Scarica Manuale di letteratura latina di Gian Biagio Conte e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! INTRODUZIONEATURA LATIN La letteratura latina nasce alla metà del III secolo a.C.; la data d'inizio fu fissata dai romani stessi nel 240 a.C., anno della prima rappresentazione di un'opera teatrale, forse una tragedia, di Livio Andronico. Fin dalle sue prime manifestazioni essa subisce l'influenza della letteratura greca, con la quale si pone in costante rapporto dialettico. In cinque secoli Roma conquista l'Italia centrale e meridionale, delinea il proprio volto, forgia il proprio ordinamento giudiziario, le proprie istituzioni politiche e religiose, ma non crea nessuna opera letteraria, nonostante il continuo contatto con la cultura ellenistica della Magna Grecia. Ci fu una produzione anonima e tramandata oralmente, che ha però scopi pratici e occasionali e che può essere definita come pre- letteraria. Si tratta di forme poetiche abbozzate, prive di intenti letterari e scritte in un latino rozzo e primitivo, di cui restano solo scarsi documenti che interessano la storia della cultura e della lingua più che la letteratura. Il loro unico interesse risiede nel fatto che tali documenti hanno esercitato una certa 1 influenza sulla letteratura posteriore, soprattutto per quanto concerne il teatro, l'oratoria e la storiografia. I rari documenti epigrafici pervenuti sono spesso poco chiari e di ardua interpretazione per le difficoltà linguistiche, ma testimoniano che nella Roma arcaica del 600 a.C. era già diffusa la scrittura per uso privato e pubblico, per lo meno nei ceti dominanti e nella classe sacerdotale; si tratta di una scrittura alfabetica di derivazione greca, proveniente dalle città della Magna Grecia. Decisamente oscura, anche per il testo lacunoso, è l'iscrizione del cosiddetto Lapis Niger (pietra nera), risalente ai secc. VII-VI a.C., incisa su un cippo a forma di parallelepipedo trovato, alla fine del 1800, nel Foro romano sotto un lastricato di marmo nero, che la tradizione indicava come la tomba di Romolo. Esso reca le norme religiose per interdire l'accesso a un recinto sacro; compare anche un rex, una figura sacerdotale. Il testo è in caratteri greci e in scrittura bustrofedica ("come i buoi che arano"), per cui le righe si alternano da destra a sinistra e da sinistra a destra, con le lettere 2 presso di voi. / Egli conquistò la Corsica e la città di Aleria, / consacrò come dovuto un tempio alle Tempeste. I CARMINA Nel periodo pre-letterario delle origini la poesia si limitava alla sfera del pratico e dell'occasionale, cantando i sentimenti più sentiti della vita spirituale, religiosa e civile in componimenti detti carmina (da cano: canto), che usavano il verso saturnio. In ambito letterario il termine viene utilizzato per designare componimenti poetici di notevole estensione, mentre in questa fase antica, carmen non indica solo quello che è cantato, e cioè i componimenti in poesia, ma più genericamente tutto ciò che è di particolare solennità, che sta fuori dal parlato quotidiano, e quindi anche la prosa. Si trova così applicato alle più disparate forme di comunicazione, dalle preghiere alle filastrocche infantili e alle formule magiche, dalle leggi alle profezie e agli incantesimi, dalle nenie funebri ai giuramenti. I carmina hanno un contenuto piuttosto 5 ingenuo e mostrano una certa rozzezza stilistica, nonostante il tentativo di elevare il tono espressivo. Mezzi tecnici poveri (rima, allitterazione, assonanza, figura etimologica e simmetria) e la cadenza di cantilena monotona aiutavano l'apprendimento a memoria. I carmina religiosi Tra i più antichi canti della poesia religiosa, risalenti al sec. VI a.C., vi è il Carmen Saliare, legato ai riti magico-religiosi dei Salii, è uno dei primi testi romani pervenuti, di cui sono rimasti pochi e spesso incomprensibili frammenti, conservati dagli eruditi latini. Ogni anno, in marzo e in ottobre, per celebrare l'apertura e la chiusura della stagione della guerra, i Salii (da salio: salto), i dodici sacerdoti di Marte, percorrevano in processione, vestiti da antichi guerrieri, i luoghi più importanti di Roma, intonando preghiere di invocazione agli dei, danzando e battendo con il piede il suolo con colpi forti e regolari in ritmo ternario, percuotendo con bastoni gli ancilia, i dodici scudi sacri di bronzo. Secondo la tradizione il collegio dei sacerdoti Salii era stato fondato dallo stesso 6 Numa Pompilio per custodire l'ancile caduto miracolosamente dal cielo, pegno divino per la salvezza di Roma, e gli altri undici perfettamente uguali al primo, costruiti dal fabbro Mamurio Veturio. È invece pervenuta una versione completa e attendibile del Carmen Arvale, risalente al sec. VI, perché il testo veniva trasmesso di generazione in generazione. È un canto propiziatorio affinché gli dei invocati diano fertilità ai campi. Il carmen si trova nei numerosi frammenti di un'epigrafe del 218 d.C. degli Acta fratrum Arvalium, in cui il collegio sacerdotale registrava la propria attività. Il canto, in versi saturni, ognuno ripetuto tre volte tranne l'ultimo ripetuto cinque volte, costituiva il momento culminante della processione della festa Ambarvalia nel mese di maggio. Il carmen, di difficile interpretazione, invoca i Lari, Marte e i Semoni perché proteggano i campi (arva) dalle pestilenze. Veniva eseguito durante il rito della purificazione dei campi e in altre cerimonie dai fratres Arvales, il collegio di dodici sacerdoti, tutti patrizi, dediti al culto della divinità 7 e tutte di carattere popolare. Il fescennino Il fescennino, manifestazione tipica del mondo agreste, era un vivace scambio di battute licenziose, in rozzi e improvvisati versi, che i gruppi di contadini si scambiavano nel corso delle cerimonie dopo il raccolto o delle feste dei Liberalia, in onore del dio della fecondità. Il termine sembra derivare dalla cittadina falisca di Fescennium, nell'Etruria meridionale. Il fescennino è un embrione di rappresentazione drammatica, sia per la sua forma di dialogo, sia perché i contadini indossavano maschere grottesche, le personae, fatte di corteccia d'albero. Penetrati in città, durante le feste nuziali, i versi fescennini furono oggetto di una legge delle XII Tavole, perché spesso diffamatori. La satura Provenivano dall'Etruria anche gli attori 10 (histriones) che, secondo Livio, diedero inizio ai primi ludi scaenici nel 364 a.C. Nel corso delle cerimonie per placare gli dei e allontanare una grave epidemia, fu messo in scena uno spettacolo in cui alcuni artisti danzavano al suono del flauto. I romani alla danza e alla musica aggiunsero in seguito il canto e la recitazione con versi di tipo fescennino. Nacque così la satura, rappresentazione drammatica più complessa, di cui non è rimasto nulla. Il suo nome deriva da satur lanx, piatto colmo di molti cibi diversi, assimilabili ai vari elementi che concorrevano a comporla. La satura terminava spesso con un exodium, vale a dire un fine spettacolo, in cui un attore (exodiarius) eseguiva un canto buffonesco, mimandolo, per allietare gli spettatori. L'atellana Decisamente più importante per la storia del teatro romano è la nascita verso la fine del sec. IV a.C. dell'atellana (fabula atellana), farsa di origine osca che trae nome da Atella, una 11 piccola città della Campania. Gli attori indossavano maschere che li trasformavano in personaggi facilmente riconoscibili dal pubblico per il modo di pensare, di agire, di parlare, di vestire, e improvvisavano su un rudimentale canovaccio prestabilito di argomento burlesco e grossolano, con un linguaggio plebeo, volgare e osceno. Quattro erano i ruoli fissi più comuni dell'atellana: Pappus, il vecchio rimbambito, lussurioso e avaro, gabbato sempre dall'amante e dal figlio; Maccus, lo scemo e millantatore dalle orecchie d'asino, vittima predestinata dei furbi; Bucco, il servo spaccone, chiacchierone e ghiottone; Dossennus, vecchio gobbo e astuto, saggio e perfido, parassita e amante dei banchetti. Sembra che il metro fosse il versus quadrato, due unità metriche ognuna di due piedi. L'atellana ebbe grande diffusione e continuò a vivere come exodium, anche quando con Livio Andronico, iniziò il teatro su modello greco. Nel sec. I a.C. assunse forma letteraria con Pomponio e Novio, che al canovaccio e all'improvvisazione sostituirono un testo totalmente scritto. 