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Marco Bettalli, Introduzione alla storiografia greca, Sintesi del corso di Storia Antica

Riassunto del testo di storiografia utile per l'esame da 12 cfu di Storia greca, tenuto dalla professoressa Lucia Criscuolo dell'Università di Bologna.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Marco Bettalli, Introduzione alla storiografia greca e più Sintesi del corso in PDF di Storia Antica solo su Docsity! Introduzione alla storiografia greca Capitolo 1 (Storici antichi e moderni: una breve introduzione) La storiografia greca si sviluppa all’interno del contesto sociale della pòlis. I Greci non sono stati i primi a scrivere di storia (già alla fine del III millennio in Mesopotamia abbiamo resoconti ufficiali del passato), ma i Greci hanno inventato la figura dello storico come “soggetto scrivente”, autonomo e svincolato nella ricerca sul passato. Nella società greca questa attività non raggiunse mai uno status prestigioso (né era inserita nella prassi educativa). Gli storici antichi vivevano in un mondo diverso dal nostro, avevano motivazioni e strumenti diversi dai nostri. Erano molto meno emancipati dalla retorica (dovevano rispettare canoni formali rigidi). Per questo un’opera storica antica appare diversa anche nella forma: mancano note e riferimenti alle fonti, c’è una cura per l’omogeneità stilistica che impediva la citazione di documenti e favoriva invece l’utilizzo del discorso diretto (spesso inventato o rielaborato). Inoltre, i testi erano spesso recitati in pubblico e non sempre destinati alla lettura privata. Mancava la definizione precisa del genere (diffi- cile distinguere storia da geografia, biografia, encomiastica o paradossografia). Anche le fonti erano diverse: il documento scritto era raro e in secondo piano rispetto all’autopsia o alla testimonianza diretta o indiretta, ma sempre orale (cultura ancora largamente orale); era anche impossibile avvalersi dell’archeologia. Per questi motivi ha la preminenza la storia contemporanea o recente: gli storici antichi per lo più erano testimoni privilegiati degli avvenimenti di cui parlano (il passato remoto era studiato dall’antiquaria, ancora in forma embrionale). Questo tipo di storia oggi la definiremo storia immediata (instant history), genere che ha un pregiu- dizio negativo (Hobsbawm dichiara che la sua condizione di contemporaneo può aver interferito con il suo mestiere di storico). Per quanto riguarda le fonti, oggi parleremo di storia orale (oral history); genere che negli ultimi decenni ha avuto il favore di quanti apprezzano un approccio antropologico alla ricerca storica (la storia orale è fondamentale per studiare gruppi marginali spesso trascurati dai documenti ufficiali). Questa storia orale non può aspirare alla completezza dell’informazione; invece è questo che noi pretendiamo dal racconto di Tucidide sulla guerra del Peloponneso. Gli storici moderni sono eredi di una tradizione culturale centrata sull’istituzione universitaria, esi- stente dalla fine del XVIII secolo. Tuttavia, dagli storici antichi, autori di opere letterariamente straor- dinarie, abbiamo ancora oggi da imparare. La storiografia moderna sul mondo antico nasce dal supe- ramento del complesso di inferiorità nei confronti dei grandi storici dell’antichità. Molti dei temi che oggi ci coinvolgono sono ereditati dalla storiografia greca: scoperta del passato come terreno da esplorare, indagare e sul quale esercitare le proprie capacità critiche; considerazione della conoscenza del passato fondamentale per la comprensione del presente e la formazione di un’identità comunitaria; concetti storiografici come quello di causa (connessione tra avvenimenti lontani nel tempo e nello spazio); consapevolezza che lo storico ha a che fare con fatti realmente accaduti e che la sua opera deve basarsi sulla documentazione. Gli storici antichi, come noi oggi, avevano il dovere di conoscere e investigare il mondo passato e contemporaneo per comprendere il loro posto nel mondo; ovviamente non trovando la risposta, come non la troviamo noi oggi. Capitolo 2 (Lo storico nel mondo antico: storia e retorica) Scrivere storia per un oratore è il compito più impegnativo. La storia è un compito dell’oratore. Lo storico, distinto dall’oratore deve servirsi solo ai fini di efficacia stilistica delle astuzie formali che l’officina del retore offre. Al retore, professionista della parola, è affidato il compito di ricerca fuori da interessi contingenti e passioni partigiane. L’oratore, in base alle regole del proprio mestiere sa far risplendere la lux veritatis, essenza della storia. La retorica, dal IV secolo a.C., assume una funzione centrale di collante politico e culturale delle pòleis; anche a Roma. La storia a Roma era stata l’attività letteraria liberale per eccellenza che l’aristocrazia senatoria aveva egemonizzato imponendovi la pro- pria visione (Fabio Pittore, Catone non sono uomini pubblici di primo piano, ma trattano gli affari del presente e amministrano per la collettività la memoria dei fatti passati). Cicerone guarda alla Grecia e non a Roma come modello. A Roma lo storico coincide con l’oratore. Ecateo nelle sue Genealogie attacca le conoscenze acquisite in favore della ricerca personale; rap- presenta l’atto di nascita della storia come genere autonomo. Tra VI e V secolo gli storici sono intel- lettuali con l’autorevolezza del saggio, isolati, indagatori imparziali del passato, osservatori solitari del presente. Devono risalire al vero senza farsi condizionare dall’opinione dominante. L’attitudine allo sguardo da lontano fu la vocazione di Erodoto e Tucidide, esuli. Lo storico greco antico è privo di istituzioni che lo sorreggano all’interno della società; lo storico parla da libero pensatore a tutti i Greci. La modalità fondamentale di pubblicazione delle opere storiografiche nell’antichità sono le conferenze o letture pubbliche (secondo Luciano Erodoto avrebbe recitato le sue Storie a Olimpia, davanti al pubblico panellenico). I primi storici sono sospesi tra la consapevolezza del proprio isola- mento nella contemporaneità e il desiderio di trovare un pubblico al quale rivolgersi. La storiografia ha dunque lo stesso mezzo e lo stesso pubblico (panellenico) dell’epica tradizionale. Lo storico aspira ad uno statuto letterario che ancora non ha, lo capiamo dai proemi delle loro opere, cioè la parte più esposta al destinatario, cerniera tra lettore e autore (terza persona nei proemi e poi prima nell’opera). Questi riprendono modelli epistolari tipicamente greci (la terza persona appunto). Lo storico scrive in assenza provvisoria del destinatario, da lontano, e il suo testo serve proprio come collegamento con il suo pubblico. Il modello epistolare rispecchia questa lontananza. Le indagini storiografiche sono dunque delle grandi “lettere aperte” rese possibili da un distacco dal politico ma che devono ritornare al politico. Desiderano rifondare su basi nuove i valori antichi del loro popolo. Lo storico è nella cultura greca inferiore al rapsodo: quest’ultimo può restare nell’anonimato forte dell’egemonia di cui gode; lo storico