere due cose : 1) proseguono in contemporanea due processi che hanno lo stesso oggetto ( la stessa situazione sostanziale controversa ), ma due diversi ambiti di cognizione. Gli esiti di tali processi vanno però fra loro coordinati, perché la pronuncia che emette il giudice di appello ha potenzialmente lo stesso oggetto della sentenza definitiva, emessa dal giudice di primo grado. Bisogna allora coordinare le due pronunce, che hanno lo stesso oggetto ( cd. Effetto espansivo esterno) 2) la duplicazione dei processi può essere evitata sospendendo l’ulteriore corso del processo di primo grado. Quando sia stato proposto appello immediato contro una delle sentenze previste il g.i. su istanza concorde delle parti può disporre una ordinanza non impugnabile che la prosecuzione dell’ulteriore istruttoria sia sospesa fino alla definizione del giudizio di appello. Una volta che il giudice di appello si sia pronunciato, se la sentenza non definitiva è confermata, ripartirà l’istruttoria di primo grado sulle ulteriori questioni, diverse da quelle già decise. Se, al contrario, la sentenza non definitiva non è confermata , il processo di primo grado non è più ripreso, in quanto esso diviene inutile. PASSAGGIO IN GIUDICATO Se il soccombente sulla non definitiva omette ogni attività , la sentenza passa in giudicato, con la conseguenza che la questione, decisa con la sentenza non definitiva, non può essere riesaminata né dal giudice che ha emesso la sentenza né in sede di impugnazione. RISERVA La terza possibilità che si offre al soccombente è di proporre riserva di impugnazione. La sentenza non definitiva ( emessa in grado di appello o in unico grado ) non è immediatamente ricorribile in Cassazione; il ricorso avverso tale sentenza può essere proposto quando venga emessa una sentenza definitiva ( o parzialmente definitiva). Con riferimento al regolamento di competenza, vale invece la disciplina opposta: non essendo prevista una riserva di regolamento di competenza, la parte che è rimasta soccombente rispetto ad una pronuncia di sola competenza ha due alternative : - o impugnarla immediatamente con il regolamento di competenza - o non impugnarla affatto e farla passare in giudicato. - Non ha la terza alternativa di riservarsi la scelta di proporre il regolamento di competenza una volta emessa la sentenza definitiva, perché rispetto al regolamento di competenza non è previsto l’istituto della riserva. RISERVA DI APPELLO L’istituto della riserva di appello è regolato dall’art. 340 c.p.c. , il quale prevede che, contro la sentenza non definitiva e la sentenza di condanna generica l’appello può essere differito ( cioè la parte può riservarsi di proporre appello ), purché la riserva sia effettuata, a pena di decadenza, nel termine per appellare e non oltre la prima udienza dinanzi al g.i. successiva alla comunicazione della sentenza stessa. - Se udienza di prosecuzione si svolge dopo la scadenza del termine per appellare, la parte ha un solo termine ( quello per appellare ) entro il quale o appella o fa la riserva; altrimenti, la sentenza passa in giudicato. - Se, invece, la prima udienza di prosecuzione si svolge prima che scada il termine per appellare, allora lo svolgimento di tale udienza costituisce il termine ultimo per proporre la riserva di appello, ma non il termine ultimo per appellare. La prima udienza di prosecuzione è il termine ultimo per proporre la riserva ma per appellare valgono i termini normali (30 giorni o 6 mesi a seconda che la sentenza sia o non sia notificata). SCIOGLIMENTO DI RISERVA La riserva si scioglie quando in quel processo venga impugnata una successiva sentenza, vuoi che questa sia la definitiva, vuoi che venga emessa un’altra non definitiva che sia impugnata. Quindi, alla prima sentenza che viene impugnata, deve essere impugnata anche la sentenza per la quale è stata fatta la riserva; altrimenti quest’ultima passa in giudicato. Se contro una sentenza non definitiva qualcuno ha fatto riserva e altri ha impugnato, la riserva non può mantenersi e bisogna che sia sciolta immediatamente. Finora abbiamo immaginato che la riserva sia sciolta quando viene impugnata una successiva sentenza nel corso dello stesso processo; però può accadere che, in quel processo, non vengano emesse altre sentenze, perché esso si estingue. ESTINZIONE DEL PROCESSO Se il processo si estingue, la sentenza non definitiva di merito contro la quale fu fatta la riserva acquista efficacia di sentenza definitiva dal giorno in cui il provvedimento che pronuncia l’estinzione del processo diventa definitivo. Da questo momento comincia a decorrere il termine per impugnare la sentenza non definitiva alla quale sia stata fatta la riserva. (termine che è di 30 gg se la non definitiva è stata notificata, o di 6 mesi se non è stata notificata). Si parla di sentenza < di merito>. Le sentenze di rito non definitive perdono effetti se il processo si estingue . IMPUGNABILITA’ IMMEDIATA O DIFFERITA L’ordinanza non definitiva di competenza è suscettibile solo di essere immediatamente impugnata, e che, invece, la sentenza non definitiva appellabile è suscettibile, a scelta del soccombente, di impugnazione immediata oppure di riserva di appello. Per quanto riguarda la sentenza non definitiva ricorribile per cassazione si stabilisce che il ricorso per cassazione non è proponibile avverso una sentenza non definitiva, la quale può essere impugnata in cassazione insieme alla sentenza definitiva, senza necessità che sia effettuata la relativa riserva. Il legislatore ammette l’appello ma non ammette l’impugnazione immediata in Cassazione delle sentenze non definitive per ridurre il carico di lavoro della Corte di Cassazione. Invece, il regime dell’impugnazione delle sentenze di condanna generica e delle sentenze parzialmente definitive non è diversificato: - esse sono suscettibili di immediato ricorso per cassazione, - oppure di riserva di ricorso, al pari di quanto accade per l’appello. 27 ) LA SENTENZA DI CONDANNA GENERICA La sentenza di condanna generica è disciplinata dall’art. 278 c.p.c. La norma individua il contenuto della condanna generica, distinguendo la sussistenza del diritto dalla quantità della prestazione dovuta. E’ quello che comunemente si indica come an debeatur e quantum debeatur. L’an attiene all’esistenza del diritto, il quantum attiene alla quantità della prestazione dovuta. In tali casi si tratta di individuare dapprima se il diritto esiste e chi sia l’obbligato; e poi quale sia la quantità di danno che deve essere risarcita. L’an e il quantum possono essere dedotti in giudizio in maniera diversa. E’ possibile proporre già fin dall’inizio una domanda giudiziale limitata all’an, riservando la quantificazione , in caso di esito favorevole della controversia ad un processo successivo. Se quindi , sin dall’inizio, l’attore si è limitato a proporre la domanda sull’an il giudice accerta , con sentenza definitiva , solo l’esistenza del diritto. Per poter decidere di una domanda limitata all’an è necessario il consenso (o meglio il mancato dissenso) del convenuto. Inoltre , a questa ipotesi non si applica il meccanismo della riserva di impugnazione, in quanto la sentenza sull’an decide di tutto quanto l’oggetto del processo, ed è quindi una sentenza definitiva. La sentenza di condanna generica si ha, invece, quando la domanda è stata proposta con riferimento all’intera situazione sostanziale (cioè ricomprendendo sia l’an, che il quantum). Anche in questo caso si può arrivare ad una scissione della pronuncia sull’an da quella sul quantum: però è necessario che vi sia: - un’istanza di parte, - che l’esistenza del diritto sia certa, - e occorre ancora effettuare un’attività istruttoria per la quantificazione della prestazione. In tali casi, il giudice può emettere una sentenza di condanna generica, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione. La sentenza di condanna generica è quindi una sentenza non definitiva. La giurisprudenza ha introdotto, come ulteriore requisito per la possibile scissione dell’an dal quantum, il mancato dissenso del convenuto. Di fronte all’istanza della parte il convenuto, che non vuole la separazione dell’an dal quantum, deve esplicitamente opporsi: se consente o resta inerte è possibile una pronuncia di condanna generica. I presupposti per la pronuncia di una condanna generica sono i seguenti : 1. nel processo si deve essere acquisita sufficiente certezza sull’esistenza del diritto, 2. ma si deve ancora effettuare attività istruttoria per la quantificazione della prestazione; 3. la parte che ha fatto valere il diritto ne deve fare richiesta; 4. la controparte non deve opporsi alla richiesta. L’oggetto della sentenza di condanna generica è l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose e della imputabilità di questo fatto. Rimangono stralciate dalla sentenza sull’an e affidate al giudizio sul quantum: - le questioni relative all’esistenza e all’ammontare del danno - e anche il nesso di causalità tra il fatto potenzialmente produttivo del danno ed il danno stesso. Le questioni , relative all’esistenza e all’ammontare del danno e al nesso di casualità riguardano il quantum e quindi, rispetto ad esse, la sentenza sull’an non produce alcuna preclusione. La sentenza di condanna generica ha il contenuto di una sentenza di mero accertamento, ma è equiparata , a certi effetti, alle sentenze di condanna. Essa non è sufficiente per istaurare una esecuzione forzata: manca la quantificazione, infatti per procedere ad esecuzione forzata, è 29) GLI EFFETTI DELLA SENTENZA Tradizionalmente si tripartiscono gli effetti della sentenza: - in effetti di accertamento, - costitutivi - ed esecutivi, e si distinguono gli effetti della sentenza di accertamento e costitutiva da quelli della sentenza di condanna. Mentre si discute del momento in cui si producono gli effetti di accertamento e costitutivi, si afferma che gli effetti della sentenza di condanna consistono nella qualità di titolo esecutivo, e quindi si producono dal momento in cui legislatore attribuisce efficacia esecutiva la sentenza. Le sentenze di condanna sono sempre immediatamente efficaci, in qualunque grado siano emesse. Si controverte, invece, del momento in cui divengono efficacia le sentenze di accertamento e costitutive: l’opinione prevalente ritiene che tali sentenze divengono efficaci quando passano in giudicato formale; un’opinione minoritaria ritiene che siano immediatamente efficaci, fin dal momento in cui sono state pronunciate. L’effetto proprio della sentenza di merito consiste nell’individuare le regole di condotta che disciplinano i comportamenti di due o più soggetti, con riferimento ad un bene della vita giuridicamente protetto. In ciò si esplica la funzione giurisdizionale dichiarativa, e sotto questo profilo la sentenza di condanna non differisce dagli altri tipi di sentenza, poiché anch’essa detta regole di comportamento. Il titolo esecutivo non costituisce un effetto ricollegabile alla funzione dichiarativa, perché il legislatore individua i titolo esecutivi secondo ragioni che niente hanno a che vedere con l’efficacia dichiarativa degli stessi . Dal punto di vista generale una sentenza purché valida e vincolante dal momento della sua pubblicazione: essa diviene vincolante quando si perfeziona su iter formativo. Il sistema istituisce degli strumenti (mezzi di impugnazione) che le parti possono utilizzare, in un termine prefissato, per ottenere una modificazione della sentenza. Le uniche regole di condotta che vincolano le