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Manuale di diritto amministrativo, Marcello Clarich, Sintesi del corso di Diritto Amministrativo

Diritto amministrativo, riassunti sostitutivi del libro.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 05/06/2021

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Scarica Manuale di diritto amministrativo, Marcello Clarich e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Amministrativo solo su Docsity! Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) CLARICH - MANUALE DI DIRITTO AMMINISTRATIVO FONTI CAPITOLO 1: INTRODUZIONE 1. Premessa Il diritto amministrativo può essere definito come quella branca del diritto pubblico interno che ha per oggetto l'organizzazione e l'attività della pubblica amministrazione. In particolare, esso riguarda i rapporti che quest'ultima instaura con i soggetti privati nell'esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge per la cura di interessi della collettività. Pertanto, il diritto amministrativo si compone di un corpo di regole e di principi che sono autonomi dal diritto privato. 2. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo La presenza di apparati burocratici organizzati secondo criteri razionali è una costante nella storia. Considerando come paradigmatico il caso francese, la nascita dello Stato moderno, con l'unificazione del potere politico del re, andò di pari passo con la formazione di apparati amministrativi stabili, al centro e in periferia, posti alle dirette dipendenze del sovrano (gli intendenti del re) e contrapposti a poteri locali. L’accentramento burocratico, cioè la formazione di uno Stato amministrativo, costituì uno degli strumenti per ricondurre ad unitarietà, in capo al sovrano, il potere politico e statuale. L'espansione dei compiti dello Stato e l'attribuzione di poteri amministrativi ai funzionari delegati del sovrano e agli apparati burocratici stabili portarono poco a poco all'emersione della funzione amministrativa come funziona autonoma, non più inglobata in quella giudiziaria. La Rivoluzione francese del 1789 e le costituzioni liberali approvate nei decenni successivi portarono alla nascita del modello dello Stato di diritto (o Stato costituzionale). Oggi lo Stato di diritto è uno dei principi fondanti dell'Unione europea, insieme a quelli della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e del rispetto dei diritti umani, citati dall'art. 2 del Trattato sull'Unione europea. Lo Stato di diritto si basa su alcuni elementi strutturali i quali costituiscono le precondizioni necessarie per sottoporre gli apparati amministrativi alla signoria della legge e dunque per la stessa nascita di un diritto amministrativo: 1. Lo Stato di diritto prevede il trasferimento della titolarità della sovranità dal rex legibus solutus a un parlamento eletto da un corpo elettorale, prima ristretto poi a suffragio universale. 2. Esso si fonda poi sul principio della separazione dei poteri, per rompere il monopolio del potere al sovrano assoluto, e in più per evitare abusi a danno dei cittadini. Secondo la tripartizione dei poteri (teorizzata nel XVIII secolo da Montesquieu) il potere legislativo spetta a un parlamento elettivo, il potere esecutivo al re e agli apparati burocratici da esso dipendenti e il potere giudiziario a una magistratura indipendente. Il potere esecutivo in questo modo viene sottoposto alla legge, cioè alla supremazia del parlamento, che è espressione della volontà popolare. 3. Un terzo elemento strutturale è l'inserimento nelle Costituzioni di riserve di legge. Queste escludono o limitano anzitutto il potere normativo del governo. Infatti il potere regolamentare dell'esecutivo, è ammesso esclusivamente nelle materie non sottoposte a riserva di legge assoluta. Nelle materie coperte da riserva di legge relativa, esso si può compiere solo nel rispetto dei limiti e dei principi stabiliti dalla legge (regolamenti esecutivi). 4. Per rendere effettive la sottoposizione del potere esecutivo alla legge e la garanzia dei diritti di libertà, lo Stato di diritto richiede che al cittadino sia riconosciuta la possibilità di ottenere la tutela delle proprie ragioni anche nei confronti della pubblica amministrazione davanti a un giudice imparziale, indipendente dal potere esecutivo. Il modello teorico dello Stato di diritto è di per sé neutrale rispetto alla gamma e all’ampiezza delle funzioni assunte come proprie dai poteri pubblici. Nel corso del XIX e del XX secolo si sono succeduti una pluralità di fasi ed esperienze. Ad esse corrispondono altrettanti tipi o modelli di Stato. Con la Rivoluzione francese si fecero strada le ideologie di impronta liberista in campo economico (laissez-faire), tendenti a ridurre al minimo le ingerenze dirette dello stato nei rapporti economici e sociali. Nel XIX secolo nacque lo “Stato guardiano notturno”, che aveva due compiti: la garanzia dell'ordine pubblico interno e la difesa del territorio da potenziali nemici esterni. Dunque, alla società civile e al mercato spettava lo svolgimento delle attività economiche e la cura di altri interessi della collettività (ad es. la sanità). Venivano considerate con sfavore le aggregazioni sociali e i corpi intermedi tra Stato e individuo. In questo contesto la stessa presenza di apparati amministrativi stabili era ridotta al minimo. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) La visione liberista e liberale di questo Stato entrò in crisi verso la fine del XIX e l’inizio XX secolo, con l’affermarsi sulla scena politica e istituzionale di nuove ideologie e classi sociali. Lo stato monoclasse si trasformò, dal punto di vista sociologico, in pluriclasse, assumendo su di sé l’obiettivo di rappresentare e mediare tra gli interessi differenziati e spesso contrapposti di tutti gli strati sociali. Queste trasformazioni portarono il passaggio a un modello di Stato detto “Stato interventista”, “Stato sociale” o “Stato del benessere” (Welfare State). I primi interventi furono attuati dalla Germania bismarckiana. A livello centrale, l’amministrazione dello stato si potenziò con la crescita dimensionale e numerica dei ministeri e degli enti deputati a svolgere le nuove funzioni. A livello locale presero avvio esperimenti di socialismo municipale, cioè di assunzione da parte dei poteri locali di servizi pubblici, quali ad es. gestione di acquedotti, illuminazione pubblica, ecc. Lo sforzo eccezionale di mobilitazione di risorse e di conversione e accelerazione della produzione industriale su impulso diretto dello stato, nel corso della prima guerra mondiale, contribuì al superamento definitivo del modello liberista. La volta autoritaria, con l’avvento del regime fascista in Italia e del regime nazista in Germani favorì una ulteriore espansione della presenza dello stato, estendendo la sua influenza diretta e indiretta su tutte le principali espressioni della società civile e dell’economia. la crisi economica degli anni Trenta richiese interventi di salvataggio da parte dei pubblici poteri e si affermò il modello dello stato finanziatore. In parallelo, l’influenza delle ideologie collettivistiche nel secondo dopoguerra portò all’approvazione dei programmi di nazionalizzazione di settori economici strategici. Emerse così lo “Stato pianificatore”. Esso si caratterizza per predisposizione a livello centrale di piani e programmi settoriali (trasporti, sanità, energia elettrica, ecc.), volti a indirizzare risorse pubbliche e private verso obiettivi predeterminati. L’iniziativa imprenditoriale dei privati viene subordinata al rilascio di atti autorizzativi in conformità alle previsioni di piano. La ripresa di ideologie antistataliste a partire dagli anni ‘80 mise in crisi le fondamenta dello Stato interventista e prese corpo un movimento che andava nella direzione della riduzione del campo di azione dei pubblici poteri. Lo “Stato imprenditore” si trasformò via via in “Stato regolatore”, il quale rinuncia cioè a dirigere o gestire direttamente attività economiche e sociali e si fa invece carico di predisporre soltanto le regole e gli strumenti di controllo necessari affinché l'attività dei privati, non vada a ledere interessi pubblici rilevanti. Però con la crisi del 2008, si sono viste le carenze strutturali di tale modello. Per far si che si evitasse un crollo del sistema finanziario, sono state attuate misure di intervento pubblico diretto (nazionalizzazioni di istituzioni finanziarie) e indiretto (sussidi alle imprese e alle famiglie) utilizzando un gran numero di risorse pubbliche: si è parlato di una rinascita dello Stato interventista, nella variante dello “Stato salvatore”. A livello europeo è stato introdotto il Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF). Innanzitutto, può dirsi che il Regno Unito non conobbe storicamente il fenomeno dell’accentramento amministrativo che connotò l’esperienza francese: i poteri locali mantennero ampi spazi di autonomia. Inoltre, restò viva la tradizione della common law. Solo a partire dalla seconda metà del XX secolo, con l'ulteriore sviluppo del Welfare State, le Corti inglesi presero coscienza dell'esistenza di una distinzione tra diritto pubblico e diritto privato e iniziarono a operare un sindacato giurisdizionale più intenso sull'attività dell'esecutivo. Tuttavia il diritto amministrativo inglese non può ancora essere paragonato, per estensione e organicità, a quello degli ordinamenti continentali. Anche negli Stati Uniti lo sviluppo dello Stato regolatore e del diritto amministrativo avvenne in epoca recente. Esso rappresentò una variante originale di intervento pubblico che si sviluppò proprio negli Stati Uniti, un Paese che respinse sempre interventi diretti dei pubblici poteri nella gestione nella socializzazione o collettivizzazione di imprese. Nel 1946 venne approvato l'Administrative Procedure Act, che costituisce uno dei modelli principali di legge sul procedimento amministrativo. Questa legge, da una parte, legittimò e consolidò il modello delle agenzie di regolazione; dall'altra, sottopose la loro attività a una serie di regole procedurali stringenti e al controllo giurisdizionale. Essa costituisce tuttora l’ossatura del diritto amministrativo negli USA. A partire dagli anni ’80, lo Stato regolatore fu oggetto di ripensamento. Furono introdotte misure che servirono a controllare e limitare l'attività delle Agenzie e a operare una riduzione della quantità e intrusività della regolazione esistente (deregulation). Fu attuata la semplificazione delle procedure burocratiche e promosso il ritiro dello Stato dalle politiche interventiste. In Italia, in epoca di Cavour, venne adottato il modello dell'amministrazione per ministeri, con la concentrazione di poche funzioni pubbliche in capo ad un nucleo ristretto di apparati organizzati in base al Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) teoria dell’atto amministrativo come espressione del potere unilaterale attribuito dalla legge agli apparati pubblici e del rapporto di sovra-sottordinazione tra Stato e cittadino. L’atto amministrativo venne inquadrato inizialmente entro gli schemi del negozio giuridico di derivazione privatistica. Con l'evolversi dei rapporti politici e sociali e con l'espandersi della legislazione amministrativa soprattutto a partire dagli anni Trenta, la scienza del diritto amministrativo estese il proprio campo di indagine a fenomeni nascenti come l'ordinamento di credito, gli enti pubblici, l'impresa pubblica, ecc. Verso la fine del secolo emerse anche una prospettiva volta a operare un riequilibrio nel rapporto tra Stato e cittadino con due modalità principali: da una parte, il potenziamento delle garanzie formali e sostanziali a favore di quest'ultimo; dall’altra, l'impiego di nuovi moduli consensuali di regolamentazione dei rapporti privati e pubblica amministrazione. Gli anni Novanta, segnati dall'introduzione della legge 7 agosto 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo e dall'influenza del diritto europeo in particolare nel settore dei servizi pubblici, costituiscono idealmente una rottura tra la concezione più autoritaria del diritto amministrativo che privilegia il punto di vista dell'amministrazione e pone l'accento sui poteri unilaterali attribuiti a quest'ultima e un nuovo paradigma interpretativo. Quest'ultimo valorizza la posizione del cittadino, titolare ormai di diversi diritti e garanzie all'interno del rapporto procedimentale, ed enfatizza la sottoposizione del potere al principio di legalità inteso in senso più rigoroso. Dunque il diritto amministrativo resta sempre il diritto dell'autorità del potere pubblico per la cura degli interessi della collettività ma ha perso i connotati di un diritto autoritario. 4. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto 4.1 il diritto costituzionale Rilevante è la distinzione tra diritto costituzionale e diritto amministrativo. Il diritto costituzionale riguarda i “rami alti” dell’ordinamento, i diritti dei privati e le fonti del diritto; il diritto amministrativo invece riguarda i “rami bassi”, cioè quel complesso poliedrico di apparati pubblici ciascuno dei quali dotato di una gamma più o meno ampia di poteri. Il primo trova fondamento e una disciplina positiva nelle costituzioni scritte; il secondo è regolato in prevalenza da fonti normative subcostituzionali (leggi, regolamenti, statuti, ecc) e dai principi di derivazione giurisprudenziale. Anche se il diritto costituzionale e il diritto amministrativo riguardano rami differenti, sono strettamente collegati. I legami da analizzare sono due: in primo luogo, il diritto amministrativo non è altro che “il diritto costituzionale reso concreto”, cioè preso nella sua effettiva realizzazione nella legislazione e nella vita dell'ordinamento. Il grado di tutela dei diritti di libertà e dei diritti sociali si misura non solo e non tanto sulla costituzione, quanto piuttosto sulle leggi amministrative che attuano il disegno costituzionale e sulla concreta applicazione che esse ricevono ad opera principalmente degli apparati amministrativi. Un secondo legame tra diritto costituzionale e diritto amministrativo è riassunto dall'affermazione secondo cui “il diritto costituzionale passa, il diritto amministrativo resta”, volta a sottolineare la diversa velocità dei mutamenti costituzionali rispetto alle riforme amministrative. Proprio perché incidono solo sui rami alti dell’ordinamento, i primi possono verificarsi anche in modo rapido in seguito a moti rivoluzionari, sconfitte militari o a rotture della Costituzione. Al contrario, le riforme amministrative mirano a modificare l’organizzazione e il modo di operare di apparati burocratici caratterizzati da strutture, personale, prassi operative e cultura istituzionale formatesi lentamente, per stratificazioni successive e poco permeabili al cambiamento. 4.1. Il diritto europeo Il diritto amministrativo italiano ha acquisito una dimensione europea sotto cinque profili principali: 1. la legislazione amministrativa L'art. 117, co 1, Cost. stabilisce che la potestà legislativa dello Stato e delle regioni la legislazione amministrativa deve essere esercitata nel rispetto, oltre che dalla Costituzione, “dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario”; 2. l'attività amministrativa L'art. 1, co 1, l. n. 241/1990 include tra i principi generali dell'attività amministrativa (economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità), anche “i principi generali dell'ordinamento comunitario”. La pubblica amministrazione è citata anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che adesso ha valore giuridico allo stesso modo del Trattato; Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) 3. l'organizzazione Il diritto europeo condiziona l'assetto organizzativo e funzionale degli apparati pubblici. Infatti in Italia molte agenzie e autorità indipendenti sono state istituite in attuazione di direttive europee (ad es., il sistema europeo delle banche centrali del quale fanno parte le banche centrali nazionali). A livello governativo è istituito il dipartimento per le Politiche europee incardinato presso la presidenza del Consiglio dei ministri. Inoltre, la l. 234/2012 prevede un Comitato interministeriale per gli affari europei (CIAE) al fine di coordinare le linee politiche del governo nel processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti dell’UE; 4. la finanza pubblica Il diritto europeo impone, poi, agli Stati membri vincoli sempre più pressanti alla finanza pubblica che condizionano l'operatività delle pubbliche amministrazioni e l'attuazione dei loro programmi di intervento. In proposito, basti considerare che nel 2012 gran parte degli Stati europei ha sottoscritto il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione economica e monetaria (c.d. Fiscal compact) e il Trattato istitutivo del meccanismo europeo di stabilità (Trattato MES). Sulla base degli impegni così assunti è stato altresì modificato l’art. 81 Cost.; 5. la tutela giurisdizionale Infine, il diritto europeo esercita un'influenza anche sul diritto processuale amministrativo. Il Codice del processo amministrativo, adottato con il d.lgs. 104/2010, stabilisce che la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del “diritto europeo”. Questa espressione include anche i principi elaborati dalla giurisprudenza della corte Edu che, per esempio, ha imposto all’ordinamento italiano di accrescere le garanzie nei procedimenti sanzionatori che si svolgono innanzi alle autorità di regolazione. Il diritto amministrativo si è aperto non soltanto a una dimensione europea, ma sta assumendo anche una dimensione globale. Essa è legata allo sviluppo a livello mondiale di una serie di organizzazioni internazionali (ad es. Banca Mondiale ecc.) che creano regole e standard che condizionano direttamente e indirettamente i diritti nazionali. 4.2. Il diritto privato I legami tra diritto amministrativo e diritto privato possono essere riassunti in tre affermazioni: 1. il diritto amministrativo è un diritto autonomo dal diritto privato. L'autonomia del diritto amministrativo si desume in particolare da un istituto disciplinato dalla l. n. 241/1990, e cioè gli accordi stipulati tra amministrazione e soggetti privati “al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, ovvero, in sostituzione di questo” (art. 11 co. 1°). Quel che rileva è che a questo tipo di accordi di natura pubblicistica “si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili”. Dunque il diritto amministrativo e il diritto privato non si pongono in una relazione di regola-eccezione, nel senso che in assenza di una regola speciale di diritto amministrativo, vale automaticamente la regola generale del diritto comune: ciascuno dei due diritti è in sé completo e tendenzialmente autosufficiente; 2. il diritto amministrativo non esaurisce tutta la disciplina dell'attività e dell'organizzazione della pubblica amministrazione che attinge sempre più a moduli privatistici. il diritto amministrativo ha una capacità espansiva in quanto si applica, a certe condizioni, anche a soggetti privati. l’attività delle PA è regolata in parte da leggi amministrative e in parte dal diritto privato. Le PA sono dotate di soggettività piena nell’ordinamento. Esse godono di una capacità giuridica generale e hanno l’attitudine ad assumere la titolarità dei diritti e obblighi in conformità alle norme del cc e delle leggi speciali. Le p.a., infatti, al pari delle persone giuridiche private, godono di una capacità giuridica generale, da intendersi come l’attitudine ad assumere la titolarità di diritti e obblighi in conformità alle norme del c.c. e delle leggi speciali. L’art.1 della legge 241/1990 enuncia, infatti, il principio secondo il quale la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritaria, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge non disponga diversamente. Il solo limite generale che sussiste per esse è costituito dal fatto che la capacità giuridica generale è attribuita alle pubbliche amministrazioni per realizzare le finalità di interesse pubblico affidate alla loro cura. La capacità di diritto privato delle p.a. viene integrata da una sorta di capacità speciale, attraverso l’attribuzione per legge di poteri amministrativi necessari per la cura di interessi pubblici. Così, ad es., in materia di contratti della p.a. per la fornitura di beni e servizi e per l’esecuzione di lavori (disciplinata dal Codice dei contratti pubblici), convivono regole pubblicistiche e regole privatistiche; considerazioni analoghe possono Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) muoversi con riferimento al cd. pubblico impiego privatizzato, in seguito al d.lgs. 165/2001, che prevede la tendenziale applicazione del diritto comune; l’esercizio dei poteri amministrativi si sostanzia nell’adozione di atti aventi natura normativa, caratterizzati dall’unilateralità nella produzione degli effetti e dalla loro sottoposizione al principio di legalità e agli altri principi del diritto amministrativo. La capacità di diritto privato consente alle PA di ricorrere al modello della società di capitali di diritto comune per l’esercizio dei servizi pubblici e di altre attività di rilevanza pubblicistica. 3. Ha una capacità espansiva in quanto si applica a certe condizioni anche a soggetti privati. Ciò accade, in particolare, per i soggetti privati che in base a criteri posti dalla normativa europea e nazionale in materia di contratti pubblici sono qualificati come “organismi di diritto pubblico” o “imprese pubbliche” (art. 3, co. 1°, lett. d) e t), Codice dei contratti pubblici), i quali sono tenuti ad avviare procedimenti competitivi a evidenza pubblica per la scelta dell’impresa fornitrice e i loro atti sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo. In termini generali, l’art. 1, co. 1° ter, l. 241/1990 stabilisce che “i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al co. 1° con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le p.a. in forza delle disposizioni di cui alla presente legge”. Non a caso, il Codice del processo amministrativo, nel definire l’ambito della giurisdizione amministrativa, fa riferimento anche ai “soggetti equiparati” alle p.a. o a quelli “comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo (art. 7 co. 2°). Alcuni atti di soggetti privati hanno dunque natura di provvedimenti e sono sottoposti al controllo giurisdizionale da parte del giudice amministrativo. In conclusione, il diritto amministrativo non costituisce oggi né l’unico diritto applicabile alle PA, né un diritto applicabile solo ad esse. La distinzione tra attività di diritto pubblico e di diritto privato non è sovrapponibile in modo perfetto alla distinzione tra soggetto pubblico e privato. Il diritto amministrativo ha numerose connessioni col diritto penale. Il diritto penale rafforza l’effettività di molte discipline amministrative di settore punendo comportamenti di singoli individui o imprese che ne violino i precetti. 5. I caratteri generali del Diritto Amministrativo Come si è già accennato la nascita del diritto amministrativo in Francia e in Italia è legata all’istituzione di un giudice speciale per le controversie tra cittadino e pubblica amministrazione. Per questo motivo il diritto amministrativo viene considerato un diritto di provenienza giurisprudenziale poiché nato dalle sentenze dei primi giudici speciali operanti nel settore. Questo sistema lo fa assomigliare al sistema fondato sul common law inglese. In Italia la legge 2248/1865 all. abolì il contenzioso amministrativo, ritenuto non compatibile con la visione di stato liberale, e attribuì al giudice ordinario tutte le controversie tra privati e p.a. relative alla tutela di diritti soggettivi. Nel 1889 venne operata una correzione di tale sistema, istituendo un giudice amministrativo il cui nucleo originario fu costituito dalla IV Sezione del Consiglio di Stato, che stilò i principi generali dell’atto amministrativo nonchè la prima forma di riparto delle competenze tra i giudici ordinari e quelli amministrativi a seguito di un “concordato giurisprudenziale” con la Corte di Cassazione. La natura giurisprudenziale del diritto amministrativo non è contraddetta dalla presenza di un’amplissima produzione legislativa. I difetti strutturali della legislazione amministrativa danno origine ad incertezze interpretative. Oggi per dirimere le questioni di principio che danno vita a orientamenti giurisprudenziali difformi, interviene l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in collegio allargato, composto da giudici provenienti da tutte le sezioni giudicanti (II, III, IV, V e VI). Essa svolge una funzione nomofilattica, cioè di promozione di un’applicazione del diritto uniforme, tanto che, nel caso in cui una sezione giudicante ritiene preferibile un’interpretazione diversa da quella dell’Adunanza, non può decidere, ma deve rimettere il caso alla decisione di quest’ultima e deve poi conformarsi al suo orientamento (art. 99 Codice del processo amministrativo). Il diritto amministrativo ha un’altra caratteristica che lo avvicina in qualche modo all’esperienza della common law: l’elasticità e adattabilità al variare delle situazioni e all’emergere di nuove esigenze. Il diritto amministrativo si caratterizza per la vastità del materiale normativo: Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) 2. la riserva di legge rinforzata aggiunge al carattere dell'assolutezza il fatto che la Costituzione stabilisce direttamente alcuni principi materiali o procedurali relativi alla disciplina della materia che costituiscono un vincolo per il legislatore ordinario. È prevista soprattutto in relazione ai diritti di libertà (ad es. art.18); 3. la riserva di legge relativa (ad es. quella in materia tributaria), prevede che la legge ponga prescrizioni di principio e consente l'emanazione di regolamenti di tipo esecutivo contenenti le norme più di dettaglio che completano la disciplina della materia. La riserva di legge va distinta dal principio di legalità. - Il principio di legalità: Il principio di legalità costituisce uno dei principi fondamentali in materia di attività amministrativa. Esso è richiamato dall'art. 1 l. n. 241/1990 secondo il quale l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge. Il principio di legalità si ricava indirettamente da disposizioni costituzionali: in particolare, l’art.113 Cost. in tema di giustiziabilità degli atti amministrativi presuppone che il giudice trovi nella legge un parametro oggettivo rispetto al quale sindacare gli atti impugnati. Il principio di legalità ha due funzioni: di garanzia delle situazioni giuridiche soggettive dei privati che possono essere incise dal potere amministrativo (legalità-garanzia); di ancoraggio dell'azione amministrativa al principio democratico e agli orientamenti che emergono all'interno del circuito politico- rappresentativo, nel senso che la legge, espressione della sovranità popolare, funge da fattore di legittimazione e da guida dell'attività amministrativa (legalità-indirizzo). Il principio di legalità può essere inteso in due accezioni: 1. In un primo senso, esso va inteso come principio della preferenza della legge: gli atti emanati dalla pubblica amministrazione non possono essere in contrasto con la legge. La legge costituisce, cioè, un limite negativo all'attività dei poteri pubblici che determina l'illegittimità degli atti emanati (vizio di violazione della legge); 2. In un secondo senso, quello oggi più rilevante, il principio di legalità richiede che il potere amministrativo trovi un riferimento esplicito in una norma di legge. Quest'ultima costituisce il fondamento esclusivo dei poteri dell'amministrazione: essa deve attribuire in modo espresso alla pubblica amministrazione la titolarità del potere, disciplinandone modalità e contenuti. La p.a. non gode dunque di una legittimazione propria, per cui il potere esercitato in assenza di una norma di conferimento comporta la nullità dell’atto emanato. Il principio di legalità inteso nel secondo senso ha a sua volta una duplice dimensione: la legalità formale (estrinseca o in senso debole) e la legalità sostanziale (intrinseca o in senso forte). La prima è rispettata quando c'è la semplice indicazione nella legge dell'apparato pubblico competente a esercitare un potere normativo secondario o amministrativo che è indeterminato nei suoi contenuti. La seconda, invece, esige che la legge ponga una disciplina materiale del potere amministrativo, definendone i presupposti per l'esercizio, le modalità procedurali e le altre sue caratteristiche essenziali. La riserva di legge relativa e il principio di legalità inteso in senso sostanziale hanno alcuni elementi in comune poiché assolvono all’analoga funzione garantistica di delimitare il potere esecutivo. La riserva di legge relativa concorre a definire i rapporti interni al sistema delle fonti normative. Infatti, stabilisce condizioni e limiti al potere regolamentare del governo ed esige che la legge disciplini almeno in parte la materia. Il principio di legalità prescrive che il potere dell’amministrazione allorchè si esplichi nell’eliminazione di norme secondarie, trovi un fondamento nella legge e qui vi è una sovrapposizione con il principio della riserva di legge relativa. Il fondamento legislativo generale dei regolamenti governativi è costituito dall’art 13 ln 400/1988, che ne individua le principali tipologie. Tuttavia, il principio di legalità si riferisce, oltre che ai poteri normativi, soprattutto ai poteri e ai provvedimenti amministrativi puntuali. Esso postula che il fondamento dei provvedimenti amministrativi sia costituito anzitutto da norme di rango primario. Inoltre, secondo la giurisprudenza amministrativa, le esigenze subordinate al principio di legalità possono essere soddisfatte anche da norme di livello secondario (regolamenti): per essere legittimo l'atto amministrativo deve essere conforme anche alle norme secondarie. Infine, i parametri che integrano il principio di legalità sono costituiti anche dai principi generali del diritto amministrativo desumibili dalla Costituzione o dal diritto europeo ed elaborati dalla giurisprudenza amministrativa. I più importanti sono Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) richiamati dall'art. 1 l. n. 241/1990. Questi principi hanno una valenza prescrittiva e una rilevanza in sede di controllo giurisdizionale sull'attività amministrativa. 5. Le leggi provvedimento. Sintomo di una disfunzione nei rapporti tra parlamento e potere esecutivo sono le c.d. leggi provvedimento. Si tratta di leggi (statali e regionali) prive della generalità e astrattezza, cioè che intervengono a porre la disciplina di situazioni concrete e a volte di un’unica fattispecie. Ad es. le leggi che revocano o prorogano concessioni amministrative riferite a talune imprese, costituiscono singole società per azioni di interesse nazionale introducendo deroghe al diritto comune (ad es. RAI), erogano finanziamenti a una o più imprese, ecc. Va detto, del resto, che la Costituzione non contiene un principio di “riserva d’amministrazione” che metta al riparo il potere esecutivo da invasioni di campo ad opera del legislatore. Rientra dunque nella discrezionalità del parlamento la scelta se utilizzare lo strumento della legge in luogo del provvedimento amministrativo oppure se attribuire all’amministrazione, in termini più astratti, il potere corrispondente. La prassi dell’amministrare per legge è stata stigmatizzata come una sorta di “legalità usurpata”, perché il parlamento invade spazi che in base al principio della separazione dei poteri dovrebbero essere riservati al potere esecutivo. In effetti il ricorso alla legge provvedimento scardina le garanzie offerte al privato dal regime dell’atto e del procedimento amministrativo come, in particolare, il diritto di partecipare al procedimento, l’obbligo di motivazione e il diritto di proporre ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo. Infatti, la legge provvedimento può essere censurata soltanto sotto il profilo della costituzionalità con le forme, i limiti e i tempi propri di questo tipo di giudizio innanzi alla Corte costituzionale. questa in casi di arbitrarietà e manifestata irragionevolezza può dichiararne l’incostituzionalità. 6. I regolamenti governativi La legge costituzionale n. 3/2001 ha introdotto il principio del parallelismo tra competenza legislativa e competenza regolamentare dello Stato. Lo Stato, cioè, è titolare di un potere regolamentare esclusivamente nelle materie che l’art. 117 Cost. attribuisce alla sua competenza legislativa esclusiva, art. 117, co 6. Tale potere può essere delegato alle regioni. Nelle altre materie la potestà regolamentare spetta alle regioni. Lo Stato può anche emanare regolamenti nelle materie riguardanti la potestà legislativa regionale concorrente o residuale solo nelle more dell’approvazione da parte delle regioni delle norme di loro competenza e in caso di inerzia di queste ultime. I regolamenti in questioni hanno carattere cedevole, cioè perdono efficacia all’entrata in vigore della normativa da parte di ciascuna regione (art. 11, co 8, l. n. 11/2005). Il potere regolamentare del governo è richiamato anche nell’art. 87 Cost. che attribuisce al presidente della Repubblica il potere di emanare i regolamenti. La disciplina generale è contenuta nella l. 400/1988, che all’art. 17 individua cinque tipi di regolamenti governativi: 1. i regolamenti esecutivi pongono norme di dettaglio necessarie per l’applicazione concreta di una legge (ulteriore specificazione, modalità procedurali, termini, adempimenti, ecc.). Non è necessario che la legge attribuisca di volta in volta al governo il potere di approvarli, perché la l. n. 408/1988 costituisce un fondamento legislativo generale sufficiente a soddisfare il principio di legalità. Nelle materie coperte da riserva di legge assoluta sono ammessi soltanto regolamenti di stretta esecuzione, che non operino alcuna integrazione o specificazione delle norme materiali poste a livello di fonte primaria. Regolamenti di questo tipo possono essere emanati per dare esecuzione a regolamenti europei e, nei casi in cui la legge di delegazione europea lo autorizzi, anche a direttive; 2. i regolamenti per l’attuazione e l’integrazione possono essere emanati nelle materie non coperte da riserva di legge assoluta nei casi in cui la legge si limiti a individuare i principi generali della materia e autorizzi espressamente il governo a porre la disciplina di dettaglio; 3. i regolamenti indipendenti intervengono nelle materie non soggette a riserva di legge là dove manchi una disciplina di livello primario; si è dubitato della compatibilità con la costituzione di un potere normativo così ampio e indeterminato. Di fatti sono poche e marginali le materie nelle quali è assente oggi una disciplina legislativa. 4. i regolamenti di organizzazione costituiscono una sottospecie di regolamenti esecutivi e di attuazione, poiché disciplinano l’organizzazione e il funzionamento delle pubbliche amministrazioni “secondo le disposizioni dettate dalla legge”. Peraltro già l’art. 97 Cost. pone una riserva di legge relativa riguardo Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) alla organizzazione di uffici e dunque è sempre necessaria una disciplina di fonte primaria che ne delinei l’assetto in termini generali; 5. i regolamenti delegati o autorizzati sono previsti per le materie non coperte da riserva assoluta di legge e attuano la c.d. delegificazione, cioè sostituiscono la disciplina posta da una fonte primaria con una disciplina posta da una fonte secondaria. Infatti la loro entrata in vigore determina l’abrogazione delle norme vigenti contenute in fonti anche di livello primario. La l. 400/1988 all’art. 17 pone alcune condizioni: occorre una legge che autorizzi il governo ad emanarli; la stessa legge deve contenere le norme generali regolatrici della materia (la delegificazione dunque non è totale); essa deve anche disporre l’abrogazione delle norme vigenti rinviando il prodursi dell’effetto abrogativo al momento dell’entrata in vigore del regolamento. La delegificazione non esclude che leggi successive possano rilegificare in tutto o in parte la materia. 