non può permettersi di tacere il proprio nome. Nel IV secolo c’è stagnazione e storia e retorica si intrecciano sempre di più. L’elogio proemiale del genere storico è abusato. Viene celebrata l’utilità universale e generale della storia, anche per i non dotti (Diodoro, Dionigi, Teopompo, Eforo, Cicerone e anche a Tucidide è attribuita universalità). Dionigi e Polibio si rivolgono più ad un’élite, ma questi esordiscono dichiarando la loro storia aperta a tutti per poi correggersi durante l’opera, limitando l’uditorio alla classe politica. Il rivolgersi, anche solo teoricamente, ad un pubblico il più ampio possibile è un chiaro espediente retorico: la storia raggiunge sul piano politico la retorica; anzi lo storico ambisce ad un pubblico più ampio della citta- dinanza, quello della Grecia intera (la storia greca in un certo senso mina alla chiusura della pòlis). La retorica non è incompatibile con la storia. La retorica non è un repertorio di trucchi equivoci per intortare l’uditorio (anacronismo moderno ed estensione indebita della critica platonica). L’oratore ideale porta il suo pubblico verso la giustizia e la verità: ha un fondamento epistemologico e morale. III Finisce di narrare la conquista di Cambise dell’Egitto, presenta il primo lògos su Samo, torna all’impero persiano, dove, dopo anni turbolenti e la morte di Cambise, succede Dario. Ha spazio il lògos tripolitikòs e analizza le strutture amministrative dell’impero persiano. Termina con i primi anni del regno di Dario. IV Lògoi su regioni conquistate da Dario: Scizia, la cui estocità dei costumi attira Erodoto, e Libia, con la storia della colonia di Cirene. Si conclude la parte incentrata sulle vicende dei barbari. V Cerniera. Narra l’evento epocale della rivolta ionica del 500-494, con un atteggiamento critico verso i rivoltosi. Presenta le prime trattazioni di Sparta e Atene in occasione della visita di Aristagora alle due città. VI Spedizioni persiane in Grecia: spedizione di Dati e Artaferne del 490, culminata a Maratona. Narra vicende contemporanee di Atene, Sparta ed Egina. Termina con un excursus sulle vi- cende di Miliziade successive a Maratona. (VII-IX) Impianto cronologico più tradizionale: seconda guerra persiana con Serse, 480-478. Termina con la presa di Sesto da parte dei Greci dopo Micale. Sono presenti molti elementi di oralità: la composizione “anulare” e l’andamento circolare della nar- razione; stile paratattico; tono ingenuo e andamento novellistico; organizzazione apparentemente cao- tica. Utilizzò fonti orali, come tanti altri storici, e utilizzò letture pubbliche per diffondere la sua opera (sembra rivolgersi a ideali ascoltatori piuttosto che a lettori). Sembra emergere una figura di Erodoto come detentore di narrazioni e depositario della memoria storica della comunità. Quasi un aedo in prosa. Tradusse nella scrittura il vasto patrimonio di tradizioni, racconti e storie, superando la fram- mentarietà di questi scegliendo un argomento unificante per tutti i Greci, le guerre persiane. Ebbe profondi rapporti con la tradizione culturale arcaica ma non vanno dimenticate le interazioni con i movimenti intellettuali a lui contemporanei. La struttura complessiva solo in apparenza appare con- fusa e caotica. Ma, oltre a inesattezze e promesse non mantenute di trattare determinati argomenti, ci sono numerosissimi rimandi interni, testimoni di un’architettura complessa e consapevole. Dunque, la stesura scritta era prevista e non subordinata alle letture, sempre necessarie alla diffusione. Erodoto è uno scrittore e ne è consapevole. Il rapporto tra il testo delle pubbliche recitazioni e il testo a noi pervenuto è il nodo centrale della “questione erodotea”; inoltre, i suoi viaggi erano già finalizzati allo studio per la sua opera? Si fronteggiano “analitici” e “unitari”. Gli analitici, tra cui Jacoby, ritengono che Erodoto abbia maturato la consapevolezza del suo ruolo di storico attraverso un lungo processo: inizia redigendo monografie etnografiche, sulla scia della tradizione ecataica, e solo in un secondo momento le singole ricerche si saldano in un’unica opera. Gli unitari credono nell’unità dell’opera e sul fatto che l’autore avesse concepito il suo lavoro non come frammentario. Ci sono diverse ipotesi sul motivo unificatore. Questa posizione è preferibile vista l’indubbia unità di fondo delle Storie, però non bisogna fare di Erodoto un moderno ricercatore. Si tende dunque a separare un primo Ero- doto, che viaggiatore che accumula conoscenze, ancora legato all’oralità, e un “secondo” Erodoto, determinato a mettere per iscritto quanto appreso (dunque non due momenti di “ispirazione” diversa, come affermano invece gli analitici). Il motivo unificatore dell’opera è la storia ed espansione dell’im- pero persiano nella seconda metà del VI secolo (tesi di De Sanctis). Il mondo greco è l’ultimo con il quale i Persiani entrano in contatto con l’intento di conquistarlo. Alle vicende dell’impero persiano, dunque, si sovrappone la storia del mondo greco e della sua impresa epocale (grande risalto alle guerre persiane). Tentiamo di ricostruire il metodo di lavoro di Erodoto. Dobbiamo tenere presente che Erodoto è uno storico di un periodo che ancora non conosce la storia e perciò i suoi scopi, metodi e risultati sono diversi da quelli di uno storico di oggi. Il periodo oggetto delle sue ricerche coincide con le 3 gene- razioni precedenti alle guerre persiane; è una storia “quasi” contemporanea, prossima, che può rico- struire con testimonianze di quanti hanno un ricordo diretto degli eventi. Questa scelta trova la sua ragion d’essere nella natura delle fonti con cui era inevitabile avere a che fare. La visione diretta (òpsis), l’autopsia, era il metodo privilegiato, ma altrettanto penalizzante: non era possibile vedere tutto ed escludeva la conoscenza di eventi appartenenti ad un passato remoto. Ciò che egli afferma di aver visto direttamente però risulta molto attendibile. La fonte più impiegata nell’opera è quella orale (akoè), trascritta, preferibile in antichità a quella scritta. Egli non può garantire l’attendibilità di tutti i suoi testimoni ed è dunque cosciente dei limiti della sua ricerca. Erodoto è molto simile agli antro- pologi moderni (<<Io ho il dovere di riferire quello che si dice, ma non ho alcun dovere di crederci: sia questa la regola valida per tutta la mia opera>> VII 152.3); egli registra perché nulla cada nell’oblio, il compito di giudicare viene lasciato ai lettori (talvolta anche egli esprime giudizio). Le Storie hanno comunque un livello di attendibilità altissimo, nonostante differiscano per gli scopi da un’opera moderna. Le fonti scritte che Erodoto impiega sono le poche iscrizioni che egli incontra e vede direttamente durante i suoi viaggi. Erodoto era certamente un gran conoscitore della poesia ar- caica, ma sulla conoscenza e sull’impiego di storici contemporanei o precedenti è materia di discus- sione: l’unico citato da Erodoto è Ecateo di Mileto, tratteggiato in modo ironico (gli storici non ame- ranno mai citare i loro colleghi, se non per criticarli ed evidenziarne le manchevolezze). Qualunque sia