Scarica Malattie del ricambio e più Sintesi del corso in PDF di Endocrinologia solo su Docsity! MALATTIE DEL RICAMBIO L’OMEOSTASI GLUCIDICA L'introduzione dei nutrienti con la dieta determina flussi massivi di energia, che vanno regolati per facilitarne l'utilizzo secondo le esigenze metaboliche dell'organismo: i valori ematici di glucosio dipendono prevalentemente dall'attività metabolica dei diversi organi. La regolazione del metabolismo si verifica in prevalenza nel Fegato, capace di assorbire il glucosio e depositarlo, quando è in eccesso, sotto forma di glicogeno, è la sorgente principale di glucosio in condizioni di ipoglicemia; tessuto adiposo, costituisce il deposito degli acidi grassi sotto forma di trigliceridi, rappresenta un altro compartimento di grandi riserve metaboliche, capace di fornire substrati ad alto contenuto energetico (acidi grassi). tessuto muscolare utilizza glucosio e acidi grassi in grandi quantità in rapporto all'attività funzionale richiesta. Il pancreas endocrino Le isole di Langherans, all’interno del pancreas, sono formate da quattro tipologie di cellule: 1. le cellule β sono localizzate al centro delle isole e secernono insulina che è contenuta in granuli di deposito presenti nelle stesse cellule, nei quali forma polimeri contenenti zinco 2. le cellule α, disposte intorno alle cellule β secernono glucagone 3. le cellule δ, atte alla produzione della somatostatina 4. le cellule F che, invece, producono il polipeptide pancreatico INSULINA BIOSINTESI E CATABOLISMO L’insulina è un peptide generato dalla degradazione di un propeptide di secrezione composto da una catena A e una catena B (che costituiscono la parte attiva) e dal peptide C, che non possiede attività ormonale (è un peptide di connessione che poi viene perché secreto in circolo al momento della formazione dell’insulina, in quantità equimolari e, per questo, può essere considerato un marker per il dosaggio della secrezione di insulina, L'emivita biologica dell'insulina è di circa 5 minuti, dal momento della sua secrezione in circolo, dopo dei quali, la maggior parte dell'insulina viene catabolizzata a livello epatico e renale. EFFETTI BIOLOGICI Gli effetti dell'insulina sono molteplici e possono essere classificati in varia maniera. L'effetto più importante è quello sulla glicemia, determinando una riduzione del glucosio ematico (ipoglicemia). L'insulina regola in maniera molto accurata la disponibilità delle risorse energetiche: aumenta, infatti, la sua secrezione nella fase prandiale, caratterizzata dall'ingestione di sostanze energetiche, come glucosio e acidi grassi, facilitandone la deposizione negli organi atti al deposito degli stessi; nelle fasi post prandiali, quando le risorse energetiche si riducono, invece, la secrezione di insulina diminuisce e aumenta il livello degli ormoni contro‐insulari, come il glucagone, che aumentano il rilascio delle sostanze energetiche dagli organi di deposito, (tessuto adiposo e il fegato). L'insulina agisce su diversi organi bersaglio; tra questi, in particolare, il muscolo, il tessuto adiposo e il fegato effetti sui tessuti adiposo e muscolare Nel tessuto muscolare, così come nel tessuto adiposo, l'insulina attiva la captazione del glucosio a livello delle membrane plasmatiche; questo effetto è dovuto alla stimolazione del GLUT4, il trasportatore del glucosio: il legame dell'insulina con il proprio recettore, infatti, determina l'attivazione delle vescicole contenenti il trasportatore, che viene inserito nella membrana plasmatica; al termine dell'effetto dell'insulina, il trasportatore viene endocitato e si riformano altre vescicole contenenti il trasportatore. Il glucosio, all'interno delle cellule, viene rapidamente fosforilato, per effetto di enzimi specifici; reazione che può essere inibita da alcuni ormoni, come i glucocorticoidi e l'ormone della crescita. → Nelle cellule muscolari l'aumentato assorbimento di glucosio si accompagna alla stimolazione della sintesi di glicogeno e della captazione degli aminoacidi e all'incremento della sintesi proteica. Viene, inoltre, ridotta la proteolisi, alla quale si accompagna una diminuzione della liberazione di aminoacidi; anche la captazione dei corpi chetonici e del potassio risulta incrementata. → Nel tessuto adiposo, l'insulina determina l'aumento della captazione e la sintesi degli acidi grassi, che vengono depositati come trigliceridi. L'azione dell'insulina, inoltre, determina l'attivazione della lipoproteinlipasi, la riduzione dell'attività della lipasi ormone‐sensibile e l'aumento della captazione di K. effetti a livello epatico L'effetto dell'insulina si esercita sulle tappe biosintetiche, una volta che il glucosio è entrato negli epatociti (nelle cellule epatiche, il glucosio utilizza la via del GLUT2, che non è regolato dall'insulina), determinando la stimolazione della sintesi proteica e quella dei lipidi, la riduzione della chetogenesi e la liberazione di glucosio, per inibizione della gliconeogenesi Secondo alcuni studi, l’insulina ricoprirebbe anche un ruolo nella sintesi proteica in sinergia con gli ormoni GH (o somatotropina), IGF‐1 (o somatomedina c) e testosterone: in generale, stimola la crescita dei tessuti. L'effetto dell'insulina sul K, che viene assorbito a livello cellulare, causa una riduzione della kaliemia, che può essere attribuita a vari meccanismi, tra i quali la stimolazione della pompa sodio/potassio di membrana. MECCANISMO D'AZIONE Il sistema dei segnali indotti dall'insulina comprende tre ligandi: insulina, fattore di crescita insulino simile 1 (Insulin‐like Growth Factor 1, IGF1), fattore di crescita insulino simile 2 (Insulin‐like Growth Factor 2, IGF2), I recettori dell'insulina sono diffusi in tutti gli organi, anche su cellule che assorbono glucosio in maniera indipendente dall'ormone. Il recettore è formato da quattro catene polipeptidiche, due α e due β, che