12 ruba di notte, e il derubato lo uccide, venga ritenuto ucciso legalmente. Oppure: Nei riguardi di uno straniero vale il diritto di rivendicazione. O ancora: Se un padre avrà venduto il figlio per tre volte, il figlio sia libero dalla patria potestà. Pur non escludendo un'influenza greca, le leggi sono chiaramente il frutto delle consuetudini dei romani e del loro senso pratico. Le XII Tavole non costituiscono un complesso sistematico di tutto il diritto privato e pubblico, sono un importante passo in avanti verso la parificazione dei diritti dei cittadini romani. La sostituzione del diritto consuetudinario con uno scritto rappresentava una grande conquista della plebe; era stato, infatti, interesse dei ceti dominanti, che detenevano il monopolio del potere giudiziario, mantenere una legislazione affidata alla memoria dei giudici. La cronaca Grande importanza avevano per i romani i "fasti", un vero e proprio calendario civile, redatto dai pontefici. Riportava i giorni dell'anno in cui era lecito dedicarsi alle attività pubbliche 15 (fasti), e quelli in cui non era lecito per motivi religiosi (nefasti). Vi erano inoltre annotati le cerimonie, i mercati, le calamità naturali, gli spettacoli, gli avvenimenti astronomici, i prodigi. In seguito la parola fasti (fasti consulares; fasti pontificales; fasti triumphales) indicò anche gli elenchi dei magistrati in carica annuale, gli atti ufficiali, le vittorie militari. Più tardi, il collegio dei pontefici pubblicò ogni anno sulla Tabula Dealbata (tavola bianca), esposta presso la Regia (sede del pontefice massimo e del rex sacrorum), non solo i nomi dei magistrati, ma anche gli avvenimenti di pubblica importanza, civile, religiosa, commerciale e militare. Questi documenti, scritti e consultabili con il nome complessivo di annales, registravano il ricordo di avvenimenti fondamentali e perciò fornivano una storia del popolo romano. Nel sec. II a.C., riuniti in 80 volumi per ordine del pontefice Publio Muzio Scevola, presero il titolo di Annales Maximi. Sfortunatamente un incendio aveva in gran parte distrutto le annate anteriori al 390 a.C.: per questo sono poche le 16 notizie attendibili dei primi secoli della storia di Roma. Tutti i più importanti magistrati, come i consoli, i questori e i censori, redigevano diari, i commentarii, in cui registravano accuratamente i fatti salienti della loro magistratura e i provvedimenti presi. Era una memorialistica del tutto privata, che però poteva diventare pubblica quando i commentarii venivano depositati presso il collegio dei pontefici. Anche i vari collegi sacerdotali annotavano i loro atti nei Libri pontificum, nei Libri augurum, nei Libri saliorum. APPIO CLAUDIO CIECO Fin dalla nascita della repubblica, l'oratoria ebbe importanza rilevante, in quanto l'arte del parlare e del convincere dava fama, successo, potere ed era base necessaria della carriera politica. Adatta all'indole pragmatica dei romani, essa costituiva l'unica attività intellettuale degna di un cittadino di 17 di tradizione italica, il saturnio, al posto dell'esametro omerico; la romanizzazione del testo è attuata anche dall'adozione di alcuni procedimenti stilistici propri, a Roma, dei carmina religiosi, del linguaggio giuridico e politico e delle formule magiche: allitterazione, parallelismo dei membri, ridondanza espressiva; il primo verso, ripreso abbastanza fedelmente, si caratterizza per la sostituzione dell'invocazione alla Camena latina, in luogo della Musa greca. Per quanto riguarda le opere teatrali, messe in scena a partire dal 240 e forse recitate dallo stesso Andronico, non conserviamo che titoli e una cinquantina di frammenti di un solo verso; non possiamo quindi verificare il giudizio negativo che ne da Cicerone. NEVIO Anche lui come Livio Andronico, di cui è contemporaneo, fu autore di tragedie e commedie di imitazione greca; fu l'iniziatore del genere della tragedia praetexta, e dell'epica, con il Bellum Poenicum. Tuttavia anche per quanto riguarda le sue opere non abbiamo che frammenti. Scarse notizie biografiche: originario della Campania, 20 morì nel 204 o al più nel 201. Si conservano sei titoli e qualche frammento di tragedie di argomento greco (alcuni titoli sono uguali a quelli di Andronico: volontà di emulazione), tuttavia spiccano le tragedie praetextae , di ambientazione romana: il nome infatti è dovuto alla toga orlata di porpora che indossavano i magistrati (e gli attori che li impersonavano): i titoli delle due tragedie praetextae che abbiamo sono il "Romulus" e il "Clastidium" (che racconta della vittoria dei Romani sui Galli nell'omonima battaglia del 222. Con queste due tragedie Nevio si proponeva di esaltare la grandezza di Roma. Frammenti più cospicui per quanto riguarda le commedie: circa 35 titoli che dimostrano mordacità e tendenza alla satira politica nonché una certa affinità con Plauto; il frammento più esteso deriva dalla Tarentilla e contiene la descrizione di una cortigiana che flirta amabilmente e contemporaneamente con i suoi ammiratori. In tarda età, Nevio scrisse la sua opera principale, il Bellum Poenicum, poema epico storico in saturni incentrato sulle vicende della prima guerra punica, a cui lo stesso autore partecipò; rifancendosi all'epica 21 greca, Nevio fonde mito e storia, con la volontà di esaltare lo spirito e i valori di Roma; lo stato frammentario del testo non consente un'analisi unitaria: probabilmente l'inserzione dell'"Archeologia" romana sarebbe stata effettuata attraverso ampi excursus. L'opera presenta alcune analogie con l'Eneide (figura di Didone e suo amore infelice per Enea), non a caso fu tra le fonti di Virgilio ed anche molto apprezzata da Cicerone, e si contraddistingue per un'energica tendenza alla concisione, ottenuta con mezzi espressivi semplici ma efficaci. PLAUTO Tito Maccio Plauto è il primo autore della letteratura latina di cui si abbiano opere intere; egli attuò un'originale sintesi tra la commedia nuova greca (il cui massimo interprete fu Menandro) e la tradizione italica. Tuttavia le notizie relative alla sua vita scarseggiano, e la stessa tradizione gli attirbuisce diversi nomi (si è supposto che abbia usato nomi diversi in diversi periodi della sua carriera), prima Macco e poi Plauto; nacque intorno al 250 a Sarsina, 22 donna un giovane scudiero; tra le risate a profusione, il vecchio viene beffato, mentre Casina viene riconosciuta libera e si sposa col giovane. Curculio: un giovane, con l'aiuto di uno scaltro parassita, riesce a sottrarre la ragazza di cui è innamorato al lenone che la possiede e al soldato a cui era stata promessa; alla fine la ragazza viene riconosciuta libera (e sorella del soldato), e i due giovani possono sposarsi. Menaechmi: un giovane, mentre è in viaggio alla ricerca del fratello, giunge nella città in cui abita quest'ultimo; prima che i due possano incontrarsi, si verifica una lunga serie di equivoci, perché i due fratelli sono gemelli ed hanno lo stesso nome e vengono scambiati continuamente. Miles gloriosus: un giovane è innamorato di una cortigiana, e la sottrae ad un soldato con l'aiuto di un servo particolarmente scaltro e di un vecchio scapolo simpaticissimo; il soldato viene continuamente