parti, una volta concluso il processo con la formazione del giudicato, sono quelle contenute nell'ultima sentenza pronunciata. Finché la sentenza non è passata in giudicato non possiamo ancora dire se le regole di condotta in essa contenute sono veramente vincolanti per le parti, poiché vi è sempre la possibilità che, attraverso le impugnazioni ordinarie, si giunga al risultato che quelle regole di condotta non sono mai state vincolanti per le parti. Per questa ragione l’art. 2909 c.c. afferma che l’accertamento , il quale fa stato fra le parti, gli eredi e gli aventi causa, proviene dalla sentenza passata in giudicato. RETROATTIVITA’ Un’altra e diversa questione attiene alla efficacia retroattiva o meno della sentenza: in altri termini, se la regola di condotta che essa enuncia si applica anche ai comportamenti antecedenti alla sua efficacia. La regola è che la sentenza ha efficacia retroattiva fino al momento della domanda. A ciò si fa eccezione solo per alcune sentenze, incidenti sugli status, che non hanno efficacia retroattiva. (esempio : la sentenza di divorzio). CAPO CONDANNATORIO DIPENDENTE Se si ritiene che le pronunce di mero accertamento o costitutive divengano efficaci solo quando passano in giudicato, ci si chiede come possa avere efficacia esecutiva una pronuncia di condanna, che è dipendente da una pronuncia non ancora efficace. La recente dottrina sostiene: - se il capo di accertamento o costitutivo ed il capo condannatorio sono legati da interdipendenza o sinallagmaticità quest'ultimo non ha efficacia di titolo esecutivo finché il capo di accertamento o costitutivo non è passato in giudicato. - se invece il capo condannatorio è autonomo dal capo di accertamento o costitutivo allora può essere eseguito a prescindere dal passaggio in giudicato. 30) LA CORREZIONE DELLA SENTENZA La modificazione della sentenza di primo grado di solito deve essere ottenuta attraverso i mezzi di impugnazione. Tuttavia, non sempre è necessario utilizzare i mezzi di impugnazione per giungere ad una modificazione della pronuncia emessa. In alcuni casi, infatti, è esperibile il procedimento di correzione il quale trova la sua ragione d’essere nella distinzione tra: - errori di giudizio, cioè errori nella formazione della volontà del giudice, - ed errori nella manifestazione della volontà. Mentre nel primo caso debbono essere esperiti i mezzi di impugnazione, nel caso di errori nella manifestazione della volontà è esperibile il procedimento di correzione. Sono suscettibili di correzione anche le ordinanze non revocabili, in quanto, se l’ordinanza è revocabile, l’errore può essere fatto valere attraverso l’istanza di revoca. La correzione è possibile nelle ipotesi di omissioni, errori materiali, ed errori di calcolo. Queste ipotesi integrano quell’errore nella manifestazione della volontà , che costituisce il presupposto dell’istituto. L’errore nella manifestazione della volontà si colloca appunto nella esteriorizzazione di una volontà che inequivocabilmente si è formata in maniera corretta e che soltanto si è espressa in maniera errata. Di fatto la correzione della sentenza è utilizzata soprattutto per la mancata, incompleta o erronea indicazione delle parti o dei beni oggetto della controversia, quando si debba procedere ad esecuzione forzata, oppure all’iscrizione o trascrizione dell’atto, o più in generale alla pubblicità dello stesso. Il procedimento di correzione si svolge in modo semplice. Se le parti sono d’accordo , possono chiederla con ricorso congiunto e il giudice provvede con decreto. Se, invece, la correzione non è chiesta da tutte le parti, allora bisogna instaurare il contraddittorio con le parti (che non hanno fatto la richiesta); nel loro contraddittorio, il giudice provvede con ordinanza, il cui contenuto è annotato sull’originale della sentenza. La sentenza è impugnabile con i mezzi spendibili contro di essa. La parte, che non è d’accordo con la correzione impugna, non il provvedimento di correzione, ma la sentenza esclusivamente però con riferimento alle modificazioni introdotte dal provvedimento di correzione. Ciò conferma che l’ordinanza di correzione è un provvedimento che ha l’effetto di modificare la sentenza a cui si riferisce. 31) LA CONTUMACIA E L’ASSENZA Può essere che una o più parti non si presentino nel processo: abbiamo così la contumacia, disciplinata dagli artt. 290 ss. c.p.c. , che può definirsi come la mancata costituzione di una parte. La costituzione è l’attività con cui una parte si presenta in giudizio ed acquisisce la concreta possibilità di compiere gli atti processuali. Quindi la contumacia presuppone l’avvenuta acquisizione della qualità di parte: solo chi ha la qualità di parte può essere contumace perché solo costui può costituirsi in giudizio. Chi non ha la qualità di parte non può essere contumace. La qualità di parte si acquisisce, sia per l’attore sia per il convenuto, con la notificazione della citazione. Quindi l’avere effettuato o l’essere stati destinatari della notificazione di un atto introduttivo o di un atto di chiamata in causa ( per quanto riguarda i terzi) è l’elemento indispensabile perché questi soggetti possano essere contumaci, è il presupposto affinché costoro acquisiscano la qualità di parte e possano costituirsi nel processo. La nozione di parte individua 3 fenomeni distinti: 1) la parte come titolare della situazione giuridica dedotta in giudizio ( parte in senso sostanziale); 2) la parte come soggetto destinatario degli effetti degli atti processuali (parte in senso processuale); 3) la parte come colui che può compiere atti nel processo, essendo o meno destinataria degli effetti di questi atti ( parte in senso formale): La distinzione è importante perché la contumacia è dichiarata rispetto alla parte in senso processuale ma dipende da un comportamento di colui che compie gli atti del processo e quindi della parte in senso formale. In sostanza, la costituzione è l’attività con cui chi ha assunto la qualità di parte manifesta la volontà di volere spendere quei poteri che in astratto l’ordinamento attribuisce a ciascuna parte. L’instaurazione del contraddittorio e la costituzione sono due fenomeni diversi: l’instaurazione del contraddittorio è finalizzata all’assunzione della qualità di parte e viene logicamente prima della costituzione, perché realizza l’astratta possibilità di difesa, mettendo il soggetto evocato in giudizio in grado di difendersi. La costituzione è la concreta realizzazione della difesa; il soggetto, messo in grado di difendersi attraverso l’instaurazione del contraddittorio e attraverso la susseguente assunzione della qualità di parte, decide di utilizzare in concreto quei poteri che l’ordinamento prevede in astratto a favore di colui che è parte del processo. L’instaurazione del contraddittorio e la assunzione della qualità di parte si ha nel convenuto con la notificazione dell’atto introduttivo. Ricevendo tale notificazione, il convenuto è avvertito della pendenza del processo. Con la costituzione, il convenuto manifesta la volontà di spendere in concreto questi poteri. ASSENZA Dalla contumacia va distinta l’assenza. Assente è colui che, essendosi costituito, non partecipa ad una attività processuale. L’assenza presuppone l’avvenuta costituzione della parte. La costituzione esclude la contumacia. La distinzione fra contumacia e assenza è importante perché, una volta che la parte si è costituita, non si applicano più le norme del procedimento in contumacia, ma vige un principio diverso: la parte costituita è considerata presente a tutte le attività che vengono effettuate. Infatti si stabilisce che < le ordinanze pronunciate in udienza si ritengono conosciute dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparirvi>. La parte costituita e poi assente si considera presente a tutte le attività svolte nel processo. VALUTAZIONE DELLA CONTUMACIA La contumacia non rileva ai fini della possibilità di emettere pronunce di merito. Non è necessario, per poter emettere una pronuncia di merito, che tutte le parti si costituiscano. La sanatoria della nullità della notificazione ha quindi efficacia retroattiva, opera ex tunc, e il processo si considera pendente a tutti gli effetti fin dal momento della prima notificazione viziata e non dal momento della rinnovazione della notificazione. Gli effetti sostanziali e processuali della domanda decorrono, in caso di sanatoria, dalla prima notificazione ( quella nulla ), ma gli atti relativi alla trattazione del merito compiuti fra l’inizio del processo e la sanatoria del vizio non sono opponibili al convenuto. NULLITA’ DELLA CITAZIONE Un'altra ipotesi di contumacia involontaria del convenuto riguarda la nullità della citazione in sé ( e non della sua notificazione). Pertanto, prima di dichiarare la contumacia del convenuto, il giudice deve esaminare, oltre alla validità della notificazione, anche la validità della citazione. Dobbiamo ora esaminare le regole speciali previste per il procedimento in contumacia. Tali regole sono identiche, vuoi che contumace sia l’attore, vuoi che lo sia il convenuto, vuoi che lo sia il terzo chiamato in causa. La parte che non si costituisce è dichiarata contumace con ordinanza del g.i. . - Se una parte è contumace, gli artt. 292 ss. c.p.c. vanno rispettati, vuoi che il giudice la dichiari contumace, vuoi che non lo faccia; - viceversa, se una parte non è contumace, non è necessario rispettare gli artt. 292 ss. c.p.c. , vuoi che il giudice non l’abbia dichiarata contumace, vuoi che, per sbaglio, l’abbia dichiarata contumace. Quello che conta è , infatti, l’effettiva esistenza di una situazione di contumacia. Il procedimento contumaciale si differenzia dal procedimento normale essenzialmente per il fatto che alcuni atti del processo debbono essere notificati al contumace, mentre non sono notificati alla parte costituita. Gli atti che devono essere notificati personalmente al contumace possono essere distinti in 3 gruppi: 1. Del primo fanno parte gli atti che contengono la proposizione di domande nuove 2. Del secondo gruppo fanno parte gli atti che hanno ad oggetto alcuni provvedimenti istruttori: in particolare, le ordinanze ammissive dell’interrogatorio formale e del giuramento. Un'altra ipotesi che rientra in questo secondo gruppo è stata introdotta dalla Corte costituzionale: si tratta della notificazione al contumace del verbale di causa in cui si da atto della produzione di una scrittura privata. Il disconoscimento della scrittura privata deve essere effettuata dalla parte contro la quale la scrittura è prodotta e che, in mancanza di disconoscimento, la scrittura privata si considera riconosciuta. 