derivano da un peptide precursore, che viene poi scisso nelle diverse catene che formano tra loro ponti disolfuro; le catene polipeptidiche sono glicosilate e si estendono variamente nell'interstizio: la catena α è extracellulare mentre quella β è intracellulare e possiede attività tirosinchinasica Sono state differenziate due isoforme del recettore per l'insulina, IRa e IRb, che legano l'ormone con diversa affinità: IRb lega esclusivamente l'insulina con alta affinità ed è presente nei tessuti insulino‐dipendenti, come il fegato, il muscolo scheletrico e il tessuto adiposo IRa lega l'insulina e IGF2, che ne riduce parzialmente l'affinità per l'insulina; è presente nei tessuti fetali, nel sistema nervoso centrale dell'adulto e nelle cellule emopoietiche Si possono, anche, formare degli ibridi tra i recettori IR e quello per l’IGF1: IRb‐IGF1R lega IGF1 con alta affinità; IGF2, a sua volta, si lega al recettore per il mannosio 6 fosfato, M6PR Il legame dell'insulina con il recettore stimola l'attività chinasica della catena β, dando luogo all'autofosforilazione della catena, determinando una cascata di reazioni intracellulari. La PI3K, attraverso il PIP, attiva altre chinasi, tra le quali AKT, la chinasi indotta da glucocorticoidi e la proteinchinasi C. → Una volta fosforilata, AKT fosforila molte proteine, tra le quali la glicogeno‐sintasi‐chinasi 3B che media la traslocazione di GLUT4, l'eterodimero BAD‐BCL2 (complesso antiapoptotico) e il fattore di trascrizione FOXO (FOrkhead boXO), che regola l'espressione genica. AKT fosforila anche la tuberina (TSC2), che inibisce la proteina associata alla guanosintrifosfatasi (GAP) attraverso la proteina G che stimola la proteina bersaglio della rapamicina (mTOR). Questa via ha particolare importanza, poiché determina un diretto legame tra l'insulina e i meccanismi di regolazione metabolica attivati dai nutrienti (nutrient sensing): la mancanza di AKT2 nei topi causa insulino‐ resistenza e diabete. L'azione dell'insulina termina con l'internalizzazione del recettore e la sua defosforilazione da parte di tirosinfosfatasi. REGOLAZIONE DELLA SECREZIONE La secrezione dell'insulina è regolata in maniera preponderante dal glucosio ma è stimolata anche da alcuni aminoacidi e da molti ormoni gastrointestinali. → IL GLUCOSIO è il più importante fattore di regolazione della secrezione di insulina, che viene liberata in rapporto diretto alla sua concentrazione ematica. Il rapporto tra secrezione di insulina e concentrazione di glucosio assume un andamento di tipo sigmoidale, indicando che non tutte le cellule β hanno la stessa soglia di stimolazione: con un'infusione costante di glucosio è possibile osservare che la risposta secretoria delle cellule β ha un andamento bifasico: si registra un primo picco rapido, seguito da un secondo picco ritardato dovuto alla liberazione di insulina da vescicole che vanno preparate e mobilizzate per la secrezione. Il glucosio ha anche effetti intermedi e ritardati sulle cellule β: una prolungata esposizione al glucosio riduce l'espressione di molti geni importanti nella secrezione di insulina da parte delle cellule β. Il glucosio entra nelle cellule B delle isole di Langerhans attraverso un meccanismo di diffusione facilitata, utilizzando il trasportatore GLUT2: all'interno viene rapidamente fosforilato per effetto della glucochinasi, che avvia le reazioni della glicolisi; si forma, così, ATP, che va a bloccare i canali per il potassio ATP‐dipendenti: si determina, in questo modo, la depolarizzazione delle cellule β, che diventano permeabili al Ca2+, il quale contribuisce alla secrezione dell'ormone. I vacuoli di deposito dell'insulina si fondono con la membrana plasmatica e la liberano nello spazio extracellulare Anche il CAMP svolge un ruolo importante, in quanto potenzia la secrezione di insulina da parte del glucosio, in risposta a GLP1 e al polipeptide gastroinibitore (GIP); il CAMP è importante nelle reazioni di esocitosi, che accompagnano la secrezione di insulina. → GLI AMINOACIDI sono stimolatori della secrezione dell'insulina. I più potenti risultano essere l'arginina e la lisina e la leucina con minore influenza. Gli effetti degli aminoacidi sono potenziati dal glucosio. → I GRASSI: i corpi chetonici e gli acidi grassi hanno la capacità di stimolare la secrezione di insulina. L'esposizione protratta agli acidi grassi riduce la risposta secretiva delle cellule β e contribuisce alla loro insufficiente attività. → ORMONI: la secrezione di insulina è stimolata da molti peptidi liberati a livello gastrointestinale, come il polipeptide gastroinibitore (GIP), colecistochinina Glucagon‐Like Peptide 1, GLP1. Questi ormoni sono liberati a livello delle cellule intestinali K, I e L durante la fase postprandiale e raggiungono le cellule β, ove potenziano gli effetti del glucosio (per questo motivo, il glucosio assorbito per via intestinale aumenta la secrezione dell'insulina in misura maggiore spetto alla via endovenosa). Altri ormoni gastrointestinali che stimolano la secrezione di insulina sono il peptide intestinale vasoattivo (VIP), la secretina la gastrina, CRISI IPOGLICEMICA La crisi ipoglicemica è la fase che intercorre tra il momento in cui la glicemia scende sensibilmente al di sotto dei valori considerati normali (ipoglicemia) e quello in cui la glicemia risale, riportandosi alla normalità, per effetto di un intervento terapeutico, È durante una crisi ipoglicemica che un individuo lamenta i classici sintomi dell'ipoglicemia. CAUSE Le possibili cause di una crisi ipoglicemica sono: La somministrazione eccessiva di insulina o ipoglicemizzanti, oppure una variazione negli orari di somministrazione dei suddetti farmaci, variazione che può essere dovuta per esempio a un contrattempo, una dimenticanza ecc. Occorre precisare che queste due evenienze riguardano esclusivamente i pazienti con diabete mellito, i quali, per