ingannato, e finisce beffato e bastonato. Mostellaria: l'improvviso ritorno da un viaggio d'affari del padre mette in difficoltà un giovane, che si è indebitato per comprare la cortigiana Filemazio, e con lei sperpera denaro in banchetti e gozzoviglie; il 25 servo Trainone non lascia entrare il padrone di casa, facendogli credere che la casa è infestata da un fantasma; inoltre lo convince a saldare i debiti del figlio che si è indebitato per comprare un'altra casa; alla fine si scopre la verità, ma il giovane e il servo vengono perdonati. Pseudolus: un giovane ama una cortigiana che il lenone ha promesso a un soldato; l'arguto servo Pseudolo imbroglia sia il lenone, sia il soldato, sia il vecchio padrone, padre del giovane innamorato della cortigiana. I titoli delle altre tragedie sono: Asinaria, Bacchides, Captivi, Cistellaria, Epidicus, Mercator, Persa, Poenulus, Rudens, Stichus, Trinummus, Truculentus. Il vero protagonista delle commedie plautiane è il servus callidus, che è sempre l'aiutante del giovane innamorato; su di lui si concentrano le attenzioni e le risate del pubblico; egli è intelligente e arguto, trama inganni, ma è anche sfacciato e insolente, sempre pronto a prendere i giro gli amici e i rivali; non meno divertenti sono gli antagonisti però: il soldato fanfarone è il prototipo del gradasso, il lenone è spudorato: entrambi sono perfetti esempi di esagerazione grottesca, dotati di travolgente e 26 irresistibile comicità, malgrado, e in virtù dei loro eccessi. Alcune variazioni sullo schema tipico della commedia nuova sono presenti ad esempio nell'Aulularia, in cui la figura centrale è quella del vecchio avaro, connotato anche psicologicamente: al di là degli eccessi e delle deformazioni grottesche, il pubblico riconosce nell'avaro atteggiamenti presenti in tutti gli uomini; nella Casina, il ruolo di maggior rilievo è preso dal senex libidinosus, che arriva addirittura a competere con il proprio figlio per l'amore di una donna, tanto è vecchio e innamorato; vista la sua conclusione, la Casina è la tipica commedia della beffa, caratterizzata da una comicità spiccatamente farsesca e licenziosa; nei Menaechmi domina invece il tema dello scambio di persona e degli equivoci che ne conseguono; nell'Anfitrione, al tema dei simillimi si aggiunge quello dello sdoppiamento della personalità. Per quanto riguarda il rapporto coi modelli greci (lo stesso Plauto parla a proposito della sua attività di vortere barbare, assumendo il punto di vista greco, per i quali i barbari erano tutti quelli che non parlavano greco), non si tratta di semplici traduzioni; 27 continua il filone del poema epico-storico d'argomento romano, ma non si limita ad un solo episodio, decidendo invece di trattare tutta la storia romana: il titolo rimanda infatti ai documenti ufficiali in cui i pontefici registravano anno per anno gli avvenimenti principali, ma anche ai titoli delle prime opere storiografiche romane. Epos nazionalistico, esteso a tutta la storia romana, quindi: la narrazione partiva dalla caduta di Troia (legame con la saga troiana) e dall'arrivo nel Lazio di Enea; nei libri II e III si racconta la storia dei successori di Romolo, fino alla caduta della monarchia; nei libri successivi, l'età repubblicana e l'espansione di Roma; la narrazione si conclude nel 171; a causa della frammentarietà non si possono analizzare in modo sistematico le caratteristiche stilistiche e le tecniche narrativa, mentre si può affermare che a livello linguistico, Ennio abbia attuato una sorta di mediazione di tratti tipicamente latini e innovazioni grecizzanti. Lo stile è elevato e solenne (nel proemio Ennio si presentava come un Omero redivivo), ricco di forme arcaiche e di figure si suono (allitterazione, ricercata spesso in modo esasperato, ma anche onomatopee); in 30 alcuni frammenti si nota uno spiccato gusto del macabro e attenzione verso i particolari raccapriccianti. L'esaltazione della romanità avveniva attraverso la celebrazione di singole individualità (su tutti, Scipione l'Africano); la concezione storiografica enniana è quindi spiccatamente individualistica, in opposizione rispetto a quella che Catone dava alle sue Origines. Per quanto riguarda la produzione teatrale, abbiamo solo 5 versi di commedie, mentre un po' più numerosi sono i frammenti delle tragedie (una ventina di titoli e 200 frammenti): scrisse due praetexte, le "Sabine" e l'"Ambracia" (sulla presa della città etolica da parte del suo amico Fulvio Nobiliore). Il tratto distintivo delle tragedie enniane è il massiccio uso di artifici linguistici e retorici, al fine di ottenere forti effetti drammatici e patetici; un altro aspetto peculiare è la senteziosità. Ennio ebbe molti interessi, di cui rimangono tracce, piuttosto eisgue, nell'opera in prosa "Euhemerus", nel poemetto "Epicharmus" (sul tema religioso e mitologico) e nelle satire (non nel senso moderno: lanx satura, piatto ricolmo di primizie da offrire agli 31 dèi: varietà di temi, metri e registri: accenni personali, spunti moralistici, proverbi, attacchi personali e critica dei costumi). GLI INIZI DELLA STORIOGRAFIA L'ANNALISTICA Come per gli altri generi, anche la storiografia romana nacque e si sviluppò attraverso l'influsso della produzione greca, precedente e contemporanea. Non a caso i primi storiografi romani, Fabio Pittore e Cincio Alimenta scelsero il greco come lingua. Quinto Fabio Pittore fu un senatore appartenente a una famiglia dell'alta nobiltà; la sua opera, gli Annales, partivano dalle origini di Roma e giungevano fino alla II guerra punica; proprio su questi due punti la trattazione era più ampia, mentre il periodo intermedio era meno trattato (schema ripreso poi degli annalisti successivi). Perché il greco? Pittore si rivolgeva soprattutto al mondo straniero, per presentare i fatti in un'ottica filoromana; l'ipotesi più appropriata però risiede nel fatto che probabilmente Pittore, pur mantenendo lo 32 esercitò la carica con un rigore e una severità che gli valsero il soprannome di Censore. La sua attività politica fu sempre ispirata a un'intransigenza inflessibile contro quelle che considerava degenerazioni del costume romano. Si oppose così all'affermazione di ogni tendenza individualistica nella vita pubblica e alla cultura ellenizzante (più precisamente fu contrario a quelle idee pericolose per i principi della morale tradizionale); contrastò quei patrizi che si arricchivano illecitamente all'ombra dello stato, e ne fece espellere alcuni dal senato per improbità. Sostenne che si doveva pensare all'agricoltura e ai rapporti con il resto dell'Italia, prima della conquista di paesi lontani. Si oppose tenacemente all'abrogazione della lex Oppia, che imponeva limiti austeri alle spese private, specie quelle sullo sfarzo dell'abbigliamento femminile. Nel 155 ottenne l'espulsione dei tre filosofi greci Carneade, Diogene, Critolao, inviati da Atene a Roma come ambasciatori, perché considerava insidioso il loro influsso sui giovani, specialmente quello di 35 Carneade. Promosse la terza guerra punica, sostenendo in senato la necessità della distruzione di Cartagine (Carthago delenda est): la spedizione iniziò l'anno della sua morte, (149) e così non potè assistere alla caduta della città. Sia pure pensando di agire in buona fede nell'interesse dello Stato, Catone attaccò con troppa leggerezza, forse per gelosia, patrizi dotati di benemerenze quali gli Scipioni, i Corneli, i Claudi, i Semproni; Scipione l'Africano fu da lui costretto all'esilio. Ma questo ebbe conseguenza, data la sua origine plebea, di aumentare il prestigio di quella osteggiata classe oligarchica, soprattutto degli Scipioni, perché l'impresa contro Cartagine fu proprio affidata con successo a Scipione l'Emiliano. Le Origines Rimangono pochi e brevi frammenti dei