3. Il terzo gruppo è costituito dalla notificazione della sentenza. La notificazione della sentenza fa decorrere il termine breve per l’impugnazione. La parte ha la possibilità di scegliere se: - far decorrere il termine breve, notificando la sentenza al difensore della controparte; - oppure non notificare la sentenza e attendere il termine lungo. Alla base della decisione di rimanere contumace, c’è una valutazione della parte riferita all’oggetto del processo. Va da sé che, per il rispetto del diritto di difesa, debbono quindi essere notificati al contumace tutti gli atti, che contengono domande nuove, perché in relazione al diverso oggetto del processo il contumace deve essere messo in grado di valutare ex novo se ha interesse a costituirsi , oppure se mantiene l’interesse a non costituirsi. Il contumace può comunque costituirsi in ogni momento della causa, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni ( cioè finché il processo si trova in fase istruttoria). COSTITUZIONE TARDIVA DEL CONTUMACE Naturalmente il contumace, che si costituisce tardivamente, deve accettare il processo nello stato in cui si trova. Il contumace può compiere tutti gli atti processuali che avrebbe potuto fare nel momento in cui si costituisce ( la costituzione può essere fatta in cancelleria oppure in udienza), se fosse stato costituito fin dall’inizio. Quindi gli atti che sono preclusi in quel momento alla parte costituita sono preclusi anche al contumace; gli atti che sono possibili in quel momento alla parte costituita sono possibili anche al contumace. Vi è però un’eccezione a suo beneficio: il contumace può sempre disconoscere le scritture private che sono state prodotto, anche se è trascorso l’ultimo momento utile per il disconoscimento ( cioè la prima udienza o la prima risposta successiva alla produzione). Se egli fosse stato costituito e non avesse disconosciuto la scrittura privata, in quel momento non potrebbe più disconoscerla. Se invece la parte è rimasta contumace allora essa mantiene il potere di disconoscerla, nonostante ormai sia decorso il termine normale per il disconoscimento. RIMESSIONE IN TERMINI La rimessione in termini è un istituto in virtù del quale il contumace è abilitato a compiere attività che per lui sarebbero precluse. La rimessione in termine si può avere quando: - vi è una nullità dell’atto introduttivo o della sua notificazione; - oppure quando la parte dimostra che la sua contumacia è dovuta a causa a lei non imputabile. Per quanto riguarda la mancata costituzione per causa non imputabile, si tratta di valutare, volta per volta, quando è che sussista una causa non imputabile. Il giudice ammette la prova dei fatti che hanno prodotto l’impedimento, assume la prova di questi fatti e, se li ritiene provati, rimette il contumace in termine. Il provvedimento è dato con ordinanza. Quando si avveda della nullità della citazione, il giudice debba fissare una nuova prima udienza , e ciò anche se il vizio dell’atto introduttivo non ha impedito affatto al convenuto di venire a conoscenza della pendenza del processo. D’altro lato, la nullità della notificazione, per essere tale, deve aver inciso causalmente sulla mancata conoscenza del processo: altrimenti, la notificazione non è nulla. 32) LA SOSPENSIONE La sospensione costituisce un arresto nella sequenza degli atti processuali a cui consegue una stasi del processo, che entra in uno stato di quiescenza ma con la prospettiva di poter essere ripreso; la sospensione determina una fermata del processo in attesa di qualcosa che consenta di proseguire il processo. Le ipotesi di sospensione sono raggruppabili in 3 gruppi: 1) la sospensione propria prevista dall’art. 295 c.p.c. 2) la sospensione concordata su istanza delle parti, prevista dall’art. 296 c.p.c. Si tratta di istituto defunto, non perché abrogato , ma semplicemente perché, secondo la norma, il giudice istruttore su istanza di tutte le parti può sospendere il processo per un periodo non superiore a 3 mesi. La sospensione concordata è stata introdotta dal legislatore come strumento per ottenere una pausa del processo utili, ad es., nelle ipotesi di trattative tra le parti. Oggi tale istituto è desueto perché, tra un’udienza e l’altra, decorrono di solito ben più di tre mesi. 3) Vi è infine, un folto gruppo di ipotesi di sospensione c.d. impropria, che trovano la loro disciplina non nell’art. 295 c.p.c. , sebbene in altre norme processuali. La sospensione impropria differisce dalla sospensione c.d. propria perché, l’art. 295 c.p.c. , presuppone 2 processi che hanno 2 oggetti diversi; invece la sospensione impropria riguarda tutte quelle ipotesi in cui, su di un processo in corso, si innesta un altro processo, il quale ha ad oggetto una questione relativa alla domanda oggetto del primo processo, e la pendenza del secondo processo, che genera dal primo, produce la sospensione del processo originario. Nella sospensione propria vi sono due litispendenze; nella sospensione impropria ve ne è una sola. Le principali ipotesi di sospensione impropria sono le seguenti : - in tema di regolamento di competenza, si prevede che, quando è proposto regolamento di competenza, i processi relativamente ai quali il regolamento è chiesto debbono essere sospesi. Oggetto del regolamento di competenza è una questione processuale ( la competenza del giudice adito), rilevante all’interno del processo originario. Tale questione è deferita alla decisione di un altro giudice ( la Corte di cassazione): e in attesa di tale decisione il processo originario riamane sospeso. - sospensione del processo quando è proposto il regolamento di giurisdizione. Anche in questo la questione di giurisdizione è sottratta alla decisione del giudice adito, e viene deferita alla Corte di cassazione. - Analogamente in tema di ricusazione del giudice. L’esito può incidere su quello originario; proprio per questo il processo originario rimane sospeso, in attesa della decisione della questione processuale incidente. - Si prevede che, ove sia proposta querela di falso di fronte al giudice di pace o alla corte di appello, si sospende il processo dinanzi a quei giudici, in attesa della decisione della querela di falso per cui è competente il tribunale. - Se il giudice si trova a dover applicare una norma che sospetta di incostituzionalità, egli rimette la questione alla Corte costituzionale con ordinanza, che sospende il processo fino alla decisione della Corte. - La stessa situazione si verifica quando sorge questione sulla interpretazione di una norma contenuta in un atto dell’ Unione europea. L’interpretazione vincolante di tali norme è affidata alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ed i giudici nazionali possono, e se sono giudici di ultima istanza debbono, rimettere alla Corte di giustizia la questione relativa all’interpretazione delle norme sopraindicate. Ciò ovviamente per assicurare una uniformità di applicazione nei diversi Stati di norme . - Vi sono poi le ipotesi in cui è impugnata immediatamente la sentenza non definitiva e il giudice, di fronte al quale prosegue il processo, su richiesta delle parti sospende l’ulteriore istruttoria in attesa della pronuncia sulla sentenza non definitiva. - Infine se contro la stessa sentenza è proposto sia il ricorso per cassazione sia la revocazione, il processo di cassazione può essere sospeso fino alla definizione della revocazione. Poiché la stessa sentenza è fatta oggetto di due mezzi di impugnazione contemporaneamente , il legislatore stabilisce che uno di essi può avere la priorità rispetto all’altro. SOSPENSIONE NECESSARIA O PROPRIA L’art. 295 c.p.c. descrive il seguente fenomeno: vi è una controversia dalla cui definizione dipende la decisione di altra controversia. Mentre nei casi di sospensione impropria l’oggetto del processo è uno solo, nel caso della sospensione propria sono pendenti di fronte a giudici diversi due controversie, con due diversi oggetti. Dobbiamo vedere quali sono i tipi di connessione fra l’oggetto del primo processo e l’oggetto del secondo. Il problema si sposta, dunque , sul terreno del diritto sostanziale: dobbiamo stabilire quando e che, per decidere la situazione sostanziale A, bisogna prima definire la situazione sostanziale B. La sospensione opera solo per le domande restitutorie e risarcitorie. Dopo aver visto le varie ipotesi di sospensione ed i loro presupposti, occorre ora stabilire come si verifica la sospensione e che effetti essa produce. Bisogna distinguere fra: - la sospensione legale (il processo si arresta automaticamente al verificarsi della fattispecie prevista dalla legge ) - e la sospensione giudiziale ( l’arresto si produce non al verificarsi dell’evento, ma in virtù del provvedimento del giudice , con il quale si dispone la sospensione del processo). In realtà la sospensione è sempre < legale > , perché è sempre prevista dalla legge; La differenza fra sospensione legale e sospensione giudiziale sta negli effetti del provvedimento che emette il giudice, e soprattutto nelle conseguenze che derivano dalla mancata, erronea sospensione. All’interno della sospensione giudiziale, dobbiamo poi ulteriormente distinguere - le ipotesi di sospensione a presupposti vincolanti - da quelle che comportano una valutazione di opportunità da parte del giudice. E’ chiaro che, quando la sospensione dipende da una valutazione di opportunità del giudice, essa è necessariamente giudiziale, in quanto può verificarsi soltanto in seguito al provvedimento con cui il giudice, valutando l’opportunità della sospensione , la dispone. SOSPENSIONE LEGALE La sospensione legale si verifica automaticamente quando si completa la fattispecie sospensiva. Siccome la sospensione si verifica al maturarsi della fattispecie sospensiva una volta maturata la fattispecie sospensiva, tutti gli atti compiuti successivamente sono nulli. Si ha la sospensione legale a seguito : - della proposizione del regolamento di competenza; - della rimessione alla Corte costituzionale; - della rimessione alla Corte di giustizia della Unione europea. SOSPENSIONE GIUDIZIALE Nelle ipotesi di sospensione ex art. 295 c.p.c. pur essendo il giudice vincolato ai presupposti previsti dalla norma, e non avendo quindi il potere di valutare l’opportunità della sospensione, tuttavia il provvedimento di sospensione è costitutivo dell’effetto sospensivo: il provvedimento, con cui il giudice sospende il processo, è un elemento della fattispecie dell’effetto sospensivo. Pertanto , se il giudice, sbagliando, non sospende il processo, non si verifica l’effetto a differenza della sospensione legale. Il provvedimento di sospensione è un’ordinanza del collegio o del g.i. ,a seconda che la causa sia o meno affidata alla decisione collegiale o monocratica. Il provvedimento ha la forma di ordinanza e quindi non assume la forma della sentenza. CONSEGUENZE DELLA MANCATA SOSPENSIONE - Nelle ipotesi di sospensione legale, l’effetto sospensivo si produce automaticamente e resta irrilevante il provvedimento del giudice. - Nelle ipotesi di sospensione giudiziale, al contrario, se il processo non è sospeso, è il giudice dinanzi al quale è impugnata la sentenza ad emettere il provvedimento di sospensione non emesso dal giudice di primo grado, sempre che, nel momento in cui pronuncia , siano ancora esistenti i presupposti per la sospensione. EFFETTI DELLA SOSPENSIONE La sospensione interrompe i termini in corso, i quali ricominciano a decorrere dalla ripresa del processo. La sospensione del processo produce una interruzione dei termini. Gli atti compiuti dopo il provvedimento di sospensione ( nel caso di sospensione giudiziale ) o dopo il maturarsi della fattispecie sospensiva ( nel caso di sospensione legale ) sono nulli. L’impossibilità di compiere atti del processo trova 2 eccezioni abbastanza rilevanti: - la prima riguarda la tutela cautelare. - La seconda eccezione è prevista in tema di regolamento di competenza. Si stabilisce che il giudice del processo sospeso possa autorizzare il compimento degli atti che ritiene urgenti. Da notare la differenza tra provvedimenti cautelari e atti urgenti. Il processo cautelare non fa parte del processo sospeso, è autonomo e parallelo. Il compimento di atti urgenti riguarda invece proprio gli atti del processo sospeso. Questi sono atti interni al processo sospeso che possono essere autorizzati in caso di necessità . La riassunzione del processo sospeso deve avvenire nel termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza. Se il processo non viene riassunto nel termine previsto , esso si estingue. Perché sia evitata l’estinzione è sufficiente che il ricorso per la prosecuzione del processo sia depositata, nei termini, presso la cancelleria del giudice. 