evitare l'iperglicemia, devono seguire una terapia apposita per mantenere nella norma i livelli glicemici. Alla luce di ciò, quindi, nei diabetici, gli episodi di crisi ipoglicemica sono una complicanza dovuta non tanto al diabete mellito di per sé, quanto piuttosto alla terapia attuata; La scarsa assunzione di zucchero e/o carboidrati, in un contesto di digiuno prolungato; L'assunzione di alcolici a stomaco vuoto; Sforzi fisici intensi e prolungati; Episodi di vomito ripetuto; L'insulinoma, un tumore endocrino del pancreas, che causa un'iperproduzione di insulina; Malattie a carico di surreni o ipofisi, i cui ormoni regolano i livelli di insulina circolanti; Gravi malattie del fegato (es: cirrosi epatica); L'assunzione di alcuni specifici farmaci in un contesto di insufficienza renale. È il caso, per esempio, del chinino, nel trattamento della malaria. FATTORI DI RISCHIO La presenza di diabete mellito, vomito ripetuto, una grave malattia del fegato o un'insulinoma; L'alcolismo; Rigidi regimi dietetici ipocalorici; La tendenza a eseguire sforzi fisici intensi a stomaco vuoto. SEGNI E SINTOMI Cefalea e vertigini; Tremore; Agitazione; Eccessiva irritabilità; Difficoltà nella concentrazione; Pelle pallida e sudori freddi; Forte senso di fame; Palpitazioni; Senso di formicolio attorno alla bocca; Senso di fatica; Senso d'ansia. Se il calo della glicemia è particolarmente importante, a questi disturbi appena citati si aggiungono anche: Disturbi visivi; Confusione e comportamenti anomali, che rendono impossibile lo svolgimento delle attività quotidiane; Convulsioni; Senso di svenimento o svenimento vero e proprio; Attacchi epilettici. COMPLICANZE Il mancato trattamento di una grave crisi ipoglicemica può essere responsabile di danni al sistema nervoso (cervello in particolare) e, in alcuni casi, perfino della morte del soggetto interessato. TERAPIA La crisi ipoglicemica richiede un trattamento immediato, finalizzato a riportare la glicemia alla normalità. Tale trattamento varia a seconda che il paziente sia o meno cosciente; infatti → Se la vittima della crisi ipoglicemica è cosciente e può assumere cibo per via orale, il trattamento consiste nella somministrazione di zucchero, miele, una caramella o una bevanda zuccherata; è una terapia facilmente attuabile anche dallo stesso paziente, quando si rende conto di quanto gli sta accadendo; → Se la vittima della crisi ipoglicemica è incosciente e non può ingerire nulla, il trattamento prevede la somministrazione di glucagone o glucosio per via endovenosa. questo tipo di trattamento deve avere luogo in sedi appropriate e spetta a figure professionali preparate a intervenire in circostanze del genere. Una volta superata la crisi, è opportuno che il medico analizzi i motivi scatenanti e imposti un'appropriata terapia causale (o riveda la terapia causale già in corso, se il paziente non è nuovo a fenomeni di crisi ipoglicemica). INSULINO‐RESISTENZA = condizione caratterizzata da una ridotta risposta all’insulina, a causa di: difetti pre‐recettoriali: dovuti alla secrezione di insulina biologicamente inattiva, aumentata proporzione di proinsulina, presenza di anticorpi anti‐insulina, aumentata degradazione dell’insulina stessa ad opera di peptidasi sieriche specifiche; difetti recettoriali: dovuti a ridotto numero di recettori insulinici sulla membrana citoplasmatica ridotta affinità di legame recettoriale; difetti post‐recettoriali: dovuti a ridotta trasmissione transmembrana del segnale ormonale alterata attività di enzimi cellulari FORME LIEVI/MODERATE FORME GRAVI Diabete mellito di tipo 2 Obesità Grave insulino‐resistenza con Acanthosis nigricans di tipo A o di tipo B Leprecaunismo Diabete lipoatrofico Sindrome di Rabson‐Mendenhall ACANTHOSIS NIGRICANS caratterizzata da un’area iperpigmentata, mal delineata, dall’aspetto vellutato, localizzata tipicamente a livello delle pieghe cutanee (ascelle, nuca e inguine). Responsabile di questa manifestazione cutanea è la condizione cronica di iperinsulinismo. Si tratta di una manifestazione proliferativa: nel momento in cui l’insulina perde la sua specificità, come in questo caso, va ad agire su recettori che non sono propri (recettori IGF‐1 e 2), ma che somigliano ai recettori insulinici; in questo caso si parla di Spillover specificity = In presenza di concentrazioni elevate di un dato ormone, la sindrome clinica che ne deriva può comprendere anche i segni e i sintomi dipendenti dall’attivazione dei recettori non specifici per l’ormone ipersecreto: benché la specificità sia una delle caratteristiche essenziali perché il recettore possa riconoscere la molecola ormonale tra le migliaia di altre molecole, è possibile che ormoni diversi, ma strutturalmente omologhi, possano manifestare specificità crociata. L’ACANTHOSIS NIGRICANS TIPO A È presente maggiormente nelle donne ed è caratterizzata da irsutismo, amenorrea, habitus atletico ed ovaio policistico (tutti segni di iperandrogenismo); la paziente presenta 1. tratti acromegaloidi, 2. glicemia a digiuno normale o aumentata, 3. marcata iperinsulinemia 4. un legame insulinico ridotto dovuto ad una riduzione del numero di recettori L’ACANTHOSIS NIGRICANS DI TIPO B è più rara e grave dovuta alla presenza di anticorpi anti‐recettori insulinici: il numero dei recettori è, dunque, adeguato ma si riduce l'affinità della molecola. La prevalenza è maggiore nelle donne più anziane che hai presentano già altre patologie autoimmuni. si hanno 1. tratti acromegaloidi, 2. iperglicemia a digiuno incostante, 3. insulinemia usualmente molto aumentata, 4. talora gravi ipoglicemie, 5. presenza di anticorpi anti‐recettore insulinico IL LEPRECAUNISMO è una malattia congenita molto rara causata da mutazioni del gene del recettore insulinico. È caratterizzata da ridotto accrescimento intrauterino post‐natale, lipodistrofia e atrofia muscolare riduzione del tessuto adiposo