la risposta, l’originalità delle Storie è troppo complessa e straordinaria per essere messa in dubbio. Per capire quale fosse l’idea del mondo di Erodoto dobbiamo necessariamente rivolgerci alle Storie. Nell’incipit dell’opera egli accenna a due scopi: uno irrealizzabile e vasto (impedire che le grandi gesta dell’uomo sulla terra non vengano dimenticate) e uno “storico” e realizzabile (comprendere le cause del conflitto secolare tra Greci e barbari). Erodoto non inventa il concetto di causalità storica, ma per primo che ha cercato connessioni profonde tra avvenimenti lontani nello spazio e nel tempo, superando il limite dei suoi predecessori, cioè quello di considerare solo il punto di vista della propria comunità: Erodoto considera “l’altro”. Erodoto considera sullo stesso piano i Greci e i “barbari” (so- prattutto Persiani ed Egiziani): il suo è un relativismo privo di pretese di superiorità del suo mondo sugli altri. In una società come quella greca dopo le guerre persiane un atteggiamento erodoteo, teso al dialogo e all’incontro con gli altri, veniva visto male e definito philobàrbaros (come riferisce Plu- tarco). Erodoto ha un atteggiamento equilibrato e disincantato verso le vicende umane, profonda- mente religioso e con una forte tensione etica; alla base di tutto c’è la coscienza della fragilità dei destini umani, soggetti alla volontà divina, imperscrutabile e alla quale è impossibile opporsi. Dunque, è centrale il concetto di misura: l’uomo non deve oltrepassare i propri limiti per non incorrere nella vendetta divina. L’esempio è quello del re egiziano Amasi e il tiranno di Samo Policrate. Erodoto attraverso novelle di sapore arcaico raggiunge una dimensione filosofica universale. È abbastanza impossibile definire politicamente Erodoto che appare inafferrabile, anche sul giudizio che ha della democrazia ateniese (in alcuni casi la elogia, come salvatrice della Grecia, in altri, come nel caso della decisione da parte dell’assemblea ateniese di appoggiare la rivolta di Aristagora, la critica dura- mente); inoltre ha un’indipendenza di giudizio tale da permettergli di attribuire il valore maggiore nella battaglia di Salamina agli Egineti e non agli Ateniesi. Erodoto nella tradizione antica era visto come il padre della storia (definito così da Cicerone), ma visto come uno storico poco affidabile (libretto plutarcheo Sulla malignità di Erodoto). Oggi alcuni studiosi lo vedono come un buon narratore, ma un pessimo storico. La maggior parte degli studiosi invece ammira anche la figura di storico di Erodoto, visto che le sue notizie sono sostanzialmente attendibile e verificate; inoltre, il suo modo libero di fare storia è più vicino alle moderne concezioni di quanto non lo sarà quello tucidideo. Erodoto, dunque, si è posto domande, ha cercato risposte con ricerche, discutendo fonti e lo ha fatto con serenità e onestà, con una visione del mondo profonda e partecipata. Oggi gli studi su Erodoto si concentrano sulla sua dimensione filosofica: rispettoso della dimensione religiosa dell’uomo, era tuttavia conscio della solitudine di quest’ultimo nel cosmo; era inoltre allo stesso tempo orgoglioso dei compatrioti, ma in grado di capire e accettare quanto prove- niva da altre civiltà. Capitolo 5 (Tucidide) Nuovo modo di intendere la scrittura storica: monografica, selettiva, centrata su vicende politico- militari. Modello antitetico rispetto a quello erodoteo, Tucidide ha un’attenzione minuziosa al detta- glio, alla precisione e accuratezza della ricostruzione e alla critica puntuale delle fonti. La storia ca- pace di uno sguardo ampio sulla realtà, aperta a diverse tradizioni (erodotea) è contrapposta alla storia come magistra vitae, severa (tucididea). Se Erodoto è il padre della storia Tucidide ne è il nomothètes. La fonte principale sulla sua vita è Didimo, i cui testi sono perduti ma riportati da altri autori succes- sivi. Poi anche Dionigi di Alicarnasso e Marcellino. Inoltre, ci sono i riferimenti autobiografici che Tucidide inserì nella sua opera. Fu protagonista della guerra: fu inviato a Taso come stratego nel 424, ma il collega Eucle lo chiamò in difesa di Anfipoli, minacciata da Brasida; giunse in ritardo e fu un duro colpo per Atene. Coinvolgimento attivo in guerra di primo piano. La sua strategia nel 424 per- mette di fissare un terminus ante quem per la sua nascita al 455, apparterrebbe dunque alla genera- zione successiva ad Erodoto. Il padre si chiamava Oloro e secondo la tradizione avrebbe avuto legami diretti con i Filàidi, avversari di Pericle, e con una dinastia tracia (dove Tucidide aveva possedimenti). Ci informa di aver assistito alla peste del 430 e di esserne stato contagiato. Nel secondo proemio afferma di essere stato esiliato per 20, fino alla fine della guerra (la tradizione antica era divergeva sulle circostanze della morte ma dava per certo l’esilio; Canfora ha voluto attribuire a Senofonte l’esilio, in quanto, secondo Canfora, scrittore del secondo proemio). Il terminus post quem per la morte è il 397 (iscrizione di Taso in cui compare Lica, arconte di cui Tucidide menziona la morte). Le notizie sono incerte, però hanno un valore simbolico, come l’esilio: lo storico esule, separato dall’appartenenza civica e politica, ricostruisce i fatti libero dalle faziosità della vita politica (nel secondo proemio Tucidide richiama la tranquillità, hesychìa, il disinteresse e la neutralità; il sine ira et studio tacitiano). La formazione culturale e l’impegno politico di Tucidide hanno inizio con la sua accurata educazione; conosceva bene e utilizzò la retorica e la metodologia e il lessico della medicina ippocratica (nuova scienza e disciplina, come la storia). Politicamente era un aristocratico conservatore, ma era permea- bile a elaborazioni intellettuali. Tuttavia, il legame con la cultura del suo tempo è spesso polemico, anche se critica i modi, non le conquiste del suo tempo (i suoi maestri, secondo Marcellino, sono Nicole Loraux evidenziava la distanza incolmabile tra il fare storico tucidideo e quello moderno: ha creato una maggior distanza critica nella valutazione della storia di Tucidide. La struttura complessiva dell’opera segue uno schema diacronico, ma la narrazione non è lineare ma portata avanti tra elementi. In primo luogo, i discorsi, ricostruiti con il principio della akrìbeia sulla base di plausibilità e signi- ficato complessivo; anche in Erodoto compaiono dialoghi o discorsi, ma solo Tucidide ne definisce la forma e limiti. Questi riescono a caratterizzare e chiarire i fatti e i personaggi storici (epitafio di Pericle, dibattito tra Nicia e Alcibiade riguardo alla spedizione siciliana), arricchiscono il quadro della scena politica e mettono in luce il ruolo della parola nella politica greca (quasi tutti i discorsi sono lògoi assembleari, anche se non manca il genere epidittico, come nel caso dell’epitafio, o giudiziario, come nel caso del dibattito tra Tebani e Plateesi: grande conoscenza della retorica da parte di Tuci- dide). Questi discorsi sono un’interpretazione di Tucidide del vero discorso, e lui ci avvisa di questo: non sono storicamente accurati ma