33) L’INTERRUZIONE L’interruzione ha lo scopo di garantire l’effettività del contraddittorio in quanto evita alle parti, che hanno l’astratta possibilità di compiere atti del processo, di trovarsi in una situazione in cui NON hanno la concreta possibilità di compiere tali atti. Le ipotesi che il legislatore prende in considerazione ( art. 299 c.p.c. ) sono le seguenti: • la morte della parte • morte del rappresentante legale • perdita della capacità della parte • perdita della capacità del rappresentante legale • cessazione della rappresentanza legale L’art. 299 c..p.c. parla espressamente di rappresentanza legale, quindi è escluso che determino l’interruzione del processo le vicende relative alla rappresentanza volontaria e alla rappresentanza organica. In questi casi non è necessaria la interruzione del processo in quanto è onere dello stesso soggetto interessato provvedere a sostituirlo. L’interruzione, infatti, fa fronte ad eventi involontari. Dobbiamo distinguere a seconda del momento in cui si verificano gli eventi sopra indicati. PRIMA DELLA PROPOSIZIONE DELLA DOMANDA 1) Prima ipotesi : gli eventi si verificano prima della proposizione della domanda giudiziale. In tal caso non si ha interruzione, per la semplice ragione che il processo non è ancora iniziato. non si applica l’istituto della interruzione. Se la parte viene meno prima della produzione della domanda giudiziale abbiamo addirittura un processo inesistente, che in nessun modo può essere sanato. PRIMA DELLA COSTITUZIONE IN GIUDIZIO 2) Seconda ipotesi: gli eventi in questione si verificano DOPO la proporzione della domanda ma PRIMA della costituzione in giudizio. Qui si ha l’interruzione automatica del processo. Il processo è interrotto senza che sia necessario un provvedimento del giudice che dichiari l’interruzione. Gli atti compiuti dopo il verificarsi dell’effetto interruttivo sono nulli, quindi , che gli effetti della interruzione sono gli stessi della sospensione: - impossibilità di compiere atti del processo interrotto; - interruzione dei termini, che riprendono a decorrere ex novo al cessare dell’interruzione. DOPO LA COSTITUZIONE IN GIUDIZIO 3) Terza ipotesi: gli eventi descritti si verificano tra la costituzione delle parti e l’udienza di discussione della causa (che è l’ultima udienza del processo). Questa terza ipotesi distingue tre sottoipotesi: • Il fenomeno interruttivo riguarda un soggetto che si è costituito in giudizio attraverso un rappresentante tecnico. In tal caso l’interruzione del processo si verifica allorché il procuratore della parte (morta , diventa incapace, che ha perso il potere di rappresenta, etc) lo dichiara in udienza. Quindi, in questa ipotesi, non solo l’interruzione non ha luogo automaticamente al verificarsi della fattispecie interruttiva, ma altresì l’unico soggetto legittimato a dichiarare il fatto è il difensore della parte colpita dall’evento. Se il difensore della parte colpita dall’evento interruttivo non lo dichiara, il processo va avanti legalmente con effetti pieni, e la sentenza produrrà i suoi effetti normalmente, come se l’evento interruttivo non si fosse verificato. In pratica il difensore può scegliere: - o dichiarare l’evento e produrre l’interruzione; - oppure non dichiarare l’evento e fare proseguire il processo con effetti pieni nei confronti delle parti. Si tenga presente che, secondo la costante giurisprudenza della Cassazione, per aversi interruzione non basta che il difensore alleghi in giudizio l’evento: egli lo deve dichiarare proprio al fine di produrre l’interruzione. Gli atti compiuti dopo la dichiarazione sono nulli. • La parte è costituita in giudizio personalmente e non mediante un rappresentante tecnico. In tale ipotesi l’interruzione avviene automaticamente senza il verificarsi dell’evento. • Se l’evento interruttivo colpisce il contumace. Il processo è interrotto dal momento in cui tale evento è documentato dalla controparte, oppure è notificato , oppure ancora è attestato dall’ufficiale giudiziario in occasione della notificazione di uno degli atti che devono essere notificati al contumace. NELLA FASE DI DELIBERAZIONE DELLA SENTENZA 4) Quarta ipotesi: l’evento interruttivo si verifica dopo il compimento dell’ultimo atto di parte nella sequenza processuale (fa riferimento esclusivamente all’udienza di discussione). Il verificarsi di un evento interruttivo dopo la discussione non produce alcun effetto se non in caso di riapertura dell’istruzione. Nei casi sopra indicati, l’evento interruttivo non produce alcun effetto perché la ratio dell’interruzione è di salvaguardare l’effettività del contraddittorio. Poiché, da un certo momento in poi della fase decisoria, l’unico soggetto che compie atti del processo è il giudice è chiaro che il verificarsi di un evento interruttivo in tale periodo non ha alcuna incidenza. Se, però, la causa non viene decisa con sentenza definitiva, si ritorna alla regola normale, perché ci saranno ulteriori atti da compiere e quindi riprende vigore l’esigenza di salvaguardare l’effettività del contraddittorio. Questo primo gruppo di fattispecie interruttive attiene alla parte o al suo rappresentante legale. La maggior parte degli atti del processo però non è compiuta direttamente dalla parte, ma da un difensore , cioè dal rappresentante tecnico della parte. Ed ecco allora il secondo gruppo di eventi interruttivi, che riguarda il rappresentante tecnico. EVENTI CHE ATTENGONO AL DIFENSORE L’art. 301 c.p.c. individua come eventi interruttivi che attengono al difensore la morte o la perdita del c.d. ius postulandi, cioè del potere di stare in giudizio in nome e per conto della parte. In pratica, le altre parti ottengono la tutela che hanno richiesto anche con l’estinzione perché la pronuncia di rito ha gli stessi effetti dell’estinzione, in quanto ambedue consentono la riproposizione della domanda. Alla stessa conclusione si deve giungere anche quando le altre parti si siano difese sia in rito che in merito. In presenza di una eccezione di rito ed una difesa nel merito il giudice deve esaminare, al momento della decisione, prima la questione di rito e poi quella di merito. Quindi manca l’interesse alla prosecuzione del processo sia a chi si difende solo in rito sia a chi si difende anche in rito : se c’è una difesa di rito manca l’interesse alla prosecuzione del processo. Se il processo vede una pluralità di parti bisogna distinguere : - se si tratta di litisconsorzio necessario, l’accettazione deve provenire da tutti. - Se si tratta di litisconsorzio facoltativo semplice oppure unitario, la rinuncia agli atti provoca l’estinzione soltanto di quella delle cause, rispetto alla quale la rinuncia e l’accettazione abbiano avuto luogo. Esempio: Tizio e Caio lesi da un incidente stradale unico hanno agito congiuntamente per chiedere risarcimento dei danni a Sempronio. La rinuncia agli atti di tizio produce l'estinzione solo della sua causa e non della causa di Caio. Se si è avuto un intervento, la rinuncia deve provenire o essere accettata anche da coloro che abbiano fatto intervento principale. Non vi è invece bisogno di accettazione da parte di chi abbia proposto intervento adesivo dipendente . Infine , se al processo partecipa il P.M. occorre distinguere : - per la causa è proposta o che comunque il P.M. avrebbe potuto proporre è necessaria la sua accettazione , perché in queste cause il P.M. è parte piena. - Se , invece, si tratta di cause a cui il P.M. deve soltanto partecipare ma che non può proporre, allora non c’è bisogno dell’accettazione del P.M. MODALITA’ DELLA RINUNCIA La rinuncia si effettua: - o con dichiarazione in udienza - o con atto notificato alle altre parti La rinuncia non rientra di per sé nei poteri del rappresentante tecnico, se non gli è espressamene conferito il relativo potere. Quindi il rappresentante tecnico non ha il potere di rinunciare agli atti in forza di una procura se tale potere non gli è espressamente conferito con la procura stessa, o con altro atto. PROVVEDIMENTO L’estinzione è dichiarata con ordinanza se fra le parti non sorgono contestazioni in ordine all’estinzione del processo, da parte del g.i. ( se l’estinzione avviene di fronte a lui) o del collegio ( se l’estinzione avviene di fronte al collegio). E’ dichiarata invece con sentenza (del g.i. , se la decisione è monocratica; del collegio, se la decisione è collegiale), qualora le parti controvertano sulla estinzione. EFFETTI L’estinzione realizza un’ipotesi di impossibilità di pronunciare nel merito, quindi è un fenomeno assimilabile alla carenza ( sopravvenuta ) di un presupposto processuale. Gli effetti della estinzione per rinuncia sono gli stessi di quelli della estinzione per inattività. Una particolarità della rinuncia : le spese del processo sono a carico del rinunciante, salvo che le parti non si accordino diversamente. Se l’estinzione per rinuncia agli atti costituisce l’attuazione di un accordo raggiunto tra le parti, e in tale sede le parti hanno stabilito, allora le spese non sono più a carico del rinunciante, ma a carico di chi se le è assunte in base a tale accordo. INATTIVITA’ Nell’estinzione per inattività si raccordano diverse fattispecie. Fino alla riforma del 2009 , era necessario distinguere l’estinzione per inattività in 2 settori. - Il primo settore è quello della c.d. inattività semplice. L’estinzione è una conseguenza che l’ordinamento prevede per il mancato compimento di alcuni atti processuali, che proprio per questo sono denominati atti di impulso processuale. Tali atti ,se non compiuti, portano all’estinzione. - Il secondo settore è quello della c.d. inattività qualificata. L’inattività qualificata è correlata alla mancata sanatoria di vizi di presupposti processuali. Mentre nella inattività semplice la scelta del legislatore, alternativa all’estinzione, è la pronuncia di merito, nel caso dell’inattività qualificata la scelta del legislatore , alternativa all’estinzione, è la chiusura in rito del processo. INATTIVITA’ SEMPLICE L’art. 307, I e II c.p.c. elenca una serie di casi. 1. La prima ipotesi di inattività semplice si ha quando il giudice abbia ordinato la cancellazione della causa dal ruolo, alla quale segue, secondo regola generale la quiescenza della causa per 3 mesi. Entro tale termine la causa può essere riassunta; decorsi 3 mesi, senza che vi sia stata riassunzione, si matura la fattispecie estintiva. 2. All’ipotesi della cancellazione della causa dal ruolo bisogna aggiungere il caso previsto in cui nessuna delle parti si sia costituita nei termini, e quindi la causa non si sia stata iscritta a ruolo. Se nessuna delle parti si costituisce , il processo rimane quiescente per un termine di 3 mesi che decorre dall’ultimo giorno utile perché una delle parti si costituisca. Il dies a quo è, dunque , il 70esimo giorno antecedente l’udienza fissata nell’atto della citazione, a cui non è seguita l’iscrizione a ruolo. 