sottocutaneo tratti somatici peculiari, (facies dismorfica che ricorda gli gnomi del folclore irlandese, i leprecani: naso con inserzione a sella e inserzione bassa delle orecchie), acanthosis nigricans, alterata omeostasi glucidica (si osservano episodi di ipo‐ e iperglicemia, con costante iperinsulinemia, espressione di una grave insulino‐resistenza. Nelle giovani donne sono presenti segni di virilizzazione La malattia si trasmette come carattere autosomico recessivo. La sindrome è dovuta alle mutazioni omozigoti o eterozigoti composte del gene che codifica per il recettore dell'insulina (INSR; 19p13.3‐p13.2). LA DIAGNOSI richiede l'identificazione di una mutazione nei due alleli del gene‐malattia. TRATTAMENTO con IGF‐1. In un caso, l'associazione con IGF‐BP3 ha migliorato le attese di vita. La PROGNOSI non è certa, la crescita è gravemente compromessa e le attese di vita raramente superano i due mesi. Il leprecaunismo porta a morte entro il primo anno di vita, anche se alcuni pazienti sopravvivono fino all’infanzia o addirittura l’adolescenza. LA SINDROME DI RABSON‐MEDENHALL Ha gravità intermedia tra leprecaunismo e resistenza insulinica di tipo A. Si tratta di una condizione estremamente rara, la cui prevalenza non è nota. Ha un esordio precoce e si manifesta con 1. ritardo della crescita prenatale e postnatale, 2. ipotrofia del tessuto muscolare e adiposo, 3. acanthosis nigricans, 4. displasia dei denti (si differenzia dal Leprecaunismo per la dentizione prematura, già presente alla nascita) 5. anomalie dei capelli e delle unghie, 6. irsutismo e facies acromegalica. 7. In alcuni casi è stata riportata ipertrofia della ghiandola pineale. Il quadro clinico, nell’infanzia, si caratterizza per ipoglicemia a digiuno, iperglicemia postprandiale e iperinsulinemia che evolve verso l'iperglicemia cronica e la chetoacidosi diabetica ricorrente. La condizione si trasmette come carattere autosomico recessivo e colpisce soprattutto i figli dei genitori consanguinei. Come nel caso del leprecaunismo (di cui la sindrome di Rabson‐Mendenhall potrebbe rappresentare la forma meno grave), la malattia è causata da un'alterazione omozigote del gene che codifica per il recettore dell'insulina (INSR; 19p13.3‐p13.2). La DIAGNOSI DIFFERENZIALE si pone con il leprecaunismo a esordio precoce e la sindrome da insulino‐resistenza tipo A ad esordio tardivo. La TERAPIA è difficile da impostare, e si basa sulla somministrazione di alte dosi di insulina e/o IGF1 ricombinante, a volte in associazione a IGFBP3. L’aspettativa di vita può raggiungere qualche anno. IL DIABETE LIPOATROFICO è tra le forme gravi di insulino resistenza ed è caratterizzato da atrofia del tessuto adiposo; iperandrogenismo nelle donne; acanthosis nigricans; diabete; iperinsulinemia; ipertrigliceridemia grave. In una donna con questo sospetto diagnostico vanno misurate le gonadotropine ipofisarie: in questo caso si avranno LH aumentato e FSH diminuito. → L’LH stimola lo stroma e le cellule della teca, che sono sensibili all’insulina e producono androgeni. In una donna in sovrappeso o obesa, il tessuto adiposo porta ad un aumento dell’aromatizzazione degli androgeni. Più grasso c’è, più se ne aromatizza: questa condizione porta ad un eccesso di estrogeni; → la diminuzione dell’FSH riduce la formazione follicolare. Nessuna TERAPIA FARMACOLOGICA è stata approvata dalla FDA. Si utilizza, comunque, la metformina in individui ad alto rischio con IGT e IFG; BMI ≥ 35; età < 60 anni. Proprio per questa assenza di terapia farmacologica si insiste tanto sulla variazione dello stile di vita per migliorare la sensibilità insulinica: aumento dell’attività fisica (l’insulina postprandiale viene captata all’80% dai muscoli); riduzione del peso corporeo del 5‐7%. QUADRO CLINICO Esordio improvviso Complicanze acute = coma chetoacidosico Spesso è asintomatico complicanza acuta = coma iper‐osmolare DIAGNOSI Triade (polidipsia, poliuria, polifagia) Esami che confermano la glicosuria grave, la possibile chetonuria e l’iperglicemia Se la diagnosi di diabete fosse incerta, si effettua la ricerca dei marcatori auto‐ immuni delle isole pancreatiche: 1. anticorpi citoplasmatici anti‐insula pancreatica (ICA), 2. anticorpi anti‐insulina (IAA), 3. Ab anti‐decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD), 4. o anticorpi diretti contro la tirosina fosfatasi (IA‐2). Seguendo le linee guida ADA si effettua la misurazione della glicemia a digiuno e/o della curva della glicemia dopo carico orale di glucosio (OGTT). Negli anziani (che hanno già una naturale immunosoppressione dovuta all’età) si possono notare infezioni cutanee (piodermiti o micosi recidivanti) o infezioni delle vie urinarie e dell’apparato uro‐genitale (micosi vaginali, cistiti ricorrenti, balanopostiti) TERAPIA urgenza di istituire una terapia insulinica sostitutiva (“di rimpiazzo”) per impedire lo sviluppo di complicanze gravi (chetoacidosi). Lo scopo della terapia è soprattutto quello di prevenire lo sviluppo delle complicanze a lungo termine, ovvero le alterazioni di tipo vascolare (microangiopatie e macroangiopatie). in casi non gravi, si inizia con la modifica dello stile di vita (attività fisica ed alimentazioneà perdita di peso). è un importante target terapeutico nei soggetti in sovrappeso o francamente obesi. La terapia farmacologica si basa sull’utilizzo di ipoglicemizzanti orali (IO): FARMACI SECRETAGOGHI Β‐CELLULARI (sulfaniluree) Si legano al recettore SUR1 associato al canale del K+ sulla membrana delle cellule β: ciò crea una depolarizzazione che apre i canali del Ca2+; l'aumento del Ca2+ intracellulare porta ad una maggiore fusione dei granuli e ad un’aumentata secrezione di insulina. Per questo motivo, le sulfaniluree non possono essere somministrate a pazienti con DM1, perché le cellule insulari non sono integre e non possono quindi essere stimolate. Il rischio di ipoglicemia è