contribuiscono alla comprensione dei fatti, del contesto e dei per- sonaggi. In secondo luogo, le narrazioni esemplari di fatti non di primaria importanza, ma che ricor- rono più volte nel periodo preso in esame: Tucidide decide di fermarsi su di essi una sola volta ma in maniera esaustiva. Esemplari sono il caso della peste del 430 che serve da caso esemplare anche per le altre tre pesti: qui descrive puntualmente sintomi, cause e conseguenze del morbo, con attenzione anche alla psicologia collettiva; descrive tutte le pesti in una sola volta. Analogamente fa con la stàsis, per la quale è esemplare quella di Corcira, e per l’assedio, per il quale è esemplare quello di Platea. Da un singolo avvenimento analizza con valenza universale il fenomeno generale. L’ultimo e terzo fattore che rompe la linearità della narrazione è rappresentato dalle digressioni (limitate in numero rispetto ad Erodoto, ma molto rilevanti) che analizzano eventi del passato per capire quelli presenti (archaiologìa, pentecontaetìa, storie di Pausania e Temistocle, storia antica della Sicilia, confuta la tradizione dei tirannicidi cara ad Atene, etc.). In questi casi però l’indagine non può essere autoptica e Tucidide si affida alla propria capacità di individuare i tekmèria, le tracce; non tralascia nulla (dati archeologici ad Atene, Sparta e Micene, tombe a Delo, passi omerici). Tutti questi indizi compongono il quadro finale complesso, faticoso e incerto ma più convincente delle tradizioni poetiche o dei lo- gografi, contro i quali è molto polemico per la ricerca di consenso del pubblico a danno della revisione critica dei fatti. Comunque, il passato non è il luogo dell’indagine storica per Tucidide, tutto sta al giudizio selettivo dello storico ed è apparente (apre con un <<sembra>>, phàinetai). L’archaiologìa segue le regole della dimostrazione, epìdeixis, utilizzando perciò strumenti della retorica che guida ancora ogni prodotto letterario. Ma per Tucidide non esistono dimostrazioni definitive; la verità che Tucidide ricerca ossessivamente non è una verità assoluta, affermata una volta per tutte, ma una verità relativa, la migliore disponibile e aperta a precisazioni progressive. La verità a cui approda è fram- mentaria e parziale, così come il passato è sfuggente. Questo limite è insuperabile, a meno che non si rinunci al rigore della ricostruzione. Le Storie sono dunque una sintesi di talento narrativo e impegno intellettuale; hanno ridefinito il campo d’azione dello storico, inventato la storia monografica. Le vicende militari e le motivazioni di singoli sono frutto di un’inesausta ricerca, zètesis. È presente sia la concretezza degli eventi sia la capacità di astrarre per tendere all’universalità dei meccanismi che li determinano. Visione tragica delle vicende storiche (è tutto un dinamico susseguirsi di lotte per il potere e per l’affermazione del più forte): la logica della sopraffazione e gli elementi irrazionali ap- partengono all’uomo. Capitolo 6 (Senofonte e il IV secolo) Degli storici di IV secolo abbiamo molto poco materiale, tranne per Senofonte, arrivato a noi inte- gralmente. La storiografia greca dopo Tucidide riparte da questo e lo “continua” (però anche gli autori che dichiararono di seguirlo come modello intrapresero percorsi diversi). Nel IV la scuola di retorica ha il suo massimo splendore, tutta la cultura “alta” passa attraverso essa; il massimo esponente è Isocrate, forse maestro di Eforo, Teopompo e Androzione. Dunque, la storia entra in contatto con la retorica e segue una maggiore attenzione dello storico ad aspetti stilistici ed espressivi dell’opera. Importante anche il ruolo delle scuole di filosofia, su tutte quella platonica e quella aristotelica. La storiografia di IV era vista in passato come inferiore a quella tucididea, l’apice a cui segue un declino. Ma l’opera di questi autori va inquadrata nella loro società. I cenni biografici su Senofonte li abbiamo dalle sue opere e dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. Nasce ad Atene intorno al 430, da famiglia del ceto dei cavalieri; riceve un’educazione raffinata, forse socratica. Si schiera nella cavalleria dei Trenta e dopo i successi i Trasibulo è costretto all’esilio (403). Nel 401 è già vicino a Sparta e partecipa alla campagna militare per aiutare Ciro il giovane a conqui- stare il trono persiano ai danni di Artaserse II: la spedizione dei Diecimila narrata nell’Anabasi; dopo la morte di Ciro a Cunassa assume il comando della retroguardia. Nel 396 accompagna il re spartano Agesilao nelle campagne contro i Persiani (a Coronea nel 394 è contro gli Ateniesi). Trascorre 20 anni a Scillunte, vicino Olimpia, per concessione di Agesilao. La disfatta spartana di Leuttra, 371, lo obbligherà a spostarsi: si reca a Corinto e vi rimane fino alla morte. Forse riavvicinamento con Atene verso la fine della vita (i figli a Mantinea sono nella cavalleria ateniese). Scrisse opuscoli sull’arte militare, trattatelli economici (Economico, Entrate), opere biografiche, memorie socratiche e opere storiografiche (Anabasi, Elleniche). Nelle Elleniche, in 7 libri, racconta la storia della Grecia dal 411 al 362. Libri I-II: ultimi anni della guerra del Peloponneso, narrazione strettamente annalistica. Libro II: instaurazione dei Trenta e ri- torno democrazia. Libro III: campagne spartane d’Asia, prodromi della guerra di Corinto, re Agesilao (evento 401-395). Libro IV: guerra Corinto. Libro V: pace del Re (386), processo storico che portò all’egemonia spartana. Libro VI: Leuttra, 371. Libro VII: Mantinea, 362. Inizia là dove le Storie di Tucidide finiscono, ha l’intento di continuarle. Nella parte iniziale è dunque dipendente dal modello tucidideo (manca un vero e proprio proemio; tono impersonale; organizza- zione annalistica; atteggiamento filoateniese, soprattutto verso la figura di Trasibulo. Dalla fine della guerra del Peloponneso l’organizzazione cronologica è meno rigorosa, il tono è più personale, quasi memorialistico, e la prospettiva diventa filospartana, soprattutto verso Agesilao e nella selezione degli eventi narrati (dal terzo libro in poi si concentra sulla storia militare di Sparta; la sconfitta spartana di Cnido è ricordata in breve, mentre tace dei successi dell’ateniese Timoteo, sulla fondazione arcade di Megalopoli, segnale dell’indebolimento di Sparta, sulla fondazione della seconda lega marittima ate- niese. Nulla viene detto del tebano Epaminonda, lodato dagli altri storici, mentre Senofonte ne men- ziona solo la morte). Per Senofonte quando la storia giunge ad un crocevia decisivo si manifesta l’operato di forze sovrumane (daimònion e Tyche); le trame della storia sono dunque determinate dal volere degli dèi (Sparta è destinata a declinare perché non ha rispettato il giuramento sull’autonomia delle pòleis greche). Tralascia la ricerca delle cause politiche e ritorna ad una visione della storia determinata da dialettica tra divino e umano (segue Tucidide sui contenuti e sul metodo, ma sul ra- gionamento storico profondo sono lontani). Un altro tratto nuovo rispetto a Tucidide è il ruolo di spicco delle personalità individuali (da ricollegare