3. Vi sono poi le ipotesi in cui si ha la cancellazione della causa dal ruolo con estinzione immediata, senza la quiescenza. - Il primo caso se l’attore costituito non compare alla prima udienza il convenuto : . può o chiedere che si proceda in assenza dell’attore o tacere. Se il convenuto chiede che si proceda in assenza dell’attore, il processo va avanti normalmente: l’attore non è contumace perché si è costituito, ed è semplicemente assente. . Se il convenuto tace, il giudice fissa un’udienza successiva con ordinanza che è comunicata al difensore dell’attore; —> se anche in tale nuova udienza l’attore non compare e il convenuto non chiede che si vada avanti nella assenza dell’attore , il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo. Qui l’estinzione si matura immediatamente senza i tre mesi di quiescenza. - Un altro caso è la contumacia dell’attore. Se il convenuto non chiede subito, nella prima udienza, che si vada avanti in contumacia dell’attore, il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue immediatamente. - L’ultima ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo ed estinzione immediata senza quiescenza è la cancellazione della causa dal ruolo con la quiescenza di tre mesi può verificarsi una volta sola nell’arco di ciascuna fase (primo grado, appello) del processo. La prima volta, che si verifica la cancellazione della causa dal ruolo, c’è la quiescenza; ma se, dopo una prima cancellazione della causa dal ruolo ed una prima riassunzione, si verifica un’altra fattispecie di cancellazione della causa dal ruolo, allora la seconda volta si ha estinzione immediata senza quiescenza. Il processo in cui si verifica un’inattività semplice non è un processo sotto altri profili viziato , in quanto esso è assolutamente in grado di giungere ad una decisione di merito, se non fosse per l’inattività . INATTIVITA’ QUALIFICATA L’inattività qualificata è prevista dall’art. 307, III c.p.c., che si ha quando < le parti, alle quali spetta di rinnovare la citazione o di proseguire il processo, riassumere o integrare il giudizio, non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge o fissato dal giudice che dalla legge sia autorizzato>. In tal caso si ha l’estinzione immediata senza quiescenza, perché l’omesso compimento degli atti sopra individuati consolida l’ impossibilità di giungere ad una decisione di merito. Accertata la sussistenza del vizio del presupposto processuale, l’immediata chiusura in rito del processo è possibile solo nelle ipotesi di vizi insanabili. Laddove, viceversa, il vizio sia sanabile, il nostro ordinamento giustamente ha scelto di sanarli, attraverso il compimento delle attività idonee a far acquisire al processo le condizioni per la pronuncia nel merito. RILEVAZIONE L’estinzione opera di diritto ed è dichiarata dal giudice anche di ufficio. Non vi sono limiti temporali per la rilevazione dell’estinzione : essa può essere rilevata in ogni stato e grado del processo. Una volta che l’estinzione sia stata rilevata o eccepita il giudice, se ritiene maturata la fattispecie estintiva, dichiara l’estinzione del processo. La dichiarazione ha effetto retroattivo: il processo si considera estinto non da quando l’estinzione è dichiarata dal giudice, ma da quando è maturata la fattispecie estintiva. L’estinzione è dichiarata con due modalità diverse, a seconda che la causa sia di decisione collegiale oppure monocratica. • Per la decisione collegiale dobbiamo ulteriormente distinguere a seconda che l’estinzione sia eccepita: - nella fase di trattazione, - oppure nella fase decisoria. Se l’estinzione è eccepita nella fase decisoria, quindi di fronte al collegio, su di essa il collegio provvede sempre con sentenza, Se l’estinzione viene eccepita nella fase di trattazione pronuncia il g.i., con ordinanza. L’ordinanza , che dichiara l’estinzione, è un provvedimento in senso lato < definitivo> nel senso che, se nessuno propone reclamo , esso chiude in maniera definitiva il processo e ha, quindi, sostanzialmente gli stessi effetti della sentenza , con cui il collegio dichiara l’estinzione. L’ordinanza , con cui il g.i. dichiara l’estinzione, è immediatamente reclamabile al collegio. Il collegio decide con ordinanza non impugnabile se accoglie il reclamo, ritenendo che l’estinzione non c’è stata . Se, invece, il collegio rigetta il reclamo pronuncia sentenza, perché il provvedimento definisce il processo, e pertanto nei suoi confronti deve essere possibile l’esperimento dei mezzi di impugnazione. • Il secondo gruppo di ipotesi riguarda il caso in cui la decisione della causa è affidata ad un giudice monocratico. B) nella direzione degli errores in procedendo, l’ordinamento ha previsto che essi , tranne che determinino l’ inesistenza della sentenza , debbono essere fatti valere attraverso quei mezzi di impugnazione che l’ordinamento ha creato per gli errores in iudicando. L’ordinamento, quindi, creando mezzi di impugnazione idonei a sindacare l’ingiustizia della sentenza. ERRORES IN PROCEDENDO Alla parte , che si lamenta della invalidità della sentenza, può essere imposto l’onere di utilizzare i mezzi di impugnazione per far valere tale invalidità ma solo tale mezzo di impugnazione deve costituire uno strumento idoneo a decidere di tale questione. Il mezzo di impugnazione deve essere strumentalmente equivalente ad un normale processo dichiarativo, nel quale il giudice dell’impugnazione accerta automaticamente i fatti rilevanti, e stabilisce, applicando ai fatti accertati le norme processuali, se la sentenza impugnata è o meno viziata. Ove il mezzo di impugnazione non fosse idoneo a fornire una decisione piena ed autonoma della questione processuale l’onere dell’impugnazione NON potrebbe operare. ERRORES IN IUDICANDO Dall’altro lato, l’esistenza della utilizzabilità dei mezzi di impugnazione anche agli errores in iudicando consente di ottenere una sentenza il cui contenuto rispecchi in misura maggiore la realtà sostanziale esistente. Dal punto di vista funzionale l’atto di accertamento deve essere vincolante non necessariamente deve essere giusto. La tendenziale irrilevanza della giustizia dell’atto di accertamento tuttavia non toglie che l’ordinamento voglia che il suo contenuto sia il più possibile conforme alla realtà sostanziale esistente: ed a tal fine garantisce, nella fase di sua formazione, il principio del contraddittorio, e dopo la sua formazione, può prevedere mezzi di impugnazione che consentono di verificare la sua giustizia. E’ peraltro evidente che, una volta esauriti o inutilizzati gli strumenti idonei a contestare la giustizia della decisione, questa “ passa in giudicato”. La ragione per cui la sentenza, pronunciata in sede di impugnazione , è più attendibile di quella impugnata, è la seguente : il processo di impugnazione viene dopo l’emanazione della sentenza impugnata. Quando si opera su ciò che è già stato fatto , la soluzione si affina, proprio perché si lavora su un materiale che ha già ricevuto una prima sistemazione. DIVERGENZA DELLA REALTA’ EFFETTIVA I mezzi di impugnazione, peraltro, possono prescindere dalla denuncia di errori del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, e sono utilizzabili anche per chiedere la rimozione della sentenza emessa in quanto oggettivamente non conforme al diritto: il provvedimento non rispecchia l’effettiva realtà sostanziale o processuale. Con l’impugnazione si portano in giudizio nuovi elementi non conosciuti dal giudice che ha emesso la sentenza impugnata, perché non introdotti nella precedente fase del processo. Poiché il giudice precedente non conosceva tali elementi, l’impugnazione non si fonda su un suo errore. Tale situazione è tipica di uno dei mezzi di impugnazione previsti : - l’opposizione di terzo ordinaria. L’opposizione di terzo ordinaria è un mezzo di impugnazione orientato non a censurare errori del giudice ma a rilevare l’ incompletezza della realtà sostanziale, in base alla quale il giudice della sentenza impugnata ha deciso. Incompletezza perché non poteva tener conto di elementi che, per la prima volta, vengono dedotti in giudizio con l’opposizione. La possibilità di proporre un mezzo di impugnazione allegando elementi ulteriori, e quindi senza denunciare errori del giudice, è propria sia di alcuni mezzi di impugnazione ordinari (come l’appello) sia di alcuni mezzi di impugnazione straordinari (come l’opposizione di terzo). Vi sono mezzi di impugnazione straordinari volti a censurare l’errore del giudice e mezzi di impugnazione straordinari volti a far valere l’incompletezza della decisione. Vi sono mezzi di impugnazione ordinari con cui si può far valere solo l’errore del giudice (ricorso in cassazione) e mezzi di impugnazione ordinari con cui si possono far valere tutti e due i profili : errori del giudice e incompletezza della decisione (appello). CONCORSO CON ALTRI STRUMENTI Infine, sotto un terzo profilo, i mezzi di impugnazione possono essere utilizzati talora anche quando non vi è la necessità di proporli: essi sono strumenti eventuali. Vi sono delle situazioni , in cui la parte ha una duplice forma di tutela, nel senso che può far valere le sue ragioni a sua scelta: - o attraverso il mezzo di impugnazione, - oppure attraverso l’ instaurazione di un nuovo processo. La necessità di usare i mezzi di impugnazione cessa quando la sentenza impugnata non ha mai prodotto, oppure non produce più un giudicato sostanziale. Ciò può accadere in due direzioni. SENTENZA INESISTENTE 1. l’art. 161, I c.p.c. istituisce la regola della conversione delle nullità della sentenza in motivi di impugnazione. Si prevede peraltro una deroga : il principio della conversione non si applica se la sentenza è inesistente. Quando il vizio della sentenza non porta alla semplice nullità, ma alla inesistenza, non è necessario far valere tale vizio attraverso i mezzi di impugnazione. La parte si trova dunque di fronte ad una alternativa : - se è ancora possibile, può far valere l’inesistenza della sentenza attraverso il mezzo di impugnazione. - Se la parte non può ( ad es. , perché i termini sono scaduti ) oppure non vuole utilizzare l’appello, può far valere il vizio di inesistenza anche in un separato processo - oppure riproponendo la domanda e, di fronte alla possibile eccezione di giudicato della controparte, replicare che il giudicato in realtà non esiste, perché la precedente sentenza è inesistente. La parte può quindi utilizzare i mezzi di impugnazione come strumenti facoltativi nel senso di strumenti alternativi proprio perché riescono a dare la stessa tutela di quella data da altri strumenti che la parte ha a disposizione. SOPRAVVENIENZE 2 Le sopravvenienze in fatto o in diritto consentono la riproposizione della domanda. Noi sappiamo che, per ciò che attiene ai limiti temporali di efficacia della sentenza, il referente è l’udienza di precisazione delle conclusioni per quanto riguarda i fatti, e la pubblicazione della sentenza per quanto riguarda le norme. Se , dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni, si verifica un fatto nuovo, rilevante per l’esistenza del diritto dedotto in giudizio; o se, dopo la pubblicazione della sentenza, viene modificata la norma, sulla quale si è basata la pronuncia, la parte, che ha interesse ad impugnare può scegliere tra: - dedurre tali novità con i mezzi di impugnazione - o riproporre un’altra domanda, allegando la sopravvenienza. La scelta è possibile solo quando i mezzi di impugnazione sono utilizzabili ; altrimenti , la parte può solo instaurare un nuovo processo. I fatti nuovi e le norme nuove consentono di proporre una nuova domanda; le prove nuove (chiaramente riferite a fatti vecchi, e quindi soggetti alla preclusione del dedotto e del deducibile) sono invece utilizzabili solo attraverso e nei limiti in cui possono essere messe a fondamento di un mezzo di