elevato. Le sulfaniluree di seconda generazione (glibenclamide) hanno durata d'azione maggiore e sono più potenti, per cui è maggiore sia l'effetto terapeutico sia il rischio di ipoglicemia. Comunque, il paziente con DM2 difficilmente va in ipoglicemia (eventualmente, nel paziente con DM1 si somministra glucagone). Il glucagone eleva i livelli ematici di glucosio, per mantenere l’euglicemia e preservare le funzioni cerebrali: fisiologicamente, ogni volta che c'è ipoglicemia, interviene la gluconeogenesi epatica che inizia con glucagone, cortisolo, GH e catecolammine. Se sopraggiunge l’ipoglicemia, le possibili cause sono: posologia da ridurre; accumulo farmacologico per via di mutazioni che riguardano alcuni enzimi della famiglia del citocromo P450. Ciò può accadere anche con la metformina, a causa della mutazione del trasportatore OCT1 → accumulo e mancata escrezione epatica della metformina → grave ipoglicemia. Durante la terapia con sulfaniluree va dosata l'insulina, per essere certi che la cellula la produca effettivamente e la terapia funzioni FARMACI INSULINO‐SENSIBILIZZANTI (Metformina e tiazolidinedioni): favoriscono l’insulina → TIAZOLIDINEDIONI Sono farmaci agonisti del PPAR‐γ, recettore localizzato nel nucleo cellulare espresso principalmente nel tessuto adiposo, nelle cellule β del pancreas, nell'endotelio vasale e nei macrofagi. Il ligando di questo recettore è rappresentato dagli acidi grassi e dagli eicosanoidi; quando attivato, migra nel nucleo delle cellule dove attiva la trascrizione di un gruppo di geni con riduzione dell’insulino‐resistenza, della leptina e delle interleuchine (oltre che dell’HB‐glicata) e inibizione dell’angiogenesi INIBITORI DI SGLT2, agiscono a livello renale inibendo la proteina SGLT2 (responsabile del 90% del riassorbimento di glucosio) nel tubulo contorto prossimale; INIBITORI DI DPP IV (dipeptilpeptidasi 4) e gli INCRETINO‐MIMETICI, agiscono sul pancreas alterando la sintesi di insulina e glucagone. Gli incretino‐mimetici sono agonisti recettoriali di GLP1 che, mimando l’azione delle incretine endogene, stimolano la secrezione glucosiodipendente di insulina e inibiscono quella del glucagone. Gli inibitori di DPP IV inibiscono l’enzima deputato al catabolismo delle incretine endogene ed in questo modo, indirettamente, riducono i livelli di glucagone e glucosio nel circolo ematico. Al progredire della malattia (quando compare insulino‐deficienza) può risultare necessario avviare anche una terapia insulinica. ALCUNE SPIEGAZIONI PATOGENESI DM2 In condizioni di insulinoresistenza o di deficit insulinico, non entra glucosio nella cellula e non vengono reclutati amminoacidi, anzi, vengono liberati con prevalenza del catabolismo proteico. Ciò innesca meccanismi alternativi di produzione dell’energia: non essendoci glucosio, il muscolo ricorre ai corpi chetonici e ai NEFA (acidi grassi liberi non esterificati). A livello del tessuto adiposo non entrano trigliceridi e, non essendoci l’inibizione della lipasi ormone‐ sensibile, si verifica una lipolisi con conseguente immissione di acidi grassi in circolo. Questi arrivano al fegato e al muscolo e, attraverso il ciclo di Krebs, producono corpi chetonici. A livello epatico il glicogeno viene scisso (e non viene sintetizzato). In quest’ottica, quindi, l’aumento della glicemia è un epifenomeno e non il solo meccanismo centrale. Il rilascio degli acidi grassi, ad esempio, provoca insulinoresistenza, aumento del grasso addominale e sviluppo del DM2. L’aumento del grasso addominale, inoltre, è un fattore predisponente all’ipertensione e alle malattie cardiovascolari. L’accumulo del tessuto adiposo, soprattutto a livello addominale, provoca insulinoresistenza nei soggetti con una certa predisposizione genetica. Questa teoria è sostenuta dal fatto che una maggiore concentrazione di acidi grassi liberi nel sangue interagisce con i recettori dell’insulina determinando o insulinoresistenza o ridotta produzione di insulina (per questo si può arrivare o alla sindrome metabolica o al diabete). In questo meccanismo sono coinvolte delle protein‐ chinasi; a livello del recettore, INS interagisce con delle serine. Vi è anche un’ipotesi infiammatoria: secondo questa teoria, la cellula adiposa diventa ipertrofica e schiaccia i vasi. Questo evento ischemico richiama i macrofagi e provoca la morte dell’adipocita innescando un meccanismo infiammatorio, che attraverso le citochine provoca insulinoresistenza. L’insulinoresistenza porta anche ad alterazioni della pressione arteriosa, perché c’è un’alterazione del sistema nervoso simpatico mediata dall’insulina, con maggior riassorbimento del sodio a livello renale. Il riassorbimento del sodio richiama acqua, la quale espande il volume circolante e provoca vasocostrizione con aumento della pressione arteriosa. In condizioni di insulinoresistenza, i trigliceridi possono essere aumentati, per cui le lipoproteine conterranno più trigliceridi del normale. L’organismo, dunque, cerca di spostare i trigliceridi alle lipoproteine LDL e alle HDL. Il risultato finale è l’aumento delle particelle LDL e la riduzione delle HDL. Le sdLDL penetrano più facilmente nella parete arteriosa, vengono più avidamente legate ed innescano aterosclerosi. Modificazioni fisiologiche legate all’invecchiamento rendono la popolazione anziana più vulnerabile allo sviluppo di tale malattia. Si avranno: secrezione insulinica ridotta; insulinoresistenza aumentata; massa grassa > massa magra (sarcopenia); diminuzione dell’attività fisica; coesistenza di polipatologie e politerapia. CLINICA DM1 La grave carenza di insulina causa l’iperglicemia e la glicosuria. Poiché il glucosio è osmoticamente attivo, vengono perse con le urine notevoli quantità di acqua ed elettroliti. La perdita di liquidi e l'iperglicemia determinano iperosmolarità plasmatica, disidratazione cellulare e conseguente attivazione del centro della