con la sua educazione socratica, centrata sul ritratto morale dell’uomo, indagato da Socrate); è il “primo psicologo della storia” (Meister). Un esempio è il ritratto di Alcibiade al ritorno ad Atene nel 408, il ritratto è ambivalente. Un pregio è nella precisa descrizione di battaglie campali e tattiche militari, conoscenze dovute alle due esperienze biografiche. L’Anabasi di Ciro è il capostipite del memoriale di guerra (come i Commentarii di Cesare). In 7 libri narra le vicende tra il 401 e il 399 dei mercenari greci arruolati da Ciro il Giovane per la campa- gna contro il fratello Artaserse II. Libro I: percorso verso l’interno dell’Asia e battaglia di Cunassa, dove muore Ciro. Libri II-IV: descrizione della ritirata dei greci fino al Mar Nero, conflitto tra il Re e il satrapo Tissaferne, tradimenti, diserzioni, rapporti con le popolazioni indigene, fino all’arrivo a Trapezunte. Libri V-VII: rapporti dei Greci con le città greche d’Asia e con Seuthes di Tracia, ricon- giungimento con Tibrone, spartano. L’evento è narrato con prospettiva personale e tono diaristico, appartenenti alla letteratura di viaggio. Risulta anche etnografo verso le popolazioni barbare e ha un tono partecipe, come in III 1.2-3. Se nelle Elleniche è più tucidideo, nell’Anabasi è più erodoteo. C’è il gusto del ritratto nella galleria dei comandanti greci uccisi da Tissaferne. Per il suo forte coinvolgi- mento la narrazione appare favorevole nei confronti della sua stessa figura (nel testo Senofonte man mano prende sempre di più il comando, ma secondo altre fonti è solo il comandante della retroguar- dia); forse c’è un fine apologetico davanti agli occhi di Atene. Per l’appunto fece circolare il testo sotto lo pseudonimo di Temistogene di Siracusa e parla di Senofonte in terza persona. La stesura del testo risale agli anni di Scillunte. Senofonte è un poligrafo che scrive opere di generi letterari assai diversi. Allo stimato Agesilao dedica uno scritto biografico-encomiastico, l’Agesilao, dove elenca le sue imprese militari e qualità morali con un’impostazione retorica. Nella Costituzione degli Spartani con toni encomiastici narra la na- scita e lo sviluppo dello stato spartano da Licurgo; non mancano biasimi e critiche per la decadenza in atto. Nella Ciropedia pone al centro la figura mitizzata del fondatore dell’impero persiano, Ciro il Grande con toni moralistici e pedagogici. Ctesia nacque a Cnido nella seconda metà del V secolo, tra Tucidide e Senofonte dunque. Medico fu nell’orbita di influenza dell’impero persiano (medico personale della regina Perisatide e visse a lungo alla corte di Artaserse II). Ebbe incarichi diplomatici per conto dei Persiani e poi tornò in Grecia. Scrisse le Persikà (da Nino fino al 398), Indikà, Perìodos (opera geografica) e Sui tributi d’Asia (opuscolo economico). Molte influenze erodotee nello spazio dedicato al favoloso, al gusto per l’eso- tico e per la divagazione. Nonostante fosse utilizzato come fonte per il mondo orientale, Ctesia non godeva di buona fama nell’antichità; nonostante ciò, è ritenuto il precursore della storiografia elleni- stica e il fondatore del romanzo storico. Nelle Elleniche dell’Anonimo di Ossirinco sono descritti gli eventi del 407 e del 396. Modo di esporre impersonale, organizzazione annalistica, osservazione diretta dei fatti e rigorosa ricerca delle fonti: tucidideo dunque. L’autore è anonimo, si pensa ad Eforo, a Teopompo o a Cratippo di Atene. Eforo nacque a Cuma, in Eolide, intorno al 400, ad Atene fu allievo di Isocrate insieme a Teopompo. Rifiutò l’incarico di seguire le imprese di Alessandro per scriverne le gesta. Nelle Storie in 29 libri narra dal ritorno degli Eraclidi fino all’inizio del regno di Filippo II di Macedonia; noi possediamo solo frammenti e citazioni. Polibio vedeva in Eforo il primo scrittore di storia universale (quindi la materia era organizzata non in modo annalistico ma per temi): era più ampio dei suoi colleghi tem- poralmente (non continuava solo Tucidide) ma anche spazialmente (narrava anche di popoli barbari, all’uniformità culturale e linguistica dell’ellenismo descrivendo geografia, cerimonie, istituzioni e miti di una specifica città o regione, al fine di preservarne l’identità; si dividono in Attidografi e in storici d’Occidente. La storiografia di popolazioni barbare è scritta o da greci che in greco racconta- vano di popolazioni lontane (contatti favoriti da conquiste di Alessandro) o da nativi che esportavano al mondo greco la loro cultura; Manetone per l’Egitto, Berosso per Babilonia, Megastene per l’India. Secondo la tradizione il primo storico di Alessandro fu Callistene di Olinto, pronipote di Aristotele. Nacque intorno al 370, fu allevato dal filosofo e visse alla corte di Ernia di Atarneo e poi a quella di Pella, poi si unì alla spedizione di Alessandro. Per il suo temperamento impulsivo rifiutò la prosky- nesis in quanto uso barbaro e non greco e fu messo a morte (congiura dei Paggi). Scrisse una Hel- lenikà (da Antalcida, 387, a inizio III guerra sacra, 356), esempio di scuola peripatetica (interessi etnografici, mitologici e geografici), una monografia sulla III guerra sacra (356-346) e le Pytionikài (elenco vincitori gare pitiche). Il lavoro principale sono le Imprese di Alessandro, incompiute per la morte dell’autore (spedizione asiatica fino a Gaugamela, 331); caratterizzate da tono encomiastico e di prospettiva greca, Alessandro è come un dio vendicatore contro i Persiani per le loro colpe nelle guerre precedenti; tornano interessi peripatetici. Storia di Alessandro di Anassimene di Lampsaco (vedi capitolo precedente). Onesicrito di Astpalea scrisse di Alessandro dopo la sua morte. Nasce nel 380 ca., allievo di Diogene di Sinope, prese parte alla spedizione asiatica. Fece da interprete con i gimnosofisti di Taxila (326) e guidò la nave di Alessandro nella discesa dell’Idaspe e dell’Indo con Nearco. La sua opera, Sull’ed- ucazione di Alessandro, dalla nascita alla morte del re, aveva un’impronta di filosofia cinica (Ales- sandro è un re civilizzatore, non vendicatore ma pacifico, che promuove la fratellanza tra i popoli) Nearco di Creta, ammiraglio di Alessandro, lascio la memoria della navigazione dell’Oceano Indiano e del Golfo Persico ne Il Periplo dell’India (da costruzione della flotta fino al ritorno a Susa), opera ricca di informazioni scientifiche, naturalistiche e tecniche; si basa sull’esperienza personale. Ales- sandro è un capo sensibile e generoso, immagine frutto della profonda amicizia tra i due. Tolemeo figlio di Lago, fondatore della dinastia lagide. Nato nel 367 (poco più vecchio di Alessandro) era tra gli amici più intimi del re e fu somatophylax del re nella spedizione asiatica; uccise Besso e marciò alla volta dell’India. Trasformo la sua satrapia d’Egitto in regno personale nel 305; morì nel 283 a 84 anni. Si dedicò alla storia solo in vecchiaia, da re. Non abbiamo il titolo della sua opera che utilizzò Arriano, insieme a quella di Aristobulo, per la sua Anabasi di Alessandro e che si concen- trava su aspetti militari e politici. Ricorre spesso come fonte alla memoria e alle Efemeridi. La