6. I regolamenti ministeriali e interministeriali sono previsti dall’art. 17, co. 3, nelle materie riguardanti la competenza di uno o più ministri. Questi regolamenti possono essere emanati solo nei casi espressamente previsti dalla legge e sono gerarchicamente sottordinati ai regolamenti governativi. Essi devono essere comunicati prima della loro emanazione al presidente del Consiglio dei ministri ai fini del coordinamento. Va detto, comunque, che l’art. 17 l. 400/1988 non esaurisce la tipologia dei regolamenti governativi in quanto numerose leggi speciali prevedono fattispecie che derogano alla disciplina generale. Una specie particolare di fonti secondarie emersa nella prassi legislativa consente nei regolamenti emanati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Dal punto di vista formale e procedurale, i regolamenti recano la denominazione “regolamento”, sono adottati previo parere del Consiglio di Stato, sono sottoposti al controllo preventivo di legittimità e alla registrazione della Corte dei Conti e vengono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale. La partecipazione dei privati è esclusa e non è richiesta neppure la motivazione. Il regime giuridico dei regolamenti (che sono atti formalmente amministrativi anche se sostanzialmente normativi, è in parte quello proprio dei provvedimenti amministrativi (sia pure con le deroghe appena richiamate in tema di partecipazione dei privati e di obbligo di motivazione), in parte quello proprio delle fonti del diritto. Come tutti i provvedimenti amministrativi, ove contengano disposizioni contrarie alla legge essi possono essere impugnati innanzi al giudice amministrativo e conseguentemente annullati. In base al principio della preferenza della legge i regolamenti sono suscettibili di dsapplicazione da parte del giudice ordinario. Anche il giudice amministrativo può disapplicare una norma regolamentare in almeno due ipotesi: quando il provvedimento impugnato viola un regolamento a sua volta difforme dalla legge, oppure quando il provvedimento impugnato è conforme a un regolamento che però contrasta con la legge. In entrambi i casi il giudice esercita il proprio sindacato valutando la legittimità del provvedimento direttamente rispetto alla norma primaria: esso risulta nella prima ipotesi legittimo; nella seconda ipotesi illegittimo. In definitiva il giudice può disapplicare il regolamento e ciò anche quando quest’ultimo non sia stato espressamente impugnato. In quanto fonti del diritto, invece, ai regolamenti si applicano le norme generali sull’interpretazione contenute nell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile. Inoltre vale per essi il principio jura novità curia e la loro violazione può costituire motivo di ricorso per Cassazione (art. 360 c.p.c.). A differenza delle fonti primarie, non possono essere oggetto di sindacato di costituzionalità innanzi alla Corte costituzionale. 7. I testi unici e i codici Negli ultimi decenni la produzione legislativa ha acquisito ormai una dimensione patologica, tanto che può parlarsi di “inflazione legislativa”. Lo strumento di riordino più tradizionale è costituito dai testi unici, che accorpano e razionalizzano in un unico corpo normativo le disposizioni legislative vigenti che disciplinano una determinata materia. Si distinguono: 1. i testi unici innovativi, che sono emanati sulla base di un’autorizzazione legislativa che stabilisce i criteri del riordino (c.d. testi unici autorizzati o delegati). Essi sono pertanto fonti del diritto in senso proprio; 2. i testi unici di mera compilazione, che sono emanati su iniziativa autonoma del governo (c.d. testi unici spontanei) e hanno soltanto la funzione pratica di unificare in un unico testo le varie disposizioni vigenti, rendendone più semplice il reperimento. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) c.d. pianificazione a cascata: ad es., in materia sanitaria, l’attività di programmazione si articola nel piano sanitario nazionale e, a livello regionale, nei piani sanitari regionali. Particolarmente importante è il piano regolatore generale, che costituisce lo strumento principale di governo da parte dei comuni. Esso suddivide il territorio comunale in zone omogenee (c.d. zonizzazione) con l’indicazione per ciascuna di esse delle attività insediabili, in base a criteri e parametri definiti in modo uniforme a livello nazionale (d.m. 1444/1968): edificatoria, a fini abitativi, industriale, agricola, ecc. Il piano individua poi le aree destinate ad edifici e a infrastrutture pubbliche o a uso pubblico. Se la localizzazione riguarda terreni di proprietà privata, essa determina un vincolo di inedificabilità di durata quinquennale che decade se nel frattempo non interviene l’espropriazione. Il piano regolatore si inserisce in un sistema articolato di strumenti di pianificazione ed è condizionato a monte dal piano territoriale di coordinamento provinciale, dai piani paesistici e dai piani urbanistico- territoriali previsti dalla normativa in materia di valori paesistici e ambientali (bellezze naturali). Esso è approvato all’esito di un procedimento aperto alla partecipazione dei privati. Infatti, il piano viene adottato con delibera del consiglio comunale e pubblicato per 30 giorni allo scopo di consentire agli interessati di prenderne visione e di presentare osservazioni. Dopodiché viene sottoposto a una nuova delibera del consiglio comunale che deve pronunciarsi sulle osservazioni presentate. Il piano adottato è poi soggetto all’approvazione della regione, la quale esercita un controllo che non è limitato alla mera legittimità, poiché può proporre modifiche al fine di una migliore tutela degli interessi ambientali e paesaggistici e di garantire la conformità al piano territoriale di coordinamento provinciale. Il piano regolatore ha una natura mista (sia normativa sia amministrativa) in quanto da un lato dispone in via generale ed astratta in ordine al governo e all’utilizzazione dell’intero territorio comunale, dall’altro contiene istruzioni, norme e prescrizioni di concreta definizione, destinazione e sistemazione di singole parti del comprensorio urbano. I piani producono una pluralità di effetti: di disciplina del potere di pianificazione a cascata; di conformazione del territorio; di conformazione del diritto di proprietà. In termini generali, la disciplina dei piani regolatori e dei piani attuativi ha natura principalmente procedimentale e riemette alle amministrazioni amplissimi spazi di discrezionalità. c) Le ordinanze contingibili e urgenti Gli Stati devono dotarsi usualmente di strumenti per far fronte a situazioni di emergenza imprevedibili che possono mettere a rischio interessi fondamentali della comunità (ad es. incolumità pubblica) ma che non si prestano ad essere disciplinate ex ante a livello di fonti primarie. Quando era vigente lo Statuto albertino, si riteneva per prassi che rientrasse nel potere regio emanare, nei casi di urgenza, ordinanze anche in deroga alle norme vigenti. Con l’avvento della Costituzione questo tipo di potere è stato assorbito in gran parte dal potere attribuito al governo, nei casi straordinari di necessità e di urgenza, di emanare decreti-legge. A livello subcostituzionale, numerose disposizioni di legge attribuiscono ad autorità amministrative il potere di emanare ordinanze contingibili e urgenti (ad es. nei settori dell’ordine pubblico o dell’ambiente). Di seguito alcuni esempi: 1. il potere del prefetto “nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”; 2. il sindaco, nella sua veste di ufficiale del governo, può adottare “provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana” (art. 54 co. 4 d.lgs. 267/2000). Può adottare questo tipo di provvedimenti anche in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica in ambito locale, nonché per ragioni di sicurezza urbana, decoro, vivibilità, tranquillità e riposo dei residenti (art. 50 co. 5). Poteri analoghi sono attribuiti alle regioni e al Ministro della Salute nel caso di situazioni che interessino territori e comunità più ampie; 3. un potere di ordinanza è previsto anche in materia di protezione civile. Infatti, nel caso in cui si verifichino calamità naturali che richiedono interventi immediati con mezzi e poteri straordinari, il Consiglio dei Ministri può deliberare lo stato di emergenza fissandone la durata e l’estensione territoriale disponendo anche in ordine all’esercizio del potere di ordinanza. Quest’ultimo è esercitato entro 30 giorni dal capo del dipartimento della Protezione civile nel rispetto dei limiti e dei criteri indicati nel decreto che dichiara lo stato di emergenza, nonché dei principi generali dell’ordinamento. Le ordinanze sono immediatamente efficaci. Le leggi attributive di questi poteri si limitano di solito a individuare l’autorità amministrativa competente ad adottarli, a descrivere in termini generali il presupposto che ne legittima l’emanazione e a specificare il Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) fine pubblico da perseguire. Rispettano quindi il principio di legalità formale, ma lasciano indeterminato il contenuto del potere e i destinatari del provvedimento: l’autorità competente è titolare di un’ampia discrezionalità. Le ordinanze operano dunque una deroga al principio della tipicità degli atti amministrativi in base al quale la norma attributiva del potere deve definirne in modo sufficientemente preciso presupposti e contenuto e sollevano dunque un problema di compatibilità con il principio di legalità in senso sostanziale. È controverso in primo luogo se ed entro quali limiti i poteri di ordinanza devono rispettare le leggi vigenti. La giurisprudenza ha chiarito che le ordinanze non possono essere emanate in contrasto con i principi generali dell’ordinamento giuridico e con i principi fondamentali della costituzione. Inoltre, devono avere un’efficacia limitata nel tempo e devono essere motivate e adeguatamente pubblicizzate. Un altro limite è il rispetto del principio di proporzionalità: il contenuto delle ordinanze deve essere calibrato in funzione dell’emergenza specifica che deve essere in concreto fronteggiata. Trattandosi uno strumento extra ordinem, il potere di ordinanza ha un carattere residuale, nel senso che non può essere esercitato in luogo di poteri tipici previsti dalle norme vigenti già idonei a far fronte a quel tipo di situazione. Quanto alla qualificazione giuridica, le ordinanze hanno di regola natura non normativa anche quando si rivolgono a categorie più o meno ampie di destinatari. Infatti esse si riferiscono ad accadimenti specifici (ad es. un’epidemia) e dunque hanno tendenzialmente un carattere concreto e un’efficacia temporalmente circoscritta. Tuttavia, ove la situazione di emergenza tenda a protrarsi, le ordinanze acquistano necessariamente anche un carattere di astrattezza e perdono il carattere della temporaneità. Specie nel caso delle ordinanze emanate dai sindaci in materia di sicurezza o decoro urbano (ad es. contenenti misure contro il commercio ambulante abusivo), esse finiscono così per assumere caratteristiche simili ai regolamenti comunali, intesi come atti normativi in senso proprio di rango sublegislativo. Le ordinanze contingibili e urgenti vanno distinte da altri atti amministrativi che hanno come presupposto l’urgenza, ma il cui contenuto e i cui effetti sono predefiniti in tutto e per tutto dalla norma attributiva del potere (i c.d. atti necessitati). Così, ad es., nel caso in cui i lavori relativi alla costruzione di un’opera pubblica siano dichiarati indifferibili e urgenti, l’autorità amministrativa competente può disporre l’occupazione d’urgenza dei terreni interessati prima ancora che si sia concluso il procedimento di espropriazione. In materia di contratti pubblici, l’urgenza può consentire una deroga al ricorso a procedure a evidenza pubblica e legittimare dunque la trattativa diretta con un solo fornitore. In altri casi, l’urgenza può giustificare l’emanazione di un atto da parte di un organo diverso da quello competente in via ordinaria. d) Le direttive e gli atti di indirizzo Le direttive amministrative sono affini agli atti di pianificazione, in quanto espressione della funzione di indirizzo politico-amministrativo: il loro contenuto non è costituito, come accade per le fonti primarie e secondarie, da prescrizioni puntuali e vincolanti in modo assoluto, ma è limitato all’indicazione di fini e obiettivi da raggiungere. Ove giustificato, i destinatari possono anche disattendere in tutto o in parte le indicazioni contenute nella direttiva per ragioni che devono essere espresse nella motivazione. Si distinguono: 4. le direttive interorganiche le direttive che si inseriscono in rapporti interorganici sono uno strumento attraverso il quale l’organo sovraordinato condiziona e orienta l’attività dell’organo o degli organi sottordinati. Laddove il rapporto interorganico ha un carattere propriamente gerarchico (ad es. il ministro dell’Interno nei confronti dei prefetti) la direttiva può essere utilizzata talvolta in luogo dell’atto che è più caratteristico di questo tipo di relazione e cioè l’ordine gerarchico che ha un contenuto puntuale ed è riferito a una situazione concreta. Laddove invece l’organo sottordinato è investito di una competenza autonoma, cioè non inclusa del tutto in quella dell’organo sovraordinato e dunque il rapporto non può essere qualificato come propriamente gerarchico, la direttiva acquista contorni più tipici e connota un rapporto organico, definito come rapporto di direzione. Un esempio è il rapporto che intercorre tra ministro e dirigenti generali in base al principio della distinzione tra indirizzo politico- amministrativo e attività di gestione (d.lgs. 165/2001): al ministro è preclusa ogni competenza gestionale e amministrativa diretta e può soltanto formulare direttive generali ed esercitare un controllo ex post; Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) 5. le direttive intersoggettive le direttive che attengono a rapporti intersoggettivi costituiscono uno strumento attraverso il quale, ad es., il ministro competente o la regione esercitano il potere di indirizzo nei confronti di enti pubblici strumentali, la cui attività deve essere resa coerente con i fini istituzionali propri del ministero di settore o della regione. In anni più recenti, con la riduzione della presenza pubblica diretta o indiretta nell’economia, lo strumento della direttiva è stato utilizzato con minor frequenza. I nuovi apparati di regolazione, cioè le cd autorità amministrative indipendenti, si caratterizzano proprio per il fatto di non essere destinatari di un potere di indirizzo da parte del governo. Sono emersi altri tipi di direttive a valenza spiccatamente regolatoria: ad esempio le autorità indipendenti preposte ai servizi di pubblica utilità possono emanare direttive nei confronti delle imprese erogatrici dei servizi per definire i livelli generali di qualità di questi ultimi. La violazione di queste direttive da parte delle imprese destinatarie comporta l’applicazione di sanzioni amministrative. e) Le norme interne e le circolari In termini generali, si può vedere che le organizzazioni complesse, anche quelle private, hanno regole interne volte a disciplinare il funzionamento e i raccordi tra le varie unità operative. Nel diritto pubblico, gli ordinamenti sezionali si fondano su alcuni elementi costitutivi: la plurisoggettività, con la predeterminazione dei soggetti inseriti nell’ordinamento settoriale sulla base di atti di ammissione, di iscrizione o di attribuzione di status; un’organizzazione interna stabile con distribuzione di ruoli e competenze; la presenza di norme interne emanate dagli organi preposti all’ordinamento speciale e rese effettive da un sistema di sanzioni anch’esse interne; l’istituzione di organi giustiziali speciali (ad es. corti arbitrali sportive). Le norme interne possono assumere la forma di regolamenti interni, di istruzioni o ordini di servizio, di direttive generali, ecc. Il modello degli ordinamenti giuridici sezionali è stato superato in seguito all’entrata in vigore della costituzione che non ammette, se non entro certi limiti ristretti, la rinuncia o la compressione dei diritti fondamentali. Oggi esso è limitato a pochi settori il principale dei quali è costituito dallo sport. Prevede anche un sistema di giustizia disciplinare interna innanzi a organo giustiziali dell’ordinamento sportivo. Le norme interne e i comportamenti assunti sulla base di esse acquistano sempre più spesso una rilevanza nell’ordinamento generale. Così ad esempio, l’illecito sportivo può comportare l’applicazione non solo delle sanzioni speciali previste dalle norme interne all’ordinamento ma anche di quelle previste dall’ordinamento generale. Inoltre l’organizzazione interna dell’amministrazione è stata fatta oggetto di interventi legislativi che hanno via via superato la separatezza e l’impermeabilità dell’ordinamento amministrativo rispetto a quello generale. La distinzione dunque tra norme interne ed esterne si è venuta così attenuando. In molti casi le norme interne sono pubblicate anche in GU. Quindi gli obblighi di pubblicazione rendono conoscibili le norme interne al di la della cerchia dei titolari e degli addetti agli uffici interni a un apparato amministrativo e contribuiscono a far assumere a queste ultime una rilevanza esterna. Una specie particolare di norme interne è costituita dalla prassi amministrativa, cioè dalla condotta uniforme assunta nel tempo dagli uffici in relazione alle valutazioni compiute e alle decisioni prese in casi analoghi. Il principio di coerenza che presiede all’esercizio dell’attività degli uffici fa sì che i precedenti, una volta consolidatisi, acquistino in un certo senso una forza normativa. Infatti essi devono essere tenuti in debito conto in occasione di successivi casi di svolgimento dell’attività e diventano vincolanti ove non sussistano ragioni particolari per discostarsene. La prassi amministrativa si può formare nel tempo in modo spontaneo in conseguenza del continuo ripetersi di un determinato comportamento, unito al convincimento diffuso che esso sia conforme a una regola operativa tacita. Essa non va comunque confusa con la consuetudine, che diventa vera e propria fonte del diritto allorchè si forma un convincimento generalizzato della sua obbligatorietà (c.d. opinio juris sive necessitatis). Tuttavia la forma usuale di comunicazione delle norme interne è costituita dalla circolare. Nella vita quotidiana degli uffici esse sono uno strumento di orientamento e di guida dell’attività amministrativa, che di fatto ha per essi un grado di cogenza talora superiore alle norme anche di rango primario. Le circolari “ sono atti di un’autorità superiore che stabiliscono in via generale ed astratta regole di condotta di autorità inferiori nel disbrigo degli affari d’ufficio. Le circolari acquistano in alcuni casi una dimensione intersoggettiva quando vengono indirizzate a enti e soggetti esterni all’apparato che li emette Il contenuto delle circolari può essere il più vario, tanto che si suole parlare di tre tipi: Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) concorrono a definire la missione affidata a un soggetto pubblico, che consiste appunto nella cura di un determinato interesse pubblico individuato dalla legge. L’esigenza di tutelare un interesse pubblico si traduce di regola in normative che prevedono anche l’istituzione di un apparato pubblico per lo svolgimento delle attività necessarie per curare tale interesse. quanto più i fini sono definiti dalla legge in modo preciso e focalizzato, tanto più mirata può risultare l’azione posta in essere dall’apparato. Nel contesto che qui rileva, per funzioni amministrative si intendono i compiti che la legge individua come propri di un apparato amministrativo, in coerenza con la finalità ad esso affidata. L’apparato è tenuto ad esercitarle per la cura in concreto dell’interesse pubblico. In relazione ad esse la legge conferisce agli apparati amministrativi le risorse e i poteri necessari (attribuzioni) e distribuisce la titolarità di questi ultimi tra gli organi che compongono l’apparato (competenze). Di regola le funzioni amministrative vengono elencate dalla legge: ad es., la legge 481/1995 istitutiva delle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità elenca le funzioni attribuite alle autorità di regolazione: il controllo delle condizioni e delle modalità di accesso all’attività per i gestori dei servizi, la definizione dei livelli generali di qualità, ecc. Evidentemente l’esercizio delle funzioni comporta lo svolgimento da parte dell’apparato pubblico di una varietà di attività materiali e giuridiche. Ebbene, l’attività amministrativa consiste nell’insieme dei comportamenti e decisioni (inclusi i singoli atti o provvedimenti amministrativi) posti in essere o assunti da una pubblica amministrazione nell’esercizio di funzioni affidate ad essa da una legge. L’attività amministrativa, quindi, è rivolta a uno scopo o fine pubblico, cioè alla cura di un interesse pubblico e, per questo, anch’essa è dotata del carattere della doverosità: il mancato esercizio dell’attività può essere fonte di responsabilità. E ciò a differenza di quanto accade nell’ambito dei rapporti di diritto comune, nei quali l’esercizio della capacità giuridica da parte dei soggetti privati è di regola libero. All’attività amministrativa si riferisce l’art. 1 l. n. 241/1990 che dichiara: “l’attività amministrativa persegue fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza”. Sotto il profilo giuridico, la nozione di attività amministrativa va tenuta distante da quella di atto o provvedimento amministrativo. Essa si presta a qualificazioni che consentono di valutare in modo complessivo e unitario l’operato delle singole amministrazioni in termini sia di legalità, che di efficienza, efficacia ed economicità. A ciò provvedono gli organi di controllo come ad esempio la Corte dei conti. L’atto amministrativo (che costituisce un singolo episodio o un frammento dell’attività posta in essere da un apparato) si presta, invece, ad essere valutato sotto il profilo della conformità o meno all’ordinamento (legittimità) e dell’attitudine a soddisfare nel caso concreto l’interesse pubblico (opportunità o merito amministrativo). Per quanto riguarda la linea di confine tra l’attività amministrativa e attività di diritto privato della p.a., la giurisprudenza tende a ritenere che l’amministrazione svolge attività amministrativa “non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato” (Cass. 19667/2003). Da qui è sorta la distinzione tra “attività amministrativa privatistica” (riferibile a soggetti privati che operano per conto della p.a., e “attività d’impresa di enti pubblici”. La tendenza ad attribuire una connotazione pubblicistica ad attività svolte con moduli privatistici mira, in realtà, a colpire il fenomeno che vede le amministrazioni fare ricorso a forme organizzative e operative privatistiche (in particolare società di capitali da esse controllate) al solo fine di sottrarsi al regime di diritto amministrativo (si pensi ad assunzioni di personale senza concorsi, stipulazione di contratti senza il ricorso a procedure a evidenza pubblica, ecc.). Il potere, il provvedimento, il procedimento Come anticipato, l’attività amministrativa può esprimersi, oltre che in comportamenti materiali, nell’adozione di atti o provvedimenti amministrativi, che sono la manifestazione concreta dei poteri amministrativi attribuiti dalla legge ad un apparato pubblico. Più in particolare, in base a ciascuna funzione la legge individua in modo puntuale i poteri (ordinatori, autorizzativi, ablatori, sanzionatori, ecc.) conferiti al singolo apparato. Il potere La nozione di potere è una nozione di teoria generale che può essere riferita, oltre che al potere amministrativo, al potere legislativo, che consiste nel dettare norme generali e astratte; al potere giurisdizionale, che consiste nel risolvere una controversia con una sentenza suscettibile di passare in Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) giudicato e al potere negoziale che consiste nella possibilità di disporre autonomamente dei propri interessi. Per quanto qui interessa, i poteri amministrativi conferiscono agli apparati che ne assumono la titolarità una capacità giuridica speciale di diritto pubblico che si concretizza nella possibilità di produrre, con una manifestazione di volontà unilaterale (il provvedimento) effetti giuridici nella sfera dei destinatari. Essa si aggiunge, integrandola, alla capacità giuridica generale di diritto comune, intesa come attitudine ad assumere la titolarità delle situazioni giuridiche soggettive attive e passive previste dall’ordinamento, di cui essi, al pari delle persone giuridiche private, sono dotati. Il potere amministrativo, dunque, pone il suo titolare in una posizione di sovraordinazione rispetto al soggetto nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti giuridici prodotti in seguito al suo esercizio. Bisogna fare una distinzione tra potere in astratto e potere in concreto. È la legge, infatti, a definire gli elementi costitutivi di ciascun potere (potere in astratto). Ove l’amministrazione agisca in mancanza di una norma attributiva del potere in astratto, si configura un difetto assoluto di attribuzione, che determina la nullità del provvedimento. Il potere in astratto ha la caratteristica dell’inesauribilità: fin tanto che resta in vigore la norma attributiva, esso si presta ad essere esercitato in una serie indeterminata di situazioni concrete. Ogniqualvolta, poi, si verifica una situazione di fatto conforme alla fattispecie tipizzata nella norma di conferimento al potere, l’amministrazione è legittimata a esercitare il potere (potere in concreto o atto di esercizio del potere) e a provvedere così alla cura dell’interesse pubblico. Oltre che legittimata, in virtù del principio di doverosità, l’amministrazione è persino tenuta ad avviare un procedimento che si conclude con l’emanazione di un atto o provvedimento autoritativo idoneo a incidere unilateralmente nella sfera giuridica del soggetto destinatario e a porre una disciplina del rapporto che nasce tra il privato e l’amministrazione. Emerge così un elemento dinamico del potere, che dalla dimensione statica della norma si traduce in un atto concreto produttivo di effetti giuridici. L’unilateralità del potere non è un elemento indefettibile di quest’ultimo poiché ad esempio in certe condizioni può essere fatto oggetto di un accordo con il destinatario dell’atto e dunque può acquisire una connotazione consensuale e bilaterale. L’atto e il provvedimento Nell’ordinamento italiano manca una definizione di atto o provvedimento amministrativo: la sua nozione è elaborata essenzialmente dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Qualche indicazione si può ricavare dalla Costituzione e da alcune leggi generali. In particolare l’art. 113 Cost. stabilisce che “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale”, co 1; la legge determina quali organi giurisdizionali abbiano il potere di “annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”. Ebbene, queste disposizioni richiamano due aspetti del regime giuridico degli atti amministrativi: la loro sottoposizione necessaria a un controllo giurisdizionale operato dal giudice amministrativo e dal giudice ordinario; la loro annullabilità nei casi di accertata difformità dei medesimi rispetto alle norme giuridiche. Del resto, sul piano storico, la nozione di atto amministrativo sorge proprio allorchè, alla fine del XIX sec., venne istituito un giudice speciale amministrativo, distinto da quello ordinario. La IV sezione del consiglio di stato si pose subito il problema di quali caratteristiche dovessero avere gli atti delle amministrazioni per poter essere sottoposti al controllo giurisdizionale e contribuì a elaborare la dottrina dell’atto amministrativo. Altre disposizioni legislative rilevanti si ritrovano nella l. 241/1990, integrata poi dalla l. 15/2005, che pone una disciplina generale del procedimento amministrativo e dell’atto amministrativo: 1. anzitutto, l’art. 1, co 1-bis, n. 241/1990, introdotto dalla l. 15/2005, stabilisce che la pubblica amministrazione agisce di regola secondo le norme del diritto privato “nell’adozione di atti di natura non autoritativa”. Quest’ultimi vanno dunque distinti dagli atti aventi natura autoritativa, per i quali, invece, vale il regime pubblicistico proprio degli atti amministrativi; 2. inoltre, l’art. 3 stabilisce che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, indicando un elemento formale tipico degli atti amministrativi che li differenzia dagli atti privati; 3. ancora, l’art. 7 prevede che l’avvio del provvedimento deve essere comunicato “ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti” e l’art. 21-bis specifica che “il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso effettuata”. Queste disposizioni richiamano implicitamente un’altra caratteristica dei provvedimenti, e cioè l’autoritarietà (o imperatività), intesa come attitudine a determinare in modo unilaterale la produzione Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) degli effetti giuridici nei confronti dei terzi. Infine l’art.2 comma 1 legge 241/1990 pone in capo all’amministrazione il dovere di concludere il procedimento “mediante l’adozione di un provvedimento espresso”. Come emerge dalle disposizioni citate, i termini “atto” e “provvedimento amministrativo” vengono utilizzati come sinonimi. Tuttavia in sede dottrinale si è cercato di porre una distinzione: l’atto amministrativo include ogni “dichiarazione di volontà, desiderio, conoscenza, giudizio, compiuta da un soggetto dell’amministrazione pubblica nell’esercizio di una potestà amministrativa”. Pertanto costituiscono atti amministrativi anche quelli endoprocedimentali come i pareri, le valutazioni tecniche, le proposte, ecc. Dall’altra parte, il provvedimento amministrativo costituisce la subcategoria più importante degli atti amministrativi, e infatti può essere definito come una manifestazione di volontà, espressa dall’amministrazione titolare del potere all’esito di un procedimento amministrativo, volta alla cura in concreto di un interesse pubblico e tesa a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei rapporti esterni con i soggetti destinatari del provvedimento medesimo (per es. un decreto di espropriazione, un’autorizzazione). Il procedimento L’esercizio del potere avviene secondo il modulo del procedimento amministrativo, cioè attraverso una sequenza, individuata anch’essa dalla legge, di operazioni e di atti strumentali all’emanazione di un provvedimento amministrativo produttivo degli effetti giuridici tipici nei rapporti esterni. Invero la l. 241/1990 non fornisce una definizione di procedimento a differenza di quanto fanno le omologhe leggi di altri ordinamenti (ad es. quella tedesca). Il procedimento costituisce in realtà la modalità ordinaria di esercizio di tutte le funzioni pubbliche corrispondenti ai tre poteri dello stato, in considerazione delle esigenze di accentuare la trasparenza e di garantire meglio la tutela dei soggetti interessati di fronte ad atti che sono espressione diretta dell’autorità dello stato. La funzione amministrativa si manifesta nel procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento dotato di “autoritatività”. Nel diritto privato invece, l’attività che precede l’adozione di atti negoziali è tendenzialmente irrilevante per il diritto e resta relegata alla sfera interna del soggetto, sia esso persona fisica o giuridica. Il rapporto giuridico amministrativo La funzione di amministrazione attiva pone la p.a. titolare di un potere in una situazione di tipo relazionale con i soggetti privati destinatari del provvedimento. Solo in epoca recente ha trovato riconoscimento giurisprudenziale (da ultimo Corte Cost., sentenza 94/2017) la nozione di rapporto giuridico amministrativo, cioè il rapporto che intercorre tra la p.a. che esercita un potere e il soggetto privato titolare di un interesse legittimo. Nella visione tradizionale, infatti, lo Stato era concepito come un’entità collocata in una posizione di sovraordinazione rispetto ai soggetti privati relegati nella posizione di amministrati o di sottoposti, tale da escludere la configurabilità di vincoli giuridici bilaterali. Va premesso che i rapporti giuridici interprivati vengono ricostruiti partendo dalla coppia diritto soggettivo- obbligo, i cui termini si imputano rispettivamente al soggetto attivo e passivo del rapporto (rapporto paritario). Il diritto soggettivo consiste in un potere di agire (agere licere), riconosciuto e garantito dall’ordinamento giuridico, per soddisfare un proprio interesse, sostanziandosi in tutta una serie di facoltà (ad es. godimento della cosa, ius excludendi, ecc.). Alla titolarità del diritto soggettivo corrisponde, in capo al soggetto passivo del rapporto giuridico, a seconda dei casi: un dovere generico e negativo di astensione, cioè di non interferire o turbare l’esercizio del diritto (diritti assoluti, come i diritti reali o della personalità); oppure un vero e proprio obbligo giuridico, cioè il dovere specifico e positivo di porre in essere un determinato comportamento o attività (prestazione) a favore del titolare del diritto (diritti relativi, come i diritti di credito), cui corrisponde dal lato del soggetto attivo una pretesa, cioè il potere di esigere la prestazione. Accanto a questa coppia ispirata ad un rapporto paritario, il diritto privato conosce altri tipi di situazioni giuridiche e di relazioni che si avvicinano alla dinamica del rapporto amministrativo, caratterizzato invece dalla sussistenza di una relazione non paritaria tra la p.a. che esercita il potere e il titolare dell’interesse legittimo. Si pensi innanzitutto alla potestà, una situazione giuridica soggettiva attiva, che, a differenza di quanto accade per il diritto soggettivo, è attribuita al singolo soggetto per il soddisfacimento, anziché di un interesse proprio, di un interesse altrui. Si tratta quindi di un potere-dovere, nel senso che il soggetto è tenuto ad esercitarla secondo criteri di prudente arbitrio e nel farlo deve perseguire la finalità della cura dell’interesse altrui (ad es. potestà genitoriale). Allo stesso modo, anche il potere amministrativo è Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) Ad es. a proposito del permesso di costruire, indica come presupposti la conformità del progetto al piano regolatore, dei regolamenti edilizi e in generale la disciplina urbanistico-edilizia vigente. Inoltre, prevede come requisito soggettivo che il permesso possa essere rilasciato a chi dimostri di essere proprietario dell’immobile o di avere altro titolo giuridico come ad esempio diritto di superficie. Analogamente il codice dei beni culturali e del paesaggio elenca in modo specifico i tipi di beni e per ciascuno di essi individua le caratteristiche necessarie. I beni in particolare devono presentare un interesse artistico, storico importante. La questione più delicata in proposito dei presupposti e requisisti sostanziali, è costituita, evidentemente, dal grado di analiticità dei requisiti, pur nella necessaria astrattezza della fattispecie normativa. Infatti il potere può essere più o meno vincolato o più o meno discrezionale, a seconda delle espressioni utilizzate. Ciò lungo una linea continua delimitata da due estremi. Al primo estremo si collocano i poteri integralmente vincolati: in relazione ad essi, l'amministrazione non ha altro compito se non quello di verificare, in modo quasi meccanico, se nella fattispecie concreta siano rinvenibili tutti gli elementi indicati dalla norma attributiva e, nel caso positivo, di emanare il provvedimento che produce gli effetti anch'essi rigidamente predeterminati dalla norma (ad es. l'iscrizione a un albo professionale). Al secondo estremo si pongono i poteri sostanzialmente in bianco (ad es. le ordinanze di necessità e d'urgenza che rimettono al soggetto titolare del potere spazi pressochè illimitati di apprezzamento, di valutazione delle fattispecie concrete e di determinazione delle misure necessarie per tutelare l’interesse pubblico). La discrezionalità emerge allorchè la norma autorizza ma non obbliga l’amministrazione ad emanare un certo provvedimento. Questo accade quando il legislatore usa termini quali: può, ha la facoltà, è opportuno. È evidente che gli spazi di valutazione dei fatti costitutivi del potere sono tanto più ampi tanto più la norma si rifà ai c.d. concetti giuridici indeterminati. La norma definisce cioè i presupposti e i requisiti con formule linguistiche tali da non consentire di accertare in modo univoco il loro verificarsi in concreto. Come esempi possono valere alcune espressioni usate dal legislatore quali “particolarmente importante”,” in maniera consistente”; “carattere anomalo”. I concetti giuridici indeterminati possono essere divisi a loro volta in due categorie:  concetti empirici o descrittivi, che si riferiscono al modo di essere di una situazione di fatto (ad es. la pericolosità di un edificio). Involgono giudizi di carattere tecnico- scientifico e coprono pertanto l'area delle valutazioni tecniche;  concetti normativi o di valore, che contengono un ineliminabile elemento di soggettività (ad es. un film “adatto” ad un pubblico di minori). Involgono giudizi di valore e coprono pertanto l'area della discrezionalità amministrativa; Con riguardo ai primi, l’indeterminatezza rende problematica la sussunzione della fattispecie concreta nel parametro normativo; con riguardo ai secondi è a monte la stessa interpretazione del parametro normativo a presentare margini di opinabilità elevati essendo legata inevitabilmente alla sensibilità soggettiva dell’interprete. In generale si ritiene che i concetti giuridici indeterminati presentino un “nocciolo” di certezza che include i casi che secondo ragione e l’apprezzamento comune rientrano o meno nel parametro normativo e “un alone” di incertezza con riferimento alle situazioni limite nelle quali la sussunzione nel caso concreto nel parametro normativo è incerta e opinabile. Il concetto giuridico indeterminato presenta quindi un doppio limite negativo e positivo. Sorge il problema per cui fino a che punto le valutazioni compiute dall’amministrazione in sede di interpretazione e applicazione dei concetti giuridici indeterminati, possano essere sindacate dal giudice. La tecnica normativa dei concetti giuridici indeterminati, nei limiti in cui concedono all’amministrazione spazi di valutazione e decisione non sindacabili, comporta una caduta del valore della legalità sostanziale. In realtà di fronte alla complessità dei fenomeni economici e sociali, il parlamento è sempre meno in grado di porre un sistema completo e preciso di regole che definiscano per ogni possibile evento futuro l’assetto degli interessi. è dunque in qualche misura costretto ad apparati pubblici ambiti più o meno ampi di valutazione di fatti e di interessi e di composizione dei conflitti tra questi ultimi. 