sete con polidipsia. Si possono anche avere disturbi transitori del visus secondari all’esposizione del cristallino e della retina ai liquidi iperosmolari. L’iperglicemia di per sé è neurotossica, per cui si spiega la presenza di parestesie transitorie. La deplezione idroelettrolitica determina inoltre calo ponderale, debolezza muscolare e, se marcata, vertigini e ipotensione arteriosa posturale per l’ipovolemia. Successivamente il dimagrimento si accentua nonostante la polifagia, per i processi catabolici a carico dei muscoli e del tessuto adiposo. La proteolisi aggrava l’astenia muscolare. Le alterazioni del metabolismo proteico contribuiscono inoltre alla ritardata cicatrizzazione delle ferite e, nei bambini, al deficit dell’accrescimento somatico. D’altra parte, la lipolisi favorisce l'ipertrigliceridemia e l'accelerata sintesi dei corpi chetonici, con conseguente chetonemia e chetonuria. Il quadro può rapidamente peggiorare con la comparsa di grave chetoacidosi. CLINICA DM2 Possono essere presenti poliuria e polidipsia, mentre la polifagia e il calo ponderale sono meno frequenti. Spesso vengono riferiti astenia, cefalea, parestesie e disturbi visivi. Talvolta una neuropatia è la prima manifestazione clinica del DM. Molti pazienti sono tuttavia asintomatici e la malattia viene diagnosticata nel corso di indagini eseguite per altre patologie. Frequenti sono le infezioni cutanee recidivanti o croniche, e nelle donne il prurito vulvare e la vulvovaginite cronica da Candida albicans. Sempre nelle donne, il DM dovrebbe essere sospettato in caso di macrosomia fetale, polidramnios, preeclampsia e aborti ripetuti. Nei pazienti con DM2 raramente si sviluppa chetoacidosi, mentre una complicazione acuta grave è il coma iperosmolare. CRITERI DIAGNOSTICI In presenza di iperglicemia inequivoca, bisogna che sia confermato uno dei seguenti criteri diagnostici (ripetendo, possibilmente, lo stesso test in una diversa giornata). → SINTOMI COMPATIBILI CON DIABETE + UNA GLICEMIA CASUALE ≥ 200MG/DL (per la diagnosi non è accettabile l’uso di glucometri, utili, invece, per l’automonitoraggio: la misura della glicemia deve avvenire tramite il prelevo di sangue venoso) → GLICEMIA A DIGIUNO ≥ 126 MG/DL (valore soglia sopra il quale la diagnosi è confermata) → GLICEMIA DOPO 2 ORE DALL’OGTT (test da carico del glucosio) ≥ 200 MG/DL; → HbA1c (EMOGLOBINA GLICATA) ≥ 6.5% CURVA DA CARICO ORALE DI GLUCOSIO (OGTT) rientra tra i cosiddetti test dinamici: si tratta di un test fisiologico e semplice dal punto di vista strumentale. Consiste nel bere una soluzione contenente 75 g di glucosio disciolti in 300/400 ml di acqua da assumente in 5 minuti dopo che ha assunto, nei tre giorni prima del test, almeno 150g di carboidrati (meglio se complessi) al giorno; dopo due ore, viene eseguito un prelievo venoso per la misura della glicemia (metodo enzimatico sul plasma) È un test piuttosto sensibile dal momento che riproduce quello che può succedere dopo l’assunzione di un pasto. È, però, poco riproducibile e poco accettato dai pazienti. Permette, inoltre, l’individuazione dei soggetti con intolleranza al glucosio (soggetti che mantengono una glicemia abbastanza alta dopo carico orale nella seconda ora) ed è utilizzato anche in gravidanza, per lo screening del diabete gestazionale. USO DIAGNOSTICO DELL’EMOGLOBINA GLICATA la misurazione delle proteine glicate, in particolare della HbA1c glicosilata, è stata ampiamente utilizzata per il monitoraggio di routine a lungo termine della glicemia. Attualmente, la determinazione della HbA1c viene raccomandata dall'ADA a scopo diagnosi e di monitoraggio ogni 3 mesi, sebbene tale esame presenti alcune limitazioni. È, quindi, necessario l'uso di altri biomarcatori proteici glicosilati. L'emoglobina A1c si forma quando il glucosio si lega a un gruppo amminico presente nella molecola di HbA: la reazione si verifica a livello della valina N‐terminale della catena β dell'emoglobina nel momento in cui il carico glicemico è alquanto elevato (le molecole si condensano con la formazione di una molecola di H2O). se, inizialmente, questo legame è irreversibile (base di Schiff), ben presto si stabilizza formando il prodotto di Amadori che comporta una modifica a livello post‐traduzionale della molecola di emoglobina. La formazione di HbA1c è di natura non enzimatica e si verifica nel corso di tutta la vita dell'eritrocita (durata media di 120 giorni) → Poiché la membrana degli eritrociti è liberamente permeabile al glucosio ematico, la quantità totale di HbA1c riflette la concentrazione media di glucosio presente nei 120 giorni prima della misurazione. La determinazione della HbA1c va eseguita almeno due volte all'anno nei pazienti che conseguono gli obiettivi di trattamento e presentano un controllo stabile della glicemia. Per contro, nei pazienti in cui la terapia viene modificata o che non conseguono gli obiettivi glicemici stabiliti, la determina zione della HbA1c, deve essere eseguita ogni 3 mesi. TEST DI LABORATORIO PER IL MONITORAGGIO DEL DIABETE IL PROFILO GLICEMICO consiste nella misurazione del glucosio in vari momenti della giornata. L’EMOGLOBINA GLICATA rappresenta il gold standard: viene richiesta dal diabetologo ogni 3/4 mesi per il follow‐up del paziente con il diabete sia di tipo I che di tipo II. FRUTTOSAMINA, per la determinazione della glicazione delle proteine del siero, albumina e globuline; è utile anche per un riscontro di una terapia iniziata da 15 giorni (l’emivita dell’albumina è di 3 settimane) GLICOSURIA, in riferimento alla presenza di glucosio nelle urine: il glucosio compare nelle urine quando supera la soglia renale di riassorbimento del glucosio che è 180mg/d CHETONEMIA E CHETONURIA (più utili per il monitoraggio del diabete di tipo I) OBIETTIVI GLICEMICI = MANTENERE UNA GLICATA INFERIORE AL 7%. per ogni valore di HbA1c vi è una corrispondenza di glicemia media: HbA1c = 7% → valore di glicemia media = 170 mg/dl. Le complicanze del diabete insorgono e progrediscono per valori di glicemia superiori a 200 mg/dl; per i pazienti diabetici, con HbA1c inferiore al 7%, vi è un rischio piuttosto basso di andare incontro alle complicanze croniche del diabete. RACCOMANDAZIONI PER GLI ADULTI CON DIABETE: CONTROLLO GLICEMICO → HbA1c < 7.0% → Glicemia pre‐prandiale = 90 – 130 mg7dl → Glicemia post‐prandiale < 180 mg/gl PRESSIONE ARTERIOSA → < 130/80 mmHg LIPIDI → LDH < 100 mg/dl → Trigliceridi < 150 mg7dl → HDL > 40/50 mg7dl TRATTAMENTO Mantenimento dell'emoglobina glicosilata (emoglobina A1C) ≤ 7,0 Aggressivo controllo della pressione arteriosa, iniziando con inibitori del sistema renina‐ angiotensina. L'inibizione del sistema renina‐angiotensina è la terapia di prima linea. Quindi, gli ACE‐inibitori o gli inibitori dei recettori dell'angiotensina II sono gli antipertensivi di scelta; questi riducono la pressione arteriosa e la proteinuria e rallentano la progressione della nefropatia diabetica. Gli ACE‐inibitori sono generalmente meno costosi, ma gli inibitori dei recettori dell'angiotensina II possono essere utilizzati, in alternativa, se gli ACE‐inibitori provocano tosse persistente. Questi farmaci devono essere iniziati quando viene rilevata microalbuminuria, indipendentemente dalla presenza o meno di ipertensione; alcuni esperti raccomandano di utilizzare i farmaci perfino prima che compaiano segni di patologia renale. il mantenimento dell'euglicemia riduce la microalbuminuria, ma può non ritardare la progressione della malattia una volta che la nefropatia diabetica si è stabilita. La restrizione delle proteine alimentari produce risultati contrastanti. L'American Diabetes Association raccomanda che nei soggetti con diabete e nefropatia manifesti l'apporto proteico sia limitato a 0,8‐1,2 g/kg/die. La restrizione proteica significativa non è raccomandata. Supplementazione di vitamina D, in genere con colecalciferolo (vitamina D3). STADI DI MONGENSEN NEUROPATIA è un disordine clinicamente evidente o subclinico in assenza di altre cause di neuropatia periferica autonomica e/o somatica. È la più frequente complicanza e ne esistono varie forme: • polineuropatia distale simmetrica: la più frequente, colpisce le fibre sensoriali, motorie e moto‐ sensoriali. Le alterazioni iniziano dalle regioni distali • mononeuropatia: colpisce singoli nervi cranici (soprattutto l’oculomotore) • neuropatia autonomica: è frequente nella popolazione diabetica ed interessa il SN vegetativo. La DIAGNOSI clinica si basa su segni tipici: polineuropatia distale simmetricaà pz riferisce parestesie, prurito e alterata percezione del dolore mononeuropatiaà il pz può essere affetto da una neuropatia dei nervi cranici, cefalea retroorbitaria, ptosi palpebrale e paralisi facciale neuropatia autonomicaà i segni variano in base all’apparato/sistema interessato: o Sistema cardiovascolare: tachicardia, ipotensione arteriosa ortostatica con episodi sincopali (aumenta il rischio di cadute e disabilità soprattutto negli anziani, per tale paziente non è auspicabile l’eccessiva correzione dell’iperglicemia poiché potrebbe causare ipoglicemiaà sofferenza delle funzioni cerebrali, iperattivazione del sistema adrenergico e aumentato rischio di eventi ischemici cerebrali e/o coronarici) o Apparato GI: disturbi della motilità esofagea, ritardo dello svuotamento gastrico, disturbi dell’alvo o Apparato genitourinario: disturbi della minzione, ipotonia vescicale, disfunzione sessuale e impotenza La TERAPIA (mira soprattutto ripristino all’euglicemia): • Alleviare i dolori = antidolorifici • Prevenire l’ipotensione ortostatica = calze elastiche, evitare movimenti bruschi e assunzione graduale della posizione eretta • Alleviare i disturbi gastroenterici e quelli legati alla disfunzione sessuale MACROANGIOPATICHE: malattia cardiovascolare con aterosclerosi coronarica, carotidea e vasi periferici, la cui incidenza è maggiore nei pz affetti da DM2 La macroangiopatia diabetica è un'alterazione dei grossi vasi sanguigni, che comporta la tendenza a sviluppare aterosclerosi più precocemente e più intensamente di quanto non si verifichi nella media della popolazione. È legata probabilmente al fenomeno della glicazione delle lipoproteine LDL. La macroangiopatia diabetica e l'aterosclerosi che ne consegue rappresentano un importante fattore di rischio per malattie cardiovascolari quali coronaropatie, ictus, angina pectoris, infarto del miocardio e arteriopatia periferica. L’ateromatosi diffusa, in particolare, è causa di: • Cardiopatie ischemiche (angina e infarto del miocardio) • Patologia cerebrovascolare (TIA e ictus cerebrale) • Patologia ischemica periferica (claudicatio intemittens, ischemia acuta e gangrena). Per quanto riguarda la TERAPIA, la normalizzazione della glicemia non è sufficiente a ridurre il rischio di MCV ed è indispensabile combattere fattori di rischio. Per evitare l’insorgenza delle complicanze macroangiopatcihe, si invita l’individuo a sottoporsi all’ecodoppler dei vasi del collo per essere certi dell’assenza di placche, le quali denoterebbero una condizione aggravante. LA COMPLICANZA DELLE COMPLICANZE: IL PIEDE DIABETICO Nel Documento Internazionale di Consensus realizzato dall’International Working Group of Diabetic Foot (IWGDF), un gruppo di esperti definisce il piede diabetico come "Piede con alterazioni anatomo‐funzionali determinate dall’arteriopatia occlusive periferica e/o dalla neuropatia diabetica". Sono pertanto patologie legate alle 2 complicanze croniche del diabete che interessano gli arti inferiori: 1. la neuropatia diabetica responsabile di una ridotta sensibilità del piede e di una modalità diversa di cammino con la comparsa di iper‐carichi plantari nella cui sede si sviluppano poi tipicamente le ulcere neuropatiche. 