spe- dizione ha un carattere macedone, non panellenico; dunque, Alessandro è giusto con gli uomini e con gli dèi, geniale stratega; tace sulle pecche del re. Clitarco di Alessandria, figlio dello storico Dinone, visse ad Alessandria e non prese parte alla spedi- zione (dunque no esperienza diretta). La sua Storia di Alessandro narra retorice e tragice (Cicerone) la vita del re dall’ascesa al trono alla morte. Ebbe un impatto forte sulla tradizione successiva: fu utilizzato da Diodoro Siculo, da Plutarco e da Curzio Rufo. Dà inizio alla tradizione romanzata su Alessandro, opposta a quella pragmatica (Tolemeo e Aristobulo). Carete di Mitilene scrive una Storia di Alessandro di carattere aneddotico; Marsia di Pella una Storia della Macedonia; Efippo di Olinto presenta Alessandro negativamente ne Sulla fine di Ales- sandro di Efestione. L’ultimo a scrivere fu Aristobulo, cittadino di Cassandria in Macedonia, seguì Alessandro fino in India. Restaurò la tomba di Ciro a Cinosarge. Scrisse di Alessandro a 84 anni dall’ascesa al trono alla morte. Disponeva già di molte opere e molto materiale sistematizzato sul re (si è servito di Onesicrito, Efippo, Nearco e Clitarco). La sua trattazione vuole rimuovere gli elementi romanzati e fantasiosi dalla tradizione su Alessandro, restituendo un’immagine il più nitida possibile del re; il suo lavoro sarà apprezzato da Arriano. Le Efemèridi, un diario quotidiano di campo del re Eumene di Cardia durante la spedizione asiatica. Abbiamo solo tre frammenti: battuta di caccia, bevute del re, morte del re. Documento di carattere misto, incentrato sulla vita privata del re, ma anche sulle sue imprese militari e politiche. Gli Hypomnèmata di Alessandro, cioè i suoi ultimi progetti (spostamento di popoli, flotta di mille navi, guerra all’Occidente), menzionati solo da Diodoro, sono di dubbia autenticità. Tra gli storici dei Diadochi spicca Ieronimo di Cardia, un letterato di corte nato nel 360 ca., tra gli amici stretti di Eumene, autore delle Efemeridi. Dopo la morte di Eumene andò alla corte del Monof- talmo e poi a quella del Poliorcete, che lo nominò epimeletès kai armostès della Beozia, e infine a quella del Gonata (fedelissimo agli Antigonidi dunque); morì a 104 anni. La sua opera ha diversi titoli (Storie, Storia dei Diadochi per Diodoro Siculo, Gli avvenimenti dopo Alessandro per il Suda). Tratta il periodo tra la morte di Alessandro (323) e quella di Pirro (272), con un breve accenno alla archaiologìa di Roma. Storico molto importante per Diodoro, Arriano e Plutarco. Pausania critica la sua trattazione in quanto di parte per gli Antigonidi; tuttavia, rimane abbastanza affidabile, con un buon intuito politico e militare, sensibile anche a dettagli concreti e con uno stile sobrio e limpido (storiografia pragmatica). Duride di Samo (340 ca.), ma nato ad Eraclea di Sicilia per l’esilio dei genitori (ritorno a Samo dopo l’editto del 322 di Perdicca). Si proclamava discendente di Alcibiade e fu tiranno di Samo dal 300 al 270, anno della morte. Grande cultura e vasti interessi, anche letterari. Scrisse anche di storia (Annali di Samo, Storia di Agatocle, Makedonikà). La sua Makedonikà partiva dal 370 (morte di Aminta e fine dell’egemonia spartana dopo Leuttra, dunque fase storica nuova) e finiva nel 281 (morte di Lisimaco e Seleuco, cioè fine prima generazione di diadochi). Prospettiva atenocentrica e giudizio severo su Alessandro e molto negativo su Demetrio Poliorcete, emblema di dissolutezza. Ci sono dettagli eruditi e biografici (storiografia drammatica). Fozio, citandolo riporta le parole chiave mìme- sis ed hedonè: dunque cura stilistica, realtà che deve suscitare emozione nel lettore e quindi spazio ad elementi sensazionali. Per l’ampiezza di interessi, etnologici e antropologici, ricorda più Erodoto che Tucidide. Filarco di Atene nel III secolo continua Duride e Ieronimo, scrivendo le sue Storie dalla morte di Pirro (272) a quella di Cleomene (220). Condivide la concezione della storia di Duride. Polibio lo critica in quanto predilige i teratèia (elementi sensazionali e drammatici) per scuotere il lettore e manipola i discorsi riportati per una maggiore bellezza stilistica e un maggiore impatto emotivo sul pubblico (storiografia tragica o drammatica). Ha un gusto per il meraviglioso e per gli aneddoti. Fu utilizzato da Plutarco. Diillo continuò la tradizione tragica nel III con le sue Storie, sulla Grecia e sulla Sicilia dal 357 (saccheggio di Delfi) al 297 (morte di Cassandro). Si poneva come continuatore dell’opera di Eforo. Fu utilizzato da Diodoro. Tra la storiografia di ambito locale emerge quella d’Occidente, insieme a quella degli attidografi, già trattati. Il primo a scrivere una storia della Sicilia sarebbe stato Ippi di Reggio, vissuto al tempo delle guerre persiane. Tuttavia, la sua realtà storica è dubbia Antioco di Siracusa scrisse la sua Storia della Sicilia da Cocalo, re dei Sicani, al congresso di Gela (424). Contemporaneo di Tucidide. Il suo metodo era improntato sulla ricerca di attendibilità e chia- rezza degli eventi. Sul suo racconto probabilmente si basò la archaiologìa siciliana di Tucidide. In IV secolo c’è Filisto di Siracusa (430 ca.), personaggio politico che ebbe importanti incarichi mi- litari sotto Dionisio I e II (comandò la guarnigione di Ortigia); fu esiliato e riabilitato da Dionisio II (fu generale di Dionisio nello scontro con Dione, 356). Scrisse una Sikelikà dal mitico regno di Kokalos al 363. Fu imitatore di Tucidide, con uno stile conciso e chiaro. Timeo di Tauromenio (350 ca.) era figlio di Andromaco, fondatore della città per concessione di Ti- moleonte. Timeo venne esiliato da Agatocle e visse per 50 anni ad Atene, dove si dedicò all’attività storiografica. Visse fino a 96 anni (morte 260 ca.). Polibio ci informa che si occupò di cronologia (liste di arconti ateniesi, di sacerdotesse di Argo, di vincitori olimpici): questo fu il lavoro preliminare alla sua opera; queste cronologie favorirono l’affermarsi della datazione secondo gli anni olimpici (come in Polibio e Diodoro). Nei Pyrrhikà narra le campagne militari di Pirro in Italia fino al 264 (inizio I guerra punica), data alla quale si riconnette Polibio con le sue Storie. Le Storie di Timeo, invece, narravano la storia della Sicilia dal mitico re Kokalos fino alla morte di Agatocle (289); Timeo creava una tradizione mitologica italica, sciolta dal mondo greco, che poneva le basi per le saghe della fondazione di Roma e forniva nuovo materiale per i poeti (Callimaco e Apollonio Rodio ad esempio). Il tema principale erano le vicende dell’isola, ma ampliava lo sguardo anche al mondo italico e cartaginese, e anche a quello romano. Non narrò solo la fondazione delle città, come Ieronimo, ma ne seguì lo sviluppo fino alla I guerra punica. Metodologicamente aveva una grande precisione nel reperire e analizzare i documenti (tensione verso la verità). Aveva una cultura amplissima e spesso criticava i suoi predecessori (Omero, Antioco, Tucidide, Platone, Isocrate, Aristotele, Callistene, Eforo e Teopompo). Caratterizzato da un acceso patriottismo e un atteggiamento antitirannico (con- dizionano la sua obiettività); da un timore religioso, da un gusto per gli avvenimenti straordinari e dal desiderio di mettere in mostra le proprie capacità oratorie tramite la redazione di numerosi discorsi, severamente criticati da Polibio. Questo dà un’immagine negativa di Timeo, come erudito bibliofilo che si avvaleva solo di documentazione letteraria, privandosi dell’esperienza diretta e della vita poli- tica, elementi necessari per lo storico ideale polibiano. Tuttavia, le caratteristiche dell’opera di Timeo sono dettate dalle sue vicende biografiche. Dunque, Polibio non comprende appieno Timeo (forse lo invidia in quanto massimo storico d’occidente, di sicuro non comprende l’utilità di una storia delle Sicilia, per di più scritta non in modo pragmatico) che rimane un sensibile interprete del suo tempo (comprese la minaccia cartaginese, romana e le ragioni della fine di Agatocle). L’interesse per popoli barbari nasce con Erodoto ed Ecateo, ma viene rivitalizzato dalle conquiste di Alessandro. Il greco diventa la lingua universale della cultura. Ci sono sia storici greci che descrivono le nuove popolazioni sia trattazioni in greco di letterati locali. Ecateo di Abdrea (Greco quindi) scrisse gli Aigyptiakà dopo un soggiorno a Tebe sotto il regno di Tolemeo I. Fu allievo di Pirrone. È la fonte principale di Diodoro. Presenta sezioni di cosmologia, teologia, geografia e dinastia locali con una visione molto idealizzata dell’Egitto (modello ideale di monarchia moderata). Ha un fine filosofico-pedagogico: giustificare il nuovo regno lagide e indicare la retta via al monarca. gli influssi di Platone e Aristotele, sommati alla sua esperienza personale. In virtù della programma- tica utilità per l’uomo politico, le Storie danno molto rilievo a conoscenze geografiche e topografiche (maturate da Polibio nei numerosi viaggi intrapresi), che però non hanno uno spazio autonomo, ma sono solamente pratiche e utili. Religiosamente ha un atteggiamento ibrido, tipico del suo tempo: rispetta i culti tradizionale ma ha una visione del mondo utilitaristica e razionalistica; anche la Tyche è più una forza casuale che una forza divina. Vista la finalità utilitaristica, poco spazio rimane alla cura della forma e al piacere della lettura (attacca anche la storiografia tragica di Filarco); la lingua utilizzata è la koinè; lo stile piano, poco elaborato, vicino al linguaggio amministrativo e spesso troppo pedante. Il soggiorno a Roma influì in maniera sostanziale sulla maturazione del suo pensiero. All’inizio aveva una profonda ammirazione per Roma, ma non un’adesione totale: mantiene lucidità e sa cogliere la crisi, tanto che il suo giudizio su Roma si fa sempre meno positivo (viene proprio deluso man mano che vede con i suoi occhi le brutalità e gli eccessi della Repubblica). Gli occhi con cui Polibio guarda Roma rimangono, nonostante tutto, quelli di un greco (scelte delle costituzioni come parametro per i fenomeni storici; sguardo disincantato nello scontro tra Roma e Cartagine, privo di idealismo e più concreto della storiografia latina di quel periodo; visione dei rapporti interstatali tipicamente greca; visione autonomistica e particolarista). Il distacco da Roma accompagna un progressivo recupero dei valori e delle idee achee. La critica polibiana, come abbiamo già visto, ha messo in luce le modeste capacità di elaborazione storica di Polibio, la parzialità e la inaffidabilità storica. Tuttavia, il suo am- bizioso progetto (in parte fallito) ebbe i suoi meriti: per primo si rese conto della svolta storica e delle irreversibili trasformazioni in atto; mise le basi per lo studio dei rapporti fra mondo greco e romano. Inoltre, l’impegno fu notevole e la grande raccolta di dati e informazioni è ancora oggi preziosissima e riuscì a rimanere lucido anche di fronte ad amare delusioni. Capitolo 8 (La storiografia greca d’età romana) Dalla metà del II secolo a.C. l’egemonia romana nel Mediterraneo era ormai consolidata, contempo- raneamente la tradizione storiografica greca di tre secoli era monumentale e divisa in due filoni: “grande storiografia” (monografie, Hellenikà e storie universali) e storia locale, etnografica e crono- grafica.; era molto duttile. Da questo momento gli storici avrebbero dovuto fare i conti con Roma. Ci fu un’opposizione culturale greca (Metrodoro di Scepsi, Timagene di Alessandria e Pompeo Trogo) che esaltava l’impero macedone in opposizione al dominio romano. Tuttavia, la maggior parte delle élites provinciali aderì all’ordinamento romano; tra di loro Appiano e Arriano. In età augustea già Dionigi di Alicarnasso aveva legittimato davanti al pubblico greco il dominio romano. Si fa evidente il rapporto tra storiografia greca e politica (Luciano di Samosata). Posidonio (135 a.C. -51 a.C.) nacque ad Apamea di Siria e studiò ad Atene con il filosofo stoico Panezio e poi a Rodi, dove svolse ruoli politici e di insegnante (secondo la tradizione stoica). Fu ambasciatore per Rodi a Roma ed entrò in contatto con Cicerone. Ebbe vasti interessi (geografici, geologici, astronomici, storici, etnografici, filosofici) e seguì l’impostazione stoica secondo la quale tutte le discipline forniscono strumenti necessari alla riflessione filosofica sul lògos. La storia, infatti, descrive il comportamento degli uomini nella società e nel rapporto con l’ambiente. La sua Storia dopo Polibio (144-80; raggiungeva la I guerra mitridatica) presentava un modello di ascendenza erodotea, con vari interessi, non solo politico-militari. Fu uno storico filosofo che pose al centro il “carattere”, l’èthos, degli individui e dei popoli. Presenta una scarsa simpatia per episodi rivoluzionari (ribellione antiromana di Atene guidata da Atenione o ribellioni di schiavi). Vedeva la pax Romana come manifestazione dell’ordine razionale del cosmo; dunque, come Polibio, non metteva in discus- sione l’imperialismo romano. Tuttavia, individua i fatti di decadenza morale del dominio romano, che però restava in origine fondato sulla giustizia. Diodoro Siculo, nato ad Agirio, visito l’Egitto sotto il regno di Tolemeo XII e scrisse una Biblioteca storica (enciclopedia della vicenda dell’uomo, dalle origini del mondo fino all’inizio della guerra gallica di Cesare). La sua opera non ci è giunta per intero, solo 15 libri sui 40 originali. La sua Bi- blioteca è un esempio di storia universale con premesse proemiali di natura stoica: c’è un’unità di fondo del genere umano, che va al di là di divisioni spazio-temporali; la provvidenza regge il mondo e lo storico deve prendere nota delle manifestazioni dell’ordine cosmico. Fece molti viaggi, anche se l’autopsia non fu molto utile per la sua opera che si servì piuttosto di fonti scritte (risorse librarie di Roma e di altre città ellenistiche), come suggerisce il titolo. La critica dibatte se l’opera di Diodoro sia solo una compilazione di fonti senza personalità dell’autore oppure no. Le sue principali fonti, comunque, furono Eforo (autore della prima storia universale), Ctesia (per Assiria e Media), Ecateo di Abdera (Egitto), Megastene (India), Clitarco (Alessandro Magno), Timeo e Duride (Sicilia), Iero- nimo