4. La norma attributiva del potere prescrive anche i requisiti formali degli atti (di regola la forma scritta) e le modalità di esercizio del potere, individuando la sequenza degli atti e degli adempimenti necessari per l’emanazione del provvedimento finale che danno origine al procedimento amministrativo. Ai sensi dell’art. 21 octies della l. 241/1990 l'inosservanza delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti non determina in modo automatico l'annullabilità del provvedimento per violazione di legge, Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) essendo richiesto di valutare se essa abbia influito o meno sul contenuto dispositivo del provvedimento adottato in concreto. Se quest'ultimo, in assenza della violazione, non avrebbe potuto essere comunque diverso, il provvedimento non è annullabile; 5. La norma può di conferimento del potere può anche disciplinare l’elemento temporale dell’esercizio del potere e ciò sotto più profili. Ad esempio può individuare un termine per l'avvio dei procedimenti d'ufficio (ad es. nei procedimenti sanzionatori, una volta accertata una violazione, l'amministrazione ha un termine di 90 gg per notificare l'atto di contestazione e il mancato rispetto del termine determina l'estinzione dell'obbligazione di pagare la somma dovuta). Ancora, la norma potrebbe indicare il termine massimo entro il quale l'amministrazione deve emanare il provvedimento conclusivo (si guardi all’art. 2 l. 241/1990). Infine, le leggi amministrative scandiscono talora anche i tempi per l’adozione degli atti endoprocedimentali: ad es., la l. 241/1990 prevede che gli organi consultivi dell’amministrazione debbano rendere i pareri richiesti entro un termine di 20 giorni e che gli organi tecnici debbano esprimere le valutazioni richieste entro 90 giorni (art. 17). Egualmente scanditi sono i tempi endoprocedimentali della conferenza dei servizi. (artt. 14 ss.). Va detto che gran parte di tali termini ha natura ordinatoria poiché la loro violazione non inficia la legittimità degli atti adottati tardivamente, ma il ritardo può dar luogo ad altre misure (si pensi al silenzio-assenso); 6. La norma attributiva del potere individua in termini astratti gli effetti giuridici che l’atto amministrativo può produrre una volta emanato all’esito del procedimento. In quanto manifestazione del potere, i provvedimenti hanno l’attitudine a produrre effetti costitutivi, cioè possono costituire (ad es. concessioni amministrative per l'uso esclusivo di un bene demaniale), modificare (ad es. la sanzione disciplinare di sospensione dall'iscrizione ad un albo professionale che impedisce lo svolgimento dell'attività per un determinato tempo) o estinguere (ad es. il decreto di espropriazione, che fa venir meno in capo al proprietario del bene immobile il diritto di proprietà, la cui titolarità viene trasferita alla p.a. o ad altro soggetto in favore del quale il procedimento di espropriazione è stato attivato). 5. Il potere discrezionale La discrezionalità costituisce la nozione forse più caratteristica del diritto amministrativo. Essa connota l’essenza stessa dell’amministrare, cioè della cura in concreto degli interessi pubblici. Questa attività presuppone che l’apparato titolare del potere abbia la possibilità di scegliere la soluzione migliore nel caso concreto. Emerge qui una tensione quasi insanabile con il principio di legalità inteso in senso sostanziale, che nella sua accezione più estrema porterebbe ad attribuire all’amministrazione soltanto poteri vincolati. Ma ciò, oltre ad essere impossibile, sarebbe inopportuno in quanto le situazioni concrete nelle quali l’amministrazione deve intervenire hanno un grado ineliminabile di contingenza e imprevedibilità tale da richiedere nel decisore uno spazio di adattabilità della misura da disporre. D’altra parte, se il potere è integralmente vincolato, la stessa funzione dell’atto amministrativo cambia. Infatti, si potrebbe sostenere che allorchè nella vita economica e sociale si verifica un accadimento che integra gli estremi della norma di conferimento del potere vincolato, l’effetto giuridico sorge automaticamente, cioè senza l’intermediazione necessaria di un atto amministrativo. L’atto amministrativo avrebbe dunque natura meramente dichiarativa cioè ricognitiva di un effetto già prodottosi, e non costitutiva. Posto dunque che il “vero” potere amministrativo è quello discrezionale, sorge il problema di come conciliare due esigenze: da un lato, attribuire all’amministrazione quel tanto di discrezionalità che consente la flessibilità necessaria per gestire i problemi della collettività; dall’altro, evitare che questa si traduca in arbitrio. Su questo punto emerge una differenza rispetto al diritto privato nel quale l’autonomia negoziale è espressione della libertà dei privati di provvedere alla cura dei propri interessi: ove si mantengano nei limiti del lecito, le scelte dei privati non sono sottoposte a regole e principi particolari volti a guidare la formazione della volontà, dato che basta che il soggetto sia pienamente capace e che la sua volontà non sia affetta da vizi. Invece l’amministrazione titolare di un potere ha un ambito di libertà più ristretto, in quanto la scelta tra una pluralità di soluzioni deve avvenire non solo nel rispetto dei limiti posti dalla norma di conferimento del potere e dei principi generali dell’azione amministrativa, ma anche nel rispetto del dovere di perseguire il fine pubblico (art. 1 l. 241/1990). Volendo dare una definizione di discrezionalità amministrativa, essa consiste nel margine di scelta che la norma rimette all’amministrazione affinché essa possa individuare, tra quelle consentite, la soluzione migliore per curare nel caso concreto l’interesse pubblico. Tale scelta viene fatta attraverso una valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati rilevanti nella fattispecie, acquisiti nel corso dell’istruttoria Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) procedimentale. Tra questi c’è innanzitutto l’interesse pubblico primario (corrispondente al fine pubblico) individuato dalla norma di conferimento del potere e affidato alla cura dell’amministrazione titolare del potere. Quest’ultima ha il compito di massimizzare la realizzazione dell’interesse primario. Tuttavia, poiché gli interessi non vivono isolati, l’interesse primario deve essere messo a confronto e valutato con gli interessi c.d. secondari rilevanti, tra i quali si annoverano evidentemente non soltanto gli altri interessi pubblici incisi dal provvedimento, ma anche gli interessi dei privati. Ad es., nel disporre la chiusura o limitazioni al traffico in un centro storico, il comune deve contemperare l’interesse alla viabilità con quello dei residenti, dei titolari di attività commerciali ivi presenti, della tutela dell’inquinamento, ecc. In definitiva, la scelta operata dall’amministrazione deve contemperare l’esigenza di massimizzare l’interesse pubblico primario con quella di causare il minor sacrificio possibile degli interessi secondari incisi dal provvedimento. Più specificamente, la discrezionalità amministrativa grava su quattro elementi. Quindi in base alla norma di conferimento un potere può essere discrezionale o vincolato in relazione a uno o più di questi elementi: 1. sull’an, cioè sul se esercitare il potere in una determinata situazione concreta ed emanare il provvedimento (ad es. se annullare d’ufficio un provvedimento illegittimo ex art. 21 nonies l. 241/1990); 2. sul quid, cioè sul contenuto del provvedimento (ad es., nel caso di un’ordinanza contingibile e urgente, la misura concreta più adatta per fronteggiare la situazione); 3. sul quomodo, cioè sulle modalità da seguire per l’adozione del provvedimento al di là delle sequenze di atti imposti dalla legge che disciplina lo specifico provvedimento (ad es. la scelta di acquisire un parere facoltativo); 4. sul quando, cioè sul momento più opportuno per esercitare un potere d’ufficio avviando il procedimento e, una volta aperto quest’ultimo, per emanare il provvedimento, pur tenendo conto dei termini massimi per la conclusione del procedimento (ex art. 2 l. 241/1990). Ancora, occorre distinguere tra discrezionalità in astratto e vincolatezza in concreto: all’esito dell’attività istruttoria operata dall’amministrazione per accertare i fatti ed acquisire gli interessi e gli altri elementi di giudizio rilevanti e all’esito della ponderazione di interessi, infatti, può darsi che residui un’unica scelta legittima tra quelle consentite in astratto dalla legge. Quindi nel corso del procedimento la discrezionalità può ridursi via via fino ad annullarsi del tutto: in questo caso si parla di vincolatezza in concreto, da contrapporre alla vincolatezza in astratto, che si verifica quando la norma già predefinisce in modo puntuale tutti gli elementi che caratterizzano il potere. Questa distinzione è posta nel Codice del processo amministrativo (art. 31 co. 3°), ove si precisa che il giudice può accertare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (cioè la spettanza o meno di un atto amministrativo richiesto dal privato) “solo quando si tratti di attività vincolata” (vincolatezza in astratto) oppure “quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità” (vincolatezza in concreto). Una riduzione dell’ambito della discrezionalità può avvenire anche per un’altra via, ovvero attraverso il c.d. autovincolo alla discrezionalità: di frequente tra la norma di conferimento del potere che concede all’amministrazione spazi di discrezionalità più o meno ampi e il provvedimento concreto assunto all’esito della valutazione si interpone la predeterminazione da parte della stessa amministrazione di criteri e parametri che vincolano l’esercizio della discrezionalità. Ad es. questo accade nei giudizi valutativi espressi da commissioni di concorso le quali sono tenute a specificare, prima di esprimere le proprie valutazioni sui singoli candidati, i parametri di giudizio già previsti dalla normativa di riferimento e nel bando. Il merito amministrativo Individuata la nozione di discrezionalità amministrativa, analizziamo ora quella speculare di merito amministrativo. Esso ha, infatti, una dimensione negativa e residuale: esso si riferisce all'eventuale ambito di valutazione e scelta spettante all'amministrazione che si pone al di là dei limiti coperti dall'area della legalità (cioè dei vincoli giuridici posti dalle norme e dai principi dell’azione amministrativa). Se il potere è integralmente vincolato (in astratto o in concreto), lo spazio del merito è nullo (ad es. rientrano nel merito il giudizio espresso dalla commissione su un candidato che partecipa a un concorso pubblico o la decisione di chiudere al traffico veicolare una strada in occasione di una corsa ciclistica). Insomma il merito è l'attività di amministrazione da considerare essenzialmente libera: la scelta tra una pluralità di soluzioni tutte legittime Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) di per sé un “bene della vita” suscettibile di essere oggetto di una situazione giuridica di diritto soggettivo; d) diritto affievolito . Un’altra interpretazione, che trova ancora oggi riscontro talora nella giurisprudenza, è quella della degradazione o affievolimento del diritto soggettivo. Essa considera l’interesse legittimo come un diritto affievolito, cioè come la risultante dell'atto di esercizio del potere amministrativo che incide su un diritto soggettivo. il provvedimento autoritativo è idoneo a intaccare il diritto soggettivo trasformandolo in interesse legittimo, es: diritto di proprietà inciso dal potere espropriativo. La categoria dei diritti soggettivi affievoliti fa coppia con quella simmetrica dei cd diritti soggettivi in attesa di espansione. Si tratta di diritti il cui esercizio è condizionato all’esercizio di un potere dell’amministrazione, nei confronti del quale il titolare del diritto vanta un interesse legittimo, es: autorizzazione ad aprire un esercizio commerciale. Gli effetti pratici di questo tipo di impostazione furono quelli di restringere l’area del diritto soggettivo, ritenuto sempre cedevole di fronte al potere amministrativo, relegando così a un ruolo marginale il giudice ordinario. Quest’ultimo divenne quasi esclusivamente il giudice dei meri comportamenti della p.a. non collegati all’esercizio del potere amministrativo (inadempimenti contrattuali, illeciti extracontrattuali); e) interesse occasionalmente protetto . Un’altra definizione di interesse legittimo guarda ad esso come interesse occasionalmente (indirettamente) protetto da una norma (la norma d’azione) volta a tutelare in modo diretto e immediato l’interesse pubblico. Secondo questa teoria, le norme che disciplinano il potere hanno come scopo primario la tutela dell’interesse pubblico e il soggetto privato può trovare in esse una qualche protezione solo in via riflessa e indiretta. L’interesse legittimo, dunque, si distingue dal diritto soggettivo proprio per il fatto che l'acquisizione o conservazione di un determinato bene della vita non è assicurata in modo immediato dalla norma, che tutela in modo diretto l'interesse pubblico, bensì passa attraverso l'esercizio del potere amministrativo, senza che peraltro sussista alcuna garanzia in ordine alla sua acquisizione o conservazione. La presenza di un ambito di discrezionalità esclude, infatti, che il soggetto titolare sia in grado di prevedere ex ante l’assetto finale degli interessi posto dal provvedimento emanato: quest’ultimo potrebbe, del tutto legittimamente, negare o sacrificare l’utilità (bene della vita) collegata all’interesse legittimo. Dunque l'interesse legittimo fonda in capo al suo titolare soltanto la pretesa a che l'amministrazione eserciti il potere in modo legittimo, cioè in conformità con la norma d'azione. Il titolare dell’interesse legittimo può condizionare l’esercizio del potere cercando di orientarlo in senso a sé più favorevole attraverso la partecipazione al procedimento, fornendo cioè all’amministrazione titolare del potere elementi che possono orientare in tal senso la valutazione discrezionale; f) ricostruzioni recenti dell'interesse legittimo . Le soluzioni finora analizzate sono state variamente criticate in dottrina, la quale ha messo in luce la loro connotazione ideologica, collegata a una visione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino e fondata sul postulato di generale sovraordinazione della p.a. Un tale impianto è venuto in crisi in seguito alla Costituzione, all’ordinamento europeo e alla l. 241/1990. Ma sicuramente per il superamento della concezione tradizionale dell'interesse legittimo è stata determinante la sent. 500/1999, che, come detto, ha riconosciuto la risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo. La giurisprudenza si è subito posta la questione se il risarcimento del danno costituisca un diritto soggettivo distinto dall’interesse legittimo, anche se a questo collegato, nel senso che la lesione di quest’ultimo ad opera del provvedimento illegittimo fa sorgere in capo al suo titolare un diritto al risarcimento del danno. La Corte Costituzionale, con la citata sent. 204/2004, ha inteso l'azione risarcitoria non già come volta a tutelare un diritto soggettivo autonomo, bensì in funzione rimediale, cioè come tecnica di tutela dell'interesse legittimo che si affianca e integra la tecnica di tutela più tradizionale costituita dall'annullamento. Ora, se l'interesse legittimo incorpora anche una pretesa risarcitoria, esso ha necessariamente per oggetto un bene della vita suscettibile di essere leso da un provvedimento illegittimo. Insomma, nella ricostruzione dell’interesse legittimo il baricentro si sposta dal collegamento con l’interesse pubblico a quello con l’utilità finale o bene della vita che il soggetto titolare dell’interesse legittimo mira a conservare o ad acquisire. In definitiva, volendo proporre una definizione di interesse legittimo, possiamo dire che esso è una situazione giuridica soggettiva, correlata al potere della P.A. e tutelata in modo diretto dalla norma di Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) conferimento del potere, che attribuisce al suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a influire sull'esercizio del potere medesimo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita. Come anticipato, i poteri e le facoltà sopracitate si esplicano principalmente nel procedimento attraverso l'istituto della partecipazione: il privato può persino sottoporre alla p.a. proposte che possono sfociare, ove accolte, in un accordo avente ad oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento (art. 11 l. 241/1990). Siffatti poteri e facoltà tendono a riequilibrare la posizione di soggezione nei confronti del titolare del potere: l’interesse legittimo acquista così una dimensione attiva. Ad essa corrispondono in capo all’amministrazione una serie di doveri comportamentali nella fase procedimentale e nella fase decisionale (buona fede, imparzialità, ragionevolezza, ecc.) che sono finalizzati anche alla tutela dell’interesse soggettivo del privato. Una dottrina più recente dissolve l'interesse legittimo nella figura più generale del diritto soggettivo. Si sottolinea, infatti, che all'interno del diritto soggettivo vi sono figure di diritti diverse da quelle più tipiche correlate in modo diretto e immediato ad un bene della vita (diritto di proprietà, diritto di credito avente per oggetto una somma di denaro): ad es., si pensi al diritto ad un comportamento secondo buona fede nell'ambito delle trattative finalizzate alla stipula di un contratto oppure al diritto di credito cui corrisponda un’obbligazione di mezzi (come nel caso delle prestazioni mediche). In questo caso si può pretendere tutt’al più il rispetto di taluni “doveri di protezione”, ma non vi è garanzia di un risultato predeterminato. Questa categoria di diritti è in effetti strutturalmente analoga a quella dell'interesse legittimo, il quale potrebbe essere ricondotto a una figura particolare di diritto (di credito) avente per oggetto una prestazione- comportamento da parte dell'amministrazione a favore del soggetto privato. In conclusione, possiamo dire che l'interesse legittimo ha una duplice dimensione: passiva (situazione di soggezione rispetto alla produzione degli effetti ad opera del potere amministrativo) e attiva (pretesa a un esercizio corretto del potere alla quale corrispondono una serie di poteri e facoltà nei confronti dell’amministrazione da far valere nel procedimento o anche in sede giurisdizionale). A questa duplice dimensione del potere: attiva se riferita alla produzione unilaterale dell’effetto giuridico; passiva, se correlata ai doveri di comportamento che gravano sull’amministrazione. 7. Gli interessi legittimi oppositivi e pretensivi Sotto il profilo funzionale gli interessi legittimi possono essere suddivisi in due categorie: 1. gli interessi legittimi oppositivi sono correlati poteri amministrativi il cui esercizio determina la produzione di un effetto giuridico che incide negativamente e che restringe la sfera giuridica del destinatario, sacrificando l'interesse di quest’ultimo (si pensi, ad es., al potere di espropriazione o all’irrogazione di una sanzione amministrativa); 2. gli interessi legittimi pretensivi, invece, sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio determina la produzione di un effetto giuridico che incide positivamente e che amplia la sfera giuridica del destinatario, dando soddisfazione all'interesse di quest’ultimo (si pensi, ad es., al potere di rilasciare una concessione per l'uso di un bene demaniale o un'autorizzazione per l'avvio di un'attività economica). Negli interessi legittimi oppositivi il rapporto procedimentale assume una dinamica di contrapposizione, nel senso che il titolare cercherà di intraprendere tutte le iniziative volte a contrastare l'esercizio del potere che sacrifica un suo bene della vita. Il suo interesse a evitare che si determini una compressione della propria sfera giuridica sarà soddisfatto nel caso in cui l'amministrazione si astenga dall'emanare il provvedimento che produce l'effetto negativo (pretesa a un non facere da parte dell’amministrazione). Negli interessi legittimi pretensivi, invece, il rapporto procedimentale assume una dinamica più collaborativa, nel senso che il titolare cercherà di porre in essere tutte le attività volte a stimolare l'esercizio del potere è a orientare la scelta dell'amministrazione in modo tale da poter conseguire il bene della vita. Il suo interesse a far sì che si determini un ampliamento della propria sfera giuridica sarà soddisfatto nel caso in cui l'amministrazione, all'esito del procedimento, emani il provvedimento che produce l'effetto positivo. I due tipi di dinamica si riflettono innanzitutto sulla struttura del procedimento: 1. nel caso di interessi legittimi oppositivi il procedimento si apre d’ufficio e la comunicazione di avvio del procedimento instaura il rapporto giuridico amministrativo; 2. nel caso di interessi legittimi pretensivi il procedimento si apre in seguito alla presentazione di un’istanza o domanda di parte che fa sorgere l'obbligo di procedere e di provvedere in capo all'amministrazione titolare del potere (art. 2 l. 241/1990) e che instaura il rapporto giuridico amministrativo. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) Anche il processo amministrativo e la tipologia di azioni esperibili presentano caratteri propri in funzione del diverso bisogno di tutela: 1. nel caso di interessi legittimi oppositivi il bisogno di tutela è correlato all'interesse alla conservazione del bene della vita, suscettibile di essere sacrificato o compresso in seguito all'emanazione del provvedimento restrittivo della sfera giuridica del privato. Ne deriva che l'annullamento dell'atto impugnato con efficacia ex tunc soddisfa in modo specifico tale bisogno. Infatti il ricorrente viene reintegrato nella situazione in cui esso si trovava prima dell'emanazione del provvedimento; 2. nel caso di interessi legittimi pretensivi il bisogno di tutela è correlato, invece, all'interesse all'acquisizione del bene della vita per mezzo dell'emanazione del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato. Rispetto a tale bisogno, l'annullamento del provvedimento di diniego o, nel caso di silenzio-inadempimento, l'accertamento dell'inadempimento dell'obbligo di concludere il procedimento nel termine stabilito con un provvedimento espresso si rivelano insufficienti. Infatti, essi non determinano in via immediata l'acquisizione del bene della vita in capo al titolare dell'interesse legittimo, che richiede invece l'adozione da parte dell'amministrazione del provvedimento. Di conseguenza, soltanto una sentenza che accerti la spettanza del bene della vita e che condanni l’amministrazione a emanare il provvedimento richiesto risulta pienamente satisfattiva. L’azione che consente questo risultato è l’azione di adempimento, cioè l’azione di condanna ad un facere specifico, ora prevista dal Codice del processo amministrativo. Anche la tutela risarcitoria, che è necessaria per soddisfare i bisogni di tutela non coperti dalla tutela specifica, si atteggia diversamente: 1. con riferimento agli interessi legittimi oppositivi essa riguarda i danni derivanti dalla privazione o limitazione nel godimento del bene della vita nel caso in cui il provvedimento illegittimo abbia trovato esecuzione (ad es., se dopo l'emanazione di un decreto di esproprio si è avuta l'esecuzione con l’apprensione materiale del terreno, una volta annullato il provvedimento il proprietario deve essere risarcito del danno conseguente al mancato godimento del bene nel periodo che intercorre tra l'esecuzione del provvedimento espropriativo e la restituzione del bene medesimo) la lesione del bene della vita emerge in re ipsa per effetto dell’accertamento dell’illegittimità e dell’annullamento del provvedimento; 2. con riferimento agli interessi legittimi pretensivi la tutela risarcitoria riguarda i danni conseguenti alla mancata o ritardata acquisizione del bene della vita nel caso in cui sia stato emanato un provvedimento di diniego o l'amministrazione sia rimasta inerte (ad es., il mancato o ritardato avvio di un’attività commerciale sottoposta ad un regime di autorizzazione). La distinzione tra i due tipi di interessi legittimi consente di inquadrare i c.d. provvedimenti a doppio effetto, i quali producono ad un tempo un effetto ampliativo e un effetto restrittivo nella sfera giuridica di due soggetti distinti e che danno origine a un rapporto giuridico trilaterale. Si pensi, ad es., al rilascio di un permesso a costruire un edificio che impedirebbe una vista panoramica al proprietario del terreno confinante. In questi casi si instaura una dialettica che vede contrapposti due interessi privati: nella fase procedimentale le parti private tenderanno pertanto a sottoporre all’amministrazione gli elementi istruttori e valutativi che inducano quest’ultima a provvedere in senso conforme al proprio interesse e contrario all’altra parte privata. Nella fase processuale successiva all’emanazione del provvedimento che determina un effetto ampliativo nei confronti di un soggetto e uno restrittivo nei confronti dell’altro, invece, accanto alla parte ricorrente che impugna il provvedimento chiedendone l’annullamento e all’amministrazione resistente, interviene come parte processuale necessaria il controinteressato (la parte che ha tratto un’utilità dal provvedimento emanato). 8. I criteri di distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi Dottrina e giurisprudenza hanno individuato alcuni criteri interpretativi: 1. Struttura della norma attributiva del potere , a seconda che si tratti di norma di relazione e di azione: a) nella prima la produzione dell’effetto giuridico avviene in modo automatico, sulla base dello schema norma-fatto-effetto. L’eventuale atto dell’amministrazione che accerta il prodursi dell’effetto giuridico e dei diritti e degli obblighi posti in capo alle parti ha un carattere meramente ricognitivo. Il comportamento assunto in violazione della norma di relazione va qualificato come Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) 3. l'accesso civico introdotto dalla normativa anticorruzione (art. 5 d.lgs. 33/2013, come sostituito dal d.lgs. 97/2016) si distingue in due ipotesi: a) accesso c.d. semplice, che riguarda le informazioni e i dati che le amministrazioni hanno l’obbligo di pubblicare sui propri siti o con altre modalità. Se questo adempimento non è stato effettuato, chiunque può richiedere l’accesso (co. 1°); b) accesso c.d. generalizzato, che attribuisce a chiunque il diritto di accedere ai dati e documenti detenuti dalle p.a., anche di quelli per i quali non sussiste un obbligo di pubblicazione (co. 2°). L’art. 5 bis prevede, però, una serie tassativa di esclusioni, in relazione alla necessità di tutelare interessi pubblici e privati, ad es. la sicurezza nazionale, la difesa, le relazioni internazionali, la protezione dei dati personali, la libertà e segretezza della corrispondenza e più in generale tutti i casi di esclusione di cui all’art. 24 co. 1° l. 241/1990. In ogni caso, a differenza dell’istanza di accesso, la richiesta di accesso civico “non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente” (co. 3°) 10. Interessi di fatto, diffusi e collettivi Talune norme possono imporre alla P.A. doveri di comportamento, finalizzati alla tutela dell'interessi pubblici, senza che ad essi corrisponda alcuna situazione giuridica o altro tipo di pretesa giuridicamente tutelata in capo a soggetti esterni all'amministrazione: si pensi, ad es., alle norme che impongono alle amministrazioni di adottare atti di pianificazione (urbanistici, in materia ambientale, ecc.). La violazione di siffatti doveri rileva, di regola, soltanto all'interno dell'organizzazione degli apparati pubblici e può dar origine a interventi di tipo propulsivo (diffide) o sostitutivo da parte di organi dotati di poteri di vigilanza, all’irrogazione di sanzioni nei confronti dei dirigenti e dei funzionari responsabili o ad altre forme di penalizzazione (finanziaria, divieto di assunzione di personale, ecc.). I soggetti privati che possono trarre un beneficio o un pregiudizio indiretto da siffatte attività possono vantare di regola un mero interesse di fatto (o interesse semplice), a tutela del quale non è attivabile alcun rimedio di tipo giurisdizionale. Infatti i portatori di un interesse di mero fatto possono al massimo promuovere l’osservanza da parte delle amministrazioni dei doveri, ad es. sollecitandole ad attivarsi con segnalazioni o campagne di sensibilizzazione. Emerge, dunque, la distinzione tra interessi di fatto e interessi legittimi, che si fonda su due criteri: 1. criterio della differenziazione . Perché possa configurarsi un interesse legittimo, il privato deve trovarsi rispetto all’amministrazione gravata da un dovere di agire in una posizione differenziata rispetto alla generalità dei soggetti dell’ordinamento. Può essere rilevante a questo riguardo l’elemento fisico- spaziale della vicinanza (vicinitas): ad es., il proprietario di un terreno che confina con quello dove si vuole costruire un edificio che toglierebbe a lui la vista panoramica si trova evidentemente in una posizione differenziata rispetto al proprietario di aree più distanti; 2. criterio della qualificazione . Una volta appurato il carattere differenziato di un interesse rispetto a quello della generalità dei soggetti, occorre valutare se tale interesse rientri in qualche modo nel perimetro della tutela offerta dalle norme attributive del potere. Gli interessi di mero fatto possono avere una dimensione individuale o superindividuale, e così è emersa in dottrina e in giurisprudenza la nozione di interesse diffuso. Si tratta di interessi non personalizzati, senza struttura, riferibili in modo indistinto alla generalità della collettività o a categorie più o meno estese di soggetti (ad es. consumatori, utenti, risparmiatori, ecc). Il carattere diffuso dell’interesse deriva dalla caratteristica del bene materiale o immateriale ad esso correlato, che non è suscettibile di appropriazione e di godimento esclusivi (ad es. ambiente, patrimonio, paesaggio, concorrenza, ecc.). Si tratta in genere di beni pubblici “non rivali”, perché il loro consumo o utilizzo da parte di un soggetto non ne impedisce la fruizione da parte di un altro, e sono beni “non escludibili”, perché, una volta fornito il bene, nessuno può esserne escluso dalla fruizione. Gli interessi diffusi costituiscono una categoria dai confini incerti, che va quasi a confondersi con la categoria di interesse pubblico. Ciononostante, l’ordinamento ha iniziato a prendere in considerazione tali interessi sia in sede procedimentale, che in sede processuale. Quanto al primo momento, l’art. 9 l. 241/1990 attribuisce la facoltà di intervenire nel procedimento a qualsiasi soggetto portatore di interessi pubblici o privati, nonché ai “portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati” ai quali possa Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) derivare un pregiudizio dal provvedimento. Per quanto riguarda, invece, la tutela giurisdizionale degli interessi diffusi, sono stati elaborati 3 criteri per aprire la strada alla tutela di tali interessi: 1. il collegamento con la partecipazione procedimentale . Tale prima strada, che però non ha trovato riscontro in giurisprudenza, individua nella partecipazione al procedimento amministrativo un elemento di differenziazione e qualificazione tale da consentire l’impugnazione innanzi al giudice amministrativo del provvedimento conclusivo del procedimento. Tuttavia, a ben vedere, diritto di partecipazione al procedimento e legittimazione processuale hanno funzioni diverse. la partecipazione al procedimento assolve non solo alla funzione di tutela preventiva degli interessi dei soggetti suscettibili di essere incisi dal provvedimento ma anche a quella di fornire all’amministrazione una gamma più ampia di informazioni utili per esercitare meglio il potere. essa ha un ambito naturale più ampio della legittimazione processuale che può essere riconosciuta solo al titolare di una situazione giuridica soggettiva in senso proprio che ha subito una lesione alla quale occorre porre rimedio. 2. l'elaborazione della nozione di interesse collettivo , quale specie particolare di interesse legittimo, seppur superindividuale. In proposito è stata posta la distinzione tra interessi propriamente diffusi ed interessi collettivi, cioè riferibili a specifiche categorie o gruppi organizzati (ad es. associazioni sindacali dei lavoratori, ordini professionali, ecc.). A questi organismi rappresentativi del gruppo è stata riconosciuta in giurisprudenza una legittimazione processuale autonoma al fine di tutelare gli interessi non tanto dei singoli appartenenti alla categoria, bensì della categoria tutta; 3. la legittimazione ex lege data a determinati soggetti . In settori particolari la legge ha attribuito a determinati soggetti istituiti per la cura di interessi diffusi una speciale legittimazione a ricorrere. Così, ad es., in materia ambientale si attribuisce a determinate associazioni che abbiano ottenuto riconoscimento dal Ministero dell'Ambiente sulla base di certi requisiti (dimensione nazionale o ultraregionale, finalità statutarie, ordinamento interno democratico, continuità di azione) la legittimazione a ricorrere al giudice amministrativo a tutela degli interessi ambientali. - Interessi individuali omogenei o isomorfi . Mentre gli interessi diffusi e collettivi hanno una dimensione superindividuale in senso proprio, questi mantengono il carattere di situazioni giuridiche soggettive individuali e acquistano una dimensione collettiva solo per il fatto di essere comuni ad una pluralità di soggetti. Si pensi, ad es., agli utenti di una compagnia elettrica di una città in cui si verifica un lungo black- out. In questi casi l’interesse leso resta di tipo individuale e l’elemento di omogeneità e comunanza consiste nel fatto che la lesione deriva da un’attività illecita o illegittima plurioffensiva. È evidente che ciascuno dei soggetti potrebbe agire in giudizio autonomamente. Tuttavia, spesso l’ordinamento prevede forme di tutela non giurisdizionali semplificate e meno costose innanzi ad organismi di mediazione o conciliazione oppure innanzi ad autorità amministrative di regolazione (c.d. ADR, alternative dispute resolutions). Di recente il legislatore ha introdotto per essi rimedi processuali particolari chiamati azioni di classe (class actions): in particolare, l’art. 840 bis c.p.c. prevede che “i diritti individuali omogenei” possono essere azionati da organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro. Inoltre, è stato anche introdotto un ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici da esperire dinanzi al giudice amministrativo (d.lgs. 198/2009). Il ricorso non consente una tutela risarcitoria, ma mira solo a ottenere una pronuncia del giudice che ripristini il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio pubblico. esso può essere proposto, oltre che dai singoli interessi, anche da associazioni o comitati costituiti ad hoc. 11. I principi generali Essi si desumono: - dalla Costituzione: all’art 97 enuncia il principio di imparzialità e di buon andamento della PA - dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE: art 41 disciplina il diritto ad una buona amministrazione - dai Trattati UE: dai quali si ricava il principio di sussidiarietà, proporzionalità, di precauzione - dalla l. 241/1990: che pone i principi generali del procedimento e del provvedimento Si distinguono: I principi sulle funzioni: Il principio fondamentale che guida l’allocazione delle funzioni è il principio di sussidiarietà, presente nei Trattati europei e poi, con la legge costituzionale n. 3/2001, nella Costituzione. L’art. 5 TUE, infatti, enuncia il principio di sussidiarietà in riferimento ai rapporti tra Stati membri e Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) istituzioni dell’Unione. Dal principio di sussidiarietà deriva che l’Unione europea agisce solamente nei limiti delle competenze assegnate (tassatività delle competenze) e che gli Stati membri sono titolari della generalità delle competenze rimanenti. Inoltre le competenze attribuite all’Unione europea non devono eccedere quelle necessarie per conseguire gli scopi dell’Unione che non possono essere conseguiti meglio dagli Stati membri. L’art. 5 cita anche il principio di proporzionalità in base al quale il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione non devono eccedere quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati (co. 4°). Nel diritto interno, è l’art. 118 Cost. a citare i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza che vanno a integrare e rafforzare il principio autonomistico. Più specificamente, l’art.118 Cost. prevede che la generalità delle funzioni sia attribuita al livello di governo più vicino al cittadino, e cioè il comune. Solo le funzioni delle quali è necessario assicurare un esercizio unitario che supera la dimensione territoriale dei comuni possono essere attribuite ai livelli di governo via via più elevati, e cioè alle province, alle città metropolitane, alle regioni e allo Stato. Le funzioni amministrative, dunque, vanno allocate tra gli enti territoriali in base alla dimensione degli interessi (locale, regionale o nazionale). La l. 59/1997, invece, definisce il principio di adeguatezza, che si riferisce “all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente” le funzioni, e il principio di differenziazione, che mira a tener conto “delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi” (art. 4, comma 3, lett. g) e h)). Lo stesso articolo menziona altresì i principi di efficienza e di economicità, di responsabilità ed unicità dell'amministrazione, di omogeneità, di copertura finanziaria e patrimoniale dei costi per l'esercizio delle funzioni, di autonomia organizzativa e regolamentare. Oltre alla sussidiarietà c.d. verticale, la Costituzione prevede anche la sussidiarietà orizzontale che riguarda invece i rapporti tra poteri pubblici e società civile. Infatti, l’art. 118, co. 4°, stabilisce che lo Stato e gli enti territoriali “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Questa disposizione ha il valore simbolico da un lato, di escludere che i poteri pubblici detengano il monopolio nella cura degli interessi della collettività e dall’altro di valorizzare le forme di autorganizzazione della società civile. Anche il principio di proporzionalità è enunciato in varie disposizioni legislative europee recepite nel diritto nazionale come criterio per la disciplina delle funzioni e dei poteri. Nel rispetto del principio di proporzionalità si deve valutare se l’obbiettivo perseguito non può essere conseguito tramite una misura meno restrittiva. I principi sull’attività: Secondo l’art. 1 l. 241/1990, “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”. È evidente che l’applicazione di tali criteri permette di formulare un giudizio globale sull’operato dell’amministrazione: in proposito è stata di recente elaborata la nozione di “amministrazione di risultato”, che si collega al tradizionale principio di buon andamento ex art. 97 Cost. Diventa, invece, recessiva l’impostazione che considerava l’azione amministrativa principalmente nel prisma della legalità formale, considerata di per sé sufficiente garanzia del buon andamento della p.a. L’amministrazione di risultato pone in primo piano criteri di valutazione delle performance degli apparati amministrativi di tipo aziendalistico. Così, nel contesto di una riforma volta a promuovere l’efficienza della p.a., il legislatore ha disciplinato il c.d. ciclo delle performance che si applica agli apparati amministrativi nel loro complesso (d.lgs. 150/2009). Le fasi del ciclo delle performance sono: la definizione degli obiettivi, l’allocazione delle risorse, il monitoraggio in corso di esercizio, la misurazione e valutazione della performance organizzativa e dei singoli dipendenti, l’utilizzo di sistemi premianti. La performance organizzativa si riferisce, in particolare, al grado di soddisfazione dei cittadini e degli utenti, all’efficienza nell’impiego delle risorse, alla quantità e qualità dei servizi erogati (art. 8). D’altra parte, il principio di efficienza, richiamato dall’art. 1 l. n. 241/1990 attraverso il riferimento all’economicità, mette in rapporto la quantità di risorse impiegate con il risultato dell’azione amministrativa e sposta l’attenzione sull’uso ottimale dei fattori produttivi. È efficiente l’attività amministrativa che raggiunge un certo livello di performance utilizzando in maniera oculata le risorse disponibili e scegliendo tra le alternative possibili quella che produce il massimo dei risultati con il minor impiego di mezzi. Invece il principio di efficacia mette in rapporto i risultati effettivamente ottenuti con gli obiettivi prefissati in un piano o un programma. I due principi operano in modo indipendente, perché ci può essere anche il caso di un elevato livello di efficacia, però raggiunto con un impiego inefficiente delle risorse, e viceversa. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) civile, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Al contrario la p.a. è tenuta a perseguire esclusivamente il fine stabilito dalla norma di conferimento del potere e può utilizzare soltanto lo strumento giuridico definito dalla stessa norma. In questo senso si può affermare che la tipicità dei poteri e dei provvedimenti amministrativi è un corollario del principio di legalità in senso sostanziale. Costituiscono un’attenuazione del principio di tipicità le ordinanze continuabili e urgenti. Talora si fa riferimento anche alla c.d. nominatività dei provvedimenti amministrativi per indicare che, in omaggio al principio di legalità in senso formale, l’amministrazione può emanare soltanto i provvedimenti ai quali la legga fa espresso riferimento. In questo senso si può dire che anche le ordinanze contingibili e urgenti pur essendo atipiche sono nominate. Il principio di tipicità e la nominatività escludono che si possano riconoscere in capo all’amministrazione poteri impliciti, cioè poteri non espressamente previsti dalla legge ma ricavabili indirettamente da norme che definiscono altri poteri. 3. b) La cosiddetta imperatività L’atto amministrativo si differenzia dai negozi di diritto privato anche perché è dotato di una particolare forza giuridica atta a far prevalere, ove occorra, l’interesse pubblico sugli interessi dei soggetti privati. Si manifesta così un secondo carattere del provvedimento amministrativo: l’imperatività o autoritarietà (ex art. 1 co. 1 bis l. 241/1990). Essa consiste nel fatto che la pubblica amministrazione titolare di un potere attribuito dalla legge può, mediante l’emanazione del provvedimento, imporre al soggetto privato destinatario di quest’ultimo le proprie determinazioni operando in modo unilaterale una modifica nella sua sfera giuridica. Nell’imperatività si manifesta quindi la dimensione verticale (di sovraordinazione) dei rapporti tra Stato e cittadino che si contrappone a quella orizzontale (di equiordinazione) delle relazioni giuridiche privatistiche. Del resto, la stessa unilateralità non è un carattere indefettibile del provvedimento dato che l’esercizio del potere può prevedere un momento consensuale, allorché l’amministrazione proceda alla stipula di un accordo con il soggetto privato avente per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento (art. 11 l. 241/1990). L’imperatività del provvedimento non presuppone la validità del medesimo, cioè la sua piena conformità alla norma attributiva del potere: anche l’atto legittimo è in grado di produrre gli effetti tipici (al pari dell’atto valido). Tuttavia, quegli effetti potranno essere rimossi con efficacia retroattiva, insieme al provvedimento viziato, in seguito ad una sentenza di annullamento del giudice amministrativo o in seguito all’annullamento pronunciato dalla stessa amministrazione (ad es. in sede di autotutela). Solo il provvedimento affetto da nullità in base all'art. 21-septies l. 241/1990 non ha carattere imperativo e dunque le situazioni giuridiche soggettive di cui è titolare il soggetto privato destinatario non sono danneggiate e resistono di fronte alla pretesa dell'amministrazione. L’imperatività emerge soprattutto negli atti amministrativi che determinano effetti ablatori o comunque restrittivi della sfera giuridica del destinatario (ai quali corrispondono gli interessi legittimi oppositivi): la volontà eventualmente contraria del soggetto privato, infatti, non preclude il prodursi dell’effetto giuridico, per cui questi si trova in una posizione di soggezione. Ma, a ben vedere, la relazione giuridica con l’amministrazione non è paritaria neppure nel caso degli atti amministrativi emanati su domanda o istanza dell’interessato e che determinano un effetto ampliativo della sfera giuridica di quest’ultimo attribuendogli un diritto, una facoltà o altra utilità (ai quali corrispondono gli interessi legittimi pretensivi). Infatti la domanda o l’istanza del privato fa sorgere in capo all’amministrazione un dovere di avviare il procedimento e di emanare all’esito di quest’ultimo il provvedimento richiesto. La volontà del soggetto privato espressa nell’istanza costituisce il fatto presupposto che legittima l’esercizio del potere. Essa però non si fonde con quella dell’amministrazione che emana il provvedimento, a differenza di quanto accade nel caso dei negozi giuridici privati: l’effetto giuridico ampliativo viene comunque prodotto in via unilaterale dal provvedimento emanato. 4. c) L'esecutorietà e l'efficacia L'esecutorietà è disciplinata dall'art. 21-ter l. 241/1990. Essa può essere definita come il potere dell'amministrazione di procedere all'esecuzione coattiva del provvedimento in caso di mancata cooperazione da parte del privato obbligato, senza dover prima rivolgersi a un giudice allo scopo di ottenere l'esecuzione forzata. Dunque, se l’imperatività introduce una deroga al principio generale che Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) ricollega, nei rapporti paritari, il prodursi dell’effetto giuridico negoziale al perfezionamento dell’accordo tra le parti, l’esecutorietà deroga al principio civilistico del divieto di autotutela, cioè di farsi giustizia da sé. Infatti nei rapporti interprivati l’autotutela è ammessa solo in casi eccezionali (si pensi, ad es., all’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.), mentre la regola generale è che chi vuole far valere le proprie ragioni deve rivolgersi al giudice civile che accerti l’inadempimento degli obblighi negoziali ed emani una sentenza di condanna e che disponga le misure necessarie per l’esecuzione della sentenza. La p.a., invece, ha la possibilità di portare a esecuzione i provvedimenti coi propri uomini e mezzi: ad es., se il proprietario di un bene non coopera all’esecuzione del provvedimento di esproprio con la consegna materiale del bene, l’amministrazione può procedere direttamente ad apprendere il bene, se necessario anche con l’uso della forza. In definitiva, mentre l'imperatività opera sul piano della produzione degli effetti giuridici, l'esecutorietà opera su quello delle attività materiali necessarie per conformare la realtà di fatto alla situazione di diritto così come modificata dal provvedimento amministrativo. Prima dell’introduzione dell’art. 21 ter l. 241/1990, il fondamento dell’esecutorietà del provvedimento amministrativo veniva rinvenuto nella presunzione di legittimità del provvedimento, la quale evidentemente nasceva dalla visione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino. L’art. 21 ter è intervenuto innanzitutto a confermare le conclusioni raggiunte dalla dottrina prevalente secondo le quali l’esecutorietà non è una caratteristica propria di tutti i provvedimenti amministrativi, ma deve essere di volta in volta prevista dalla legge. Il comma 1°, infatti, precisa che il potere di imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi è attribuito all'amministrazione solo “nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge”. In relazione agli obblighi che nascono per effetto di un provvedimento amministrativo, poi, quest'ultimo deve indicare il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Inoltre, l'esecuzione coattiva può avvenire solo previa adozione di un atto di diffida con il quale l'amministrazione intima al privato di porre in essere le attività esecutive già indicate nel provvedimento, concedendo così al privato un’ultima chance. In definitiva, in base al co 1° l'esecutorietà del provvedimento si concretizza nell'avvio di un procedimento d'ufficio in contraddittorio con il soggetto privato. L'esecutorietà del provvedimento presuppone che il provvedimento emanato sia efficace e esecutivo. La l. 241/1990 dedica due articoli a tali caratteristiche: 1. secondo l'art. 21-bis il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia con la comunicazione al destinatario e dunque ha natura di atto recettizio. Sono esclusi dall’obbligo di comunicazione i provvedimenti aventi natura “cautelare e urgente” che sono sempre immediatamente efficaci. Inoltre l’art. 21 bis stabilisce che i provvedimenti limitativi non aventi carattere sanzionatorio possono contenere una clausola motivata di immediata efficacia; 2. l'esecutività del provvedimento è disciplinata, invece, dall'art. 21-quater, secondo il quale i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento amministrativo. Quindi, all'efficacia del provvedimento, segue la necessità che esso venga portato subito ad esecuzione, a seconda dei casi, dalla stessa amministrazione che ha emanato l'atto, oppure dal destinatario del medesimo laddove il provvedimento faccia sorgere in capo a quest'ultimo un obbligo di dare o di fare (si pensi, ad es., al pagamento di una sanzione pecuniaria). Inoltre, la stessa norma prevede che l’esecuzione del provvedimento può essere differita o sospesa discrezionalmente dalla p.a. In realtà non tutti i provvedimenti amministrativi pongono un problema di esecutività: spesso, infatti, la produzione dell’effetto giuridico realizza appieno l’interesse pubblico alla cui cura è finalizzato il provvedimento emanato, senza bisogno di ulteriori attività di tipo esecutivo (si pensi, ad es., ai provvedimenti autorizzatori). 5. d) L’inoppugnabilità Un'altra caratteristica del provvedimento è l'inoppugnabilità (o meglio incontestabilità), che si ha quando decorrono i termini previsti per l’esperimento dei rimedi giurisdizionali davanti al giudice amministrativo. In particolare, l’azione di annullamento del provvedimento va proposta, di regola, nel termine di decadenza di 60 giorni (art. 29 Codice del processo amministrativo); l’azione di nullità è soggetta a un termine di 180 giorni; l’azione risarcitoria può essere proposta in via autonoma (cioè senza la parallela azione di annullamento) nel termine di 120 giorni (art. 31, comma 4, e art. 30, comma 3, Codice del processo amministrativo). Ciò evidentemente per esigenze di certezza e di stabilità dell’assetto dei rapporti giuridici conseguenti all’emanazione di un provvedimento. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) D’altra parte, l’inoppugnabilità non esclude che l’amministrazione possa mettere in discussione il rapporto giuridico esercitando il potere di autotutela (annullamento d'ufficio che può essere disposto ai sensi dell'art. 21-nonies l. n. 241/1990 o revoca ai sensi dell'art. 21-quinquies l. n. 241/1990). Quindi emerge un ulteriore elemento di asimmetria tra le parti del rapporto giuridico amministrativo: l’inoppugnabilità garantisce la stabilità del rapporto giuridico amministrativo solo sul versante delle possibili contestazioni da parte del soggetto privato. L’atto amministrativo può diventare inoppugnabile anche per l’acquiescenza da parte del suo destinatario. Essa consiste in una dichiarazione espressa o tacita (per facta concludentia) di assenso all’effetto prodotto del provvedimento. 6. Gli elementi strutturali dell'atto amministrativo. L'obbligo di motivazione Elementi strutturali del provvedimento: il soggetto, la volontà, l'oggetto, il contenuto, i motivi, la motivazione, la forma. 1. Il soggetto è l'organo che, in base alle norme sulla competenza, è incaricato di emanare l'atto. Di solito si tratta di pubbliche amministrazioni, ma in casi particolari anche soggetti privati sono titolari di poteri amministrativi e i loro atti sono qualificabili come amministrativi (si pensi, ad es., al caso di un’impresa privata concessionaria di un pubblico servizio che sia tenuta ad esperire procedure a evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi); 2. un secondo elemento è la volontà. Il provvedimento amministrativo è manifestazione della volontà dell’amministrazione, la quale va intesa in senso oggettivato, ossia come volontà procedimentale (non come volontà in senso psicologico, ossia stato psichico del dirigente o del titolare dell’organo che emana l’atto). Perciò, diversamente da quanto accade per il negozio privato, i vizi della volontà non determinano in via diretta l'annullabilità del provvedimento, ma tutt’al più rilevano in via indiretta come figura sintomatica dell’eccesso di potere; 3. l'oggetto del provvedimento è la cosa, attività o situazione soggettiva cui il provvedimento si riferisce (ad es. il bene demaniale dato in concessione o il terreno espropriato). L'oggetto deve essere determinato o quantomeno determinabile; 4. il contenuto si ritrova nella parte dispositiva dell'atto e consiste in “ciò che con esso l'autorità intende disporre, ordinare, permettere, attestare, certificare”. Esso potrà essere vincolato o discrezionale, così come integrato con clausole accessorie che fissano condizioni e altre prescrizioni particolari (c.d. elementi accidentali). Tra gli elementi dell'atto amministrativo, a differenza di quanto accade per i negozi giuridici privati, non assume rilievo autonomo la causa. Questo perché i poteri amministrativi sono tutti riconducibili a schemi tipici individuati per legge. Con riferimento all’atto amministrativo ricorre, invece, più frequentemente la nozione di motivi dell’atto, cioè le ragioni di interesse pubblico poste alla base del provvedimento, che si deducono dalla motivazione; 5. la motivazione è la parte del provvedimento che, secondo la definizione contenuta nell'art. 3 l. 241/1990, enuncia i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione in relazione alle risultanze dell'istruttoria. Nel caso in cui il provvedimento si basi su una pluralità di ragioni autonome basta che una sola sia legittima per escludere l’annullabilità dell’atto (c.d. prova di resistenza). L'obbligo di motivazione, la cui violazione può essere appunto causa di annullabilità, costituisce uno dei principi generali del regime degli atti amministrativi che lo differenzia da quello sia degli atti legislativi sia degli atti negoziali. La motivazione adempie a tre funzioni fondamentali: promuove la trasparenza dell'azione amministrativa perché esplicita le ragioni sottostanti le scelte amministrative; rende più agevole l'interpretazione del provvedimento amministrativo; costituisce una garanzia per il soggetto privato che subisca dal provvedimento un pregiudizio perché consente un controllo giurisdizionale più incisivo sull'operato dell'amministrazione. Dalla motivazione, infatti, deve essere possibile ricostruire in modo puntuale l’iter logico seguito dall’amministrazione per arrivare a una certa determinazione. La motivazione può essere anche per relationem, cioè con un rinvio ad altro atto acquisito al procedimento del quale si fanno proprie le ragioni (art. 3, comma 3, l. n. 241/1990). Infine, essa può essere anche sintetica, nel caso di domande alla p.a. volte ad ottenere il rilascio di un provvedimento che risultino manifestamente inammissibili o infondate (art. 2 co. 1°). È di tutta evidenza che la motivazione ha particolare importanza nel caso di provvedimenti discrezionali, mentre in quelli vincolati essa può essere limitata all'enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto che Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) di tali leggi. Molte sanzioni del primo tipo sono contenute, ad es., nel Codice della strada; sanzioni amministrative collegate alla violazione di provvedimenti amministrativi sono, invece, previste dal Testo unico degli enti locali (d.lgs. 267/2000) nel caso di violazione di regolamenti degli enti locali o delle ordinanze contingibili e urgenti emanate dal sindaco o dal presidente della provincia. In molti casi, la deterrenza delle sanzioni amministrative è accresciuta dalla previsione in parallelo, per gli stessi comportamenti, di sanzioni di tipo penale. Del resto la legge 689/1981, che detta una disciplina generale delle sanzioni amministrative, richiama una serie di principi tipicamente penalistici: si pensi al principio di legalità, in base al quale nessuno può essere sottoposto a sanzioni amministrative se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione e secondo il quale leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati (art. 1). Un altro principio penalistico è quello della personalità che si manifesta nelle regole relative alla capacità di intendere e di volere, al concorso di persone, ecc. Da qualche anno, la distinzione tra sanzioni amministrative e sanzioni penali e stata messa in dubbio dalla CEDU, che ritiene che le sanzioni amministrative abbiano natura sostanzialmente penale nei casi in cui per il tipo e la gravità della sanzione irrogata abbia un carattere particolarmente afflittivo. il diritto europeo infatti attribuisce natura sostanzialmente penale anche a sanzioni amministrative sulla base dei cosiddetti criteri Engel: qualificazione giuridica formale attribuita dalla legge alla sanzione; natura della sanzione ricavabile principalmente dallo scopo punitivo, deterrente e repressivo; grado di severità della sanzione. anche la CG segue il medesimo approccio sostanziali stico in applicazione dell’art 50 della carta dei diritti fondamentali dell'unione europea che pone il principio del ne bis in idem. In realtà, l’avvio in sequenza di due procedimenti sostanziatori qualificati dal diritto interno l'uno come penale l'altro come amministrativo è stato ritenuto compatibile con tale principio nel caso in cui la severità dell’insieme delle sanzioni inflitte non ecceda la gravità del reato accertato. Le sanzioni amministrative sono riconducibili a più tipi: 1. le sanzioni pecuniarie fanno nascere l'obbligo di pagare una somma di denaro determinata entro un minimo e un massimo stabilito dalla norma. Queste sanzioni presentano talune specificità. Innanzitutto l’obbligazione pecuniaria grava a titolo di solidarietà in capo a soggetti diversi da colui che pone in essere il comportamento illecito (ad es. l'ente del quale è dipendente l'autore dell'illecito). Inoltre è data la facoltà di estinguere l’obbligazione tramite il pagamento di una somma in misura ridotta (oblazione) entro 60 giorni dalla contestazione della violazione, cioè prima che abbia corso il procedimento in contraddittorio per l‘accertamento dell’illecito (art. 16). In altri termini, l'oblazione evita che si arrivi a un accertamento definitivo dell'illecito e per l'amministrazione ha il vantaggio di non gravare gli uffici di un'attività amministrativa a volte onerosa; 2. le sanzioni interdittive incidono sull'attività posta in essere dal soggetto destinatario del provvedimento (ad es. ritiro della patente, decadenza da una concessione); 3. le sanzioni disciplinari si applicano a soggetti che intrattengono una relazione particolare con le pubbliche amministrazioni (ad es. dipendenti pubblici, professionisti iscritti ad albi, ecc.) e colpiscono comportamenti che violano obblighi speciali collegati allo status particolare (ad es. doveri di servizio, codici deontologici, ecc.). Esse consistono, a seconda della gravità dell’illecito, nell’ammonizione, nella sospensione del servizio o dall’albo per un periodo di tempo determinato, nella radiazione da un albo o nella destituzione. Queste sanzioni sono regolate da leggi speciali e sono quindi escluse dal campo di applicazione della disciplina generale delle sanzioni amministrative ex l. 689/1981. Sul piano funzionale, bisogna distinguere anche tra sanzioni in senso proprio, che hanno una valenza essenzialmente repressiva e punitiva del colpevole, e le c.d. sanzioni ripristinatorie, che hanno lo scopo di reintegrare l’interesse pubblico leso da un comportamento illecito. Secondo taluni, queste ultime non sarebbero in realtà sanzioni amministrative in senso stretto: ad es., in materia edilizia, nel caso di esecuzione di interventi in assenza o in totale difformità dal permesso a costruire, l’amministrazione comunale ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, assegnando un termine decorso inutilmente il quale l’area è acquisita di diritto al comune. Le sanzioni amministrative sono applicate, di regola, soltanto nei confronti della persona fisica del trasgressore, e ciò in coerenza con il carattere personale della responsabilità (art. 3 l. 689/1981). La persona giuridica può essere chiamata a rispondere solo a titolo di responsabilità solidale, e in ogni caso l’ente che paghi la sanzione può esercitare l’azione di regresso nei confronti dell’autore dell’illecito. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) Una particolare forma di responsabilità amministrativa è prevista a carico delle imprese e degli enti “per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” (art. 1, co 1, d.lgs. 231/2001). Questa responsabilità sorge direttamente in capo all’ente “per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” dagli amministratori e dipendenti (art. 5). All’applicazione di questo particolare tipo di sanzione amministrativa provvede il giudice penale competente a conoscere dei reati corrispondenti. L’ente può sottrarsi alla responsabilità amministrativa solo se dimostra di aver adottato modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire la commissione da parte degli amministratori e dipendenti dei reati, introducendo regole e procedure interne (ad es. obblighi informativi) ex artt. 6 e 7 del d.lgs. citato. In questo modo i vertici degli enti sono sollecitati a dotarsi di un organizzazione atta a minimizzare il rischio della commissione dei reati. 8. Le attività libere sottoposte a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata d’inizio di attività I provvedimenti amministrativi con effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario sono essenzialmente quelli di tipo autorizzativo. Bisogna sottolineare che negli ordinamenti giuridici fondati sullo Stato di diritto di matrice liberale l’attività dei privati è in linea di principio libera, nel senso che è sottoposta esclusivamente al diritto comune: vale quindi la regola che è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato. Da ciò si desume che, in taluni casi, la legge può gravare direttamente i privati di un obbligo di comunicare preventivamente a una pubblica amministrazione l'intenzione di intraprendere un'attività. A volte, la comunicazione è persino contestuale all'avvio dell'attività; altre volte tra la comunicazione e l'avvio dell'attività è previsto un termine minimo. La fattispecie delle attività libere sottoposte a un regime di comunicazione preventiva è ora disciplinata dall'art. 19 l. 241/1990. Questo articolo prevede l'istituto della segnalazione certificata di inizio attività (c.d. SCIA, introdotta nel 2010 in sostituzione della c.d. dichiarazione d'inizio di attività o DIA). Ebbene, la SCIA riconduce una serie di attività, per le quali in precedenza era previsto un regime di controllo preventivo (ex ante) sotto forma di “autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nullaosta comunque denominato” (co. 1°) a un regime meno intrusivo di controllo successivo (ex post), effettuato cioè dall’amministrazione una volta ricevuta la comunicazione di avvio dell’attività. L'avvio dell'attività può essere contemporaneo alla presentazione della SCIA allo sportello unico indicato sul sito istituzionale di ciascuna amministrazione (art. 19 bis). Il privato deve corredare la segnalazione con un'autocertificazione del possesso dei presupposti e requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento dell'attività. In caso di dichiarazioni false scattano sanzioni amministrative e penali (art. 19, commi 3 e 6). Quindi l’attività viene intrapresa sulla base di un’autovalutazione della conformità dell’attività alla legge. In caso di “accertata carenza dei requisiti e dei presupposti” previsti dalla legge per lo svolgimento dell'attività, l'amministrazione, entro il termine perentorio di 60 giorni, emana un provvedimento motivato di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti. In alternativa, ove possibile, può invitare il privato a conformare l’attività alla normativa vigente entro un termine non inferiore a 30 giorni, prescrivendo le misure necessarie. In caso di SCIA, dunque, l’amministrazione esercita un potere d’ufficio di verifica che può sfociare in un provvedimento di tipo ordinatorio. Il rapporto giuridico amministrativo si struttura così secondo lo schema del potere e dell’interesse legittimo oppositivo, e ciò a differenza del regime autorizzatorio tradizionale nel quale il rapporto giuridico amministrativo segue lo schema del potere e dell’interesse legittimo pretensivo. Vero è, peraltro, che anche dopo la scadenza del termine di 60 giorni per l’attività di controllo l’amministrazione può esercitare i poteri di vigilanza, prevenzione e controllo previsti da leggi vigenti (art. 21 co. 2 bis) e persino attivare il potere interdittivo in presenza dei presupposti ex art. 19 co. 4°. Il campo di applicazione della SCIA è definito dall’art. 19 l. 241/1990, che prevede un criterio generale secondo il quale la SCIA sostituisce ogni atto di tipo autorizzativo “il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge”, cioè ogni atto di tipo vincolato. In presenza di discrezionalità, infatti, non è concepibile che il soggetto privato possa farsi carico in luogo dell’amministrazione di una valutazione e ponderazione degli interessi in gioco. Un secondo criterio è che deve trattarsi di atti autorizzativi per i quali non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o altri strumenti di programmazione di settore, perché in questi casi occorre individuare qualche parametro per selezionare gli aspiranti a svolgere l’attività e attivare di conseguenza un procedimento comparativo incompatibile con l’avvio della stessa sulla base di una semplice comunicazione. Accanto a questi due criteri generali, l'art. 19 prevede alcuni casi di esclusione quando entrino in gioco interessi pubblici particolarmente Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) rilevanti (ambiente, difesa nazionale, pubblica sicurezza, ecc.), oppure si tratti di atti autorizzativi imposti dalla normativa europea. Per ridurre i margini di incertezza, il d.lgs. 222/2016 ha individuato un lungo elenco di casi sottoposti al regime della SCIA (oltre che del silenzio-assenso). Delicata è la questione della tutela del terzo che affermi di subire una lesione nella propria sfera giuridica per effetto dell'avvio dell'attività. Infatti, mentre l’autorizzazione espressa costituisce un atto impugnabile da parte del terzo, nel caso della SCIA manca un provvedimento che gli consenta il ricorso al giudice amministrativo. Il legislatore è intervenuto a precisare innanzitutto che la SCIA, la denuncia e la dichiarazione di inizio di attività “non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili” (art. 19 co. 6 ter). Ha stabilito, inoltre, che “gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31 co. 1, 2 e 3 d.lgs. 104/2010”, ovvero l’azione contro il silenzio. In sostanza, il terzo che desideri contrastare l’avvio dell’attività deve invitare l’amministrazione ad emanare un provvedimento che vieti la prosecuzione dell’attività e, se l’amministrazione non provvede, può rivolgersi al giudice per far accertare l’obbligo di provvedere. Tuttavia, secondo la Corte Costituzionale (sent. 45/2019), anche in presenza di un siffatto invito, vale per l’amministrazione il termine perentorio di 60 giorni e di 18 mesi, che tende a tutelare l’affidamento ingenerato in chi ha presentato la SCIA. Pertanto, secondo la corte, dopo la scadenza di questi termini, il terzo può attivare solo i poteri di verifica di eventuali dichiarazioni mendaci, sollecitare i poteri generali di vigilanza e repressivi, far valere la responsabilità per i danni a carico dei funzionari che non hanno agito tempestivamente (art. 21 l. 241/1990). 9. Le autorizzazioni e le concessioni Con i regimi autorizzatori che subordinano l’avvio dell’attività a un provvedimento di assenso (controllo ex ante), si passa invece al modello dell’amministrazione titolare di poteri il cui esercizio determina effetti ampliativi della sfera giuridica del privato. La scelta da parte del legislatore tra i due modelli di controllo ex post o ex ante richiede una valutazione caso per caso: in base al d.lgs. 59/2010, “i regimi autorizzatori possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale” indicati in un elenco tassativo (art. 8). Insomma l’autorizzazione preventiva è ammessa quando l’obiettivo della tutela dell’interesse pubblico “non può essere conseguito tramite una misura meno restrittiva” (art. 9). Nell’ambito del controllo preventivo sulle attività dei privati vanno considerate principalmente le autorizzazioni e le concessioni: 1. l'autorizzazione è l'atto con il quale l'amministrazione rimuove un limite all'esercizio di un diritto soggettivo del quale è già titolare il soggetto che presenta la domanda. Il suo rilascio presuppone una verifica della conformità dell'attività ai principi normativi posti a tutela dell'interesse pubblico (funzione di controllo). Quindi le autorizzazioni incidono su diritti soggettivi in attesa di espansione, il cui esercizio è subordinato a una verifica preventiva da parte della p.a. Rispetto a un siffatto potere “conformativo” dell’amministrazione, il soggetto privato vanta una posizione di interesse legittimo (pretensivo) che fa coppia con il diritto soggettivo preesistente (ad es., l’autorizzazione all’apertura di un esercizio commerciale); 2. la concessione, invece, è l'atto con il quale l'amministrazione attribuisce ex novo o trasferisce la titolarità di un diritto soggettivo in capo a un soggetto privato. Nel rapporto giuridico amministrativo che si instaura tra il soggetto privato che presenta l’istanza di concessione e l’amministrazione, il primo si presenta titolare di un interesse legittimo (pretensivo) allo stato puro. Solo in seguito all’emanazione del provvedimento concessorio sorge in capo al privato un diritto soggettivo pieno (ad es. utilizzo di un bene demaniale) che può essere fatto valere anche nei confronti dei terzi. Spesso l’autorizzazione si esaurisce uno actu, cioè senza che si instauri una relazione con l’amministrazione che vada al di là di una generica attività di vigilanza da parte di quest’ultima sulla permanenza in capo al soggetto privato delle condizioni previste dalla legge. Invece la concessione instaura in molti casi un rapporto di lunga durata con il concessionario, rapporto caratterizzato da diritti e obblighi reciproci e da poteri di vigilanza continuativi e talora anche di indirizzo delle attività poste in essere in base alla concessione: la concessione, infatti, costituisce spesso uno strumento attraverso il quale l’amministrazione, anziché provvedere con le proprie strutture alla gestione di beni e servizi, l’affida a soggetti privati, realizzando così una esternalizzazione. Le concessioni si dividono in due subcategorie: le concessioni traslative e le concessioni costitutive. Le prime trasferiscono in capo a un soggetto privato un diritto o un potere del quale è titolare Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) In tale categoria rientrano innanzitutto le certificazioni, che sono dichiarazioni di scienza effettuate da una pubblica amministrazione in relazione ad “atti, fatti, qualità e stati soggettivi” (art. 18 l. 241/1990). Le certificazioni relative a questo tipo di dati si ricollegano a una funzione di certezza pubblica, la quale si realizza sia con la tenuta e l’aggiornamento di registri, albi, elenchi pubblici, sia con la messa a disposizione ai soggetti interessati dei dati in essi contenuti per mezzo di attestazioni e certificazioni. In effetti le certificazioni costituiscono la modalità tradizionale per dimostrare il possesso di presupposti e requisiti richiesti ai privati per potere svolgere molte attività. La l. 241/1990 (art. 18) e il Testo unico sulla documentazione amministrativa (d.p.r. n. 445/2000) prevedono, però, due modalità alternative da preferire alle certificazioni. Da un lato, le pubbliche amministrazioni sono tenute a scambiarsi d'ufficio le informazioni rilevanti senza gravare i soggetti privati dell'onere di ottenere il rilascio dei certificati (art. 18, commi 2 e 3; art. 43 d.p.r. n. 445/2000). Dall'altro, in molti casi le certificazioni possono essere sostituite con l'autocertificazione, cioè tramite una dichiarazione formale assunta sotto propria responsabilità dal soggetto. Le c.d. dichiarazioni sostitutive di certificazioni possono avere ad oggetto la data, il luogo di nascita, la residenza, la cittadinanza, l'iscrizione in albi, la qualità di studente o di pensionato, ecc. (art. 46 d.p.r. n. 445/2000). Le dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà, invece, sono relative a stati, qualità personali e fatti dei quali l'interessato sia a conoscenza e che si riferiscono anche ad altri soggetti (art. 47 d.p.r. n. 445/2000). Se l'autocertificazione è falsa possono essere inflitte sanzioni anche penali. Inoltre in caso di dichiarazioni e attestazioni false, all'interessato è negata la possibilità di conformare l'attività alla legge sanando la propria posizione (art. 21 l. 241/1990) e viene disposta nei suoi confronti la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti dal provvedimento emanato in base alla dichiarazione non veritiera (art. 75 d.p.r. n. 445/2000). Tra gli atti dichiarativi vanno inclusi anche i c.d. atti paritetici, cioè atti meramente ricognitivi di un assetto già definito in tutti i suoi elementi dalla norma attributiva di un diritto soggettivo, e le verbalizzazioni, ovvero la “narrazione storico giuridica” da parte di un ufficio pubblico di atti, fatti e operazioni avvenuti in sua presenza (ad es. i funzionari della Banca d’Italia o dell’IVASS, in occasione delle ispezioni periodiche condotte presso le banche e le assicurazioni vigilate, fanno constatare in un verbale le operazioni compiute, i fatti accertati e le eventuali dichiarazioni delle parti interessate). Tra gli atti amministrativi non provvedimentali rientrano, infine, i pareri e le valutazioni tecniche: questi sono manifestazioni di giudizio da parte di organi o enti pubblici contenenti valutazioni e apprezzamenti in ordine a interessi pubblici secondari o a elementi di carattere tecnico di cui l'amministrazione titolare del potere amministrativo e competente a emanare un provvedimento amministrativo deve tenere conto (artt. 16 e 17 l. 241/1990). 