sette libri delle Origines (Le origini), la prima opera di storiografia scritta in latino, alla quale Catone si dedicò dal 168 fino alla morte. L'argomento è la storia di Roma, dalla fondazione alla 36 spedizione di Sulpicio Galba in Spagna (151). La novità delle Origines consiste nel fatto che la storia di Roma non è sentita solo come quella della città, ma di tutti i popoli della penisola; oltre al primo libro, dedicato alla fondazione di Roma, il secondo e il terzo narrano le origini delle città italiche: da qui il titolo dell'opera. La narrazione è concisa e scarna, per sommi capi, come scrive Cornelio Nepote, e guarda alla realtà dei fatti e non alla forma letteraria; lo stile è semplice e disadorno. L'opera si stacca nettamente da quelle degli annalisti precedenti che scrivono in greco ed esaltano il nome dei condottieri secondo la moda ellenistica. Catone non indica mai per nome i suoi personaggi, scrive in lingua latina e per questo l'opera contribuì molto alla formazione di una coscienza nazionale. L'oratore Catone fu oratore abile ed efficace, più preoccupato della sostanza delle cose che dell'eleganza della formulazione. Una famosa 37 insubre originario dell'Italia settentrionale, nato forse a Mediolanum, l'odierna Milano. Condotto a Roma come schiavo di guerra dopo la battaglia di Casteggio (222) da un tale Cecilio, ne prese il nome dopo essere stato affrancato. Amico di Ennio, fece probabilmente parte del Collegium scribarum histrionumque. Per un quindicennio, tra la morte di Plauto (184) e la prima opera di Terenzio, fu il commediografo preferito dal pubblico raffinato. Morì, secondo la tradizione, nel 168, un anno dopo Ennio. Cecilio fu autore di palliate; rimangono 44 titoli, alcuni dei quali sono Andria (La donna di Andro), Epistathmos (L'inquilino), Gamos (Il matrimonio), Androgynos (L'ermafrodita), Dardanus (Il troiano), Epicleros (L'erede), Epistola (La lettera), Obolostates Faenerator (Lo strozzino). La maggior parte di queste palliate indica chiaramente che egli si ispirò alle opere del greco Menandro. Alcune commedie hanno infatti titolo greco, altre latino, altre ancora sia greco che latino. La più nota è Plocium (La collana), di cui Aulo Gellio ha riportato un brano, mettendolo a confronto con il corrispondente 40 testo di Menandro. Il significato del suo teatro I frammenti per circa 300 versi giunti sono insufficienti per dare una seria valutazione del poeta. Stazio piaceva sicuramente a Orazio e a Varrone, meno a Cicerone, che aveva qualche riserva sulla purezza del suo uso latino. Il poeta Volcacio Sedigito nel suo canone, cioè nella classifica di merito dei poeti latini compilata nel 100 a.C., lo pone al primo posto. Dal confronto dell'erudito di Aulo Gellio si ricava l'autonomia di Cecilio, che rielaborò con grande libertà inventiva i modelli greci. Fu senz'altro un autore di alto livello, la cui produzione si collocava in una posizione intermedia tra quelle di Plauto e di Terenzio. Restano la vena farsesca e le trovate pirotecniche del predecessore, ma attenuate ed esposte garbatamente e, soprattutto, una maggiore attenzione alla coerenza degli intrecci, alla raffinatezza dei particolari. Nell'imporre il suo teatro a un pubblico colto ottenne l'aiuto del capocomico e impresario Lucio Ambivio 41 Turpione, fautore di un teatro intellettuale. TERENZIO Come Plauto, anche Terenzio ha subito l'influsso della commedia nuova greca, anche se il suo rispetto a quello plautino è un teatro più raffinato negli intrecci, nella caratterizzazione dei personaggi e nella lingua. La vita Le scarse notizie sulla vita di Publio Terenzio Afro (190-160 ca a.C.) si ricavano da una biografia scritta da Svetonio, riportata dal grammatico Elio Donato insieme a un prezioso commento alle sue commedie. Originario di Cartagine in Africa, fu condotto a Roma in giovane età come schiavo, con il nome di Afer (Africano), dal senatore Terenzio Lucano, che prima gli dette una buona educazione e poi lo affrancò. Come era consuetudine, assunse il nome dell'ex padrone. Per ingegno e per cultura fu accolto tra il patriziato romano, diventando amico soprattutto di Gaio Lelio e di Scipione 42 pervenute le opere da cui trasse spunto. Solo a Terenzio, tuttavia, e non a Plauto o ad altri poeti comici, venne rimproverata dai contemporanei autori drammatici la contaminatio, l'uso cioè di intrecciare liberamente in uno stesso testo situazioni, brani di autori diversi o anche di diverse opere dello stesso scrittore. Il mondo poetico Gli intrecci delle commedie terenziane non si discostano da quelli di Plauto e della palliata in generale: intrighi amorosi, conflitti tra giovani e vecchi, specialmente tra padri e figli, astuzie di schiavi e capricci di cortigiane, equivoci che si risolvono felicemente per capovolgimenti della sorte o per improvvisi riconoscimenti. Ma Terenzio non è Plauto, non ha i suoi ritmi incalzanti, la sua prorompente comicità, il gusto per il fantasioso e per le accentuazioni grottesche e paradossali. È senz'altro meno brillante e vivace, però è dotato di buon gusto e di cultura raffinata. Le trovate pirotecniche di 45 Plauto si smorzano in Terenzio in una misura di più disteso equilibrio. A un'azione teatrale movimentata, scrisse Elio Donato, ne subentra una statica. La commedia che si era già trasformata con Cecilio Stazio giunge con Terenzio al culmine della sua evoluzione. Il teatro da semplice intrattenimento popolare diventa un teatro d'élite. Terenzio rinuncia ai doppi sensi, alle espressioni scurrili, ai lazzi volgari; il suo è un linguaggio fine e accurato, ispirato ai canoni della regolarità. Del resto la purezza del linguaggio e l'eleganza formale erano le doti che già gli riconoscevano gli scrittori antichi, da Cicerone a Cesare a Elio Donato: non è un caso che le sue commedie fossero lette nelle scuole. La lezione implicita nella sua opera fu, da allora, una presenza costante nella cultura teatrale europea. L'umanità dei personaggi I personaggi sono presentati secondo le regole della verosimiglianza psicologica e spesso analizzati nel loro carattere con una umana 46 partecipazione: ciò conferisce loro delicatezza, sensibilità morale e i tratti di una grande lealtà. Il messaggio centrale dell'opera terenziana è l'esortazione all'humanitas (che equivale alla philantropia di Menandro), cioè l'amore e il rispetto degli altri che devono nascere dalla consapevolezza della comune vulnerabilità di fronte ai colpi della sorte e del fato. Questa humanitas si sintetizza nel celebre verso dell'Heantontimorumenos: "Homo sum; humani nihil a me alienum puto". "Io sono uomo; e nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo", che doveva colpire profondamente sant'Agostino e che sarebbe stato assunto come emblema dell'atteggiamento interiore del poeta. Terenzio non mette in discussione i ruoli sociali tradizionali, nè familiari, ma si mette in guardia dall'accettazione acritica delle convenzioni, dei pregiudizi e dei luoghi comuni; invita il suo pubblico a riflettere insieme sulla problematicità dei rapporti interpersonali; un aspetto non secondario dell'humanitas è costituito dalla gentielezza e dalle buone maniere. 