impugnazione. OGGETTO DI IMPUGNAZIONE Oggetto di impugnazione, stabilisce l’art. 323 c.p.c. , sono le sentenze. Non sono oggetto di impugnazione gli altri provvedimenti del giudice, in particolare le ordinanze (le ordinanze possono essere sempre modificate o revocate dal giudice che ha pronunciate). Le ordinanze non sono, quindi, autonomamente impugnabili, perché refluiscono nella sentenza. Il giudice con la sentenza ha il potere di riesaminare le questioni risolte con ordinanza , per cui l’eventuale lamentela della parte contro un’ordinanza diventa una lamentela contro la sentenza che ha confermato l’ordinanza. Il giudice, quando pronuncia una ordinanza, non perde il potere di tornare sulla questione che ha deciso; soltanto quando pronuncia sentenza il giudice perde il potere di tornare sulla sua decisione. ORDINANZE NON MODIFICABILI E NON REVOCABILI Ci sono però delle ordinanze ( art. 177 c.p.c.) che non sono modificabili o revocabili. In questo caso già l’ordinanza che produce il pregiudizio. Nelle ordinanze non revocabili né modificabili, nella maggior parte dei casi, il pregiudizio non si avvera. - Si tratta di ordinanza pronunciate sull’accordo delle parti, e quindi se la parte è d’accordo non avrà niente di cui lamentarsi. - Si tratta di ordinanze reclamabili al collegio, quindi esiste un sistema di controllo. - Rimangono le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge. Il più delle volte le ordinanze dichiarate espressamente non impugnabili dalla legge riguardano questioni processuali che non incidono sulla decisione finale. ES: sono ordinanze non impugnabili quelle che ordinano la cancellazione della causa dal ruolo, ciò non pregiudica la decisione finale, perché la parte può riassumere la causa. FORMA La forma dell’ordinanza è strettamente connessa con la sua intrinseca riesaminabilità (Il giudice che le decide al potere di ritornare). L'ordinamento prevede che il giudice decida di certe questioni con sentenza e di altri con ordinanza. Uno dei problemi più delicati si ha quando il giudice emette un provvedimento nella forma sbagliata. E’ rilevante la forma che la legge impone non quella che il giudice in concreto utilizza. Naturalmente, il principio della prevalenza della forma prescritta dal legislatore su quella in concreto adottata dal giudice non è applicabile quando il legislatore conferisce al giudice la scelta. SENTENZA IN SENSO SOSTANZIALE L’espressione “ sentenza” usata dall’art. 111 Cost. è stata interpretata in senso sostanziale = ai provvedimenti che hanno la funzione della sentenza: cioè ai provvedimenti decisori, contro i quali non è ammessa altra tutela. RILEVANZA DELLA QUALIFICAZIONE DELL’OGGETTO DEL PROCESSO Talvolta l’utilizzazione di un mezzo di impugnazione dipende dalla domanda proposta dalla parte. In tal caso rilevante è la qualificazione data dal giudice di primo grado alla domanda proposta , indipendentemente dall’esattezza di tale qualificazione. La distinzione più importante , all’interno dei mezzi di impugnazione , è quella fra i mezzi di impugnazione ordinari ed i mezzi di impugnazione straordinari. ESCLUSIONE DELLE SOPRAVVENIENZE I mezzi di impugnazione straordinari NON si fondano su sopravvenienze in fatto o in diritto, ma riguardano la situazione di fatto e di diritto qual era . Le sopravvenienze in fatto e in diritto consentono la riproposizione della domanda, perché a ciò non è d’ostacolo il precedente giudicato. Invece le fattispecie che fondano i mezzi di impugnazione straordinari danno luogo non a processi formalmente autonomi ma, appunto a mezzi di impugnazione, il che significa che la domanda d’impugnazione è di solito soggetta ad un termine di decadenza . 1. Si propone al giudice che ha emesso la sentenza che si impugna; 2. Il processo si svolge secondo le stesse regole con cui si è svolto quello che ha portato all’emanazione della sentenza che si impugna in via straordinaria; 3. e , infine, la pronuncia emessa in sede di impugnazione straordinaria è soggetta agli stessi mezzi di impugnazione, a cui era soggetta la pronuncia impugnata. ES: Se viene impugnata in via straordinaria una sentenza di primo grado, la sentenza emessa in sede di impugnazione straordinaria è appellabile, perché appellabile era la sentenza impugnata; ma se viene impugnata in via straordinaria una sentenza di appello, la sentenza che viene emessa in sede di impugnazione straordinaria è ricorribile per Cassazione e non appellabile, perché non appellabile ma ricorribile per Cassazione era la sentenza impugnata. AZIONE SOTTO VESTE DI IMPUGNAZIONE Il fatto che il nostro ed altri ordinamenti scelgano la tecnica del mezzo di impugnazione straordinario anziché la tecnica della riproposizione della domanda in un ordinario processo non impedisce di percepire quella che è la realtà delle cose: e cioè che l’impugnazione straordinaria è un’azione sotto veste di impugnazione. Ciò non solo perché le operazioni logiche che compie il giudice, di fronte al quale è riproposta la domanda, sono le stesse che compie il giudice dell’impugnazione straordinaria ma soprattutto perché la litispendenza, con tutti i suoi effetti, cessa al passaggio in giudicato formale della sentenza, e nuovi effetti sostanziali e processuali si producono nel momento in cui viene proposto il mezzo di impugnazione straordinario. Proposta una domanda, gli effetti di essa si producono fino al passaggio in giudicato formale della sentenza; nel momento in cui la pronuncia passa in giudicato formale, ritornano applicabili le norme ordinarie di diritto sostanziale. Allorché viene proposto il mezzo di impugnazione straordinario, si producono dei nuovi effetti sostanziali , che operano sulla situazione di diritto sostanziale quale essa è nel momento in cui viene proposto il mezzo di impugnazione straordinario. EFFETTI SOSTANZIALI DELLA DOMANDA DI IMPUGNAZIONE Medio tempore ( tra il passaggio in giudicato formale della precedente sentenza e la proposizione del mezzo di impugnazione straordinario) possono essersi verificati eventi pregiudizievoli per la parte che propone il mezzo di impugnazione straordinario. Ebbene, tali eventi non sono neutralizzati dagli effetti della domanda originaria, che ha dato luogo alla sentenza passata in giudicato, e successivamente impugnata con il mezzo di impugnazione straordinario ciò perché gli effetti “ di protezione” prodotti dalla domanda originaria sono cessati con il passaggio in giudicato formale della sentenza , poi impugnata in via straordinaria. Se sono soggette a trascrizione le domande, con cui si propone un mezzo di impugnazione straordinaria , ciò significa che queste domande producono nuovi effetti sostanziali. Le domande di impugnazione ordinaria ( appello , revocazione ordinaria, ricorso per Cassazione, e regolamento di competenza) non sono soggette a trascrizione perché la domanda proposta in primo grado produce effetti che coprono l’intero arco della litispendenza: dalla proposizione della domanda al passaggio in giudicato formale. Il fatto che il legislatore preveda che siano, invece, soggette a trascrizione le domande di impugnazione straordinaria, significa, implicitamente, che, con il passaggio in giudicato formale della sentenza, cessano gli effetti sostanziali della domanda originaria, si riapplicano le norme di diritto comune e, quando si propone la domanda di impugnazione straordinaria, questa produce una nuova litispendenza, e quindi dei nuovi effetti della domanda, che ovviamente si riferiscono alla realtà sostanziale quale essa è al momento della proposizione della domanda di impugnazione straordinaria; e quindi una realtà sostanziale modificata nel periodo intermedio fra il passaggio in giudicato formale e la proposizione della domanda di impugnazione straordinaria. Le impugnazioni straordinarie sono azioni sotto veste di impugnazione, e si differiscono, rispetto alla riproposizione della domanda, solo per: - la competenza, - per il procedimento - e per il regime di impugnazione della sentenza con cui viene decisa l’impugnazione straordinaria. Ma sotto tutti gli altri profili non c’è alcuna differenza. Il nostro legislatore non prevede, per la proposizione delle impugnazioni straordinarie, un termine di decadenza finale svincolato dalla scoperta del vizio. In astratto la sentenza può essere impugnata in via straordinaria anche dopo cento anni dalla sua pubblicazione solo che il diritto, che con l’impugnazione straordinaria si fa valere, sarà certamente prescritto, o estinto per non uso , o estinto per l’usucapione altrui, etc. 34) LA LEGITTIMAZIONE E L’INTERESSE A IMPUGNARE Dal punto di vista soggettivo occorre distinguere: - i mezzi di impugnazione proponibili dalla parte - dai mezzi di impugnazione proponibili dai terzi. Per “parte” si intende colui che ha assunto la qualità di parte in senso processuale ( nel senso di colui a cui sono imputati gli effetti degli atti processuali). Quindi, in caso di rappresentanza, parte è il rappresentato e non il rappresentante. Il mezzo di impugnazione utilizzabile da colui, che non ha assunto la qualità di parte, è l’opposizione di terzo. Gli altri sono tutti mezzi di impugnazione della parte, con alcune eccezioni: in certi casi i mezzi di impugnazione della parte sono utilizzabili anche da colui che non è stato tale. - La prima eccezione si ricollega alle ipotesi di successione nel processo controverso ex art. 111 c.p.c. I successori nel diritto controverso possono impugnare la sentenza con i mezzi propri della parte. - La seconda eccezione si ricollega alla sostituzione processuale che si ha, quando, il processo è condotto dal legittimato straordinario senza la presenza del legittimato ordinario. In tal caso il sostituto può impugnare con i mezzi propri della parte, nonostante che non sia stato parte (in senso processuale) proprio perché sostituto. - Una terza eccezione è l’impugnazione della sentenza in via surrogatoria da parte del creditore del soccombente. INTERESSE A IMPUGNARE L’interesse e la legittimazione ad impugnare debbono essere presenti affinché la domanda di impugnazione possa essere esaminata. L’interesse ad impugnare costituisce un’applicazione del presupposto processuale generale enunciato dall’art. 100 c.p.c. , cioè dell’interesse ad agire. L’interesse ad agire viene in luce come interesse al risultato del processo. L’interesse ad impugnare si verifica attraverso la seguente constatazione : - la sentenza di impugnazione, che abbia il contenuto richiesto con la domanda di impugnazione, deve dare una tutela maggiore di quella che dà la sentenza che si impugna. - L’accoglimento dell’impugnazione deve essere utile. Non c’è interesse ad impugnare quando ciò che dà il giudice dell’impugnazione non è più quello che ha dato il giudice della sentenza impugnata. La legittimazione ad impugnare presuppone la soccombenza. Essere soccombenti significa che con il provvedimento che si vuole impugnare si è ottenuta una tutela inferiore a quella richiesta. Per valutare la soccombenza, occorre tener conto delle richieste che le parti avanzano al momento della precisazione delle conclusioni. Ciò che conta non è quello che è stato chiesto negli atti introduttivi o chiesto in corso di causa, ma unicamente ciò che è stato chiesto al momento della precisazione delle conclusioni. Per sapere se una parte è soccombente occorre quindi mettere a confronto due elementi: - da un lato ciò che la parte ha chiesto nell’udienza di precisazione delle conclusioni; - dall’altro ciò che gli ha dato la sentenza. Se la sentenza gli ha dato una tutela (almeno) equivalente a quella che la parte aveva chiesto, questa non è soccombente, e quindi non può impugnare (quantomeno non può impugnare per prima; avrà pertanto bisogno che l’iniziativa di un’altra parte soccombente la rimetta in gioco c.d. impugnazione incidentale) . Può essere che la parte, pur essendosi vista respinti alcuni argomenti che aveva proposto, tuttavia non sia soccombente e manchi della legittimazione a proporre l’impugnazione in via principale. Dobbiamo partire dall’esame dei rapporti tra rito e merito. Al momento della decisione il giudice deve tuttavia affrontare e risolvere le questioni di rito prima di affrontare quelle di merito. Le pronunce di rito NON impediscono la riproposizione della domanda. Invece le sentenze di merito hanno efficacia di giudicato sostanziale: proiettano i loro effetti e rendono incontrovertibile l’esistenza o l’inesistenza della situazione sostanziale, oggetto della decisione. DIFESE IN RITO E RIGETTO NEL MERITO La prima ipotesi è che il convenuto si sia difeso soltanto in rito, e il giudice abbia rigettato la domanda dell’attore nel merito. Il convenuto non ha interesse ad impugnare perché la vittoria nel merito gli dà una tutela superiore a quella che egli stesso aveva chiesto. Nel processo riassunto o nel secondo processo, il convenuto sarebbe potuto poi rimanere soccombente nel merito. Pur avendo il giudice rigettato la difesa in rito del convenuto, poiché è stata ritenuta infondata nel merito la domanda dell’attore, la pronuncia dà al convenuto una tutela maggiore in quanto, se la sentenza passa in giudicato, essa impedisce all’attore di riproporre la domanda. DIFESE IN RITO E IN MERITO E RIGETTO NEL MERITO La seconda ipotesi è che il convenuto si sia difeso in rito e in merito, e il giudice abbia rigettato la domanda dell’attore nel merito. Qui la soluzione è semplice: il convenuto ha ottenuto quella, fra le tutele richieste, che lo garantisce di più. Quindi sicuramente non è né legittimato ad impugnare (perché non è soccombente) né ha interesse ad impugnare (perché l’accoglimento dell’impugnazione gli dà meno di quanto abbia ottenuto dalla sentenza impugnata). DIFESE IN RITO E IN MERITO E RIGETTO NEL RITO La notificazione della sentenza ai fini della decorrenza del termine breve deve essere fatta alla parte personalmente quando non vi è stata costituzione in giudizio a mezzo di difensore. - Ciò accade quando la parte è stata contumace, - oppure si è costituita in giudizio di persona, cioè si è difesa senza un rappresentante tecnico. Un principio importante, che non risulta espressamente dalla legge ma è affermato dalla giurisprudenza , è il seguente: la notificazione della sentenza fa decorrere il termine breve sia per chi la riceve (notificato) sia per chi l’ha effettua ( notificante). L’avvenuto perfezionamento della notificazione della sentenza costituisce il momento in cui comincia a decorrere il termine breve sia per la parte che ha ricevuto la notificazione, sia per la parte che ha richiesto la notificazione. “Unitarietà del termine per l’impugnazione” significa che il termine comincia a decorrere insieme per il notificante e per il notificato. I termini brevi possono tuttavia essere interrotti. Si prevede che se, una volta effettuata la notificazione, si verifica morte o perdita della capacità prima della costituzione, il termine per proporre l’impugnazione è interrotto, e per far decorrere un nuovo termine breve occorre ripetere la notificazione. Se l’evento è la morte della parte, la rinnovazione può, peraltro, avvenire nella forma consueta, cioè agli eredi collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto. 2) COMUNICAZIONE DELLA SENTENZA Eccezionalmente i termini brevi per proporre un mezzo di impugnazione decorrono non dalla notificazione ma dalla comunicazione del provvedimento. 3) CONOSCENZA DEL VIZIO OCCULTO Il terzo meccanismo che fa decorrere i termini brevi riguarda i mezzi di impugnazione straordinari (esclusa l’opposizione di terzo ordinaria, che non ha né termine iniziale né termine finale). Proprio perché l’esperibilità di tali mezzi di impugnazione è ricollegata ad un evento futuro ed incerto non avrebbe senso che il termine per esercitarli decorresse da un momento fisso. Invece di un termine a decorrenza fissa l’ordinamento ha stabilito un termine breve, la cui data di decorrenza però è mobile, perché coincide con il giorno in cui si scopre il “ vizio occulto” della sentenza. La parte, che propone l’impugnazione straordinaria, deve quindi dimostrare non soltanto l’esistenza del motivo di impugnazione straordinaria, ma anche il giorno in cui ne è venuta a conoscenza. TERMINE LUNGO Il termine lungo previsto per l’impugnazione delle sentenze è disciplinato dall’art. 327 c.p.c. che vale solo per le impugnazioni ordinarie. Dopo 6 mesi dal momento della pubblicazione della sentenza non possono più proporsi le impugnazioni ordinarie. I mezzi di impugnazione straordinari, non hanno un termine lungo, che decorra a prescindere dalla conoscenza del vizio della sentenza. In mancanza di un termine di decadenza, di natura processuale, operano comunque i meccanismi sostanziali di stabilizzazione ( prescrizione, usucapione, non uso, etc.). Infatti, gli effetti sostanziali della domanda non operano fra il passaggio in giudicato della sentenza e la proposizione dell’impugnazione straordinaria. NON DECORRENZA DEL TERMINE LUNGO Vi è, poi, un’eccezione alla decorrenza del termine lungo per proporre le impugnazioni ordinarie. Il termine lungo non decorre nei confronti della parte contumace, che dimostri di non avere avuto conoscenza del processo: - per la nullità della citazione, - oppure per la nullità della notificazione della citazione, - e per la nullità della notificazione degli atti che si prescrive siano notificati al contumace. Se paragoniamo l’art. 327 c.p.c. con la norma sulla rimessione in termini del contumace, riscontriamo una differenza rilevante: la rimessione in termini può avvenire anche nell’ipotesi in cui il contumace, “ per causa a lui non imputabile”, non ha potuto difendersi; l’art. 327 c.p.c. non prevede questa ipotesi come motivo di non applicazione del termine lungo. Ciò potrebbe far sorgere qualche profilo di incostituzionaltià. Si potrebbe, infatti, sostenere che far decorrere un termine nei confronti di un soggetto che, per causa a lui non imputabile, non ha potuto esercitare un certo potere, sia in contrasto con il diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. QUERELA NULLITATIS La possibilità di impugnare la sentenza affetta da vizi relativi all’instaurazione del contraddittorio dà luogo ad una ipotesi di querela nullitatis. L’invalidità della sentenza può essere fatta valere in ogni tempo ed in ogni luogo, salvi gli effetti di stabilizzazione prodotti dal diritto sostanziale (prescrizione, usucapione, estinzione per non uso). Si è però anche detto che talvolta la nullità della sentenza può essere fatta valere pure al di là dei mezzi di impugnazione : come appunto accade per la sentenza c.d. inesistente la cui invalidità può essere fatta valere attraverso un ordinario processo di cognizione, anche in via incidentale. L’actio nullitatis è appunto la domanda, proposta di fronte al giudice ordinariamente competente in primo grado, volta a far dichiarare la inefficacia della sentenza nulla per i vizi. Accanto alla actio nullitatis esiste anche la querela nullitatis, attraverso la quale l’invalidità della sentenza è fatta valere non attraverso un ordinario processo di cognizione, ma mediante uno strumento predefinito dal legislatore. Ove la nullità della sentenza determinata da vizio del contraddittorio può essere fatta valere senza limiti di tempo ma mediante uno strumento predeterminato : appunto l’impugnazione della sentenza. ACQUIESCENZA 2. Il secondo gruppo di ipotesi, che determinano la perdita del potere di impugnare, è costituito dall’acquiescenza ( art. 329 c.p.c.). L’acquiescenza si distingue in 2 categorie: • la prima, disciplinata dall’art. 329, I c.p.c. si caratterizza per il riferimento alla volontà della parte che presta acquiescenza: perché si determini l’acquiescenza, è necessaria la volontà della parte di accettare la sentenza. Tale volontà, può essere espressa o tacita. • La seconda categoria di acquiescenza è disciplinata dall’art. 329, II c.p.c. : si tratta della c.d. acquiescenza tacita qualificata o acquiescenza legale, che prescinde dalla volontà del soggetto interessato. L’acquiescenza, che fa riferimento alla volontà della parte, consiste in una manifestazione espressa della volontà di accettare la sentenza o di rinunciare all’impugnazione. L’acquiescenza tacita si ha, invece, quando la parte pone in essere atti incompatibili con la volontà di avvalersi della impugnazioni ammesse dalla legge. Generalmente, gli atti processuali non sono negoziali : non ha rilevanza la volontà degli effetti, ma solo quella del comportamento; gli effetti sono poi ricollegati dalla legge automaticamente al compimento dell’atto. Vi sono però delle ipotesi in cui ha rilevanza la volontà degli effetti: uno di questi è appunto l’acquiescenza. Si tratta di negozio processuale unilaterale, in cui rileva la sola volontà del soggetto di accettare la sentenza. L’art. 329 c.p.c. parla di atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni : sono questi gli atti, che manifestano inequivocabilmente la volontà di accettare la pronuncia. Pertanto il comportamento tacito, da cui si deve evincere la volontà di accettare la sentenza, deve essere univoco, cioè non compatibile con la volontà di impugnare. Secondo una certa prospettazione, la manifestazione di volontà espressa non sarebbe rilevante, e quindi si avrebbe ugualmente acquiescenza. Però appare più corretta la soluzione contraria per due motivi. 1. la fattispecie che determina l’acquiescenza è sempre la volontà di accettare la sentenza; quindi non può non essere rilevante la manifestazione espressa della volontà di impugnare. 2. In secondo luogo il soggetto che tiene un comportamento incompatibile con la volontà di impugnare e al tempo stesso manifesta espressamente tale volontà pone in essere un comportamento non univoco, bensì equivoco, per cui l’acquiescenza tacita non si può verificare. ACQUIESCENZA PREVENTIVA L’acquiescenza è possibile solo quando il potere di impugnare è sorto: non è ammissibile un’acquiescenza preventiva. Ciò comporta due conseguenza: - L’acquiescenza non si può avere , con riferimento alle impugnazioni straordinarie, se non dopo che si sono verificati i presupposti per poter esperire l’impugnazione straordinaria. In altri termini, l’acquiescenza alla sentenza non comporta di per sé una rinuncia alle possibili future impugnazioni straordinarie perché nel momento in cui avviene l’acquiescenza non è ancora sorto il potere di proporre tali impugnazioni . - La seconda conseguenza, ricavabile dal sistema , è che l’acquiescenza non è possibile prima della pubblicazione della sentenza, perché fino a quel momento non esiste il potere di impugnare. ACQUISIZIONE TACITA QUALIFICATA Rilevante è solo il comportamento e non anche la volontà degli effetti. L’impugnazione parziale importa l'acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate. La fattispecie è quindi la seguente : la parte soccombente, ad es., su due capi di sentenza impugna la sentenza soltanto con riferimento ad un capo; con riferimento all’altro si forma l’acquiescenza. La volontà del soggetto qui è irrilevante: dall’impugnazione di un capo della sentenza non si può evincere alcuna volontà di accettare la sentenza rispetto al capo non impugnato. La perdita del potere di impugnare costituisce una conseguenza che la legge fa discendere automaticamente dal comportamento, senza dare rilevanza alla volontà del soggetto. Qui sta la differenza fra l’acquiescenza tacita di cui al primo comma dell’art. 329 c.p.c., e quella di cui al secondo comma. Nell’acquiescenza di cui al primo comma rilevano i comportamenti, da cui si deve poter ricavare la volontà di accettare la sentenza. Nell’acquiescenza di cui al secondo comma, invece, rilevano i comportamenti senza che sia rilevante la volontà della parte. 