11. Altre classificazioni: atti collegiali, atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione I provvedimenti amministrativi possono essere classificati in base anche ad altri criteri: 1. un primo criterio riguarda la provenienza soggettiva del provvedimento. Accanto ai casi in cui il provvedimento è emanato da un organo di tipo monocratico (ad es. un decreto del ministro), si pongono i casi in cui il provvedimento è espressione della volontà di più organi o soggetti e ha quindi natura di atto complesso (ad es. un decreto interministeriale, espressione della volontà paritaria e convergente di più ministri). Vi sono poi gli atti collegiali, in cui il provvedimento è emanato da un organo composto da una pluralità di componenti designati con vari criteri (elezione, nomina da parte di organi politici, ecc.). Le delibere assunte dagli organi collegiali avvengono con modalità procedurali definite negli statuti o nei regolamenti dei singoli enti e amministrazioni; 2. il criterio dei destinatari del provvedimento consente di individuare prima di tutto la categoria degli atti amministrativi generali. Essi si rivolgono, invece che a singoli destinatari, a classi omogenee più o meno ampie di soggetti. Dagli atti generali vanno tenuti distinti gli atti collettivi e gli atti plurimi. Anche i primi si riferiscono a categorie, generalmente ristrette, di soggetti considerati in modo unitario, i quali però, a differenza degli atti generali, sono già individuati singolarmente con precisione (si pensi, ad es., agli effetti prodotti dallo scioglimento di un consiglio comunale nei confronti dei singoli componenti dell'organo collegiale). Invece gli atti plurimi sono rivolti anch'essi a una pluralità di soggetti, ma i loro effetti, a differenza degli atti collettivi, sono scindibili in relazione a ciascun destinatario (si pensi, ad es., al decreto che approva una graduatoria di vincitori di concorso); 3. un terzo criterio prende in considerazione la natura della funzione esercitata e l’ampiezza della discrezionalità: si sono così distinti gli atti di alta amministrazione e gli atti politici, quest'ultimi non sottoposti al regime del provvedimento amministrativo. Infatti il Codice del processo amministrativo Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) esclude l’impugnabilità degli “atti o provvedimenti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico” (art. 7 co. 1°). Tra gli atti politici rientrano gli atti che, a differenza di quelli amministrativi, sono liberi nel fine e che sono emanati da un organo costituzionale (in particolare il governo) nell'esercizio di una funzione di governo (ad es. le deliberazioni Consiglio dei Ministri che approvano un decreto legge o legislativo). Altri atti del governo, e cioè gli atti di alta amministrazione, hanno invece una natura amministrativa, anche se sono caratterizzati da un’amplissima discrezionalità. Tra di essi rientrano i provvedimenti di nomina e revoca dei vertici militari o dei ministeri o dei direttori generali delle aziende sanitarie locali, i decreti che autorizzano l’estradizione, oppure il decreto di scioglimento e commissariamento di un comune o di un altro ente pubblico. Questi atti operano un raccordo tra la funzione di indirizzo politico e la funzione amministrativa e, in quanto atti amministrativi, devono essere motivati e sono impugnabili di fronte al giudice amministrativo, il quale opera però su di essi un sindacato meno intenso, limitandosi a rilevare le violazioni più macroscopiche dei principi che presiedono all’esercizio del potere discrezionale. 12. L'invalidità dell'atto amministrativo Passando al momento patologico del provvedimento, va premesso che non tutti i casi di difformità tra il provvedimento e le norme che lo disciplinano danno luogo a invalidità: le conseguenze di tale difformità possono essere variamente articolate e graduate dal diritto positivo. Si ha invalidità quando la difformità tra atto e norme determina una lesione di interessi tutelati da queste ultime e incide sull'efficacia del primo in modo più o meno definitivo, sotto forma di nullità o di annullabilità. L'invalidità è disciplinata nella l. 241/1990, con le modifiche introdotte dalla l. 15/2005, e per i risvolti processuali nel Codice del processo amministrativo. Conviene muovere da talune nozioni di teoria generale, a cominciare dalla distinzione tra norme che regolano una condotta e norme che conferiscono poteri. Le prime impongono obblighi o attribuiscono diritti; le seconde conferiscono poteri, ad es. quello di fare testamento, di contrarre un matrimonio o di porre in essere un contratto, ecc. I comportamenti che violano il primo tipo di norme sono qualificabili come illeciti e contro di essi l'ordinamento reagisce attraverso l'imposizione di sanzioni di varia natura (sanzioni penali, obbligo di risarcimento, ecc.). Gli atti posti in essere in violazione delle norme del secondo tipo sono qualificabili come invalidi e contro di essi l'ordinamento reagisce disconoscendone gli effetti. E se sono state variamente etichettate come norme primarie e secondarie norme di condotta e norme sulla produzione giuridica, norme di relazione e di azione. L'invalidità può essere definita più precisamente come la difformità di un negozio o di un atto dal suo modello legale. Essa può essere sanzionata, in base alla gravità della violazione, in due modi: l'inidoneità dell'atto a produrre gli effetti giuridici tipici, cioè a creare diritti e obblighi o altre modificazioni nella sfera giuridica dei soggetti dell'ordinamento (nullità); l'idoneità a produrli in via precaria, cioè fino a quando non interviene un giudice (o un altro organo) che, accertata l'invalidità, rimuova gli effetti prodotti con efficacia retroattiva (annullamento). Il regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo si ispira a (ma non coincide con) quello del codice civile, che nell’ambito della disciplina del contratto, distingue la nullità e l’annullabilità. Innanzitutto, nel diritto civile la nullità ha carattere atipico: si sanzionano con la nullità tutti i casi di contrarietà del contratto a norme imperative (art. 1418 co. 1°), rimettendo quindi all’interprete la valutazione caso per caso in ordine al carattere imperativo o meno della norma violata. Invece, la nullità del provvedimento amministrativo è prevista solo in relazione a poche ipotesi tassative, mentre la violazione delle norme attributive del potere viene attratta nel regime ordinario dell’annullabilità. Questa differenza si spiega per il fatto che le norme in materia di contratti hanno di regola carattere dispositivo, cioè possono essere derogate dalle parti. Nel diritto amministrativo, invece, in coerenza con la logica della legalità e della tipicità, le norme attributive del potere, in quanto finalizzate a garantire i soggetti destinatari del provvedimento e a tutelare un interesse pubblico, hanno di regola carattere imperativo, ossia non possono essere derogate o disapplicate dall’amministrazione. Sanzionare con la nullità ogni difformità tra provvedimento e norma attributiva del potere costituirebbe una reazione sproporzionata da parte dell’ordinamento. Ancora, mentre nel diritto privato l’annullabilità è riferita a ipotesi tassative (incapacità della parte e vizi del consenso, oltre ad altri casi previsti da leggi speciali), nel diritto amministrativo le c.d. figure sintomatiche dell’eccesso di potere, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, costituiscono una sorta di catalogo aperto Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) e non tipizzato. In definitiva, il regime dell’annullabilità costituisce il regime ordinario del provvedimento amministrativo invalido, mentre la nullità è categoria residuale del diritto amministrativo. Sempre in via generale, si fa una distinzione tra invalidità totale e parziale: la prima riguarda l'intero atto; la seconda una parte di questo, lasciando inalterata la validità e l'efficacia della parte non affetta dal vizio. Anche il provvedimento amministrativo può essere colpito da invalidità totale o parziale. Quest'ultima si ha nel caso di provvedimenti con effetti scindibili, come in quello degli atti plurimi. Si pensi, ad es., all’atto di nomina di una pluralità di vincitori di un concorso o di un giudizio di idoneità: l’esclusione dalla graduatoria di un partecipante per assenza di requisiti non comporta la caducazione dell’intero atto di approvazione della medesima. Si ritiene applicabile al provvedimento il principio enunciato dall’art. 159 c.p.c., secondo il quale l’invalidità di una parte dell’atto si estende alle altre parti solo ove esse siano strettamente dipendenti da quella viziata. Può assumere rilievo anche il principio civilistico in base al quale la nullità di una parte o di una clausola del contratto comporta la nullità del contratto solo quando risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte, art 1419 cc. nel caso degli atti amministrativi il problema si può porre per esempio per clausole accessorie apposte ha un'autorizzazione o una concessione. L'invalidità di un provvedimento può essere propria o derivata, originaria o sopravvenuta: 1. nel caso di invalidità propria assumono rilievo i vizi dei quali è affetto l'atto. Nel caso di invalidità derivata, l'invalidità dell'atto deriva per propagazione dell'invalidità di un atto presupposto (ad es. l'illegittimità di un bando di gara determina l’invalidità dell’atto di aggiudicazione o di approvazione della graduatoria dei vincitori). L'invalidità derivata può essere di due tipi: ad effetto caducante, quando travolge in modo automatico l'atto assunto sulla base dell'atto invalido; a effetto invalidante, quando l'atto affetto da invalidità derivata, per quanto a sua volta invalido, conserva i suoi effetti fino a che non venga annullato. L'effetto caducante si verifica in presenza di un rapporto di stretta casualità (o consequenzialità diretta e necessaria) tra i due atti: il secondo costituisce una semplice esecuzione del primo. Invece, quando l'atto successivo non costituisce una conseguenza inevitabile del primo, ma presuppone nuovi e ulteriori apprezzamenti, l'invalidità derivata ha soltanto un effetto viziante, con la conseguenza che essa deve essere fatta valere attraverso l'impugnazione autonoma di quest'ultimo (ad es. l’invalidità degli atti di ammissione dei singoli candidati a una prova concorsuale si propaga agli atti successivi della procedura fino all’approvazione della graduatoria, ma quest’ultima è affetta da un’invalidità derivata viziante e non caducante); 2. considerando l'invalidità originaria e l'invalidità sopravvenuta trova applicazione nel diritto amministrativo anche il principio del tempus regit actum, secondo il quale la validità di un provvedimento si determina con riguardo alle norme in vigore al momento della sua adozione. Si parla di invalidità sopravvenuta dei provvedimenti amministrativi nel caso di legge retroattiva, di legge di interpretazione autentica e di dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nelle prime due ipotesi, la retroattività della nuova legge rende viziato il provvedimento emanato in base alla norma abrogata; nella terza ipotesi, poiché le sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale hanno efficacia retroattiva, esse rendono invalidi i provvedimenti assunti sulla base delle norme dichiarate illegittime e ai rapporti giuridici sorti anteriormente, a meno che non si tratti di rapporti esauriti, cioè di fattispecie ormai interamente realizzate. La ln 241 Ha razionalizzato le acquisizioni giurisprudenziali. la teoria dei vizi dell'atto amministrativo infatti è frutto in gran parte dell'elaborazione della quarta sezione del Consiglio di Stato. il giudice amministrativo dovete cioè riempire di contenuto le scarne disposizioni della legge del 1889 che attribuivano alla sua competenza i ricorsi per incompetenza per eccesso di potere o per violazione di legge. così in primo luogo la giurisprudenza interpreta subito la formula eccesso di potere come sviamento di potere, cioè casi in cui il potere viene esercitato per un fine diverso da quello posto dalla norma attributiva del potere. la sezione del Consiglio di Stato fece cioè ricorso all eccesso di potere per sindacare la località intrinseca dei provvedimenti discrezionali e non soltanto la legalità estrinseca cioè la loro conformità formale disposizioni di legge. in seguito, il giudice amministrativo, allo scopo di accertare il eccesso di potere inteso in questa accezione più ampia elaborò le cosiddette figure sintomatiche dell' eccesso di potere rendendo così sempre più penetrante il sindacato sulla discrezionalità amministrativa. in secondo luogo, nel silenzio della legge, la giurisprudenza individua ipotesi nelle quali il provvedimento è affetto da deviazioni abnormi della norma attributiva del potere o è addirittura emanato in assenza di una Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) La violazione di legge è considerata una categoria rimanente, perché in essa confluiscono i vizi che non sono qualificabili come incompetenza o eccesso di potere: essa raggruppa tutte le ipotesi di contrasto tra il provvedimento e le disposizioni normative che definiscono i profili vincolanti, formali e sostanziali, del potere. Si discute se la nozione di violazione di legge includa anche la violazione dei principi generali ai quali fa esplicito riferimento la ln 241 (imparzialità, proporzionalità, irretroattività del provvedimento). La principale distinzione interna alla violazione di legge è quella, già anticipata, tra vizi formali (errores in procedendo) e vizi sostanziali (errores in judicando). L'art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 enuclea tra le ipotesi di violazione di legge la “violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti”, cioè una subcategoria di vizi formali che, a certe condizioni, sono dequotati a vizi che non determinano l'annullabilità del provvedimento. Più specificamente, la disposizione pone le seguenti due condizioni: che il provvedimento abbia “natura vincolata”; che quindi “sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello il concreto adottato”. La prima condizione rinvia alle nozioni di discrezionalità o vincolatezza in astratto. Ciò posto, se si accerta che il potere è integralmente vincolato, ne discende automaticamente che, anche in assenza del vizio formale o procedurale rilevato (ad es. la mancanza del preavviso di rigetto di una istanza), il contenuto del provvedimento sarebbe rimasto invariato. In questo caso il provvedimento non può essere annullato né dal giudice amministrativo nell’ambito di un giudizio di impugnazione, né dalla stessa amministrazione in sede di esercizio del potere di autotutela. Infatti l’art. 21-nonies, così come modificato dal d.l. 133/2014, prevede che l’amministrazione può annullare il provvedimento illegittimo ai sensi dell’art.21-octies “esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies comma 2”. 1. Il secondo periodo dell'art. 21-octies, comma 2, individua un'ipotesi particolare costituita dall' omessa comunicazione dell'avvio del procedimento, disciplinata dagli artt. 7 ss. della stessa legge per la quale è previsto un regime in parte uguale e in parte diverso da quello del primo periodo. Uguale è l'operazione richiesta all'interprete e cioè una ricostruzione di ciò che sarebbe stato l'esito del procedimento laddove tutte le norme sul procedimento e sulla forma fossero state rispettate. Se la conclusione è che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, l'atto non può essere annullato. La disposizione presenta però due specificità: manca il riferimento alla natura vincolata del potere, quindi la disposizione include nel suo campo di applicazione anche i poteri discrezionali (in astratto). Solo qualora risulti ex post, tenuto conto di tutte le circostanze specifiche, che l’amministrazione non aveva altra scelta legittima se non quella di emanare un atto con quel contenuto (vincolatezza in concreto), può operare il principio della non annullabilità per violazione delle norme formali e procedurali; 2. si richiede all’amministrazione che ha emanato l’atto di dimostrare “in giudizio” che il vizio procedurale o formale accertato non ha avuto alcuna influenza sul contenuto del provvedimento. Quindi l’onere della prova grava sull’amministrazione nei confronti della quale sia stato proposto un ricorso per l’annullamento del provvedimento viziato. Questo comporta una deroga alle regole processuali ordinarie che vietano all’amministrazione di integrare la motivazione nel corso del giudizio. Infatti, in questa particolare fattispecie si ha un ampliamento dell’oggetto del giudizio agli elementi forniti dall’amministrazione per dimostrare che il vizio formale non ha inciso sul contenuto del provvedimento impugnato. Tuttavia, poiché la prova richiesta dalla disposizione è una prova negativa (probatio diabilica), la giurisprudenza addossa sul ricorrente l’onere di allegare in giudizio gli elementi che sarebbero stati prodotti nell’ambito del procedimento ove la comunicazione di avvio del medesimo procedimento fosse stata effettuata nelle forme prescritte. In altri termini, l’art.21-octies, comma 2 si inserisce nella tendenza del nostro ordinamento a valorizzare il principio di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (amministrazione di risultato) a scapito (entro una certa misura) di quello del rispetto della forma, e dunque della funzione di garanzia assolta dalle norme relative al procedimento e alla forma. Il regime della legittimità degli atti amministrativi si avvicina così a quello degli atti processuali, per i quali vale il principio che “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato” (art. 156 co. 3° c.p.c.). L'art 21 octies co 2 ha dato origine a discutendo trina e una cospicua giurisprudenza non ancora consolidata. per esempio la giurisprudenza ha chiarito che la mancanza della motivazione in un provvedimento integralmente vincolato non può giustificare l'annullamento di quest'ultimo ma applicata allora la stessa regola che i provvedimenti che presentano margini di discrezionalità allorché dagli atti del Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) procedimento risultino già in qualche modo le ragioni sottostanti. Sembra per altro prevalente orientamento secondo il quale il difetto di motivazione non può essere assimilato alla violazione di norme procedimentali OI vizi di forma e non può essere dunque considerato un vizio non invalidante. La disposizione pone varie questioni interpretative. È dubbio anzitutto se e sabbia rilevanza sostanziale sia tengo cioè il regime giuridico del provvedimento o solo a regime processuale. L'art 21 rileva solo ai fini dell'accertamento della sussistenza in uno dei presupposti processuali costituito dall' interesse a ricorrere, così come inteso dalla seconda visione. l'interesse manca nei casi in cui il ricorrente in seguito all’annullamento e alla rinnovazione del procedimento non possa attendersi una decisione diversa da quella già emanata. L'atto non può essere dunque annullato dal giudice ma sotto il profilo sostanziale continua a essere affetto dal illegittimità che potrebbe portare l'amministrazione esercitare il potere d’annullamento d'ufficio. Questa tesi sembra oggi smentita dalla modifica dell’art 21 nonies che esclude espressamente annullamento d'ufficio in presenza di vizi formali ai sensi dell’art 21 octies co 2. Secondo un’altra interpretazione, la disposizione in esame avrebbe tipizzato in via legislativa una fattispecie di irregolarità non invalidante del provvedimento. L’irregolarità del provvedimento, ammessa da sempre dalla giurisprudenza, può essere definita come un'imperfezione minore del provvedimento che non determina la lesione di interessi tutelati dalla norma d'azione. Ad es., danno origine a irregolarità l'erronea indicazione di un testo di legge o di una data, un errore nell'intestazione del provvedimento, ecc. In realtà, il disvalore della violazione delle norme sulla forma dell’atto e sul procedimento previsto dall’art. 21-octies, comma 2, sembra essere maggiore rispetto a quello di una mera irregolarità non lesiva di alcun interesse pubblico apprezzabile, proprio per la funzione di garanzia che può essere riconosciuta agli aspetti formali. Sembra perciò preferibile un’altra interpretazione, che qualifica come illegittimi anche i provvedimenti non annullabili ai sensi della disposizione (al riguardo si è parlato di “atto meramente illegittimo” per differenziarlo da quello anche annullabile). In definitiva, seguendo quest’ultima interpretazione, l’art. 21- octies ha stabilito soltanto che per taluni atti illegittimi l’annullamento, vuoi da parte del giudice vuoi d’ufficio, costituisce una reazione dell’ordinamento da ritenersi non proporzionata, visto che il provvedimento risulta sostanzialmente legittimo. Restano da analizzare le ulteriori conseguenze che possano derivare dai vizi formali e procedurali. La tutela risarcitoria non sembra essere percorribile perchè è difficile configurare un danno in capo al privato da un atto il cui contenuto non sarebbe stato comunque diverso. Ipotizzabile è, invece, a certe condizioni, una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario al quale sia imputabile la violazione formale o procedurale riscontrata. 16. c) L'eccesso di potere L'eccesso di potere è il vizio di legittimità tipico dei provvedimenti discrezionali. Esso consente al giudice un sindacato che va oltre la verifica del rispetto dei vincoli puntuali posti in modo esplicito dalla norma attributiva del potere (aspetti vincolati del potere) e che può spingersi invece fino alle soglie del merito amministrativo. Secondo la ricostruzione più diffusa, l’eccesso di potere ha riguardo all’aspetto funzionale del potere, cioè alla realizzazione in concreto dell’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione. Si spiega così perché si tratta di un vizio sostanzialmente sconosciuto nel diritto privato. Salvi i casi marginali di abuso del diritto, nei negozi privati i motivi ad essi sottostanti non hanno un rilievo esterno al soggetto agente e sono considerati giuridicamente irrilevanti: il regime civilistico dell’invalidità, infatti, ammette solo un controllo di tipo estrinseco sulla capacità del soggetto agente, sugli aspetti formali e procedurali, sul rispetto delle norme imperative. L'elaborazione oggi prevalente definisce l'eccesso di potere come vizio della funzione, intesa come la dimensione dinamica che concretizza la norma astratta attributiva del potere in un provvedimento produttivo di effetti. In questo passaggio, cioè all'interno delle fasi del procedimento, possono sorgere anomalie che danno origine, appunto, all'eccesso di potere. La figura primigenia dell'eccesso di potere è lo sviamento di potere, che consiste nella violazione del vincolo del fine pubblico posto dalla norma attributiva del potere. Una siffatta violazione sia allorché il provvedimento emanato persegue un fine diverso da quella relazione al quale il potere è conferito dalla legge all'amministrazione. Si pensi, ad es., al trasferimento d'ufficio di un dipendente pubblico non privatizzato, motivato da esigenze di servizio, che in realtà ha una finalità punitiva oppure allo scioglimento di un consiglio comunale per ripetute violazioni di legge, che sottende però una finalità politica. È evidente che nella pratica lo sviamento di potere è difficile da provare, in quanto il provvedimento, all’apparenza, si presenta come perfettamente conforme alle disposizioni normative che regolano quel particolare potere. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) Ciò ha indotto la giurisprudenza a rilevare il vizio in via indiretta, attraverso elementi indiziari del cattivo esercizio del potere discrezionale costituiti dalle c.d. figure sintomatiche dell’eccesso di potere. Queste costituiscono una categoria aperta, non tipizzata dal legislatore. Le principali sono: 1. errore o travisamento dei fatti. Se il provvedimento viene emanato sul presupposto dell'esistenza di un fatto o di una circostanza che invece risulta inesistente o, viceversa, della non esistenza di un fatto o di una circostanza che invece risulta esistente viene fuori la figura dell'eccesso di potere per errore di fatto (o anche travisamento dei fatti, o falso supposto in fatto). Si pensi, ad es., all’imposizione di un obbligo di bonifica ambientale di un terreno nel quale invece si dimostra che non sono presenti sostanze inquinanti, o comunque che esse non superino i valori massimi consentiti dalle norme vigenti. Non rileva se l’errore è inconsapevole o consapevole; 2. difetto di istruttoria. Nella fase istruttoria del procedimento l'amministrazione è tenuta ad accertare in modo completo i fatti, ad acquisire gli interessi rilevanti e ogni altro elemento utile per operare una scelta consapevole e ponderata. Ove questa attività manchi del tutto o sia effettuata in modo frettoloso, incompleto o poco approfondito, il provvedimento è viziato sotto il profilo dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria. Infatti l’amministrazione non può prendere per buona la ricostruzione dei fatti operata dalla parte privata intervenuta nel procedimento, ma deve condurre le opportune verifiche. Così, ad es., sarà illegittima la decadenza da una concessione di uso di un bene demaniale ove non risulti appurato in modo univoco che l’attività del concessionario sia posta in essere in violazione delle condizioni e dei limiti apposti nel provvedimento. A differenza dell’errore di fatto, nel caso di difetto di istruttoria non può escludersi che il quadro fattuale posto alla base del provvedimento risulti in effetti esistente e che dunque la scelta operata sia quella corretta, ma l’analisi del provvedimento e degli atti procedimentali lascia dubbi in proposito. Annullato l’atto e posta in essere una nuova istruttoria, questa volta in modo corretto, l’amministrazione ben potrebbe adottare un atto con il medesimo contenuto; 3. difetto di motivazione. Nella motivazione del provvedimento l'amministrazione deve dar conto delle ragioni che sono alla base della scelta operata. Essa deve consentire una verifica del corretto esercizio del potere, cioè dell’iter logico seguito per pervenire alla determinazione contenuta nel provvedimento, prendendo in considerazione elementi istruttori rilevanti e operando l'analisi degli interessi. È evidente che non esiste un criterio univoco per determinare se una motivazione sia sufficiente. Si può certamente ritenere che quanto più ampia è la discrezionalità dell’amministrazione e quanto più gravosi sono gli effetti del provvedimento nella sfera soggettiva dei destinatari, tanto più elevato è lo standard quantitativo e qualitativo imposto. Il difetto di motivazione ha varie sfaccettature: la motivazione può essere insufficiente, incompleta o generica, se da essa non si manifesta compiutamente la procedura logica seguita dall'amministrazione e quindi non vengono fuori le ragioni sottostanti la scelta operata (ad es., per poter imporre un vincolo paesaggistico su un bene, l’amministrazione deve illustrare perché esso abbia le caratteristiche che consentano l’applicazione del regime protettivo e non può limitarsi ad affermazioni generiche). La l. 241/1990 contiene alcune disposizioni che specificano il contenuto minimo della motivazione: a) l’amministrazione deve valutare e motivare gli apporti partecipativi di chi interviene nel procedimento (art. 10) b) l’amministrazione deve dar conto delle ragioni per le quali non accoglie le osservazioni presentate dall’interessato al quale sia comunicato il preavviso di rigetto di un’istanza (art. 10 bis) c) l’organo competente ad adottare il provvedimento finale, ove ritenga di discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento, deve darne conto nella motivazione (art. 6 co. 1° lett. e) d) la motivazione può consistere anche solo in “un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo” nel caso in cui l’amministrazione ritenga un’istanza manifestamente inammissibile o infondata (art. 1 co. 2°). Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) può essere rilevata d'ufficio dal giudice o opposta dalla parte resistente (la pubblica amministrazione). Inoltre, l’art. 133 co. 1° lett. a) n. 5 attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (nell’ambito della quale il giudice conosce anche delle situazioni di diritto soggettivo) le controversie relative alla nullità dell’atto adottato in violazione o elusione del giudicato. Il vizio va fatto valere nella sede del giudizio di ottemperanza, cioè del rito speciale previsto nel caso di mancata esecuzione da parte della p.a. delle sentenze del giudice amministrativo e del giudice ordinario. Il ricorso può essere proposto nel termine di 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza e il giudice, ove accolga il ricorso, emana una sentenza che dichiara la nullità del provvedimento (art. 114, co. 1 e 4, lett. c)). 18. L'annullamento d'ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la conferma, la conversione, la revoca, il recesso Esaminiamo ora i provvedimenti che l’amministrazione può emanare per porre rimedio all’invalidità o alla non conformità all’interesse pubblico di un provvedimento amministrativo. I provvedimenti in questione sono assunti nell'ambito dei procedimenti definiti di secondo grado proprio perché hanno per oggetto atti già emanati che l'amministrazione sottopone a un riesame. questi sono: - L'annullamento d'ufficio. La misura specifica per reagire all’illegittimità del provvedimento è costituita dall’annullamento con efficacia ex tunc dell’atto emanato. Infatti l'annullamento del provvedimento illegittimo può essere pronunciato, oltre che dal giudice amministrativo in caso di accoglimento del ricorso proposto dal titolare dell'interesse legittimo, anche in altri contesti e da altri soggetti: dalla stessa amministrazione in sede di esame dei ricorsi amministrativi (c.d. autoannullamento); dagli organi amministrativi preposti al controllo di legittimità di alcune categorie di provvedimenti; dal Consiglio dei ministri nei confronti di tutti gli atti degli apparati statali, regionali e locali (trattasi del c.d. annullamento straordinario del governo “a tutela dell’unità dell’ordinamento”, che, proprio per la sua particolare delicatezza, richiede anche l’acquisizione preventiva di un parere del Consiglio di Stato). Inoltre, mentre l’annullamento in sede di ricorsi giurisdizionali e amministrativi in sede di controllo consegue automaticamente all’accertamento del vizio e ha dunque natura vincolata, l’annullamento d’ufficio operato dall’amministrazione ha un carattere discrezionale e costituisce una delle manifestazioni del potere di autotutela della pubblica amministrazione. Per far sì che l'amministrazione possa esercitare in modo legittimo il potere di annullamento d'ufficio devono esistere quattro presupposti esplicitati dall'art. 21-nonies l. 241/1990: 1. il primo è che il provvedimento sia “illegittimo ai sensi dell'art. 21-octies”, e quindi sia affetto da un vizio di violazione di legge, di incompetenza o di eccesso di potere, ma non si deve ricadere in una delle ipotesi del comma 2 dell'articolo in questione; 2. devono esistere “ragioni di interesse pubblico”, rimesse alla valutazione dell'amministrazione, che rendano preferibile la rimozione dell'atto e dei suoi effetti piuttosto che la loro conservazione. L'interesse astratto al ripristino della legalità violata non è sufficiente, ma l'amministrazione deve porre a fondamento un altro interesse pubblico (ad es. l’interesse alla concorrenza nel caso di affidamento di un contratto pubblico senza esperire la procedura di gara). Nel caso di provvedimenti che comportano esborsi di danaro da parte dell’amministrazione, si ritiene generalmente che l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio sussista in re ipsa, nel senso che non richiede una particolare motivazione data la preminenza dell’interesse erariale; 3. l'annullamento d'ufficio richiede poi una ponderazione di tutti gli interessi in gioco che deve essere esplicitata nella motivazione. Devono essere valutati specificamente, oltre all'interesse pubblico all'annullamento, da un lato quello del destinatario del provvedimento a che sia tutelato il suo affidamento; dall'altro quello degli eventuali controinteressati; 4. infine, la valutazione discrezionale deve tener conto del fattore temporale. L'annullamento può essere disposto “entro un termine ragionevole”. Infatti, se è passato un lungo lasso di tempo dall'emanazione del provvedimento illegittimo, prevale tendenzialmente l'interesse a mantenere inalterato lo status quo e a tutelare l'affidamento creato. Invece, se la p.a. rileva immediatamente l'illegittimità del provvedimento emanato, essa può procedere all'annullamento d'ufficio senza dover valutare in modo approfondito interessi diversi dal mero ripristino della legalità. Rientra nella discrezionalità dell’amministrazione stabilire se il termine è “ragionevole”: poiché ciò introduce evidentemente un elemento di incertezza sulla stabilità dei rapporti giuridici amministrativi, la l. 124/2015 fissa per alcuni Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) tipi di provvedimenti (di autorizzazione e di attribuzione di vantaggi economici) il termine in 18 mesi, decorso il quale l’amministrazione decade dal potere. Il potere di annullamento d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto delle regole generali della l. 241/1990 in tema di comunicazione di avvio del procedimento e di partecipazione dei soggetti interessati. Una modifica recente dell’art.21-nonies, comma 1, prevede che rimangano ferme “le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”: disposizione invero superflua, posta come monito per i funzionari. Attesa la natura discrezionale dell’annullamento d’ufficio, l’amministrazione non è tenuta a prendere in considerazione e a dar seguito a segnalazioni ed esposti da parte di soggetti privati che denunciano l’illegittimità di un atto amministrativo. - La convalida. L'art. 21-nonies co. 2° prevede che, in alternativa all'annullamento d'ufficio, l'amministrazione possa procedere alla convalida del provvedimento illegittimo, sempre in presenza di ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. Il potere in questione è espressione del principio generale della conservazione dei valori giuridici, che consiste nell’eliminazione del vizio del quale è affetto il provvedimento amministrativo. A differenza di quanto avviene nei rapporti interprivati, nei quali la convalida del negozio costituisce una facoltà del soggetto leso al quale spetta l’azione di annullamento (art. 1444 c.c.), la convalida del provvedimento amministrativo è operata dalla stessa p.a. cui è imputabile il vizio rilevato. Se la convalida riguarda il vizio di incompetenza si parla usualmente di ratifica. - La sanatoria. Si parla di sanatoria nei casi in cui l'atto è emanato in mancanza di un presupposto e quest'ultimo si materializza in un momento successivo, o nei casi in cui un atto della sequenza procedimentale viene posto in essere dopo il provvedimento conclusivo (ad es. una proposta o un accertamento tecnico intervenuti successivamente all’emanazione dell’atto). - La conferma e l'atto confermativo. All’esito di un procedimento di riesame aperto su sollecitazione di un privato o anche d’ufficio, l'amministrazione potrebbe pervenire alla conclusione che il provvedimento non è affetto da nessun vizio. In questi casi l'amministrazione emana un provvedimento di conferma. Nella giurisprudenza si distingue tra conferma, che costituisce un provvedimento amministrativo autonomo dal contenuto identico a quello oggetto del riesame, e atto meramente confermativo, con il quale l'amministrazione si limita a comunicare al privato che chiede il riesame che non ci sono motivi per riaprire il procedimento e procedere a una nuova valutazione. Per tali motivi, l’atto meramente confermativo non può essere considerato un nuovo provvedimento suscettibile di essere impugnato. - La conversione. Con riferimento ai provvedimenti affetti da nullità e annullabilità si ritiene generalmente applicabile, anche se manca una disposizione legislativa espressa, la conversione, sulla falsariga del modello civilistico (art. 1424 c.c.). - La revoca. Invero anche i provvedimenti perfettamente validi ed efficaci possono essere soggetti a un riesame che ha per oggetto il merito (opportunità), cioè la conformità all'interesse pubblico dell'assetto degli interessi risultante dall'atto emanato. Interviene qui la revoca del provvedimento, istituto caratteristico del diritto amministrativo. Il diritto privato, infatti, non ammette di regola uno jus poenitendi relativo ad atti che abbiano già prodotto effetti nella sfera giuridica di terzi, e ciò in relazione al principio della stabilità e della certezza dei rapporti giuridici (un caso eccezionale è quello della revoca della donazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli ex art. 800 c.c.). Invece, nel diritto amministrativo, il potere di revoca è giustificato dall’esigenza di garantire nel tempo la conformità all’interesse pubblico dell’assetto giuridico derivante da un provvedimento amministrativo, esigenza che è ritenuta prevalente rispetto a quella di tutela degli affidamenti creati, dando così una connotazione di precarietà al rapporto giuridico amministrativo. L'art. 21-quinquies l. 241/1990 (introdotto con la l. 15/2005) pone una disciplina generale della revoca precisandone meglio i presupposti e gli effetti. Il comma 1 distingue due tipi: 1. la revoca per sopravvenienza. Sono riconducibili a tale fattispecie due ipotesi tipizzate, cioè la revoca per “sopravvenuti motivi di pubblico interesse”, che interviene quando l’amministrazione opera una rivalutazione dell’assetto degli interessi alla luce di fattori ed esigenze sopravvenute, cioè non presenti al momento in cui l’atto era stato emanato (ad es. la destinazione di un tratto di spiaggia o di uno spazio acqueo non più ai fini balneazione, ma a riserva naturale). Alla revoca per sopravvenienza è riconducibile anche quella per “mutamento della situazione di fatto” non prevedibile al momento Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) dell’adozione del provvedimento, ipotesi peraltro sovrapponibile all’altra (ad es. emersione di nuove tecnologie, incremento demografico, ecc.); 2. la revoca per jus poenitendi. La revoca per jus poenitendi riguarda l'ipotesi di “nuova valutazione dell'interesse pubblico originario”, che si ha nei casi in cui l'amministrazione si rende conto di aver compiuto una ponderazione errata degli interessi nel momento in cui ha emanato il provvedimento. Nel 2014 l’art. 21-quinquies è stato modificato nel senso di vietare questo tipo di revoca in relazione ai provvedimenti di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici, e ciò al fine di attribuire almeno in alcuni ambiti maggiore stabilità e certezza al rapporto giuridico amministrativo. Come nel caso dell’annullamento d’ufficio, sotto il profilo soggettivo la revoca può essere disposta “dallo stesso organo che ha emanato l’atto ovvero da altro organo previsto dalla legge”. Peraltro, nell’equilibrio dei poteri spettanti al ministro e ai dirigenti, il d.lgs. 165/2001 esclude che il primo possa revocare gli atti emanati dai secondi, mentre prevede che possa annullarli d’ufficio (art. 14 co. 3°). Invece, a differenza dell'annullamento d'ufficio, che ha efficacia retroattiva (ex tunc), la revoca “determina l'inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti” (ex nunc). D’altra parte la revoca ha tipicamente per oggetto provvedimenti “a efficacia durevole”, ad es. le concessioni di servizi pubblici. Tuttavia il co. 1-bis, nel disciplinare l’indennizzo, fa riferimento anche ad atti aventi “efficacia istantanea” nei casi in cui incidano su rapporti negoziali. Si ritiene, inoltre, per ragioni logiche ancor prima che giuridiche, che non siano suscettibili di revoca i provvedimenti che hanno già prodotto gli effetti o siano stati interamente eseguiti. Una novità introdotta nel 2005 dall'art. 21-quinquies per la revoca è la generalizzazione dell'obbligo di indennizzo nei casi in cui essa “comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati”. Questa previsione può costituire una remora all’esercizio indiscriminato di questo istituto perché non fa gravare interamente sui soggetti privati le conseguenze economiche di un provvedimento emanato per sempre in modo legittimo e che ha creato un affidamento. I commi 1- bis e 1-ter pongono alcuni criteri per quantificare l’indennizzo in caso di revoca di atti che incidono su rapporti negoziali. Innanzitutto l’indennizzo è limitato al danno emergente, escludendo così il lucro cessante. Inoltre esso è suscettibile di un’ulteriore riduzione in relazione alla “conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto oggetto di revoca all’interesse pubblico”. Si tratta, invero, di una disposizione di dubbia opportunità, perché presuppone che sia onere anche del soggetto privato operare una valutazione dell’interesse pubblico, che invece dovrebbe spettare esclusivamente alla p.a. Un’altra riduzione è prevista, infine, nel caso di “concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico”. Le controversie relative alla quantificazione dell’indennizzo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133 co. 1° lett. a) n. 4 Codice del processo amministrativo). Al pari dell’annullamento d’ufficio, la revoca è un provvedimento discrezionale che richiede quindi una motivazione. Sotto il profilo procedimentale è un atto di secondo grado che si apre con la comunicazione di avvio che è aperto alla partecipazione dei soggetti interessati. La revoca disciplinata dall'art. 21-quinquies va tenuta distinta 1. dalla c.d. revoca sanzionatoria (o decadenza), che può essere disposta dall'amministrazione nel caso in cui il privato, destinatario di un provvedimento amministrativo favorevole, (autorizzazione, concessione, ecc.) non rispetti le condizioni e i limiti in esso previsti o non intraprenda l'attività oggetto del provvedimento entro il termine previsto (ad es. nel caso di permesso a costruire); 2. dal mero ritiro, che ha per oggetto atti amministrativi che non sono ancora efficaci. In questo senso esso è assimilabile alla revoca del testamento o della proposta contrattuale. Perciò esso non necessita di una valutazione specifica dell’interesse pubblico e degli interessi dei destinatari del provvedimento. - Il recesso dai contratti. L'art. 21-sexies l. 241/1990 disciplina il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione prevedendo che esso sia ammesso solo “nei casi previsti dalla legge o dal contratto”. Si tratta di una disposizione che riguarda l’attività negoziale di diritto privato della p.a. e che ribadisce che in questo ambito essa non gode di alcun privilegio. Nel settore delle opere pubbliche la stazione appaltante al diritto di recedere in qualsiasi tempo dal contratto previo pagamento dei lavori eseguiti del valore dei materiali Utili esistenti in cantiere e quindi un utile di impresa ha determinato in modo forfettario del 10% delle opere non più eseguite. Questa disposizione viene spesso richiamata dalla giurisprudenza anche ai fini della qualificazione forfettaria del danno subito dalle imprese nell'ambito delle procedure a evidenza pubblica per la aggiudicazione dei contratti. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) La prima fase è quella dell’iniziativa, cioè dell’avvio formale del procedimento destinato a sfociare nel provvedimento finale produttivo degli effetti giuridici nella sfera giuridica del destinatario. Prima di tutto bisogna fare una distinzione tra obbligo di procedere e obbligo di provvedere, i quali sono entrambi espressione del principio generale della doverosità dell’esercizio del potere amministrativo. In base al primo, infatti, l'amministrazione competente è tenuta ad aprire il procedimento su istanza di parte o d’ufficio e a porre in essere le attività previste nella sequenza procedimentale. Il secondo impone all'amministrazione, una volta aperto il procedimento, di portarlo a conclusione attraverso l'emanazione di un provvedimento espresso. I due obblighi si deducono dall'art. 2 l. n. 241/1990. Infatti il comma 1 fa riferimento all’ipotesi in cui il procedimento “consegua obbligatoriamente a un’istanza” e a quella in cui esso “debba essere iniziato d’ufficio”. Successivamente il medesimo comma pone il dovere di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Ciò posto, nei procedimenti su istanza di parte, l'atto di iniziativa consiste in una domanda o istanza formale presentata all'amministrazione da un soggetto privato interessato al rilascio di un provvedimento favorevole, in relazione al quale vanta un interesse legittimo pretensivo. Però non ogni istanza del privato fa nascere l'obbligo di procedere. Infatti, quest'ultimo nasce solo in relazione ai procedimenti amministrativi disciplinati nelle leggi amministrative di settore (si pensi, ad es., ai procedimenti autorizzativi previsti dalle leggi che regolano le attività economiche): al di fuori di essi, le lettere, le richieste, le istanze variamente formulate dai privati possono restare senza alcun seguito. In alcuni casi, invece, il procedimento è aperto su impulso di pubbliche amministrazioni che formulano proposte all'amministrazione competente (ad es. l’amministrazione straordinaria o la liquidazione coatta di un stituto di credito viene disposta dal ministero dell’Economia su proposta della Banca d’Italia). Nei procedimenti d'ufficio, l'apertura del procedimento avviene, invece, da parte della stessa amministrazione competente a emanare il provvedimento finale. I procedimenti d’ufficio riguardano per lo più i poteri il cui esercizio determina un effetto restrittivo nella sfera giuridica del sogg privato destinatario (titolare di un IL oppositivo). Nei procedimenti d’ufficio si pone il problema di individuare il momento in cui nasce l'obbligo di procedere. Infatti, in molte situazioni l’apertura formale del procedimento avviene all’esito di una serie di attività c.d. preistruttorie, condotte sempre d'ufficio, dalle quali possono emergere situazioni di fatto che rendono necessario l'esercizio di un potere (cd principio di doverosità). Tra le attività preistruttorie vanno annoverate le ispezioni: il potere di ispezione è attribuito dalla legge ad autorità di vigilanza (ad es. Banca d'Italia e CONSOB) nei confronti di soggetti privati allo scopo di verificare il rispetto delle normative di settore. L’ispezione, la quale può anche essere disposta nella fase propriamente istruttoria del procedimento, consiste in una serie di operazioni di verifica effettuate presso un soggetto privato, in contraddittorio con quest’ultimo, delle quali si dà atto in un verbale. L'ispezione può concludersi con la constatazione che l'attività è conforme alle norme, o può far emergere fatti che integrano qualche violazione. Solo in quest'ultimo caso l'amministrazione è tenuta ad aprire un procedimento d'ufficio volto a contestare la violazione e che può concludersi con l'adozione di provvedimenti ordinatori o sanzionatori. Altre attività istruttorie includono: accessi ai luoghi, richieste di documenti, assunzione di informazioni, rilievi segnaletici e fotografici, analisi di campioni, ecc. L'avvio dei procedimenti d'ufficio può avvenire anche in seguito a denunce, istanze o esposti di soggetti privati. Tuttavia questi atti non fanno sorgere in modo automatico il dovere dell’amministrazione di aprire il procedimento nei confronti del soggetto denunciato: rientra infatti nella discrezionalità dell’amministrazione valutarne la serietà e la fondatezza. Ad es., in materia di tutela del consumatore, riferita in particolare alla pubblicità ingannevole e alle pratiche commerciali scorrette, i privati possono presentare all’Autorità garante della concorrenza e del mercato un’istanza di intervento affinché essa eserciti i poteri inibitori. L'amministrazione deve dare comunicazione dell'avvio del procedimento anzitutto al soggetto o ai soggetti destinatari diretti del provvedimento, cioè a coloro “nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti” (art. 7 l. n. 241/1990). La comunicazione viene anche inviata a eventuali altri soggetti che per legge devono intervenire nel procedimento e, più in generale, a soggetti individuati o individuabili che possono subire un pregiudizio dal provvedimento. La comunicazione deve contenere l'indicazione dell'amministrazione competente, dell'oggetto del procedimento, del nome del responsabile del procedimento, il termine di conclusione del procedimento e l'ufficio in cui si può prendere visione degli atti (art. 8). Nei procedimenti d’ufficio la comunicazione di avvio del procedimento è funzionale a garantire Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) il contraddittorio: non a caso l’omessa comunicazione rende annullabile il provvedimento finale (fermo restando il dettato del comma 2° dell’art. 21-octies che ha ristretto i casi in cui ciò può avvenire). 5. b) L'istruttoria La fase dell'istruttoria del procedimento ha lo scopo di accertare i fatti e di acquisire gli interessi rilevanti ai fini della determinazione finale. I fatti da accertare si riferiscono ai presupposti e ai requisiti richiesti dalla norma di conferimento, e cioè “le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento” valutati dal responsabile del procedimento (art. 6 co. 1°). Gli interessi da acquisire entrano in gioco esclusivamente nei procedimenti relativi a poteri propriamente discrezionali, nei quali l’interesse pubblico cd primario, desumibile dalla norma di conferimento del potere, deve essere valutato e ponderato unitamente agli interessi secondari pubblici e privati. La fase istruttoria è retta dal principio inquisitorio. Infatti, secondo l'art. 6 co. 1° lett. b), il responsabile del procedimento “accerta d'ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all'uopo necessari”. Quindi quest'ultimo compie di propria iniziativa tutte le indagini necessarie, senza essere vincolato alle allegazioni operate da soggetti privati, e ciò perché l'esercizio dei poteri avviene pur sempre per curare interessi pubblici. Inoltre nel procedimento amministrativo l’amministrazione può compiere tutti gli accertamenti necessari con le modalità ritenute più idonee. Ad es. vengono menzionati tra gli atti istruttori: il rilascio di dichiarazioni, l’esperimento di accertamenti tecnici, le ispezioni e l’ordine di esibizioni documentali. Nella scelta dei mezzi istruttori l’amministrazione deve attenersi ai principi di efficienza e di economicità, evitando di aggravare il procedimento al di la di quanto è necessario (art 1 c2). Peraltro alcuni atti istruttori sono previsti talvolta dalle leggi che disciplinano i singoli procedimenti amministrativi: questo è il caso dei pareri obbligatori (art. 16) e delle valutazioni tecniche (art. 17) di competenza di amministrazioni diverse da quella procedente. I pareri, espressione della funzione consultiva, possono essere obbligatori o facoltativi. I primi sono previsti dalla legge in relazione a specifici procedimenti e l’omessa acquisizione determina l’illegittimità del provvedimento finale. L’amministrazione competente a esprimere il parere deve rilasciarlo entro un termine di 20 giorni. In caso di ritardo, l’amministrazione titolare della competenza decisionale può procedere indipendentemente dall’espressione del parere (art. 18, comma 2, ma il comma 3 prevede una serie di eccezioni). Invece i pareri facoltativi sono richiesti quando l’amministrazione che procede ritenga che possono essere utili ai fini della decisione. I pareri possono essere, in casi non frequenti, oltre che obbligatori anche vincolanti: in questo caso l’amministrazione che li riceve non può assumere una decisione difforme dal contenuto del parere, neppure motivando le ragioni in relazione alle quali essa ritiene di discostarsene, come invece può avvenire in caso di pareri solo obbligatori. Il solo potere che residua all’amministrazione procedente è quello di rinunciare a emanare l’atto finale. La previsione nella sequenza procedimentale di pareri obbligatori costituisce una modalità di coordinamento tra amministrazioni che curano interessi pubblici distinti, ma con ambiti di interferenza. Le valutazioni tecniche richieste a organismi dotati di particolari competenze non giuridiche sono sogg a un regime che ricalca in parte quello dei pareri (art 17). L’art. 17-bis, introdotto con la l. 124/2015 allo scopo di accelerare i tempi di conclusione dei procedimenti, introduce un meccanismo di silenzio-assenso tra amministrazioni. Esso cioè stabilisce termini stringenti per il rilascio di assensi, concerti e nullaosta di amministrazioni statali (di norma 30 giorni), decorsi i quali l’atto “si intende acquisito”. Il termine può essere interrotto nel caso in cui l’amministrazione che deve rendere l’assenso, il concerto o il nullaosta rappresenti esigenze istruttorie o richieste di modifica motivate. Il termine è, invece, di 90 giorni nel caso in cui l’amministrazione sia preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini (co. 3°). Inoltre, in caso di mancato accordo tra amministrazioni statali, la questione viene rimessa al Presidente del Consiglio dei Ministri “che decide sulle modifiche da apportare allo schema di provvedimento” (co. 2°). La tendenza più recente dell’ordinamento in tema di adempimenti istruttori è di sgravare il più possibile i soggetti privati da oneri di documentazione, imponendo all’amministrazione di acquisire d’ufficio i documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi necessari per l’istruttoria (art. 18, comma 2, l. n. 241/1990). Ai privati può essere richiesta soltanto l’autocertificazione che consiste nella possibilità per i sogg privati di dichiarare sotto propria responsabilità il possesso di determinati stati e qualità. Si è addirittura stabilità per legge, da ultimo, che i certificati rilasciati da un’amministrazione non hanno valore Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) se prodotti presso altre amministrazioni e ciò al fine di costringerle allo scambio reciproco delle informazioni necessarie. L’attività istruttoria può essere effettuata anche con modalità informali: ad es. l’art. 11, per favorire conclusione di accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, prevede che può essere predisposto un calendario di incontri ai quali sono invitati, separatamente o contestualmente, il destinatario del provvedimento ed eventuali controinteressati. Inoltre, qualora sia opportuno un esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento, l’amministrazione procedente può indire una conferenza di servizi istruttoria (art. 14) nella quale ciascuna amministrazione interessata può esprimere le proprie valutazioni. La fase istruttoria è aperta alla partecipazione dei soggetti che abbiano diritto di intervenire e partecipare al procedimento (art. 10 l. n. 241/1990). Quest’ultimi sono i soggetti ai quali l’amministrazione è tenuta a comunicare l’avvio del procedimento. Hanno facoltà di intervenire anche i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, ai quali possa derivare un pregiudizio del provvedimento (art. 9). Ciò posto, la partecipazione e l’intervento si sostanziano in due diritti: 1. il primo è quello di prendere visione degli atti del procedimento (c.d. accesso procedimentale) non esclusi dal diritto di accesso; 2. il secondo consiste nella possibilità di presentare memorie scritte (cioè documenti che illustrano il punto di vista del soggetto interessato) e documenti. L’amministrazione ha l’obbligo di valutare i documenti e le memorie presentate, ove pertinenti all’oggetto del procedimento, e pertanto deve darne conto nella motivazione del provv. Emerge così un collegamento tra contributi partecipativi e motivazione del provv che deve dar conto delle risultanze dell’istruttoria. Dal punto di vista organizzativo l’istruttoria è affidata alla figura del responsabile del procedimento, assegnato di volta in volta dal dirigente responsabile della struttura subito dopo l’apertura del procedimento. Il suo nominativo viene comunicato o reso disponibile su richiesta a tutti i soggetti interessati. (art. 5 l . n. 241/1990). Si tratta di una figura importante nei rapporti tra p.a. e cittadino, perché consente a quest’ultimo di avere un interlocutore certo con il quale confrontarsi e rende meno spersonalizzato il rapporto con gli uffici. I compiti del responsabile del procedimento sono indicati nell’art. 6 l. n. 241/1990 e includono tutte le attività propedeutiche all’emanazione del provvedimento finale e l’adozione “di ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria” (lett. b)). In aggiunta a quelli già menzionati relativi all’accertamento dei fatti, va richiamato anche il potere di chiedere la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete: traspare qui una funzione di ausilio e supporto del responsabile del procedimento nei confronti del soggetto privato che è spesso sfornito delle conoscenze e dell’esperienza necessaria. Inoltre, allo scopo di prevenire fenomeni di corruzione, il responsabile del procedimento deve astenersi quando si trovi in conflitto di interessi, anche potenziale (art. 6-bis). Nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del procedimento (o l’autorità competente a emanare il provvedimento) è tenuto ad attivare una fase istruttoria supplementare nei casi in cui, sulla base degli elementi già acquisiti, sia orientato a proporre o ad adottare un provvedimento di rigetto dell’istanza (art. 10-bis l. n. 241/1990, aggiunto dalla l. n. 15/2005). Al soggetto che l’ha proposta, e che dunque ha dato avvio al procedimento, deve essere data comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda. Entro 10 giorni l’interessato può presentare osservazioni scritte nel tentativo di superare le obiezioni formulate dall’amministrazione. L’eventuale provv finale negativo che rigetta l’istanza deve dar conto delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni eventualmente presentate. Di norma il responsabile del procedimento non adotta il provvedimento finale, ma trasmette tutti gli atti, corredati da una relazione istruttoria, all’organo competente ad emanare il provvedimento finale. Quest’ultimo si deve attenere alle risultanze dell’istruttoria e può discostarsene solo indicandone le ragioni nel provvedimento finale (art. 6 co. 1° lett. e)). 6. c) La conclusione: il termine, il silenzio, gli accordi Conclusa la fase istruttoria, l’organo competente ad emanare il provvedimento finale assume la decisione all’esito di una valutazione complessiva del materiale acquisito al procedimento. Se il potere esercitato ha natura discrezionale, nella fase decisoria avviene la comparazione e ponderazione degli interessi che guida la scelta finale tra più soluzioni alternative. Come anticipato, l’art. 2 l. n. 241/1990 pone l’obbligo in capo Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) (comma 2°). Come anticipato, il silenzio-assenso ha valore provvedimentale e ciò determina due conseguenze: 1. può essere oggetto di provvedimenti di autotutela sotto forma di revoca e di annullamento d’ufficio; 2. può essere impugnato innanzi al giudice amministrativo, ad es. da parte di un soggetto terzo che vuole contrastare l’avvio dell’attività da parte del soggetto che ha presentato l’istanza all’amministrazione. Sotto il profilo procedurale, il soggetto che presenta l’istanza deve dichiarare sotto la propria responsabilità la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge (art. 21, che si applica anche alla SCIA). In conclusione, il regime del silenzio-assenso non fa venire meno l’obbligo di provvedere in capo all’amministrazione, né altera la struttura del procedimento, ma incide solo sulla fase decisionale, introducendo un incentivo al rispetto del termine. A differenza di quanto accade con la SCIA, resta fermo il modello del controllo ex ante sulle attività private. Il regime del silenzio-assenso ha alcuni difetti strutturali : dal punto di vista del soggetto privato che ha presentato istanza, il silenzio-assenso non soddisfa compiutamente l’esigenza di certezza in relazione allo svolgimento di attività sottoposte a controllo pubblico. Infatti, formatosi il silenzio-assenso, il privato non è in grado di sapere se dietro l’atteggiamento dell’amministrazione si celi un’inerzia degli uffici oppure se una qualche istruttoria sia stata in realtà compiuta, anche se l’amministrazione non è stata in grado di provvedere nel termine. Pertanto il rischio che l’amministrazione intervenga in autotutela è di gran lunga maggiore nel caso del silenzio-assenso di quanto non sia in quello dell’annullamento d’ufficio di un provvedimento positivo espresso. In definitiva il silenzio-assenso è una scorciatoia che non giova né all’interesse pubblico né a quello privato e dunque non risolve il problema dei ritardi nella conclusione dei procedimenti amministrativi. - Gli accordi integrativi e sostitutivi. Il provvedimento espresso emanato in modo unilaterale dall’organo competente costituisce l’esito normale e più frequente del procedimento amministrativo. Tuttavia esiste una modalità alternativa di conclusione del procedimento che la l. n. 241/1990 tende a favorire, e cioè l’accordo integrativo o sostitutivo del provvedimento (art 11). Gli accordi pongono l’amm su un piano più paritario rispetto al sogg privato e riducono il rischio di possibili contenziosi. In base alla l. n. 241/1990, l’accordo ha per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento ed è finalizzato a ricercare una miglior composizione tra l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione procedente e l’interesse del privato spesso contrapposto al primo. I poteri vincolati, invece, non si prestano a essere oggetto di accordi in quanto in essi manca il presupposto per una negoziazione, e cioè un ventaglio più o meno ampio di scelte. L’accordo può essere promosso dal soggetto privato, il quale può presentare a questo fine osservazioni e proposte in sede di partecipazione al procedimento. Il responsabile del procedimento inoltre può organizzare, per favorire l’accordo, incontri informali con i soggetti privati interessati instaurando veri e propri tavoli di trattativa (comma 1-bis). Tuttavia l’amministrazione non è obbligata a concludere accordi integrativi o sostitutivi con i privati e può prediligere la via del provvedimento unilaterale non negoziato. Sotto il profilo formale, gli accordi devono essere stipulati per atto scritto a pena di nullità (salvo che la legge disponga diversamente) e devono essere motivati. Ad essi si applicano i principi del c.c. in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Data la matrice pubblicistica degli accordi, le controversie relative alla loro conclusione ed esecuzione rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Gli accordi sono di due tipi: 1. integrativi del provvedimento. Essi servono solo a concordare il contenuto del provvedimento finale che viene emanato in attuazione dell’accordo. Sul piano formale il provvedimento mantiene la sua configurazione di atto unilaterale produttivo di effetti; 2. sostitutivi del provvedimento. Qui gli effetti giuridici si producono in via diretta con la conclusione dell’accordo, senza alcuna necessità di un atto formale unilaterale di recepimento. Tuttavia, a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, gli accordi devono essere preceduti da una determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento che autorizza e stabilisce i limiti della negoziazione. In questo modo si recupera indirettamente, a monte dell’accordo, un momento di unilateralità. Un altro momento di unilateralità può emergere anche dopo la conclusione dell’accordo: infatti l’amministrazione, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, può recedere dall’accordo (comma 4), e Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) ciò persino se il recesso non sia espressamente previsto in quest’ultimo. Il potere di recesso, dunque, ha fonte legale ed è dunque espressione di un potere in senso proprio. Pertanto non deve essere confuso con il recesso dai contratti di cui all’art. 21-sexies l. 241/1990. Il potere di recesso è invece riconducibile alla revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse e ad esso si accompagna egualmente l’obbligo di liquidare un indennizzo per gli eventuali danni subiti dal privato. 7. Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il subprocedimento I procedimenti possono avere una struttura semplice o complessa in base al loro oggetto, al numero e alla natura degli interessi pubblici e privati e quindi alla necessità di coinvolgere una pluralità di amministrazioni. Si spazia tra due estremi: 1. procedimenti autorizzatori semplici, in cui la sequenza procedimentale consiste soltanto in una domanda o istanza presentata dall’interessato, in un’istruttoria limitata a poche verifiche documentali e in una decisione affidata a un’unica autorità; 2. procedimenti complessi, che richiedono accertamenti fattuali, momenti partecipativi, acquisizione di pareri o di valutazioni tecniche con il coinvolgimento anche nella fase decisionale di una molteplicità di amministrazioni statali, regionali e locali. I procedimenti complessi sono spesso articolati all’interno in subprocedimenti sequenziali, i quali hanno ognuno una unità funzionale autonoma. Talvolta i subprocedimenti si concludono con atti suscettibili di incidere in via immediata su situazioni giuridiche soggettive, producendo cioè effetti esterni diversi ed indipendenti rispetto all’effetto giuridico primario riferibile al provvedimento assunto a conclusione dell’intero procedimento. In realtà, la distinzione tra procedimento e subprocedimento ha carattere relativo e non va enfatizzata. Un punto fermo è che l’unitarietà del procedimento si ha solo nel caso in cui nessuno degli atti endoprocedimentale è suscettibile di produrre effetti giuridici esterni. In caso contrario potrebbe essere più corretto ricorrere alla nozione di procedimenti autonomi ancorché collegati. In termini generali, si parla di procedimenti collegati (o connessi) in tutti i casi in cui una pluralità di procedimenti, da avviare in sequenza o in parallelo, sono funzionali a un risultato unitario. Un esempio di procedimenti collegati in sequenza è l’espropriazione per pubblica utilità, che si articola in una pluralità di procedimenti connessi sotto il profilo teleologico: la conclusione di quello antecedente con un provv autonomo è condizione per l’avvio di quello successivo in vista del risultato finale consistente nel trasferimento coattivo del diritto di proprietà da un sogg privato all’amm o a un altro sogg privato. Un esempio di procedimenti collegati avviati in parallelo è la realizzazione e la messa in opera di un impianto industriale che presuppone il rilascio di una molteplicità di atti autorizzativi previsti per garantire la conformità alle norme urbanistiche, di sicurezza, sanitarie, ecc. Il collegamento tra questo tipo di procedimenti non è sequenziale ma funzionale, nel senso che la conclusione positiva di ciascuno di essi è necessaria per l’avvio di una determinata attività o l’ottenimento di un certo risultato. Anche per i procedimenti, come per i provv, sono state elaborate varie classificazioni aventi per lo più valore descrittivo. Si possono distinguere, poi, i procedimenti di primo grado e i procedimenti di secondo grado . I primi sono finalizzati all’emanazione di provvedimenti amministrativi con effetti esterni e alla cura di un interesse pubblico (ad es. una licenza o un’autorizzazione); i secondi, invece, hanno per oggetto provvedimenti amministrativi già emanati e per scopo la verifica della loro legittimità e compatibilità con l’interesse pubblico (ad es. i procedimenti di autotutela e i ricorsi amministrativi). Un’altra distinzione è tra procedimenti finali e procedimenti strumentali. I primi hanno la funzione di curare interessi pubblici nei rapporti esterni con i soggetti privati; i secondi hanno una funzione prevalentemente organizzatoria e riguardano principalmente la gestione del personale e delle risorse finanziarie. Ancora, si possono distinguere procedimento in senso proprio e procedura interna all’amministrazione. Il primo si riferisce agli atti della sequenza procedimentale che trovano disciplina nella legge o in una fonte normativa in senso proprio (regolamenti); la seconda riguarda gli atti e gli adempimenti interni dell’amministrazione che sono previsti da regole di tipo organizzativo. 8. La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento La l. n. 241/1990 individua come strumento principale di coordinamento e di accelerazione la conferenza di servizi. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) Dal punto di vista descrittivo, la conferenza di servizi consiste in una o più riunioni dei rappresentanti degli uffici o delle amministrazioni di volta in volta interessate che sono chiamate a confrontarsi e a esprimere il proprio punto di vista, e nel caso di conferenza decisoria, anche a deliberare. Dunque con la conferenza di servizi viene meno la sequenza lineare degli atti endoprocedimentali attribuiti alla competenza di ciascuna amministrazione. La l. n. 241/1990 distingue tre tipi di conferenza di servizi: 1. la conferenza di servizi istruttoria è sempre facoltativa e ha la funzione di promuovere un esame contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti in un procedimento singolo o in più procedimenti amministrativi collegati riguardanti le stesse attività o risultati (conferenza di servizi interprocedimentale) (art. 14 comma 1). Nel caso di procedimento attribuito alla competenza di una sola amministrazione, la conferenza di servizi istruttoria serve a raccogliere in un unico contesto, e con il confronto di tutti gli uffici interni interessati, gli elementi istruttori utili che saranno posti poi alla base della decisione finale adottata dall’organo competente a emanare il provvedimento finale. Nel caso di conferenza di servizi interprocedimentale, la convocazione è operata dall’amministrazione che cura l’interesse pubblico prevalente. È poi da ritenere peraltro che le posizioni espresse in sede di conferenza non possano essere poi disattese, almeno di regola, in base a un principio di coerenza, in sede di emanazione dei singoli atti; 2. la conferenza di servizi decisoria sostituisce i singoli atti volitivi e valutativi delle amministrazioni competenti a emanare “intese, concerti, nullaosta o assensi comunque denominati”, che devono essere acquisiti per legge da parte dell’amministrazione procedente (art. 14, comma 2). La conferenza è convocata dall’amministrazione procedente, anche su richiesta del soggetto privato interessato, nei casi in cui la conferenza abbia per oggetto atti di tipo autorizzativo che condizionano l’avvio di una attività (comma 4). La conferenza di servizi si conclude con un verbale in cui sono riportate le posizioni espresse da ciascuna amministrazione partecipante. Sulla base del verbale l’amministrazione procedente assume una determinazione motivata di conclusione del procedimento che “sostituisce a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nullaosta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti” (art. 14-quater co. 1°). Sotto il profilo giuridico la conferenza di servizi non può essere qualificata come un organo collegiale competente a emanare una determinazione unitaria, ma ogni atto di assenso mantiene la propria autonomia quanto a imputazione all’amministrazione di riferimento. Di regola la conferenza si svolge in forma semplificata, cioè in modalità asincrona (art. 14-bis). In pratica l’amministrazione procedente acquisisce entro termini stabiliti (decorsi i quali opera il silenzio-assenso tra amministrazioni) le determinazioni motivate di competenza delle altre p.a. La conferenza si conclude con una determinazione motivata. Se gli atti di dissenso pervenuti non possono essere superati, la conferenza si chiude nei procedimenti a istanza di parte col rigetto della domanda. La modalità asincrona, introdotta dal d.lgs. 127/2016 con finalità acceleratorie, contraddice in parte la logica di questo istituto, il cui pregio principale è quello dell’esame congiunto e contestuale delle questioni. Nel caso di determinazioni di particolare complessità, la conferenza di servizi è convocata in forma simultanea e con modalità sincrona, cioè convocando una riunione cui sono invitate tutte le amministrazioni interessate. Gli aspetti più rilevanti della disciplina della conferenza decisoria, che deve concludersi entro 45 giorni dalla data della riunione, sono due: a) il primo riguarda la partecipazione obbligatoria di tutte le amministrazioni invitate i cui rappresentanti devono essere muniti dei poteri necessari per assumere determinazioni vincolanti. L’assenza alla conferenza dei servizi regolarmente convocata determina un effetto di silenzio-assenso (art. 14-ter comma 7) in relazione all’atto attribuito alla competenza dell’amministrazione non partecipante; b) il secondo riguarda il dissenso manifestato da una o più amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi: con la riforma del 2005 è venuto meno il principio dell’unanimità dei consensi e si è optato per la regola in base alla quale la determinazione finale motivata all’esito della conferenza di servizi adottata dall’amministrazione procedente è formulata sulla base delle “posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni partecipanti”: peraltro questa espressione va intesa in senso qualitativo, e non in quello quantitativo di voto a maggioranza dei partecipanti. Invece, in caso di approvazione unanime, la determinazione è immediatamente efficace (art. 14-quater comma 3). L’efficacia della determinazione finale è sospesa nel caso in cui i rappresentanti di amministrazioni che curano interessi pubblici ritenuti di Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) espropriato viene utilizzato. La retrocessione totale può avvenire nei casi in cui l’opera pubblica non sia stata realizzata nel termine di 10 anni dall’esecuzione del decreto di espropriazione o anche prima quando risulti l’impossibilità della sua esecuzione (art. 46). L’espropriato può richiedere la restituzione integrale del bene e il pagamento di una somma a titolo di indennità. La retrocessione parziale può essere richiesta per le parti del bene espropriato che non siano state utilizzate una volta realizzata l’opera pubblica (art. 47). Tuttavia il comune ha un diritto di prelazione sull’area inutilizzata che può essere acquisita al patrimonio indisponibile dell’ente territoriale (art. 48, comma 3). Infine bisogna menzionare l’istituto dell’acquisizione sanante (art. 42 bis), il quale consente all’amministrazione che ha occupato senza titolo un bene per scopi di pubblica utilità, che poi abbia visto annullati dal giudice amministrativo o che abbia annullato d’ufficio in pendenza di giudizio i provvedimenti emanati (ad es. la dichiarazione di pubblica utilità) di disporne l’acquisizione, non retroattiva, al suo patrimonio indisponibile. Il provvedimento deve prevedere un indennizzo corrispondente al valore venale del bene e un risarcimento del danno per il periodo di occupazione senza titolo. Il provvedimento di acquisizione richiede una motivazione puntuale. Una siffatta espressione del diritto di proprietà, che ha superato il vaglio di cost, deve costituire una sorta di extrema ratio. 