47 Formione, aiutato dal proprio schiavo Geta, riesce con un cavillo giuridico a far sposare il suo giovane protettore Antifone con la povera Fanio, che poi viene riconosciuta appartenere a una buona famiglia. Formione in seguito procura a Feria, cugino di Antifone, la somma necessaria per riscattare una suonatrice di cui è innamorato. Adèlphoe (I fratelli). I due fratelli Ctesifone ed Eschino, sono educati con metodi diversi: il primo severamente in campagna dal padre Demea, il secondo liberamente in città dallo zio paterno Micione. Eschino, considerato dal padre uno scapestrato, rapisce la cortigiana Bacchide, confermando il giudizio paterno negativo. In realtà il giovane, innamorato di Panfila, ha compiuto il rapimento per il fratello Ctesifone. Dopo varie vicende la commedia si conclude con il matrimonio dei due giovani, con il ripensamento sui metodi educativi da parte di Demea, che concede a Ctesifone di tenere in casa Bacchide. GLI SVILUPPI DELLA TRAGEDIA 50 PACUVIO Dopo Ennio, rappresentante della tragedia a Roma fu Marco Pacuvio, che di Ennio era nipote; egli nacque intorno al 220 e morì, a Taranto, nel 130. Possediamo 12 titoli di tragedie (di imitazione greca, i modelli sono Eschilo, Sofocle, Euripide), e circa 400 versi, da cui emergono caratteristiche simili a quelle del teatro enniano (caratteristiche comuni a tutta la tragedia romana, da quella arcaica a a Seneca): sublimità, stile elevato, tendenza ad accrescere il pathos (i critici parlano di "espressionismo"), fino a raggiungere quasi effetti di deformazione di emozioni e sentimenti; Pacuvio eccelleva nelle scene a effetto, dotate di una forte carica drammatica e costellate da particolari orridi e raccapriccianti ACCIO Nacque a Pesaro nel 170 (morto forse intorno all'85), e visse a Roma sotto la protezione di personaggi politic importanti (Decimo Giunio Bruto, console nel 51 138); ci sono pervenuti frammenti per un totale di 750 versi e i titoli di 45 tragedie (di cui due praetextae: "Brutus", sulla cacciata di Tarquinio il Superbo, e "Aeneadae sive Decius", ambientata ai tempi della terza guerra sannitica). Anche in Accio, le solite caratteristiche della tragedia romana: magniloquenza, enfasi retorica, patetismo e sentenziosità, gusto per l'orrido e il truculento (in "Atreus" e "Tereus", scene di cannibalismo, che per quanto involontario, non è mai una bella cosa). LA NASCITA DELLA SATIRA LUCILIO Gaio Lucilio nacque a Sessa Aurunca, da una famiglia appartenente all'ordine equestre, nel 148, secondo Gerolamo, mentre altri studiosi anticipano la sua data di nascita al 180, altri al 168; più certi sono i suoi rapporti con Scipione Emiliano e la sua cerchia e con Gaio Lelio, pur senza intraprendera mai l'attività politica: la figura di Lucilio è quella di un ricco signore, non un letterato di professione, più interessato alla letteratura che alla politica: scrisse 52 Il periodo tra le riforme dei Gracchi e la dittatura sillana si caratterizza per un senso di profonda inquietudine e incertezza, che si ripercuote necessariamente anche sulla produzione letteraria: si delinea un graduale declino delle forme teatrali, tanto quelle tragiche quanto quelle comiche, e comincia a emergere un nuovo genere, la poesia lirica, espressione di un interesse per la dimensione privata e soggettiva. Dopo Ennio, Pacuvio ed Accio ci furono anche altri autori che scrissero tragedie, ma nessuno raggiunse quei livelli; le loro tragedie continuarono ad essere rappresentate fino all'età augustea; per tenere vivo il genere si puntò sulla spettacolarizzazione degli allestimenti, introducendo anche delle esecuzioni "concertistiche", tipiche della Grecia ellenistica; a poco a poco la tragedia, genere di per sè elitario, divenne una forma d'intrattenimento privato, senza contatto con la realta scenica. Anche la commedia esaurì la propria carica; un tentativo di rinnovamento avvenne con la commedia togata, e con la ripresa dell'atellana, antico genere italico, caratterizzato dall'uso delle maschere e dal 55 carattere buffonesco, basato su canovacci, più che su veri e propri copioni. Lo spettacolo teatrale che soppiantò tragedia e commedia fu il mimo: uno spettacolo composito formato dalla successioni di musica, balletti, scenette comiche. Tra la fine del II secolo e gli inizi del Icomincia ad affermarsi a Roma la poesia soggettiva, in cui il poeta parla in prima persona per dare espressione ai suoi stati d'animo, ovviamente prediligendo le tematiche amorose. La figura di maggior spicco è Quinto Lutazio Càtulo, autore di una poesia raffinata e colta; A.Gellio ne ha tramandato due epigrammi di ispirazione greca (lo stesso Càtulo, ricco amante della letteratura, ospitò molti poeti greci), sia nella forma che nei contenuti: nel primo esprime il suo amore per il giovinetto Teotimo, nel secondo esalta la bellezza dell'attore Roscio. L'aspetto più interessante della sua poesia è che essa non è opera di un autore di professione, ma di un nobile appassionato di poesia, che si accosta alle lettere per piacere intellettuale ed estetico. 56 Per quanto riguarda gli altri poeti del periodo, non si conoscono che i nomi: Valerio Etiduo, Porcio Licinio, Levio e Mazio; questi, insieme con Càtulo sono stati etichettati come "preneoterici", in quanto precursori del movimento letterario dei neoteroi, che si affermetà qualche anno dopo. Per quanto riguarda la prosa, si presentano in nuce quei generi che si svilupperanno pienamente a partire dall'età di Cesare: l'oratoria, la storiografia, la prosa tecnica. ( Età di Cesare 80-40 a C ) Tormentata nelle sue vicende politiche, l'età che fu detta di Cesare vede tuttavia l'affermazione di alcuni grandi della letteratura: Catullo, Lucrezio, Cicerone e lo stesso Cesare. Catullo e Lucrezio contribuiscono a creare la nuova figura dell'intellettuale che rifiuta l'impegno politico e si isola, dedicandosi interamente alla letteratura. L'otium di Catullo, inteso cioè come il solo impegno letterario, è tuttavia confortato dalla passione dell'amore e dal legame con i neòteroi, con i quali rinnova la poesia, orientandola verso il 57 Cesare, che gli affidò l'ambito incarico della costituzione e dell'organizzazione in Roma della prima biblioteca pubblica, che però non fu realizzata per la scomparsa del dittatore. Incluso nelle liste di proscrizione da Antonio e da Ottaviano, evitò la morte per l'intervento dell'amico Fufio Caleno, che lo nascose in casa propria. Graziato in seguito da Ottaviano e ritiratosi a vita privata, si dedicò interamente agli studi fino alla morte, che avvenne, forse nella sua villa di Tuscolo, a novant'anni nel 27 a.C., anno in cui Ottaviano diventava Augusto. Varrone godette presso i contemporanei di grande fama e della considerazione di dotto insuperabile; come sistematore delle tradizioni culturali di Roma egli influenzò gli scrittori successivi fino al Medioevo. Studioso infaticabile, si occupò di discipline diverse, dalla letteratura alle antichità e dalla retorica alle scienze, che trattò in 74 opere per un complesso di oltre 600 libri. Dell'immenso corpus varroniano sono pervenuti: De re rustica, il solo integro, un trattato sull'agricoltura, certo 60 non una delle sue opere più importanti; 2 libri interi e sezioni frammentarie di altri 4 del De lingua Latina, un trattato di morfologia e sintassi latina in 25 volumi; circa 600 versi delle Saturae Menippeae e pochi frammenti delle altre opere. De re rustica Il Rerum rusticarum libri è un trattato sull'agricoltura, che Varrone scrisse a 80 anni, nel 37, quando Virgilio si accingeva a comporre le Georgiche. La materia, esclusivamente tecnica, è divisa organicamente in 3 libri, cui corrispondono 3 dialoghi tenuti in date, luoghi e con interlocutori diversi, di cui uno è sempre Varrone. Il primo libro è dedicato alla moglie Fundania, che aveva acquistato una proprietà terriera, e tratta della fattoria, della coltivazione della terra, degli strumenti di lavoro, delle vigne, degli uliveti (De agricultura). Il secondo libro, dedicato a Turranio Nigro, ha come oggetto l'allevamento del bestiame: bovini, cavalli, suini, pecore, capre ecc. (De re pecuaria). Il terzo libro è dedicato a Quinto Pinnio e parla dell'allevamento nelle grandi villae degli animali 61 da cortile e di altre specie pregiate, come lepri, caprioli, cinghiali, pesci e api (De villaticis pastionibus). Destinatari dell'opera di Varrone non sono i piccoli proprietari terrieri, ma