40) LA PLURALITA’ DI PARTI NEI PROCESSI DI IMPUGNAZIONE Se l’oggetto della decisione è unico, il problema oggettivo non si pone, e vi è soltanto un problema soggettivo, in quanto l’impugnazione deve necessariamente investire l’unico oggetto deciso; si La necessità di decisione unica si ha per il litisconsorzio necessario ed il litisconsorzio unitario: in tutte le altre ipotesi, la partecipazione di altre parti al processo una decisione soggettivamente e /o oggettivamente unitaria è facoltativa, e mai necessaria. CAUSA INSCINDIBILE Si ha una causa inscindibile quando si è avuta una pluralità di parti intorno ad un unico oggetto del processo. 1) Le ipotesi di litisconsorzio necessario in primo grado danno sempre luogo a causa inscindibile in sede di impugnazione; se la pronuncia non può essere emessa che nei confronti di più soggetti, è esclusa a priori l’applicazione dell’art. 332 c.p.c. (meccanismo che consente che per qualcuno valga la decisione emessa in sede di impugnazione, e per qualcuno invece la decisione impugnata.) E’ proprio la stessa nozione di litisconsorzio necessario che impedisce tale divaricazione. 2) Discorso analogo deve essere fatto per il litisconsorzio c.d. unitario; in queste ipotesi, ove in primo grado si sia realizzata la pluralità di parti, questa deve essere mantenuta in sede di impugnazione, proprio perché l’oggetto è unico per tutti. La decisione deve essere unica. ES: la stessa delibera del condominio o vale per tutti non vale per nessuno. 3) Un’altra ipotesi di più parti intorno ad un unico oggetto del processo si ha nel caso di partecipazione adesiva ad un processo altrui. Ciò si verifica quando un soggetto partecipa ad un processo, che ha ad oggetto una situazione sostanziale altrui, senza che sia dedotta in giudizio la situazione sostanziale che a lui fa capo. Ciò accade anzitutto quando si è avuto intervento adesivo dipendente in quanto il terzo interviene in giudizio non per far valere un proprio diritto, ma per ottenere che la pronuncia, che il giudice emetterà nei confronti delle parti principali, abbia un certo contenuto invece che un altro; perché a seconda del contenuto che avrà, il terzo ne sarà beneficiato o danneggiato. Esempio tipico: sub conduttore nelle liti tra conduttore e locatore principale. Per il partecipante in via adesiva deve valere la stessa sentenza che vale nei confronti delle parti principali. 4) Un’ulteriore ipotesi di oggetto unico con pluralità di parti è realizzata dalla successione nel diritto controverso, ex art. 111 c.p.c. , quando l’avente causa è intervenuto o è stato chiamato a partecipare al processo. Se l’avente causa diventa parte, si crea una pluralità di parti intorno ad un unico oggetto del processo, e ancora una volta la pronuncia deve essere impugnata nei confronti di tutti. CAUSE DIPENDENTI E SCINDIBILI Nelle cause dipendenti abbiamo una pluralità di parti intorno a più oggetti del processo. Oggetto del processo sono sia il rapporto A-B sia il rapporto B-C. Qui non possiamo dare una soluzione unitaria. Quando venga impugnata dal soccombente, chiunque esso sia, la sentenza che decide una causa inscindibile, si verifica la pluralità di parti necessaria in sede di impugnazione. Invece, nelle ipotesi di cause dipendenti il tipo di processo cumulato da solo non è sufficiente a darci la soluzione del problema. Si rende necessario introdurre un ulteriore elemento rilevante: oltre, cioè , al tipo di cumulo che si è realizzato, dobbiamo tener conto di 2 ulteriori elementi rilevanti, che sono: 1. la decisione che è stata emessa 2. e la richiesta di impugnazione. “ Cause fra loro dipendenti” significa che il contenuto della decisione dell’una presuppone un certo contenuto della decisione dell’altra; e se cambia il contenuto dell’una bisogna ritornare anche sul contenuto dell’altra. Per cui il contenuto dell’una dipende dal contenuto dell’altra. Il criterio da applicare è quindi il seguente: ove l’accoglimento, da parte del giudice dell’impugnazione, della richiesta formulata con la domanda di impugnazione rispetto ad una delle cause connesse è compatibile con il permanere, rispetto all’altra causa connessa, della disciplina contenuta nella sentenza impugnata, applicheremo la normativa sulle cause scindibili dell’art. 332 c.p.c. ; ove, invece, vi sia incompatibilità , applicheremo la normativa sulle cause fra loro dipendenti dell’art. 331 c.p.c. Infatti, se il titolare della causa connessa partecipa al processo altrui in via adesiva, si applica sempre l’art. 331 c.p.c. . Se dunque, nell’ipotesi di processo cumulato, l’applicazione dell’art. 331 c.p.c. richiede che, nella sentenza che si impugna, la decisione dell’una causa sia stata presa tenendo conto di ciò che è stato deciso nell’altra causa, si capisce bene che, nell’ipotesi di litisconsorzio facoltativo semplice, si applica sempre l’art. 332 c.p.c. .In tal tipo di cumulo il modo di essere dell’un diritto non è mai rilevante per il modo di essere dell’altro diritto, e quindi non si può mai realizzare il presupposto delle cause dipendenti : che la decisione dell’una dipenda dalla decisione dell’altra. 41) LE IMPUGNAZIONI INCIDENTALI Alle impugnazioni incidentali abbiamo già accennato trattando dell’art. 332 c.p.c. , allorché abbiamo detto che l’istituto della notificazione delle impugnazioni, relative a cause scindibili, ha come scopo quello di conservare l’unicità del processo di impugnazione rispetto all’unicità della sentenza impugnata, e di evitare che, essendovi più soccombenti, ciascuno di essi apra un separato processo di impugnazione. Il presupposto dell’impugnazione incidentale è che vi sia una pluralità di soccombenti . L’impugnazione incidentale non si può avere se il soccombente è uno solo. Se lo scopo delle impugnazioni incidentali è l’unitarietà del processo di impugnazione, il mezzo, utilizzato dal legislatore a tal fine, è quello di rendere obbligatoria la forma dell’impugnazione incidentale per tutti coloro che impugnano successivamente all’impugnazione principale. Una volta proposta la prima impugnazione (detta principale), gli altri soggetti soccombenti, che vogliono impugnare, devono utilizzare la forma incidentale, ed inserire la loro impugnazione all’interno del processo già aperto dalla prima impugnazione, e non possono (tendenzialmente) proporre un autonomo atto di impugnazione. Perché possa sorgere l’obbligo dell’impugnazione incidentale, occorre tuttavia che il soccombente, che vuole impugnare, sia venuto a conoscenza della già avvenuta proposizione dell’impugnazione principale. Se il soccombente non sa che un altro soggetto ha proposto impugnazione principale, non può essere obbligato alla forma incidentale, perché non sa che c’è già un processo aperto, in cui inserire la propria impugnazione. SOGGETTI OBBLIGATI ALLA FORMA INCIDENTALE L’art. 333 c.p.c. individua, infatti, i soccombenti, che sono obbligati ad usare la forma incidentale : < le parti alle quali sono fatte le notificazioni previste negli articoli precedenti>. Gli “ articoli precedenti” sono: 1. l’art. 330 c.p.c. : la prima categoria è quindi quella dei soggetti , contro cui è stata proposta impugnazione. 2. Poi l’art. 331 c.p.c. : la seconda categoria è quella dei soggetti, nei cui confronti è stata proposta l’impugnazione trattandosi di causa inscindibile o di cause fra loro dipendenti, o chiamati ad integrare il contraddittorio. 3. Infine, l’art. 332 c.p.c. : la terza categoria è quella dei soggetti, nei confronti dei quali l’impugnazione non è stata proposta, ma è stata loro notificata per conoscenza, proprio al fine di far scattare nei loro confronti l’obbligo dell’impugnazione incidentale. L’obbligo dell’impugnazione incidentale scatta nei confronti di quei soggetti, che sono stati posti a conoscenza dell’avvenuta apertura di un processo di impugnazione all’interno del quale possono proporre le loro domande (di impugnazione). RAPPORTI CON L’IMPUGNAZIONE PRINCIPALE L’impugnazione incidentale non è di per sé un’impugnazione secondaria: è solo quella che viene dopo nel tempo. In linea di principio l’impugnazione incidentale non risente delle vicende relative all’impugnazione principale. Quindi la decisione dell’impugnazione incidentale non dipende dall’ammissibilità dell’impugnazione principale. Se, per qualsiasi motivo, l’impugnazione principale non può essere esaminata, di norma, ciò non incide sulla possibilità che sia esaminata l’impugnazione incidentale. ATTO CONTENENTE L’IMPUGNAZIONE INCIDENTALE Poiché l’impugnazione incidentale si inserisce in un processo già aperto con l’atto di impugnazione principale, essa deve essere contenuta nell’atto di difesa, che l’impugnato può compiere avverso l’impugnazione principale. L’atto di difesa dell’appellato è la comparsa di risposta. Tale comparsa deve essere depositata, come termine ultimo, nella cancelleria del giudice d’appello, 20 giorni prima della udienza di comparazione, fissata con l’atto di appello. Si tratta di disciplina analoga a quella del processo di primo grado. Il processo di cassazione è, invece, introdotto con ricorso che viene notificato alla controparte e quindi depositato presso la cancelleria della Corte; entro 40 giorni dalla notificazione del ricorso, il resistente (la parte contro cui il ricorso è stato proposto) può depositare, presso la cancelleria della Corte, un controricorso, che costituisce l’atto di difesa nei confronti del ricorso. Il termine, per compiere l’atto difensivo contro l’impugnazione altrui, pertanto, non è predeterminabile per quanto concerne la comparsa di risposta in appello ( perché esso dipende dal momento in cui l’appellante ha fissato la prima udienza), ed è invece predeterminabile per quanto riguarda il controricorso ( che va notificato entro 40 giorni dalla notificazione del ricorso principale). L’impugnazione incidentale va inserita nell’atto che è previsto per la difesa di colui contro il quale l’impugnazione è proposta , nei modi e nei termini con cui l’atto di difesa deve essere compiuto. INAMMISSIBILITA’ Ora, se l’impugnazione incidentale deve essere inserita nell’atto di difesa avverso l’impugnazione principale, atto da compiere nel termine ultimo previsto, è chiaro che diventa inammissibile l’impugnazione incidentale proposta dopo il termine ultimo per il compimento dell’atto difensivo. Scaduto il termine per compiere l’atto di difesa proprio di quel mezzo di impugnazione, l’impugnazione non è più ammissibile, né in forma incidentale, né in forma principale. PLURALITA’ DI IMPUGNAZIONI PRINCIPALI Tuttavia, lo scopo che il legislatore vuole raggiungere con l’istituto delle impugnazioni incidentali, e cioè l’unitarietà del processo di impugnazione, non è sempre assicurato: e ciò per 2 motivi. Posto che l’obbligo alla forma incidentale può sorgere solo nei confronti della parte che abbia ricevuto notizia dell’avvenuta proposizione dell’impugnazione principale ad opera di altra