10. b) Le sanzioni pecuniarie e disciplinari Tra i provvedimenti restrittivi della sfera giuridica dei destinatari si individuano anche i provvedimenti sanzionatori. Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni, al pari di quello espropriativo, è strutturato in modo da garantire il rispetto del principio del contraddittorio. Le principali tipologie di sanzioni sono quelle pecuniarie e quelle disciplinari. - Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni di tipo pecuniario è disciplinato dalla legge 689/1981 che distingue più fasi: 1. la fase di accertamento consiste in un’attività di raccolta e di prima valutazione di elementi di fatto suscettibili di integrare una fattispecie di illecito amministrativo. L’attività preprocedimentale consiste nell’assunzione di informazioni, rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, ispezioni di cose e luoghi e altre operazioni. Le attività poste in essere e i risultati confluiscono in un processo verbale redatto dall’agente accertatore e che fa piena prova fino a querela di falso in relazione agli elementi fattuali oggettivi; 2. se dalla prima fase emerge una violazione di norme amministrative, l’amministrazione procede alla contestazione dell’illecito al trasgressore. Ove possibile, la contestazione deve essere immediata e in ogni caso deve essere notificata entro 90 giorni dall’accertamento (art. 14). Questo termine ha natura perentoria in quanto il suo decorso determina l’estinzione dell’obbligazione del pagamento della somma dovuta. la contestazione deve indicare con sufficiente precisione gli elementi di fatto suscettibili di essere sussunti in una fattispecie sanzionatoria in modo tale che il contraddittorio risulti ben focalizzato. Entro 30 giorni dalla data della contestazione o notificazione della violazione, gli interessati possono presentare scritti difensivi e documenti, e possono chiedere anche di essere sentiti personalmente dall’autorità amministrativa (art. 18, comma 1). La garanzia del contraddittorio orale non è invece prevista in termini generali dalla ln 241/1990. Come già detto, entro 60 giorni dalla notificazione della contestazione, l’interessato può procedere all’oblazione, cioè al pagamento di una somma ridotta, che estingue l’obbligazione pecuniaria senza che si proceda ad un accertamento definitivo dell’illecito; 3. l’autorità procedente, ove ritenga che sia provata la violazione all’esito della valutazione degli elementi istruttori e dell’eventuale audizione orale, emana l’ordinanza-ingiunzione, cioè un provvedimento motivato che determina la somma della sanzione pecuniaria e ingiunge al trasgressore il pagamento della stessa, insieme alle spese, entro 30 giorni. In caso contrario l’autorità dispone l’archiviazione con ordinanza motivata comunicata all’organo che ha redatto il rapporto (art. 18). L’ordinanza-ingiunzione può anche irrogare sanzioni accessorie, come la confisca di cose il cui uso, porto, detenzione o alienazione costituisce violazione amministrativa (art. 20), o la sospensione di una licenza (art. 21, ultimo comma); 4. contro l’ordinanza-ingiunzione può essere proposta opposizione davanti al giudice ordinario entro 30 giorni dalla notificazione del provvedimento. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) La l. n. 689/1981 costituisce una legge generale in tema di sanzioni amministrative. Essa però subisce di frequente deroghe nelle discipline di settore: ad es. molte leggi amministrative modificano la durata dei termini, oppure non prevedono la garanzia del contraddittorio orale, ecc. Norme speciali relative ai procedimenti sanzionatori di competenza dell’autorità garante della concorrenza e del mercato e di altre autorità di regolazione prevedono che il procedimento sanzionatorio possa concludersi, anziché con l’accertamento dell’illecito e con l’irrogazione della sanzione, con l’approvazione di impegni proposti dall’impresa alla quale è stato contestato l’illecito volti a porre rimedio alle distorsioni concorrenziali. - Un’altra specie di sanzioni amministrative è costituita dalle sanzioni disciplinari previste prima di tutto per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ma anche per altri soggetti sottoposti a regimi speciali e poteri di vigilanza attribuiti ad apparati pubblici (ad es. i promotori finanziari vigilati dalla CONSOB o i professionisti iscritti ad albi o registri pubblici). Vengono anche qui previste ampie garanzie del contraddittorio. In particolare, il d.lgs. 165/2001 prevede che il dirigente dell’ufficio o, per le sanzioni più gravi, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari che vengano a conoscenza di comportamenti illeciti di un dipendente pubblico devono contestare per iscritto l’addebito “senza indugio e comunque non oltre venti giorni” (art. 55-bis, comma 2). Il dipendente è convocato con un preavviso di 10 giorni per esercitare il proprio diritto di difesa con l’eventuale assistenza di un procuratore o di un rappresentante di un’associazione sindacale (art. 55-bis, comma 2). Il dipendente può decidere di non presentarsi e può limitarsi a inviare una memoria scritta. L’amministrazione procede, se necessario, a un’ulteriore attività istruttoria, ad es. assumendo informazioni anche presso altre p.a. Il procedimento si conclude con l’archiviazione o con l’irrogazione della sanzione (rimprovero scritto, sospensione temporanea del servizio, licenziamento), entro 60 giorni dalla contestazione dell’addebito. Tali termini hanno carattere perentorio: il superamento determina la decadenza dall’azione disciplinare e per il dipendente dall’esercizio del diritto di difesa. Le sanzioni disciplinari possono essere impugnate dal dipendente dinanzi al giudice ordinario, previo esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione presso un collegio di conciliazione istituito presso la Direzione provinciale del lavoro o attraverso altre procedure eventualmente previste nei contratti collettivi nazionali. 11. c) Le autorizzazioni. Il permesso a costruire e la valutazione di impatto ambientale Consideriamo ora i procedimenti che si concludono con provvedimenti che producono effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, i quali trovano disciplina nella direttiva 2006/123/CE, oltre che ovviamente nella l. 241/1990. Un esempio di procedimento autorizzatorio disciplinato dal diritto interno è quello relativo al rilascio del permesso a costruire disciplinato dal Testo unico in materia edilizia (d.p.r. 380/2001). Il procedimento si apre con la presentazione allo sportello unico per l’edilizia del comune di una domanda sottoscritta, di regola, dal proprietario; essa deve essere corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali e da altra documentazione tecnica. Entro 10 giorni lo sportello unico comunica al richiedente il nominativo del responsabile del procedimento. Quest’ultimo cura l’istruttoria acquisendo i pareri interni degli uffici comunali, nonché altri pareri come quello dell’Azienda sanitaria locale e dei Vigili del fuoco; se sono richiesti altri atti di assenso a cura di amministrazioni diverse, il responsabile del procedimento convoca una conferenza dei servizi. All’esito dell’istruttoria, entro 60 giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento, valutata la conformità del progetto alla normativa applicabile (in primis agli strumenti di pianificazione urbanistica e al regolamento edilizio) formula una proposta al dirigente del servizio, che nei successivi 15 giorni rilascia il permesso a costruire. Della determinazione è dato avviso pubblico mediante affissione all’albo pretorio. Decorsi tali termini “si intende formato il silenzio-rifiuto” (art. 20, comma 9). L’interessato può a questo punto proporre un ricorso in sede giurisdizionale. In alternativa, può richiedere, con un’istanza formale che ha valore di diffida, che il dirigente si pronunci entro 15 giorni. Decorso inutilmente anche questo termine, l’interessato può richiedere alla regione di esercitare il potere sostitutivo con la nomina di un commissario ad acta che provvede nel termine di 60 giorni. Altro procedimento con effetti ampliativi è la c.d. VIA, cioè la valutazione di impatto ambientale. Esso deve essere avviato da chi intende realizzare progetti con impatto elevato sul territorio (artt. 19 ss. d.lgs. 152/2006). Il procedimento si apre con una prima istanza all’autorità competente a valutare uno studio Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) preliminare ambientale, che viene pubblicata sul sito web in modo tale che tutti gli interessati possano presentare osservazioni. Di tale pubblicazione devono essere informate tutte le p.a. e tutti gli enti territoriali potenzialmente interessati. All’esito di questa prima fase (di verifica preliminare o screening), l’autorità stabilisce con un provvedimento pubblicato sul sito web se il progetto debba essere o meno assoggettato alla VIA. A questo punto, il proponente presenta un’altra istanza corredata di tutta la documentazione necessaria della quale viene dato un avviso pubblicato anch’esso sul sito web. Prima di presentare l’istanza, il proponente ha la facoltà di richiedere un parere sulla completezza e sul livello di dettaglio dello studio di fattibilità da sottoporre alla valutazione di impatto ambientale (fase di scoping). Entro 60 giorni dalla presentazione dell’istanza, chiunque può prendere visione della documentazione e presentare osservazioni, e nei 30 giorni successivi il proponente può presentare le proprie controdeduzioni. L’autorità competente può indire una consultazione nella forma di inchiesta pubblica (art. 24-bis) e, valutati tutti gli apporti partecipativi, può richiedere al proponente modifiche e integrazioni progettuali. Entro 60 giorni dalla conclusione della fase di consultazione, nel caso di provvedimenti di competenza statale, l’autorità competente propone al Ministero dell’Ambiente l’adozione del provvedimento di VIA. Quest’ultimo deve essere analiticamente motivato e può prevedere misure e condizioni volte a mitigare e compensare gli impatti ambientali (art. 25). 12. d) I procedimenti concorsuali Le pubbliche amministrazioni sono spesso enti erogatori di danaro o di altre utilità che vengono messe a disposizione dei soggetti privati. Si pensi, ad es., all’assegnazione di alloggi di edilizia economica popolare, alla concessione di uso esclusivo di un bene demaniale, all’accesso agli impieghi pubblici, ecc. Evidentemente per l’amministrazione si pone il problema di come scegliere tra più aspiranti allo stesso bene o utilità. Alcune indicazioni si ricavano già dalla Costituzione: per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, e più in generale agli uffici pubblici, gli artt. 51, comma 1, e 97, comma 3, pongono il principio di eguaglianza e il principio di concorso pubblico. In altri termini, i procedimenti di tipo competitivo o concorsuale hanno la funzione specifica di selezionare gli aspiranti a una risorsa scarsa in base ad alcuni principi generali: il principio di pubblicità, che consente a tutti i potenziali interessati di aver notizia della procedura che sta per essere avviata; il principio di parità di trattamento, che ha lo scopo di mettere sullo stesso piano tutti gli aspiranti; il principio di trasparenza della procedura, che consente un controllo sulla corretta applicazione dei criteri di selezione; il principio di oggettività dei criteri, che mira a privilegiare, ove possibile, il ricorso a principi di riferimento che non lasciano spazi di discrezionalità. 13. e) L’accesso ai documenti amministrativi Il diritto di accesso ai documenti amministrativi è disciplinato, oltre che dalla l. n. 241/1990, dal regolamento attuativo approvato con d.p.r. 184/2006. Ex artt. 22 ss. l. 241/1990 la richiesta va rivolta a una pubblica amministrazione, e può riferirsi soltanto a documenti ben individuati e già formati, in quanto il diritto di accesso non è uno strumento di controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni e l’amministrazione non è tenuta ad elaborare i dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste. Il d.p.r. n. 184/2006 distingue poi due modalità di accesso: 1. l’accesso informale si può avere quando non vi sono soggetti controinteressati per i quali si ponga un problema di riservatezza. In questo caso la richiesta può anche essere verbale (art.5). Essa è esaminata immediatamente e senza formalità ed è accolta senza l’adozione di un particolare atto, ma semplicemente tramite l’esibizione del documento o l’estrazione di copia; 2. l’accesso formale è necessario nei casi in cui l’amministrazione riscontri l’esistenza di potenziali controinteressati, o quando sorgano dubbi sulla legittimazione del richiedente sotto il profilo dell’interesse o sulla accessibilità di un documento in base alle norme sull’esclusione e in altre ipotesi che richiedono una valutazione più approfondita (art. 6, comma 1). La richiesta qui deve essere presentata per iscritto e deve indicare gli estremi del documento o gli elementi che consentano di individuarlo. Inoltre essa deve essere motivata sotto il profilo dell’interesse diretto, concreto e attuale connesso all’oggetto della richiesta, che fa sorgere in capo al richiedente una situazione giuridica soggettiva individualizzata. Il procedimento prevede anche una fase di contraddittorio con i soggetti controinteressati: infatti l’amministrazione deve dare comunicazione a questi ultimi della richiesta presentata con l’assegnazione di un termine di 10 giorni per l’eventuale presentazione di un’opposizione motivata. L’accesso è gratuito e consiste nell’esame dei documenti presso l’ufficio con la presenza, se necessaria, di personale addetto. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) regolarità contabile e finanziaria della gestione e l’efficienza, l’efficacia e l’economicità. A livello centrale, in attuazione dell’art. 100, comma 2, Cost., la Corte dei conti svolge il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, cioè verifica la legittimità e la regolarità delle gestioni, accertando la conformità dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge e valuta comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell’attività amministrativa (art. 3, comma 4, l. n. 20/1994). La Corte verifica anche il funzionamento dei controlli interni a ciascuna amministrazione, cosi creando un legame tra controlli interni e controlli esterni. Più in particolare, tale controllo consiste nell’esame del rendiconto generale dello Stato presentato dal governo alla Corte dei conti entro il 31 maggio successivo a quello di chiusura dell’anno finanziario. Il rendiconto viene messo a raffronto con la legge di bilancio e, nel caso di accertata concordanza, viene emanato un “giudizio di parificazione” inviato, insieme ad una relazione, al parlamento entro il 30 giugno di ogni anno. A livello decentrato, la corte dei conti, tramite le sezioni regionali, esercita un controllo successivo sul rispetto da parte di regioni ed enti locali del d patto di stabilità e dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Ue. verifica anche la sana gestione finanziaria e il funzionamento dei controlli interni. I revisori degli enti locali, che costituiscono il principale organo di controllo interno, inviano alle sezioni regionali della corte una relazione sul bilancio di previsione e sul controllo consuntivo di ciascun ente, redatta secondo criteri e linee guida predisposte a livello nazionale dalla corte stessa. All’esito del controllo le sezioni regionali riferiscono agli organi rappresentativi dell’ente e vigilano sull’adozione da parte dell’ente locale delle misure correttive per assicurare il rispetto dei vincoli e degli obiettivi. 3. I controlli gestionali I controlli gestionali costituiscono la specie principale di controlli interni delle pubbliche amministrazioni. La disciplina generale è presente nel d.lgs. 286/1999 ed individua quattro tipi di controllo interno obbligatori per tutte le pubbliche amministrazioni statali e non statali: 1. il primo tipo è il controllo di regolarità amministrativa e contabile volto a “garantire la legittimità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa” (art. 1, comma 1, lett. a)). Questo controllo è affidato, a seconda del tipo di amministrazione, agli uffici di ragioneria (ministeri), agli organi di revisione (enti locali) o ai servizi ispettivi di finanza. Esso avviene sulla base di parametri costituiti dai principi generali della revisione aziendale asseverati dagli ordini e collegi professionali; 2. il secondo tipo è il controllo di gestione, volto a “verificare l’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche attraverso tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati” (art. 1., comma 1, lett. b)). Questo controllo viene effettuato da un organismo istituito a supporto dei dirigenti che possono utilizzare tale strumento per poi organizzare meglio la loro attività; 3. il terzo tipo di controllo ha per oggetto la valutazione della dirigenza pubblica (art. 1, comma 1, lett. c)). Esso è operato con periodicità annuale e consiste nella valutazione delle prestazioni dei dirigenti e delle competenze organizzative, anche sulla base dei risultati del controllo di gestione. Questo tipo di controllo ha anche la funzione di far valere la responsabilità di tipo dirigenziale, che costituisce una particolare forma di responsabilità (diversa da quella disciplinate) prevista specificamente per figure dirigenziali (ad es. essa può determinare il mancato rinnovo dell’incarico); 4. il quarto tipo di controllo consiste nella valutazione e controllo strategico, preordinati a “valutare l’adeguatezza delle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti” (art. 1, comma 1, lett. d)). Il controllo ha lo scopo di verificare l’effettiva attuazione delle scelte indicate in questo tipo di atti e si concretizza nell’analisi della congruenza o degli eventuali scostamenti tra le missioni affidate, le scelte operative effettuate, le risorse umane, finanziarie e materiali assegnate, identificando gli eventuali fattori ostativi, le responsabilità e i possibili rimedi (art. 6). I controlli interni introducono all’interno delle pa una visione aziendalistica della gestione dei poteri pubblici. Stentano però a prendere piede in concreto. CAPITOLO 7: LA RESPONSABILITÀ 1. Premessa Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) Da un punto di vista storico, la responsabilità dello Stato per comportamenti o atti illeciti dei suoi agenti costituisce l’esito di un’evoluzione il cui punto iniziale è il principio dell’immunità del sovrano. Con l’affermarsi dello Stato di diritto l’immunità della p.a. venne via via erosa. La resp dell’amministrazione e dei suoi funzionari richiede il bilanciamento tra esigenze in parte contrapposte: rifondere pianamente i privati dei danni subiti; scoraggiare comportamenti illeciti da parte dei dipendenti pubblici; evitare il rischio di un eccesso di deterrenza, atteso che e il timore della resp personale del dipendente può costituire un freno all’attività delle amm posta in essere per perseguire interessi pubblici compromettendone dunque l’efficacia. 2. L’art. 28 della Costituzione e gli sviluppi successivi La responsabilità della pubblica amministrazione in Italia si fonda sull’art. 28 Cost., che stabilisce che “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”. Il richiamo alle leggi civili rinvia alle norme codicistiche sulla responsabilità contrattuale, extracontrattuale e precontrattuale. A prima vista, sembra che la norma voglia porre in primo piano la responsabilità personale del dipendente e poi, solo in via subordinata (per esetnrione), la responsabilità dell'apparato. Più precisamente, quest’ultima pare avere carattere sussidiario e parallelo: sussidiario, perché il danneggiato deve proporre l’azione per danni in prima battuta nei confronti del dipendente pubblico e può agire contro l’amministrazione solo nei casi in cui quest’ultimo non abbia un patrimonio capiente; parallelo, perché può sorgere a condizione che sussista una responsabilità personale del dipendente. Invece l'interpretazione dominante è quella di ritenere che la responsabilità del dipendente e dell'amministrazione abbia natura solidale e non sia necessariamente parallela. In realtà, l’art 28 fu il frutto della riformulazione non felice di una disposizione concepita dai costituenti per rafforzare la tutela dei diritti di libertà sanciti dalla cost. la giuri ricondusse la portata della disposizione al modello di responsabilità, già affermatosi negli anni precedenti, che pone in primo piano la resp della pa che risponde immediatamente e direttamente per i fatti illeciti dei dipendenti. Già prima della cost, infatti, la resp degli apparati pubblici derivante da comportamenti illeciti veniva ricostruita come resp diretta che sorge in base al cd rapporto organico o di immedesimazione organica intercorrente tra l’agente e l’amm di appartenenza. A quest’ultima si imputa direttamente l’attività dell’agente, sia che essa si esprima in provv amm, sia che essa si esprima in comportamenti. Ciò perché, in base alla ricostruzione richiamata, da un punto di vista formale, non è il dipendente pubblico che opera, ma è l’ente di appartenenza. Pertanto, anche in caso di attività illecita posta in essere dal dipendente nell’ambito delle mansioni alle quali è adibito, la resp sorge esclusivamente in capo all’amm. quest’ultima peraltro può rivalersi in via di regresso sul dipendete. 3. La responsabilità civile da comportamento illecito Il modello di responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi agenti riferita a semplici comportamenti (cioè a condotte non ricollegabili all’esercizio di un potere e all’emanazione di un provvedimento) va analizzato tenendo distinti tre rapporti: il rapporto tra il danneggiato e il dipendente pubblico che ha posto in essere il comportamento illecito; il rapporto tra il danneggiato e la pubblica amministrazione in cui è incardinato il dipendente pubblico; il rapporto interno tra dipendente e amministrazione di appartenenza: 1. in primo luogo, la responsabilità del funzionario e dell’amministrazione per danni provocati a terzi è una responsabilità diretta di tipo solidale. Il danneggiato può scegliere liberamente se agire contro il dipendente, contro l’amministrazione o contro entrambi. Infatti l’art. 22 d.p.r. 3/1957 Testo unico sugli impiegati civili dello Stato) prevede da un lato che l’impiegato che cagioni ad altri un danno ingiusto “è personalmente obbligato a risarcirlo”; dall’altro che l’azione di risarcimento nei suoi confronti “può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’amministrazione”. Per prassi, tenuto conto che l’amm è un debitore patrimonialmente molto più capiente del dipendente, l’azione risarcitoria viene esperita solo nei confronti dell’amm; 2. in secondo luogo, l’area della responsabilità della pubblica amministrazione è più ampia di quella della responsabilità del dipendente. Infatti, la responsabilità personale di quest’ultimo per danni provocati nell’esercizio delle funzioni alle quali è preposto è limitata ai casi di dolo e colpa grave (art. 23 Testo unico). In caso di colpa lieve, l’azione risarcitoria può essere proposta solo nei confronti dell’amministrazione e Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) viene meno il principio del parallelismo. Non solo, perché va anche considerato che l’impossibilità pratica di identificare il dipendente pubblico che ha posto in essere il comportamento dannoso non esclude la responsabilità della p.a., purchè sia accertato che la condotta sia riferibile ad un dipendente di quella amministrazione: ciò finisce egualmente per spezzare il parallelismo delle responsabilità; 3. in terzo luogo, l’amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente può esercitare un’azione di regresso contro quest’ultimo secondo i principi della responsabilità amministrativa (art. 22 Testo unico). Occorre ora distinguere l’illecito causato da meri comportamenti degli agenti della pubblica amministrazione e l’illecito conseguente all’emanazione di provvedimenti amministrativi illegittimi. Rientrano nella prima categoria, ad es., i danni conseguenti a un incidente stradale che coinvolge un automezzo militare o quelli subiti da uno scolaro non sorvegliato adeguatamente dall’insegnante, ecc. Ebbene, ai sensi dell’art. 2043 c.c., per essere risarcibile, il danno deve essere riconducibile ad una condotta colposa o dolosa dell’agente; deve essere qualificato come ingiusto; deve sussistere un nesso di causalità tra condotta ed evento pregiudizievole. Per quanto riguarda la condotta, la responsabilità del dipendente e della p.a. può sorgere sia quando l’illecito consegua al compimento di atti o operazioni, sia quando l’illecito consista “nell’omissione o nel ritardo ingiustificato di atti o operazioni al cui compimento l’impiegato è obbligato per legge o per regolamento” (art. 23 comma 2 Testo unico). In questo secondo caso, inoltre, la proposizione dell’azione risarcitoria deve essere preceduta da un atto formale di diffida. Ancora, se la condotta consiste in atti o operazioni compiuti da un organo collegiale, i membri del collegio sono responsabili in solido: la responsabilità è esclusa solo per coloro che abbiano fatto verbalizzare il proprio dissenso (art. 24 Testo unico). Infine, la condotta illecita deve essere imputabile all’agente in base all’art. 2046 c.c., che esclude l’imputabilità in caso di incapacità di intendere e di volere al momento in cui la condotta è stata posta in essere. Inoltre deve essere riferibile all’amministrazione in base al rapporto di immedesimazione organica. Quest’ultimo può spezzarsi (c.d. frattura del rapporto organico) solo nei casi in cui il dipendente agisce per scopi personali ed egoistici al di fuori delle proprie incombenze. In altri termini, affinché sorga la responsabilità, occorre un nesso di “occasionalità necessaria” tra attività illecita e mansioni del dipendente, e a questo scopo occorre verificare se il comportamento colposo o anche doloso sia comunque riconducibile a un interesse dell’amministrazione o se l’esercizio delle mansioni abbia determinato una situazione tale da agevolare e rendere possibile il fatto illecito. In particolare, va stabilito se lo specifico comportamento dell’agente, pur costituendo un abuso volontario o addirittura un reato, si inserisca in un’attività complessiva comunque rivolta al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente (così, ad es., sussiste tale nesso nel caso di un militare che aggredisce un commilitone nella camerata di una caserma per rivalità personali). Analizzando il requisito della colpa bisogna soffermarsi sul rapporto tra colpa e discrezionalità. La giurisprudenza afferma il principio secondo cui il potere discrezionale dell’amministrazione incontra un limite non soltanto nelle disposizioni di legge e di regolamento che stabiliscono determinate modalità di comportamento, ma anche nelle comuni regole di diligenza e prudenza. In altri termini, l’amministrazione nell’operare le scelte discrezionali è tenuta al rispetto del principio generale del neminem laedere. Quanto al requisito dell’ingiustizia del danno prima della sentenza 500/1999 della Cassazione, si riteneva che potesse essere definito come ingiusto ai sensi dell’art. 2043 c.c. solo il danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo e non anche quello conseguente alla lesione di un interesse legittimo. Veniva così esclusa la risarcibilità dei danni causati da provvedimenti amministrativi illegittimi lesivi di IL, mentre era ammessa con riguardo a tutta l’area dei meri comportamenti degli agenti della pa. Peraltro, già prima del 1999, la giurisprudenza aveva esteso l’ambito della responsabilità della p.a. a fattispecie nelle quali emergeva un collegamento almeno indiretto con l’esercizio di poteri amministrativi che incidessero negativamente sulla sfera giuridica del destinatario correlati ad interessi legittimi oppositivi: l’esempio più significativo era quello dell’occupazione di un terreno operata dalla p.a. in esecuzione di un provvedimento di espropriazione illegittimo. Infatti il proprietario leso in un suo interesse legittimo poteva proporre un’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo. In caso di accoglimento del ricorso, con annullamento del provvedimento di esproprio, la retroattività dell’annullamento ripristinava e faceva riespandere il diritto soggettivo in capo al proprietario privato. Pertanto l’avvenuta occupazione del Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) La responsabilità amministrativa trova fondamento nel Testo unico degli impiegati civili dello Stato (art. 18 d.p.r. 3/1957), secondo il quale l’impiegato è tenuto a risarcire l’amministrazione e “i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio” (c.d. danno erariale diretto). Un caso particolare di responsabilità amministrativa è quello, già esaminato, dell’amministrazione condannata a risarcire il danno provocato a terzi da un proprio dipendente e che agisce in via di regresso nei confronti di quest’ultimo (c.d. danno erariale cosiddetto indiretto). Esempi di danno erariale sono: i danni arrecati ad attrezzature e macchinari dell’amministrazione, consulenze non necessarie affidate a professionisti esterni, ecc. Va detto che le condotte che possono dare origine a danno erariale sono atipiche, anche se il legislatore interviene sempre più spesso ad individuare alcuni comportamenti suscettibili di far sorgere la responsabilità amministrativa. Evidentemente la responsabilità amministrativa inerisce al rapporto interno tra dipendente pubblico e amministrazione di appartenenza. Essa ha una finalità essenzialmente risarcitoria, ma in alcune fattispecie particolari emerge anche una finalità sanzionatoria. Quanto al campo di applicazione, sotto il profilo soggettivo, questo tipo di responsabilità viene applicato ai funzionari, impiegati, agenti pubblici e amministratori delle amministrazioni pubbliche statali e non statali e di enti pubblici (aziende sanitarie locali, enti parastatali, ecc.). Nel corso del tempo la giurisprudenza ha ampliato il novero delle figure rientranti nella nozione di “agente pubblico” fino ad abbracciare anche gli amministratori di enti pubblici economici: oggi possono essere chiamati a rispondere anche soggetti esterni all’amministrazione legati ad essa da un “rapporto di servizio”, ad es., in materia di lavori pubblici finanziati con fondi erariali, il progettista, il direttore dei lavori e il collaudatore anche se si tratta di liberi professionisti non dipendenti di una p.a. Inoltre, la Corte dei conti era intervenuta ad estendere l’ambito di applicazione della responsabilità amministrativa anche agli amministratori e dirigenti delle s.p.a. in mano pubblica, sottoponendoli così a un doppio regime di responsabilità (quella del diritto societario ex artt. 2393 c.c. ss. e quella per danno erariale). La Corte di cassazione (sent. 26806/2009) ha posto limiti a tale estensione, affermando che in linea di principio le società pubbliche non rientrano nel perimetro della resp amministrativa. Tutt’al più, per le perdite derivanti dalla cattiva gestione societaria possono rispondere per danno erariale i responsabili dei ministeri e delle p.a. titolari delle azioni per aver svolto in modo poco diligente il loro ruolo di azionista). Solamente le società in-house e quelle che in virtù di numerose deroghe legislative all’assetto di diritto comune sono assimilabili a p.a. (ad es. la RAI) rientrano pienamente nel regime della responsabilità amministrativa. Giova osservare che la responsabilità ha natura personale: quando il fatto dannoso è causato da più persone, ciascuna risponde solo per la parte di sua competenza. Tuttavia, in caso di dolo o quando le persone coinvolte hanno conseguito un illecito arricchimento, la responsabilità è solidale. Infine, nelle deliberazioni degli organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso il voto favorevole. Sotto il profilo oggettivo, la responsabilità sorge in relazione “ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo e colpa grave” (art. 1, comma 1, l. n. 20/1994). L’esclusione della resp nel caso di colpa lieve evita di sovraccaricare i dipendenti pubblici del rischio di essere chiamati a rispondere di attività che comunque perseguono l’interesse pubblico. Se il danno deriva da un provvedimento, resta comunque ferma “l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali” (art. 1 comma 1 l. 20/2004). Ciò significa che se il provv è legittimo, la corte dei conti non può sostituire le proprie valutazioni in rodine alla opportunità e convenienza di una determinata scelta amm. In relazione al danno, è risarcibile non soltanto il danno provocato all’amministrazione in cui è incardinato il dipendente, ma anche il danno cagionato “ad amministrazioni o enti diversi da quelli di appartenenza” (art. 1, comma 4, l. n. 20/1994). Si parla in tal caso di c.d. danno obliquo, che può sorgere nel caso di un dipendente pubblico distaccato o comandato presso un’altra amministrazione, o nel caso di un componente di un consiglio di amministrazione di un ente pubblico nominato da un ministero o altro ente. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in 5 anni dalla data in cui il fatto si è verificato ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta. Ai fini della quantificazione del danno erariale, vanno valutati anzitutto il decremento patrimoniale o la mancata entrata da parte dell’amministrazione; al danno patrimoniale si aggiunge in alcuni casi il danno all’immagine dell’amministrazione (ad es. nel caso di percezione di tangenti da parte di amministratori per il compimento di atti in violazione dei doveri d’ufficio). Il danno va liquidato scomputando i “vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di provenienza o da altra amministrazione, o dalla comunità Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) amministrata (art. 1 comma 1-bis l. 20/1994). Una particolarità del regime della responsabilità amministrativa consiste nel c.d. potere riduttivo in base al quale la Corte dei conti “può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto (art. 52 comma 2 Testo unico delle leggi sulla Corte dei conti): questo potere consente di modulare la somma a carico delle finanze personali del dipendente rispetto all’enormità dei danni potenziali all’amministrazione. Sotto il profilo processuale, la responsabilità amministrativa viene accertata in un giudizio davanti alla Corte dei conti. CAPITOLO 8-L’ORGANIZZAZIONE Nozione, fonti normative e principi generali L'organizzazione può essere definita come una unità di persone, strutturata e gestita su base costitutiva al fine di perseguire scopi comuni che i singoli non sarebbero in grado di raggiungere individualmente. Ogni organizzazione ha una propria struttura gestionale che stabilisce funzioni e ruoli e attribuisce compiti e responsabilità ai singoli appartenenti. Ebbene, l'organizzazione delle pubbliche amministrazioni è disciplinata nel nostro ordinamento da una pluralità di fonti: 1. la Costituzione prevede i principi di imparzialità e buon andamento (art. 97), nonché il principio autonomistico (art 5); individua i livelli di governo chiarendo che la Repubblica è costituita da comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato (art. 114); prevede l’organizzazione secondo ministeri, demandando poi alla legge statale il compito di determinarne il numero, le attribuzioni e l’organizzazione e di disciplinare gli enti pubblici nazionali (artt. 95 co. 3° e 117 co. 2° lett. g) e f)); dedica il Titolo V all’organizzazione e ai poteri di regioni, province e comuni; stabilisce che nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari (art. 97 co. 2°); 2. in attuazione della Costituzione, le fonti legislative primarie disciplinano l'organizzazione dei ministeri (d.lgs. 300/1999 e 303/1999), della presidenza del Consiglio dei ministri, degli enti locali e di numerosi apparati ad enti pubblici; 3. le fonti sublegislative (regolamenti governativi, statuti, regolamenti di organizzazione, ecc) individuano le linee fondamentali di organizzazione degli uffici. Gli atti organizzativi in questione sono pubblicati secondo le modalità previste dai singoli ordinamenti; 4. A livello statale in particolare, l’organizzazione dei ministeri p disciplinata in parte dal d.lgs. n 300/1999 che elenca i ministeri, individua le strutture di primo livello; 5. A livello substatale, gli statuti e leggi regionali disciplinano l'organizzazione della regione e degli apparati regionali; 6. A livello di comuni e province, in attuazione delle disposizioni legislative statali, spetta allo statuto stabilire le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente specificando le attribuzioni degli organi. Dal complesso delle fonti si possono ricavare alcuni principi generali in materia di organizzazione: 1. il principio del buon andamento ha risvolti sia in tema di attività della p.a. sia di organizzazione. Questa seconda dimensione emerge in diverse disposizioni legislative, come ad es. il reclutamento del personale in base a concorso e secondo le esigenze effettive rappresentate nelle piante organiche, ecc.; 2. il principio di imparzialità, che guarda anch’esso sia all’organizzazione che all’attività, si esprime nelle regole volte a far sì che la politica non si ingerisca nell’amministrazione, e in particolare nel principio organizzativo della distinzione tra funzioni di indirizzo e di controllo proprie dei vertici politici delle amministrazioni e funzioni di gestione riservate ai dirigenti. Esso sta alla base dell’obbligo del responsabile del procedimento e dei titolari degli uffici dichiarare situazioni di conflitto di interessi e quindi di astenersi dall’esercizio dei propri poteri (art. 6-bis l. 241/1990); 3. quanto al principio di pubblicità e di trasparenza, va detto che la normativa anticorruzione (l. 190/2012 e d.lgs. 33/2013) ne sviluppa anche una dimensione organizzativa. Il decreto citato, infatti, impone alle p.a. di pubblicare sui propri siti e di aggiornare le informazioni e i dati concernenti la propria organizzazione, ad es. l’articolazione degli uffici, le competenze e le risorse a disposizione di ciascuno di essi. Tale dimensione organizzativa si esprime, poi, nella figura del Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) responsabile della trasparenza, di norma coincidente con il responsabile per la prevenzione della corruzione. Quest’organo deve vigilare sul rispetto degli obblighi di pubblicazione segnalando all’organo di indirizzo politico, all’organismo indipendente di valutazione e all’Autorità nazionale anticorruzione le inadempienze (art. 43 d.lgs. 33/2013). È stato introdotto, inoltre, il programma triennale per la trasparenza e l’integrità, che definisce le misure, i modi e le iniziative volti all’attuazione dei molteplici obblighi di pubblicazione introdotti (art. 10); 4. la Costituzione pone anche il principio autonomistico (art. 5) che ispira i rapporti tra Stato e enti territoriali. Esso supera la visione del centralismo amministrativo, in cui lo Stato è ritenuto superiore ad ogni altro apparato amministrativo. L'art. 114 rende chiaro che la Repubblica è composta, oltre che dallo Stato, dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni, definiti come “enti autonomi” (art. 114, comma 2). Questo principio ha effetti su diversi profili: autonomia statutaria, titolarità di funzioni proprie distribuite in base al principio di sussidiarietà verticale (art. 118), autonomia finanziaria di entrata e di spesa (art. 119), potestà legislativa e regolamentare (art. 117); 5. il principio autonomistico trova un bilanciamento nel principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo, dal quale derivano obblighi di consultazione e informazione reciprochi, dovere di coordinamento, ecc. Anche se non è esplicitato nella Costituzione, esso trova fondamento nella giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza 437/2000), che lo ha ricavato dall'art. 4, comma 3, TUE; 6. In seguito alle modifiche all’art. 97 Cost. introdotte nel 2012, le p.a. devono assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. Persone giuridiche, organi uffici Il codice civile all’art. 11 pone una disposizione sulle persone giuridiche pubbliche: stabilisce in termini generali che le province, i comuni e gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico. Dunque le persone giuridiche pubbliche hanno la medesima capacità giuridica delle persone giuridiche private, salvo il regime derogatorio che può derivare da norme speciali. La teoria dell'organizzazione si basa su tre concetti: persona giuridica, organo (e ufficio), persona fisica titolare dell'organo. Personalità giuridica. In termini giuridici, personalità significa attitudine riconosciuta dall'ordinamento a diventare soggetto a diritti, cioè titolare di diritti e doveri giuridici. La personalità giuridica viene riconosciuta sia alle persone fisiche sia alle persone giuridiche. Quindi la persona giuridica è un'organizzazione formale considerata dall'ordinamento giuridico come un soggetto di diritto separato dalle persone fisiche che ne fanno parte e dotato di una propria capacità giuridica. Le persone giuridiche private si distinguono in base alla struttura associativa, ove prevale l'elemento personale, o di fondazione, ove prevale l'elemento patrimoniale. Anche tra le persone giuridiche pubbliche alcune hanno struttura prevalentemente associativa (ad es. ordini professionali e federazioni sportive), altre natura essenzialmente patrimoniale (ad es. enti previdenziali). La costituzione della persona giuridica privata avviene su base negoziale, cioè con un atto costitutivo sotto forma di accordo associativo, oppure, nel caso di fondazioni, di atto unilaterale. L’attribuzione della personalità giuridica consegue al riconoscimento determinato dall’iscrizione nel registro delle persone giuridiche istituito presso le prefetture, una volta soddisfatte le condizioni stabilite dalla legge; nel caso delle s.p.a. la personalità giuridica si acquista automaticamente con l’iscrizione nel registro delle imprese (art. 2331 c.c.). L'istituzione di enti pubblici, invece, avviene direttamente per legge nel caso di enti a statuto singolare (cioè disciplinati da una legge ad hoc, ad es. l’ISTAT), oppure tramite delibere amministrative in caso di categorie di enti previste da una legge generale (ad es. università, camere di commercio, ecc.). Ai sensi dell’art. 4 l. 70/197, nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge. La legge istitutiva di un singolo ente o di categorie di enti ne individua le finalità, l’assetto organizzativo, i poteri, ecc. Organo Per poter instaurare rapporti esterni, le persone giuridiche si avvalgono di organi, che possono essere definiti come centri di imputazione giuridica (o di competenza): la persona fisica titolare dell'organo ha il potere di esprimere la volontà della persona giuridica imputando direttamente in capo a quest’ultima l'atto Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) genericamente “a tutte le amministrazioni pubbliche” (art. 29 co. 1° ultimo periodo). Inoltre la legge 241 si applica anche ai soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative (art. 1 co. 1-ter). Infine, ai fini dell’applicazione del diritto di accesso, la l. 241/1990 intende per p.a. tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dal diritto comunitario (art. 22 co. 1° lett. e)); 3. un terzo insieme di norme pubblicistiche riguarda i contratti per l'acquisto di beni, servizi e lavori. Esse sono contenute nel Codice dei contratti pubblici approvato con d.lgs. 50/2016; 4. un quarto insieme di regole speciali attiene al c.d. Patto di stabilità concordato in sede europea. Le pubbliche amministrazioni cui si applicano le norme sul controllo della spesa sono individuate dall’ISTAT sulla base delle norme classificatorie e definitorie del sistema statistico nazionale e comunitario stabilite a livello europeo dal regolamento del Consiglio europeo 2223/1996. I criteri principali per individuare le amministrazioni pubbliche e per distinguerle dal settore delle imprese sono i seguenti: deve trattarsi di enti che producono beni e servizi che non siano destinati alla vendita sul libero mercato; i beni e i servizi devono essere invece messi a disposizione della collettività gratuitamente (o sulla base di prezzi economicamente non significativi); l'attività dell'ente deve essere finanziata soprattutto dalle finanze pubbliche. L'elenco dell'ISTAT, in base a questi criteri, viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale, e i ricorsi contro l’inserimento in tale elenco sono devoluti alla giurisdizione della Corte dei conti. In definitiva, volendo sintetizzare i caratteri delle p.a., può dirsi che esse si caratterizzano, in negativo, perché si collocano al di fuori del mercato, nel senso che esse non producono beni e servizi resi sulla base di prezzi che consentano di realizzare utili; in positivo, perché esse producono beni pubblici materiali o immateriali, cioè quelli che il mercato non è in grado di garantire in modo adeguato (ordine pubblico, sicurezza, difesa, ecc.) con scopi anche redistributivi. Il finanziamento di questa attività è posto in prevalenza a carico della collettività attraverso la tassazione. Queste attività possono consistere, a seconda delle funzioni attribuite alla singola amministrazione, sia nell'emanazione di atti o provvedimenti amministrativi, sia in attività materiali (ad es. prestazioni sanitarie, istruzione scolastica, ecc.), sia in erogazione di denaro (ad es. trattamenti pensionistici, contributi finanziari alle imprese, ecc.). Concluso l’inquadramento generale delle p.a., è possibile ora dar conto delle principali tipologie di enti e apparati. Lo Stato Fin dalla riforma di Cavour del 1853, la struttura amministrativa principale dello Stato è costituita dai ministeri. Inizialmente il modello di ministero era caratterizzato al vertice dal ministro, punto di raccordo tra PA e politica, e si connotava per la sua unitarietà, secondo il principio gerarchico. Nel corso degli anni, il numero dei ministeri è aumentato e molte delle loro funzioni sono state trasferite alle regioni e agli enti locali. Inoltre, il principio gerarchico è stato sostituito dal principio di distinzione tra politica e amministrazione, in base al quale i dirigenti sono titolari di competenze proprie, mentre ai ministri spettano solo funzioni di indirizzo e di controllo. Oggi, in base all'art. 95, comma 4, Cost. spetta alla legge determinare il numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei ministeri. La disciplina generale dei ministeri è contenuta nel d.lgs. 300/1999, che contiene l'elenco completo dei ministeri (art. 2), pone una disciplina generale della loro organizzazione centrale e periferica (incluse le agenzie), specifica le attribuzioni e le principali aree funzionali dei singoli ministeri. Ogni ministero è disciplinato poi da un regolamento governativo (art. 17, comma 4-bis, l.n. 400/1988) che ne specifica l'organizzazione, prevede la dotazione organica, individua gli uffici di livello dirigenziale generale. Accanto ai ministeri indicati dal d.lgs. 300/1999, possono essere preposti a singoli uffici o dipartimenti della Presidenza del Consiglio dei ministri, i c.d. ministri senza portafoglio che non sono a capo di un dicastero ma esercitano solo funzioni delegate dal Presidente del Consiglio dei ministri (ad es. il dipartimento per le pari opportunità). L'organizzazione dei ministeri è di due tipi, a seconda che siano formati da dipartimenti o da direzioni generali (art. 3 d.lgs. 300/1999). Il modello dipartimentale è previsto per i ministeri preposti a una pluralità di ambiti di intervento (ad es. il Ministero dell’economia), mentre quello per direzioni generali riguarda ministeri con competenze più omogenee e circoscritte. I dipartimenti assicurano l'esercizio organico e integrato di funzioni e “compiti finali riguardanti grandi aree di materie omogenee” (art. 5 d.lgs. n. 300/1999). Ad essi è preposto un capo di dipartimento che, in attuazione degli indirizzi del ministro, coordina gli uffici di livello dirigenziale generale compresi nel singolo dipartimento. L'incarico di capo dipartimento ha connotazione marcatamente fiduciaria ed è conferito con un procedimento che coinvolge i Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) vertici istituzionali dell'ordinamento (decreto del Presidente della Repubblica, dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente, art. 19, comma 3, d.lgs. n. 165/2001). I ministeri strutturati in direzioni generali possono prevedere come figura di coordinamento un segretario generale (art. 6), nominato con le stesse modalità dei capi di dipartimento, che funge da raccordo tra ministro e i dirigenti preposti alle direzioni generali. In tutti i ministeri sono istituiti uffici di diretta collaborazione con il ministro (gabinetto, segreteria tecnica, ufficio legislativo). Alcuni compiti dei ministri possono essere delegati ai sottosegretari di Stato. In aggiunta a quelle centrali, fanno parte dell'organizzazione di alcuni ministeri anche strutture periferiche, di regola a livello provinciale, che realizzano il c.d. decentramento burocratico (ad es. i provveditorati agli studi). La principale struttura periferica è però la Prefettura - Ufficio territoriale del governo, che ha il compito di assicurare l’esercizio coordinato dell’attività amministrativa degli uffici periferici dello Stato e la leale collaborazione con gli enti locali. A livello regionale, il raccordo con lo Stato è assicurato dal commissario del governo, con sede in ciascun capoluogo regionale, che dipende funzionalmente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Dal punto di vista descrittivo, si distinguono i ministeri: 1. con funzioni di ordine (Interno, Difesa, Giustizia, Esteri); 2. con funzioni economiche e finanziarie (Sviluppo economico, Politiche agricole, alimentari e forestali); 3. con funzioni di servizio sociale e culturale (Salute, Istruzione, Università e Ricerca scientifica); 4. con funzioni che riguardano le infrastrutture e i servizi collettivi (Infrastrutture e Trasporti). Rispetto allo Stato, dotato di personalità giuridica, i singoli ministeri possono essere definiti come organi, sebbene sia ad essi riconosciuta, per consuetudine, una legittimazione sostanziale e processuale autonoma, che assimila il loro regime a quello degli enti in senso proprio. Inoltre ogni ministero ha una propria pianta organica, è titolare di fondi propri nell'ambito del bilancio dello Stato, ha un'autonomia di spesa, è assegnatario di beni mobili e immobili. Fanno parte dell'organizzazione dei ministeri le agenzie, definite dal d.lgs. n. 300/1999 come strutture preposte allo svolgimento di attività di carattere tecnico-operativo di interesse nazionale (art. 8). Esse godono di autonomia operativa, ma sono sottoposte ai poteri di indirizzo e di vigilanza di un ministro. Hanno un organico e un bilancio propri. Sono disciplinate da uno statuto approvato con regolamento governativo che definisce le attribuzioni del direttore generale e i poteri di vigilanza del ministro. Una specie particolare di agenzia è costituita dalle agenzie fiscali (artt. 10 e 61 ss.), cioè l'Agenzia delle entrate, che riscuote i tributi, l'Agenzia delle dogane, che riscuote i diritti doganali e altre imposte, l'Agenzia del territorio, che si occupa dei servizi relativi al catasto, e l'Agenzia del demanio, preposta alla gestione e valorizzazione dei beni del demanio e del patrimonio dello Stato. A differenza delle altre, infatti, le agenzie fiscali hanno personalità giuridica di diritto pubblico autonoma. Alcuni ministeri hanno istituito al proprio interno, a partire dal secolo scorso, strutture, definite come aziende, che hanno un'autonomia operativa e che svolgono l'esercizio di attività di erogazione di servizi pubblici (ad es. l’Azienda autonoma delle ferrovie dello stato). Le aziende in questione venivano qualificate come aziende-organo poiché erano prive di personalità giuridica piena. Quasi tutte queste aziende furono successivamente trasformate dapprima in enti pubblici economici e poi in s.p.a. Un cenno va fatto alla presidenza del Consiglio dei ministri, disciplinata dal d.lgs. n. 303/1999, che può essere assimilata solo in parte alle strutture ministeriali in quanto dotata di autonomia e flessibilità organizzative più accentuate. Essa è composta da una serie di dipartimenti (ad es. il dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi) e uffici posti alle dipendenze di un segretario generale che ha il compito di gestire le risorse umane e strumentali (art. 7 d.lgs. n. 303/1999). Le strutture della presidenza si occupano, in particolare, dei rapporti con il Parlamento, con gli organi costituzionali, con le istituzioni europee e con il sistema delle autonomie, il coordinamento dell'attività amministrativa del governo, la promozione delle pari opportunità (art. 2 d.lgs. n. 303/1999). Presso la presidenza operano anche la Conferenza Stato-regioni e la Conferenza Stato, città e autonomie locali, che talora si riuniscono come Conferenza unificata, presiedute dal Presidente del Consiglio dei ministri (o da un ministro delegato). Esse hanno ruoli prevalentemente di coordinamento e consultivi, ma talora adottano atti vincolanti (in particolare le intese tra lo Stato e le regioni previste da numerose leggi amministrative). Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) Alla presidenza del Consiglio dei ministri afferisce l'avvocatura dello Stato. Si tratta di un organo ausiliario di livello non costituzionale che ha due funzioni: di consulenza generale, in alcuni casi obbligatoria (ad es. in relazione alle transazioni); di rappresentanza legale in giudizio delle amministrazioni statali. Essa è articolata nell'avvocatura generale, situata a Roma, e nelle avvocature distrettuali, situate nei capoluoghi regionali dove hanno sede le Corti d’appello. Gli enti territoriali: i comuni, le province, le regioni. Secondo l’art. 114 Cost. la Repubblica è costituita, oltre che dallo Stato, dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane e dalle regioni, definiti come enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni. Inoltre la Costituzione individua gli organi fondamentali delle regioni (consiglio regionale, giunta, presidente), definendone le funzioni principali (art. 121). I principi fondamentali per l’assegnazione delle funzioni tra i vari livelli di governo sono la sussidiarietà (verticale), la differenziazione e l’adeguatezza (art. 118 Cost.). Infine è garantita autonomia finanziaria di entrata e di spesa, inclusa l’applicazione di tributi propri (art. 119). L’assetto ordinamentale dei rapporti tra Stato, regioni ed enti locali non segue un modello a cascata, ma triangolare, visto che anche i comuni intrattengono rapporti istituzionali diretti con lo Stato, senza l’intervento delle regioni. Dal punto di vista del diritto amministrativo, gli enti locali e le regioni costituiscono una particolare categoria di enti pubblici. In primo luogo, si tratta di enti necessari , nel senso che essi sono istituiti obbligatoriamente in tutto il territorio nazionale. In secondo luogo, sono enti ad appartenenza necessaria, perché ogni cittadino, in base al criterio della residenza, trova un riferimento stabile in ognuno di essi (ad es. per l’esercizio del voto). In terzo luogo, sono enti a competenza generale , perché possono curare gli interessi della popolazione di riferimento con una certa libertà, in base agli indirizzi politici espressi dal corpo elettorale locale e agli indirizzi politico-amministrativi dell’organo consiliare. In quarto luogo, si tratta di enti integralmente inseriti nell’ordinamento amministrativo poiché tutti i loro atti normativi (regolamenti) e non normativi sono sempre e necessariamente atti formalmente amministrativi. La sola eccezione è costituita dalle leggi regionali, nelle materie e nei limiti definiti dall’art.117 Cost., per le quali vige il regime proprio degli atti legislativi. Gli enti locali sono disciplinati innanzitutto dal Testo unico approvato con d.lgs. n. 267/2000. Volendo cominciare dal comune, esso viene definito dal Testo unico come l’ente locale che rappresenta la comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo (art. 2 del Testo unico d.lgs. n. 267/2000). Il carattere di ente a finalità generali discende dal principio secondo il quale spettano al comune “tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico” (art. 13). Le funzioni dei comuni (così come quelle delle province) vengono conferite nelle varie materie con legge statale o con legge regionale (art. 3, comma 5, d.lgs. n. 167/2000). Una peculiarità è che i comuni esercitano anche alcune funzioni propriamente statali (ad es. anagrafe, stato civile, ecc.) (artt. 14 e 54). In relazione ad esse al sindaco viene attribuita la qualifica di ufficiale di governo. Le funzioni fondamentali dei comuni ai sensi dell’art. 117 co. 2° lett. p) Cost. sono ora elencate nella l. 135/2012 (ad es. polizia municipale, pianificazione urbanistica, ecc.). L’autonomia dei comuni si manifesta prima di tutto tramite il potere statutario. Lo statuto, approvato dal consiglio comunale a maggioranza qualificata, stabilisce le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e in particolare specifica le attribuzioni degli organi, le forme di collaborazione tra comuni e province, la partecipazione popolare, l’accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi (art. 6, comma 2, Testo unico). In aggiunta al contenuto vincolato (ciò che per legge deve essere necessariamente incluso, come ad es. le forme di partecipazione popolare), lo statuto può avere un contenuto facoltativo e un contenuto eventuale. In aggiunta alla potestà statutaria, ai comuni è riconosciuta anche un’autonomia regolamentare nelle materie di propria competenza e in particolare per ciò che riguarda l’organizzazione e il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzioni. Sotto il profilo organizzativo, gli organi di governo del comune sono il consiglio, la giunta e il sindaco (art. 36 d.lgs. n. 267/2000). Il consiglio comunale è composto da un numero variabile di consiglieri (in funzione del numero di abitanti del comune) eletti con un sistema proporzionale (nei comuni maggiori). Il sindaco è eletto direttamente dal corpo elettorale (nei comuni più grandi con un sistema a doppio turno con eventuale ballottaggio tra i due candidati maggiormente votati) per non più di due mandati quinquennali (art. 51 testo unico). È titolare della maggior parte dei poteri comunali: egli infatti è organo responsabile Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) Un’altra distinzione è tra enti di tipo associativo e non associativo . I primi sono enti esponenziali di categorie o gruppi (ad es. gli ordini e collegi professionali, le camere di commercio, ecc.). Molti di essi sono caratterizzati per la presenza di organi di tipo rappresentativo. Gli enti non associativi, invece, hanno natura patrimoniale e sono gestiti generalmente da un consiglio di amministrazione con componenti nominati, a seconda dei casi, da ministeri ed enti di riferimento individuati dalla legge o dallo statuto. Un’ulteriore distinzione è tra enti pubblici non economici ed economici. In termini generali gli enti pubblici non economici si distinguono prima di tutto per essere istituiti per realizzare uno scopo specifico e in questo si differenziano dagli enti territoriali, che invece hanno una vocazione generale. Inoltre, sono sottoposti a poteri di vigilanza e di indirizzo più o meno penetranti da parte dei ministeri o delle regioni. Proprio per sottolineare questo rapporto di dipendenza, nei casi in cui sia particolarmente accentuato si parla di “enti strumentali”. Ancora, le risorse finanziarie di cui dispongono provengono in modo diretto o indiretto da fonti erariali e quindi, a differenza di molti enti pubblici economici, non operano nel mercato. Infine esercitano la propria attività con moduli prevalentemente autoritativi, ossia con atti amministrativi. Dall’altro lato, gli enti pubblici economici hanno come particolarità che, mentre la loro organizzazione segue moduli pubblicistici, la loro attività segue il diritto privato (mediante atti negoziali). Inoltre, ai dipendenti di questi enti non viene applicata la disciplina generale dei dipendenti pubblici. Tuttavia, siccome la loro istituzione si giustifica comunque per il perseguimento di finalità pubblicistiche, anch’essi sono sottoposti a poteri di indirizzo e di controllo da parte dei ministeri e di altri soggetti pubblici. La disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti, escide dal campo di applicazione gli enti pubblici non economici, oltre che lo stato e gli enti territoriali. In passato, anni 60 e 70, nell’epoca di maggior espansione dello stato imprenditore, questa categoria era molto ampia. In seguito al processo di liberalizzazione e di privatizzazione, molti enti pubblici economici sono stati soppressi o trasformati in società per azioni. Invece, per scelta legislativa, alcuni enti pubblici non economici (ad es. la Croce rossa italiana) sono stati trasformati in enti non profit di natura privata (fondazioni). Un’ultima distinzione da fare è tra enti pubblici e enti privati. In proposito si è dubitato dell’utilità non solo di ricostruire una nozione unitaria di ente pubblico, ma anche di individuare i tratti distintivi dell’ente pubblico rispetto all’ente privato. Può dirsi che gli enti si prestano ad essere collocati lungo una linea ideale che ha ad un estremo le p.a. per eccellenza (Stato ed enti territoriali), nella parte mediana gli enti pubblici non economici e gli enti pubblici economici, infine all’altro estremo gli enti pubblici economici disciplinati quasi esclusivamente dal diritto comune. Ovviamente gli aspetti pubblicistici vanno via via scemando avvicinandosi al secondo estremo. Ebbene, la distinzione in esame ha acquisito nuova rilevanza in base a una tendenza giurisprudenziale recente che tende a qualificare come enti pubblici anche alcune società per azioni a partecipazione pubblica, soprattutto con lo scopo di stabilire se gli atti da essa emanati ricadano nella giurisdizione del giudice amministrativo. Questo è accaduto per società che svolgono attività di rilevante interesse pubblico, istituite e disciplinate da leggi speciali. Esse, infatti, prevedono deroghe così marcate rispetto al regime delle società di diritto comune e sono legate alle strutture ministeriali da rapporti di dipendenza così stretti che sono in qualche modo attratte nell’orbita pubblicistica, nonostante la veste formale privatistica (ad es. Poste italiane s.p.a., Gestore dei servizi elettrici, ecc.). Sono stati perciò elaborati diversi indici di pubblicità per dirimere la questione, ad es.: l’istituzione per legge, il fine pubblico, il rapporto di strumentalità con lo Stato o un ente territoriale, il finanziamento a carico dell'erario e il carattere necessario dell'ente. Le autorità indipendenti Le autorità amministrative indipendenti sono una tipologia recente di enti pubblici che si è diffusa soprattutto a partire dagli anni ’90, con l’affermarsi dello Stato regolatore. Esse si distinguono, rispetto alle amministrazioni di tipo tradizionale, oltre che per un elevato tasso di tecnicità e di professionalità, per un marcato grado di indipendenza dal potere esecutivo. Una prima ragione di tale indipendenza è da rinvenirsi nella teoria dei c.d. poteri neutri, concepiti come elementi moderatori all’interno dei sistemi politici, senza necessità di collegamento col circuito politico rappresentativo (si pensi, ad es., al prototipo delle autorità indipendenti, cioè alle banche centrali). La tesi quindi è quella che non tutti gli apparati pubblici devono mantenere un collegamento stretto con il circuito politico rappresentativo che risente spesso di logiche di breve periodo legate ai cicli elettorali. Isolare la regolazione di settore dalle influenze della politica e dalla pressione degli interessi privati assicura inoltre maggior stabilità e coerenza alle regole che disciplinano i Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) singoli mercati. Una seconda ragione è da individuarsi nell’esigenza di predisporre garanzie rafforzate per taluni valori costituzionali nei c.d. settori sensibili (ad es. privacy, diritto di sciopero, ecc.). In terzo luogo, l’indipendenza trova fondamento nella necessità di prevenire conflitti di interesse tra Stato regolatore (che deve fungere da arbitro neutrale tra le imprese concorrenti) e Stato imprenditore (proprietario di imprese pubbliche, che ha invece interesse a favorire il loro sviluppo anche a discapito di quelle concorrenti). Quanto agli strumenti istituzionali che garantiscono una siffatta indipendenza va detto: 1. innanzitutto, che le autorità indipendenti intrattengono un legame istituzionale privilegiato con il parlamento piuttosto che con il governo. A quest’ultimo è invece precluso ogni potere di direttiva e di indirizzo. La nomina dei componenti dell’organo collegiale delle autorità è attribuita infatti non al governo, ma ai presidenti dei due rami del parlamento, o comunque prevede un parere vincolante adottato a maggioranza qualificata dalle commissioni parlamentari competenti. Le autorità svolgono un ruolo attivo di consulenza nei confronti del parlamento (ma anche del governo) attraverso il potere di segnalazione e di proposta con lo scopo di sollecitare gli interventi legislativi ritenuti necessari nelle materie di competenza (cd. advocacy). Infine le autorità inviano al parlamento una relazione annuale. 2. Un secondo presidio deriva dalla disciplina degli organi. I componenti (3 o 5) sono scelti in base a requisiti rigorosi di professionalità, competenza e indipendenza. La durata in carica dell’organo è particolarmente lunga (in genere 7 anni) e ciò garantisce un disallineamento rispetto al ciclo elettorale (5 anni). A ciò si aggiunga che i componenti dell’organo non possono essere confermati per un secondo mandato e ciò li rende meno influenzabili. Infine, per i componenti di alcune autorità scattano incompatibilità successive, sotto forma di divieto di assumere incarichi da parte delle imprese regolate per un certo numero di anni dalla fine del mandato. 3. Un altro presidio è dato dall’ampia autonomia, organizzativa, funzionale e finanziaria delle autorità. Le leggi istitutive prevedono che esse operino “in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione”. Inoltre esse possono modellare liberamente le proprie strutture interne con regolamenti di organizzazione e dotarsi del personale di cui necessitano, entro i limiti numerici della pianta organica stabilita dalle leggi, sulla base di concorsi gestiti autonomamente. 4. Ultimo presidio è l’inserimento in un circuito di autorità nazionali che fa capo a un regolatore europeo previsto nei Trattati e nel diritto derivato. Passando ad analizzare il regime delle autorità indipendenti, può dirsi che esse derogano, entro certi limiti, al principio della separazione dei poteri: infatti esse riuniscono poteri di regolazione, poteri amministrativi esercitabili in applicazione delle regole da esse stesse poste e poteri di risoluzione in via stragiudiziale di controversie. Più in particolare, le autorità sono dotate di poteri amministrativi (prescrittivi, autorizzatori, sanzionatori) che presuppongono valutazioni tecniche effettuate in base a parametri elastici (ad es. la “sana e prudente gestione” per le autorità istituite nei settori finanziari). Infine, alle autorità indipendenti sono affidati sempre più spesso compiti giudiziali. I consumatori o gli utenti possono infatti proporre reclami e attivare altre forme di risoluzione delle controversie alternative alla giurisdizione nei confronti delle imprese regolate. Un secondo tratto distintivo è che essere esercitano i loro ampi poteri in forme paragiurisdizionali a difesa dei consumatori o utenti nei rapporti con le imprese regolate, sotto forma di reclami, ricorsi e altre forme di risoluzione delle controversie alternative alla giurisdizione (ADR). In tale sede, le leggi prevedono garanzie del contraddittorio rafforzate (cioè ulteriori rispetto alla soglia minima posta dalla l. 241/1990). Le autorità indipendenti possono essere raggruppate in tre tipologie principali: 1. le autorità di tipo generalista esercitano i loro poteri nei confronti di tutte le imprese o di altri soggetti pubblici o privati. Le principali sono l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e il Garante per la protezione dei dati personali; 2. per quanto riguarda le autorità di settore addette alla vigilanza sulle imprese operanti su mercati concorrenziali, si possono menzionare le autorità addette alla vigilanza e alla regolazione dei mercati finanziari (Banca d’Italia, CONSOB, IVASS). Esse trovano una disciplina nella c.d. legge sul risparmio (l. n. 262/2005). Inoltre esse operano in modo integrato all’interno del Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF), istituito nel 2010; 3. le autorità addette alla regolazione dei servizi pubblici istituite in seguito ai processi di liberalizzazione. Document shared on www.docsity.com Downloaded by: manuu9 ([email protected]) Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) → L'Autorità ha i seguenti compiti:  applicazione della disciplina della concorrenza (intese restrittive, abuso di posizione dominate, controllo sulle operazioni di concentrazione delle imprese).;  accertamento e repressione delle violazioni della concorrenza (provvedimenti inibitori, ordinatori e sanzionatori) → poteri esercitati di propria iniziativa o su denuncia dei soggetti interessati;  regolazione ex post, in quanto gli interventi dell’Autorità sono in gran parte riferiti a comportamenti già posti in essere dalle imprese, a differenza delle autorità di settore alle quali la legge affida strumenti di regolazione ex ante;  segnalazione al parlamento e al governo di distorsioni della concorrenza causate da leggi, regolamenti o atti amministrativi (potere di advocacy) e di emanazione di pareri sulle misure necessarie per rimuoverle o prevenirle;  potere di impugnazione innanzi al giudice amministrativo di tutti i provvedimenti generali e individuali assunti in violazione delle norme a tutela della concorrenza. Nel corso degli anni il legislatore ha ampliato i poteri dell’AGCM e in primo luogo le sono state attribuite funzioni di tutela dei consumatori in relazione alle pratiche commerciali scorrette con potere di inibire, sospendere e sanzionare tali pratiche. In secondo luogo le sono stati attribuiti poteri di verifica relativi ai titolari di cariche di governo. Ha inoltre poteri di tipo cautelare; facoltà di concludere i procedimenti volti ad accertare illeciti della concorrenza anziché con una sanzione, con impegni assunti dall’impresa inquisita volti a ripristinare e a garantire per il futuro, condizioni di mercato concorrenziale. Garante per la protezione dei dati personali → preposto all'applicazione del Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. 196/2003, modificato con d.lgs. 101/2018). Opera in stretto coordinamento con il Comitato europeo per la protezione dei dati istituzionali, nuovo organismo dell’UE composto da un rappresentante di vertice di ciascuna autorità nazionale, e con le altre nazionali: 1. poteri di tipo normativo → emana linee guida che indicano le misure organizzative e tecniche di attuazione dei principi della normativa europea; promuove la sottoscrizione di codici di deontologia; verifica la conformità dei codici alle norme vigenti; 2. poteri di tipo amministrativo, ad es. il potere di ordinare la rettifica, la cancellazione di dati personali o la limitazione del trattamento dei dati; 3. poteri di indagine per cui può ad esempio ordinare al titolare del trattamento e al responsabile del trattamento di fornire ogni informazione e documento necessari per lo svolgimento dei suoi compiti; 4. il garante ha anche compiti di consulenza alle istituzioni e di promozione della consapevolezza e della comprensione nel pubblico in materia di privacy. 5. poteri di tipo paragiurisdizionale → gestisce un sistema di reclami proposti da chi si ritiene leso in un proprio diritto, sistema che si pone in alternativa all’azione innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria. Contro la decisione sul reclamo è esperibile un’azione innanzi a quest’ultima; 6. è legittimato ad agire in giudizio nei confronti del titolare o del responsabile del trattamento in caso di violazione della normativa in materia. L’esigenza di istituire autorità come IVASS o Banca di Italia discende dalla presenza di alcuni “fallimenti del mercato”. Il rapporto tra i risparmiatori e le imprese che offrono varie forme di investimento è affetto da asimmetrie informative per cui i primi spesso non sono in grado di valutare il rischi delle operazioni proposte. Banca d'Italia → svolge varie funzioni: 1. funzione monetaria → fa parte del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC), composto dalle banche centrali nazionali e dalla BCE; 2. funzione di vigilanza sulle banche e sugli istituti di credito (disciplinata nel d.lgs. 385/1993); 3. è dotata di poteri normativi (ad es. in materia di adeguatezza del patrimonio delle banche), amministrativi (ad es. l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria), ispettivi, prescrittivi (ad es. il divieto di distribuire utili) e sanzionatori. CONSOB → istituita con la l. 216/1974, svolge funzioni di vigilanza, regolazione e controllo sulla trasparenza e correttezza dei comportamenti degli intermediari, sui mercati e sui prodotti finanziari: 1. è titolare di poteri normativi e amministrativi (autorizzatori, prescrittivi, sanzionatori, ispettivi, ecc.) molto estesi;