i grandi latifondisti, che posseggono vaste coltivazioni e allevamenti, amanti della vita lussuosa e perciò attenti ai cospicui profitti. La forma dialogica indica in Varrone una certa ambizione letteraria; è briosa e spigliata, quando non è schiacciata dallo sfoggio di erudizione; lo stile è semplice, poco elegante, infarcito di termini arcaici, tecnici e di derivazione greca. De lingua latina È un trattato di grammatica e sintassi latina, composto tra il 47 e il 45, in 25 volumi, i primi quattro dedicati a Publio Settimio e gli altri a Cicerone. Dopo il I libro introduttivo, l'opera era divisa in parti: la prima dedicata all'etimologia delle parole (II - VII), la seconda all'analogia (VIII - XIII), la terza alla sintassi (XIV - XXV). Dei libri rimasti (V - X), tre trattano dell'etimologia e tre dell'analogia. Poiché non esisteva ancora lo 62 anticiparne la nascita al 98 e la morte al 55, in base a quanto indicato da Donato; le notizie sulla pazzia, tra l'altro, non sono confermate, e la leggenda potrebbe essere nata in ambito cristiano per denigrare il poeta, che nei suoi versi aveva preso posizioni a favore della mortalità dell'anima e contro l'esistenza ultraterrena. Alcuni studiosi hanno cercato di risalire ad accenni alla pazzia nella sua opera, mettendo in evidenza una "psicosi ciclica", con fasi di depressione alternate ad euforia (tuttavia è un modo di analizzare scorretto, in quanto si parte da una base pregiudiziale). Il capolavoro di Lucrezio è il poema epico- didascalico, di 7415 esametri intitolato De rerum natura (La natura), in cui viene esposta la filosofia epicurea, che proponeva il piacere quale sommo bene fisico e spirituale. L'epicureismo aveva appena iniziato a penetrare nel mondo romano e il poeta intendeva estenderne la diffusione. Il titolo segue da una parte la tradizione greca della poesia filosofica di Empedocle (sec. IV a.C.) e Parmenide (sec. V a.C.) e dall'altra riprende quello della massima opera di Epicuro, Sulla natura delle cose, perduta, cui il poeta latino si ispirò o 65 direttamente all'originale o a sintesi posteriori curate dai di lui discepoli. L'opera è dedicata a un certo Gneo Memmio, da identificarsi con ogni probabilità con il propretore, dilettante di poesia, che Catullo tacciò di tirchieria. Il De rerum natura è diviso in 6 libri, che iniziano ciascuno con una raffinata introduzione e che si articolano, con armonioso disegno architettonico, in tre gruppi di due libri ciascuno, rispettivamente dedicati alla fisica, all'antropologia e alla cosmologia. Lucrezio non intende dare una spiegazione fredda e razionale dei fenomeni dell'universo, ma una interpretazione poetica di essi, dell'armonioso aggregarsi e disgregarsi degli atomi, per cui tutte le cose nascono e muoiono, compreso l'uomo che fa parte del tutto, senza dispersione, perché nulla nasce dal nulla e nulla muore riducendosi al nulla. Lucrezio stesso chiarisce nel I libro la ragione per cui ha trattato una materia filosofica in forma poetica: vi è stato costretto perché altrimenti sarebbe stata troppo complicata per lo spirito poco speculativo dei romani. L'uso dell'esametro era collegato alla 66 tradizione greca della poesia didascalica. Per Lucrezio, Epicuro non fu soltanto il fondatore di una dottrina, ma un maestro di vita: numerosi passi del De rerum natura contengono un commosso omaggio al filosofo, presentato come un liberatore, un eroico combattente contro l'oscurantismo religioso. La prima apparizione della religione nel poema è simboleggiata infatti da un mostro che rivolge la sua terribile testa dal cielo verso la terra. Sulle tracce del suo pensiero, mediante l'analisi lucida e razionale della realtà, che porta a una visione di coerente materialismo l'uomo può liberarsi dalle superstizioni, dai pregiudizi e dagli errori, e quindi dalle inutili angosce che ne derivano: prime fra tutte il timore degli dei, che porta alla superstizione quando non al delitto, e la paura della morte. La morte è semplicemente il momento estremo che chiude un ciclo vitale; essa non presuppone affatto un aldilà di punizioni eterne e di sofferenze, che sono favole di poeti o, al massimo, proiezioni di angosce terrestri, come le ambizioni, le frustrazioni, le passioni, i rimorsi. 67 indicare gli "atomi" che compongono la struttura dei corpi, e concilium (assemblea di persone) per un "sistema di atomi". Ricorse sovente anche a perifrasi, e, quando necessario, inventò termini nuovi coniati dal greco. Certe durezze di versificazione, come certe ripetizioni e incongruenze nella disposizione degli argomenti, alcune incoerenze di ritmo, aspre elisioni e insolite prosodie sono probabilmente da imputare alla mancata revisione dell'opera per la morte dell'autore. Per lo stile e per il genere letterario fu debitore ai poeti precedenti, a Ennio in particolare. Usò liberamente allitterazioni, assonanze solenni, onomatopee e omoteleuti, forme arcaiche e vecchie costruzioni, arditi aggettivi composti. Mostra di conoscere bene i grandi scrittori greci che spesso riecheggiò, come Omero, Eschilo, Euripide, Tucidide e Ippocrate, ma anche il grande interprete dell'alessandrinismo Callimaco. I suoi esametri si collocano tra quelli di Ennio e quelli di Virgilio. La sua grandezza resta affidata alla lucida tensione dei processi di argomentazione e soprattutto alla concreta e drammatica 70 potenza delle immagini. La fortuna Forte fu l'influenza di Lucrezio su Orazio e su Virgilio (specialmente nelle Georgiche), che chiaramente allude a lui quando in quell'opera afferma essere felice l'uomo che può capire la causa delle cose. Ovidio scrisse di lui: "Solo il giorno in cui avrà fine la terra, avranno fine i canti incomparabili di Lucrezio". Tacito, nel Dialogus, attesta che alcuni lo preferivano a Virgilio, rispetto al quale in effetti Lucrezio è poeta di maggiore spessore drammatico. Anche Seneca e Quintiliano lo ammirarono. Con le dottrine materialistiche accolte da Lucrezio naturalmente polemizzarono gli autori cristiani, da Tertulliano a Lattanzio a Girolamo, che pure ne subirono il fascino di poeta. Il primo libro: la teoria atomica. Si apre con un ampio proemio costituito da un solenne inno a Venere, forza generatrice della natura, dea dell'amore, del piacere e della fecondità, protettrice e simbolo di pace e di gioia infinita, 71 perché infonde l'ispirazione al poeta. L'invocazione alla divinità è un modo convenzionale di introdurre un poema, non contrasta con le convinzioni del poeta: gli dei, pur se esistono, non si curano delle vicende degli uomini. Dopo la dedica a Memmio segue un commosso elogio a Epicuro, che per primo si elevò contro la religione e rivelò la verità agli uomini, entrando nei segreti della natura. Il sacrificio di Ifigenia, immolata dal padre Agamennone in Aulide, dimostra che la religione fa compiere agli uomini i gesti più infami e malvagi. Per porre riparo ai timori e alle ossessioni delle pene eterne dell'oltretomba, agli interrogativi di quale natura sia l'anima, se essa finisca nelle cupe tenebre o trasmigri in altri esseri, che sono tutte creazioni di poeti per distruggere la felicità degli uomini, Lucrezio enuncia quindi il principio fondamentale delle teorie atomiche: " mai nessuna cosa nasce dal nulla per virtù divina" e nulla si riduce al nulla, solo si trasforma. La vita è composta da un insieme di corpi primi, gli atomi, corporei, indivisibili e indistruttibili; quando si muore 72 dovute alle varie forme dei simulacra e alla differenza dei corpi riceventi. Simulacra sottilissimi, vaganti per l'aria, sono all'origine non solo delle idee stesse, ma anche dei sogni, delle illusioni e delle cose inesistenti. Dopo aver spiegato che anche il bisogno di mangiare e di bere e la passione amorosa dipendono dagli atomi, il libro termina con