2. la vasculopatia periferica rende i piedi più vulnerabili a causa dell’insufficiente irrorazione di tutte le strutture (soprattutto della cute) a causa del ridotto apporto di ossigeno. La cute diventa progressivamente più fragile e può così andare incontro ad ulcerazioni di difficile guarigione proprio a causa dell’insufficiente apporto di sangue La manifestazione più comune è l’ulcerazione del piede (definita comunemente ulcera diabetica). Esistono però anche altre manifestazioni meno comuni del piede diabetico come, ad esempio, il “piede di Charcot”; questa patologia interessa i tessuti molli con coinvolgimento successivo delle ossa del piede che, divenute particolarmente fragili, vanno incontro a fratture anche in assenza traumi importanti. DIABETE GESTAZIONALE IL DIABETE GESTAZIONALE = viene definito come una condizione di intolleranza al glucosio riconosciuta per la prima volta durante una gravidanza. si stima che il diabete gestazionale interessi il 18% delle gravidanze. L'ipotesi alla base dello sviluppo del diabete gestazionale è che gli ormoni placentari blocchino l'azione dell'insulina materna nell'organismo della madre: la resistenza all'insulina ostacola l'utilizzo dell'ormone da parte dell'organismo materno, il quale può richiedere una quantità di insulina fino a tre volte superiore al normale ma l'insulina prodotta non riduce i livelli ematici di glucosio, non attraversa la placenta (come, invece, fanno il glucosio e altri nutrienti), inducendo alti livelli ematici di glucosio anche nel feto. Il pancreas fetale reagisce alla glicemia elevata producendo una quantità supplementare di insulina: poiché in queste condizioni il feto riceve più energia di quella di cui ha bisogno per crescere e svilupparsi, tale energia in eccesso viene immagazzinata sotto forma di tessuto adiposo = neonato "grasso" con tutti i problemi di salute associati, tra cui un danno alla spalla durante il parto; a causa dell’insulina extra prodotta dal pancreas del feto, il neonato può presentare livelli ematici di glucosio molto bassi alla nascita, nonché un maggiore rischio di problemi respiratori. Un neonato con livelli eccessivi di insulina è destinato a diventare un bambino a rischio di obesità e un adulto a rischio di diabete di tipo 2. La maggior parte delle donne recupera la normale tolleranza glucidica dopo il parto (controllare a 6 settimane dal parto), anche se conserva il rischio di sviluppare successivamente DM. Per lo screening del diabete gestazionale viene usato l’OGTT, con 3 prelievi (a digiuno, dopo un’ora e dopo due ore dall’assunzione della soluzione glucosata). I valori soglia sono: → 92mg/dl per la glicemia plasmatica a digiuno → 180mg/dl per il test eseguito dopo 1h dal carico glicemico → 153 mg/dl per il test eseguito dopo 2h dal carico glicemico Lo screening per il diabete gestazionale è previsto per le donne che Hanno superato i 35 anni di età; hanno già avuto un figlio macrosomico o diabete gestazionale; hanno parenti di primo grado con diabete mellito; fanno parte di gruppi etnici più “a rischio” DIABETE NEONATALE CHE COS’È IL DIABETE MELLITO NEONATALE E COME SI MANIFESTA = forma di diabete con esordio entro i 6 mesi dalla nascita. Questo intervallo temporale è stato fissato in base al fatto che la quasi totalità dei casi con esordio così precoce è causata da un difetto genetico in un singolo gene (diabete monogenico) e non è associato a DM1, di natura poligenica. Si distinguono due forme cliniche: il Diabete Mellito Neonatale Permanente (DMNP) ed il Diabete Mellito Neonatale Transitorio (DMNT); quest’ultimo ha la caratteristica di andare in remissione con una mediana di 3 mesi dall’esordio. I pazienti che abbiano avuto la diagnosi di DMNT possono ripresentare iperglicemia, più frequentemente durante l’adolescenza. Le mutazioni DMN possono essere dominanti, recessive o X‐linked; inoltre circa un 50‐70% dei casi di DMNT sono causati da aberrazioni del cromosoma 6 (6q24). Va menzionato che un gruppo di scrittura attualmente al lavoro per la stesura di una Consensus internazionale sul DMN consiglia di estendere l’indagine di una causa genetica a casi con esordio entro i 9 mesi dalla nascita, anche se questo comporta la possibilità di una certa sovrapposizione con casi di diabete tipo 1 ad esordio precoce. La ricerca di una causa genetica può estendersi nei casi con esordio entro i 18 mesi dalla nascita e negativi per gli autoanticorpi associati al diabete tipo 1. Il DMN può essere asintomatico o manifestarsi come iperglicemia persistente accertata oppure con iperglicemia severa e chetoacidosi anche molto grave. Si associa di solito a basso peso alla nascita. EPIDEMIOLOGIA Le cause genetiche di DMNP assommano ad oltre 30, ma nelle popolazioni a basso tasso di consanguineità 3 geni (KCNJ11, INS e ABCC8) sono responsabili di circa il 70% dei casi. In questi 3 geni le mutazioni sono generalmente dominanti, anche se sono stati identificati casi con mutazioni bialleliche in ABCC8 e INS. Il DMNT è causato da mutazioni eterozigoti di KCNJ11 e ABCC8 meno gravi di quelle che vengono riscontrate nella forma permanente o da aberrazioni del cromosoma 6. In Europa l’incidenza annua del DMN è di 1:100.000 nati vivi. Nelle popolazioni ad alto tasso di consanguineità le forme recessive, come ad esempio la Sindrome di Wolcott‐Rallison (da mutazioni bialleliche di EIF2AK3) sono le più frequenti. Le forme recessive sono quasi sempre sindromiche, con rare eccezioni (mutazioni bialleliche di GCK e INS) spesso con patologie a carico del sistema nervoso centrale, dell’apparato cardiovascolare e con malassorbimento nei casi con agenesia o ipoplasia del pancreas. Nelle nazioni con elevata consanguineità l’incidenza per il solo DMNP può arrivare ad 1:20‐25.000 nati vivi. Infine, una piccola percentuale di casi DMNP può essere causata da mutazioni in geni associati alla autoimmunità che danno luogo a forme sindromiche come, ma non solo, il gene FOXP3.