la condanna dell'amore fisico. Il quinto libro: la cosmologia e la vita sulla terra. Il poeta estende la sua visione a tutto l'universo: questo non fu creato dagli dei; il mondo non è eterno, è mortale e in esso non vi è posto per gli dei. Dal caos iniziale è avvenuta la creazione dei corpi celesti e della terra. Gli atomi si sono combinati secondo il peso e la forma: al centro la terra, l'aria nella zona superiore e, ancora più in alto, l'etere. Sono assurde le teorie di coloro che sostengono che gli astri, che sono divinità, e il mondo, che è sede degli dei, siano eterni: come hanno avuto un inizio così essi avranno una fine. Egli espone poi il sorgere e l'evoluzione della vita sulla 75 terra, dai fiori e dagli alberi, agli animali e agli uomini; di grande potenza e solennità poetica è il quadro delle origini e del graduale incivilimento dell'umanità, le prime unioni, il sorgere del linguaggio e poi della società organizzata: dallo sgomento dell'ignoto e dall'ignoranza del vero nascono la fede negli dei e la credenza religiosa. Il sesto libro: geofisica e meteorologia. Dopo l'elogio ad Atene che ha accolto Epicuro, il poeta descrive la formazione materialistica dei fenomeni meteorologici, come le nuvole, le piogge, gli arcobaleni e, in particolare i tuoni, il fulmine e i lampi che sono attribuiti dall'umanità ignorante e superstiziosa alle divinità. Lucrezio tratta infine dei fenomeni terrestri, come l'origine dei terremoti o delle inondazioni stagionali del Nilo. Il poema termina con la descrizione della peste di Atene durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.): un tetro quadro di morte e di umana miseria che contrasta con la visione epicurea della vita serena e con quello della primavera e della nascita nell'iniziale 76 invocazione a Venere. LA POESIA NEOTERICA & CATULLO Con Lutazio Catulo aveva fatto la sua comparsa nella letteratura latina la poesia lirica; nell'età di Cesare si sviluppò un movimento letterario che rinnovò profondamente la poesia latina: il movimento dei poetae novi, o alla greca, neoteroi. Queste definizioni risalgono a Cicerone, che le usò in maniera dispregiativa, per motivi ideologici più che letterari (a causa del distacco dei poetae novi dalla poesia arcaica tradizionale); non si trattò di una scuola vera a e propria quanto piuttosto di un circolo letterario formato da intellettuali che si conoscevano ed erano amici, e condividevano gusti e programmi; tra gli esponenti principali di questo circolo figurano: − Elvio Cinna, citato in alcuni componimenti da Catullo, che scrisse un poemetto mitologico, la Zmyrna; − Valerio Catone, che scrisse Lydia e Dictynna, di cui conserviamo solo i titoli; − Furio Bibaculo, che scrisse violenti epigrammi satirici contro Ottaviano; 77 racconta che Clodia fosse bellissima e intelligente, e moglie di Quinto Cecilio Metello; la storia di amore tra il poeta e Clodio andò avanti per alcuni anni, tra entusiasmi e depressioni; l'ultimo messaggio che Catullo le lascia è il carme 11 (in cui c'è anche un'allusione alle campagne di Cesare in Gallia), un commiato sia da lei che dalla vita, secondo alcuni studiosi. Produzione poetica: Della produzione poetica di Catullo sarebbero probabilmente rimasti solo pochi frammenti, come è avvenuto per gli altri "poeti nuovi", se nel Trecento non fosse stato ritrovato un manoscritto con le sue poesie. Il manoscritto, il cosiddetto "Codice Veronese", ignorato per secoli, fu copiato e poi perduto. Le liriche del manoscritto non furono quasi sicuramente pubblicate dall'autore, ma raccolte dopo la sua morte in un Catulli Veronensis Liber (Libro di Catullo di Verona) che comprende 116 carmi per un complesso di circa 2 300 versi. I compilatori della raccolta non seguirono un 80 criterio cronologico o di affinità tematica, bensì uno metrico e stilistico: all'inizio e alla fine le poesie più brevi, al centro le più lunghe ed erudite. Si ritiene comunque che sia in parte diverso da quel lepidum novum libellum (garbato nuovo libretto) che Catullo aveva dedicato all'amico Cornelio Nepote, come si legge nel primo canto, e che doveva essere composto solo da poesie brevi. Le tre sezioni del Liber Il Liber catulliano viene comunemente ripartito in tre sezioni. Alla prima (carmi 1 - 60) appartengono le cosiddette nugae (bagattelle, cose da nulla), composizioni in genere brevi e in metri vari, come il trimetro giambico, lo scazonte, il saffico, il coliambo e, prevalentemente, l'endecasillabo falecio; nella raccolta vi sono ben 14 metri diversi, alcuni dei quali usati per la prima volta nella letteratura latina. La seconda sezione (carmi 61 - 68) contiene quelli che gli studiosi hanno chiamato carmina docta ("poesie dotte"), sempre in metri diversi, ma di ampiezza e di impegno formale maggiori 81 rispetto alle nugae. Nel terzo gruppo (carmi 69 116), infine, si trovano i cosiddetti epigrammi, brevi liriche in distici elegiaci di argomento prevalentemente erotico. I carmina docta Gli scrittori antichi consideravano Catullo un doctus, come tutti i poeti nuovi, cioè un poeta che non solo aveva una perfetta conoscenza dei miti, ma anche grande finezza ed eleganza formale, e lo ritenevano grande soprattutto per i carmina docta. I carmi 61 e 62 sono epitalami, cioè inni nuziali con cui si festeggiavano gli sposi la sera del matrimonio. Nel primo epitalamio un corteo di giovani e fanciulle, al bagliore delle fiaccole e con canti propiziatori al dio Imeneo, accompagna al tramonto Vinia Aurunculeia alla casa del marito. Manlio Torquato. Nel secondo epitalamio, sulla stella Espero, la prima a sorgere dopo il tramonto, si basa un allegro contrasto tra un gioioso coro di giovani, in favore dello sposo, e un coro di lamento di vergini, che paragonano la sposa a una rosa che sfiorisce se 82 Le liriche per Lesbia sono in tutto 25, e costituiscono un breve, sincero diario dell'impetuosa passione amorosa che travolge il poeta fin dal loro primo incontro. È un amore sensuale, delirante per una donna la cui bellezza vive nei versi di Catullo, anche se non vi è nessun accenno ai suoi tratti fisici. È gioia di stare insieme, è desiderio di intimità; tutti devono sapere di questa loro relazione, in modo che gli invidiosi si consumino per la rabbia e i benpensanti moralisti si turbino. Ma i momenti di felicità si alternano a quelli di sconforto: Lesbia è una donna volubile, che non si sottrae ad altri uomini; così la relazione più volte si rompe e nascono la gelosia, l'odio e le invettive contro i rivali in amore; più lei si allontana, più il poeta si sente attratto. Poi più volte avviene la riconciliazione, il ritorno ai momenti appassionati. Le liriche rispecchiano l'esaltante e dolorosa varietà di stati d'animo, in cui si alternano tristezza e gioia, riso e pianto, speranza e delusione, esplosioni di giubilo e tristi pensieri sull'infedeltà della donna. Infine il 85 distacco definitivo, la nostalgia e lo straziante rimpianto. I carmi vari Gli altri carmi catulliani, che sono i più numerosi, sono poesie d'occasione e presentano le stesse caratteristiche formali dei modelli alessandrini adottati da tutti i "poeti nuovi". Compare sempre lo spirito arguto, malizioso, ma anche pensieroso e malinconico di Catullo, uomo passionale e impetuoso, che mette nelle proprie liriche tutto il complesso mondo dei suoi sentimenti, dall'amore all'odio, dalla delicatezza alla denigrazione. L'amicizia è uno dei temi principali del canzoniere catulliano, quella soprattutto per i neóteroi, un'amicizia alla quale si abbandona con fresca ingenuità e profondità: ne sono esempio le parole d'affetto per Elvio Cinna, Cornelio Nepote, Licinio Calvo; l'autoironico invito a una magnifica cena all'amico Fabullo, a cui il poeta chiede di portare tutte le vivande, 86 perché "la borsa del tuo Catullo è piena solo di ragnatele"; la sua felicità per il ritorno di Veranio da un viaggio in terre lontane. I temi delle liriche catulliane e la loro estensione sono molto diversi, né si può assimilare la brevità incisiva e irridente di certe nugae alla complessità compositiva dei carmina docta o alla lancinante intensità emotiva delle liriche amorose: tuttavia l'opera catulliana corrisponde a una visione nuova della poesia. Tralasciata la concezione della letteratura come celebrazione dei valori collettivi della romanità, la lirica di Catullo dà voce al sentimento individuale: è una poesia lirica e soggettiva, in cui le passioni si esprimono con vigore e immediatezza, con ingenua sincerità o con freddo realismo. La spontaneità delle sue poesie d'amore non trova eguali nella letteratura latina. E, soprattutto, l'amore è sentito con una valenza etica personalissima, che il poeta traduce in termini nuovi rispetto alla tradizione. L'amore è foedus ("patto"), fondato sulla pietas ("sentimento religioso") e sulla fides ("lealtà, 87 fino alla fine della sua vita) da parte sempre di Catilina; i congiurati vennero condannati a morte, su proposta dello stesso Cicerò e di Catone l'Uticense. Negli anni successivi il suo peso politico diminuì sensibilmente, mentre si rafforzava la parte popolare; nel 58 il tribuno della plebe Clodio, appoggiato da Cesare, gliela fece pagare: accusato di aver mandato a morte dei cittadini romani con procedura sommaria, fu esiliato, ma l'esilio durò solo un anno, grazie all'intervento di Pompeo. Dopo l'esilio, Cicerò s'avvicinò un pochino ai triumviri, appoggiando nel 56 la proroga dell'eterno rivale Cesare per il suo proconsolato nelle Gallie; negli anni successivi rimase ai marigni della vita politica, e si concentrò sulla carriera giudiziaria; nel 51 fu proconsole in Cilicia; al momento dello scoppio della guerra civile si schierò ovviamente dalla parte di Pompeo; durante la dittatura di Cesare, Cicerò trovò conforto nella filosofia; nello stesso periodo divorziò dalla moglie Terenzia, e trovandosi in ristrettezze economiche, sposò per convenienza la ricca orfana Publilia; intanto nel 45 morì di parto la figlia Tullia; dopo la morte di Cesare, pur non avendo partecipato alla congiura, si schierò coi cesaricidi; tra gli aspiranti 90 alla successione si schierò con Ottaviano; nel 43 il suo nome compare nelle liste di proscrizione e viene ucciso nella sua villa di Formia. ORAZIONI Come tutti i grandi oratori greci (Demostene e Isocrate i suoi modelli), anche Cicerone curò personalmente la pubblicazione delle sue orazioni, spesso rielaborandole e ampliandole. Gli scopi erano molteplici: propaganda, difesa del proprio operato, desiderio di ottenere la gloria presso i contemporanei; le orazioni conservate per intero sono 58, suddivise in giudiziarie e deliberative. Tra le orazioni giudiziarie, le più importanti sono: − le Verrine, del 70; si tratta di sette orazioni (ma solo le prime due sono state effettivamente pronunciate) per il processo de repetundis intentato dai siciliani contro Gaio Verre, che aveva governato sulla provincia dal 73 al 71; il corpus delle Verrine comprende: divinatio in Caecilium (Cicerone chiede di sostenere l'accusa per conto dei siciliani); actio prima, l'introduzione del processo, actio secunda, in 5 orazioni, denuncia i misfatti di Verre in Sicilia. 91 Già in antichità le Verrine vennero considerate un capolavoro di eloquenza, soprattutto per quanto riguarda la divinatio e actio prima, mentre l'actio secunda tradisce il suo carattere fittizio e letterario. − Pro Archia poeta, del 62, in difesa del poeta greco Archia, accusato di aver usurpato il diritto di cittadinanza romana; in realtà gran parte dell'orazione è dedicata all'esaltazione della cultura e della poesia; (Archia fu assolto ma non scrisse il poema celebrativo che Cicerò si aspettava da lui). − Pro Sestio, del 56; Cicerò difende Sestio, accusato de vi, cioè di aver creato delle bande armate per combattere quelle di Clodio; Cicerò afferma che il ricorso a mezzi illegali si era reso necessario per la difesa delle istituzioni; lancia inoltre un accorato appello per il consensus omnium bonorum, un accordo tra tutti i cittadini moderati. − Pro Caelio, del 56; in questo discorso difende Marco Celio Rufo (di cui era affidatario), accusato di aver rubato dei gioielli a Clodia (sorella di Clodio e amante di Catullo) e tentato di 92 doti di narratore vivacissimo e di ritrattista; − movere: trascinare gli uditori al consenso suscitando commozione, sdegno, ira commozione, ricorrendo agli effetti patetici, in particolare nelle perorazioni. Lo stile di Cicerone è vario e duttile; tende alla solennità e alla magniloquenza, fino alla ridondanza e all'ampollosità, ma a volte è capace di essenzialità e concisione.; i procedimenti stilistici ciceroniani si basano su un'organizzazione sintattica ben definita e strutturata; il periodo è articolato in modo complesso, con tante subordinate, all'insegna della concinnitas. Per quanto riguarda le opere retoriche le principali sono: − De oratore, in tre libri, composto nel 55; si tratta di un dialogo di tipo platonico, in cui affida ai vari interlocutori il compito di trattare l'argomento principale; ad esempio nel libro I, per bocca di Licinio Crasso, espone la tesi di fondo dell'opera: non si schiera né con la concezione tecnicistica dei greci, né con quella che considera basti l'ingenium: l'oratore ideale è un uomo impegnato nella vita pubblica, e dotato di una 95 grande cultura; nel libro II si dedica alla trattazione delle parti della retorica: inventio (ricerca degli elementi da svolgere), dispositio (l'ordine in cui esporli), memoria; nel libro III svolge i precetti relativi all'elocutio (lo stile) e all'ultima parte della retorica, l'actio (dizione, gesti, intonazione). − Brutus: dialogo tra Cicerò stesso, Attico e Marco Giunio Bruto; dopo un breve excursus sull'oratoria greca, si concentra su una grandiosa storia di quella romana, presentando circa 200 oratori; nell'ultima parte rievoca gli inizi della sua carriera (implicitamente si presenta come il punto d'arrivo, il culmine di un'evoluzione secolare). − Orator: non più un dialogo, ma un'esposizione continua, in prima persona; riprende le posizioni del De oratore, in più illustra le differenze tra stile oratorio e filosofico, storico e poetico, espone la distinzione dei tre livelli stilistici (umile, medio, sublime). Le principali opere politiche invece sono: − De republica, scritto nel 54, in 6 libri, sul modello di Platone; Cicerò si occupa dell'organizzazione da dare allo Stato, di trovare 96 quale sia la miglior forma di governo, di parlare delle istituzioni politiche romane; rispetto a Platone, Cicerone si distingue per uno spiccato pragmatismo: non si preoccupa di delineare la forma perfetta di uno Stato ideale, ma di affrontare i problemi politico-istituzionali concretamente e storicamente (molto romano in questo). Il protagonista del dialogo è Scipione Emiliano, il quale nel libro I dà la definizione di res publica, ovvero "cosa del popolo", il popolo che a sua volta è "aggregazione di un gruppo di persone unite da un accordo sui reciproci diritti (iuris consensus) e da interessi comuni; poi presenta le tre migliori forme di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia) e le loro rispettive degenerazioni; Scipio sostiene che la migliore costituzione è quella mista (il cui miglior esempio è proprio lo stato romano); nel libro II storia dello Stato romano; nel III (molto lacunoso) tratta della giustizia, la virtù politica per eccellenza; i libri IV e V sono andati perduti quasi interamente; il VI contiene il sogno di Scipione, al quale Scipio l'Africano anticipa le future imprese e la morte prematura, e rivela che l'immortalità e una dimora nel 97