di Cardia (diadochi), Polibio e Posidonio (storia romana). Dionigi nacque nel 60 ca. ad Alicarnasso, stesso città di Erodoto; verso il 30 si traferì a Roma dove frequento Quinto Elio Tuberone e trovò un’ambiente piacevole e ricco di attrattiva, verso il quale si sentì sempre in debito. A Roma si affermò come retore, cioè maestro di eloquenza; fu amico di Cecilio di Calatte e fu capofila dell’atticismo. Roma era il luogo ideale per la sua riforma oratoria (sobria e lontana da decadenza e corruzione orientale). Inoltre, a Roma poté accedere ai documenti scritti e alle informazioni orali delle grandi famiglie. Scrisse la Storia di Roma arcaica (Rhomaiké arachaiologìa o Antichità romane) che narrava eventi dai primi popolamenti dell’Italia fino al 264 (I guerra punica). Lo scopo dell’opera è far conoscere le origini di Roma anche al popolo greco. Il concetto, di natura soprattutto ideologica, che promuove è quello che i Romani sono originariamente Greci; il suo pro- getto politico alla partecipazione diretta di Greci nella politica romana. Non è servo di Roma, ma è un intellettuale interprete del suo tempo che cerca soluzioni vantaggiose sia per i Greci sia per i Ro- mani. Per la natura del suo progetto ambisce ad avere un pubblico il più vasto possibile; si rivolge sia all’esperto che al neofita di storia e lo fa inserendo nel racconto elementi di retorica e di filosofia (sulle orme di Teopompo). Nasce nel 37 d.C. ca. (inizio regno di Caligola) da una prestigiosa famiglia sacerdotale di Gerusa- lemme. Giunse a Roma nel 64 d.C. e frequentò ambienti elevati (ottimi rapporti con Poppea Sabina, moglie di Nerone). Ritornò a Gerusalemme e si trovò spinto dagli Zeloti (ebrei estremisti) in una rivolta antiromana (66-70 d.C.); sostenne la difesa della Galilea da Vespasiano ma capitolò (67 d.C.). Fu fatto prigioniero, ma predisse il trono a Vespasiano e, essendosi verificata la predizione, fu liberato e ottenne la cittadinanza romana (anche il nomen del suo liberatore, Flavius). Giuseppe era sicuro dell’ineluttabilità del dominio romano, ma non riuscì a scongiurare la rivolta di Gerusalemme. Morì a Roma intorno al 100. È uno dei pochi autori antichi di cui possediamo gli opera omnia (grazie al Cristianesimo). Scrisse la Guerra giudaica in aramaico (per il pubblico orientale) e in greco (per il pubblico dell’impero), concentrandosi sulla rivolta del 66 d.C., terminata nel 73 con il suicidio di massa a Masada; scrive con punto di vista filoromano per tramandare al pubblico imperiale la storia del suo popolo. Nelle Antichità giudaiche narra dalla creazione del mondo al 66 d.C.; parafrasa l’Antico testamento, integrandolo con fonti aramaiche apocrife e autori greci). Scrisse l’Autobiogra- fia per fini apologetici rispetto all’opera di Giusto Tiberiade nella quale la sua figura era messa in cattiva luce e non per esplorare il suo io. Nella Contro Apione confuta le tesi antisemite di Apione, grammatico di Alessandria. Lucio Flavio Arriano nacque a Nicomedia, capitale della Bitinia nel 90 d.C. ca. e in Epiro seguì le lezioni filosofiche di Epittéto. Partecipò alla spedizione di Traiano contro i Parti (114-117), fu gover- natore della Betica, fu console suffetto e governò la Cappadocia come lagatus Augusti pro praetore; in vecchiaia si ritirò ad Atene e ne ottenne la cittadinanza e l’arcontato; morì nel 170 ca. Scrisse le sue opere storiche ad Atene. Fu politico, soldato, intellettuale: versatilità di Arriano anche negli inte- ressi. I contemporanei lo consideravano “filosofo”. Tra le opere storiografiche la principale è l’Anàbasi di Alessandro, in cui imita lo stile di Senofonte e narra la spedizione in oriente dal 336 al 323, basandosi su fonti autorevoli (Tolemeo e Aristobulo). Questa spedizione segna il tramonto dell’epoca classica, ma al tempo stesso è un’impresa senza eguali. Mette in luce il rapporto ambiguo tra i Romani e la figura di Alessandro: questo era creatore dell’unico organismo politico comparabile all’Impero, ma la sua fu una creazione che non durò nel tempo, a differenza del dominio romano (per questo la sua figura fu uno stimolo privo di complessi di inferiorità per i generali e imperatori romani). Quando scrive Arriano ormai trattare Alessandro significa celebrare Roma e l’imperatore. Scrisse anche l’Indikè, di ispirazione erodotea: etnografia indiana aggiunta al ritorno di Nearco dall’Indo. Appiano nasce verso il 90 d.C. ad Alessandria, dove svolse incarichi di rilievo; sotto Adriano si tra- sferì a Roma e svolse l’attività di avvocato, legandosi a Cornelio Frontone, che intercedette per lui presso Antonino Pio, facendogli ottenere la carica di procuratore. Morì a Roma intorno al 160. La sua Storia romana ci è nota grazie al proemio e al riassunto nella Biblioteca di Fozio: giungeva fino alla conquista dell’Arabia da parte di Traiano, nel 106. La materia è ripartita per popoli, dunque ha una struttura generale etnografica (come i primi libri delle Storie di Erodoto), per non disorientare il lettore (una trattazione cronologica avrebbe comportato lo spostarsi da un luogo ad un altro in conti- nuazione). Esalta l’impero sottolineando le componenti provinciali di quest’ultimo, in quanto greco. La sua opera è indispensabile per conoscere gli ultimi secoli della Repubblica (lacune della storio- grafia latina); il suo valore è da tramite con le fonti, poiché per il resto è spesso approssimativo e impreciso. Claudio Cassio Dione Cocceiano nasce a Nicea, in Bitinia, verso il 164 a.C. da una importante fami- glia provinciale. In Cilicia approfondì la sua formazione retorica e a Roma iniziò la carriera politica. Il suo cursus honorum ebbe una battuta d’arresto per il logoramento dei rapporti con Settimio Severo; seguì Caracalla in Oriente, fu governatore di varie provincie e fu console per due volte, poi ritornò in patria. Scrisse la Storia romana in ventidue anni di lavoro, narrando dall’arrivo di Enea al 229 d.C., la sua contemporaneità. L’impianto autoptico e lo stile seguono i modelli della grande prosa attica, Tucidide e Demostene. La narrazione è annalistica e dal punto di vista linguistico tende al purismo. Si rifà ad autori romani precedenti (Livio, Tacito, Sallustio, Cesare, Svetonio) e ai Partikà di Arriano. Erodiano, nato ca. nel 180 in Oriente (forse Siria), ha una matrice culturale e ideologica simile a quella di Cassio Dione. Ebbe incarichi amministrativi. Scrisse le Storie dell’impero dopo Marco, narrando i 60 anni (180-238) dalla morte di Marco Aurelio alla salita al trono di Giordano III. È interessato alla dinamica concreta degli eventi, ma è molto superficiale (gli sfuggono lo sviluppo del tempo; inoltre, le nuove iscrizioni richiedono tempo per potere essere studiate. Tuttavia, il Supple- mentum epigraphicum Graecum e il Bulletin épigraphique permettono una visione aggiornata e abbastanza completa del materiale a disposizione. In secondo luogo, le iscrizioni non possono con- tribuire alla ricerca storica in ogni campo e aspetto. Inoltre, le iscrizioni hanno una distribuzione geografica irregolare (Attica, Asia Minore e santuari di Delo, Delfi ed Epidauro sono ricchissimi di documentazione). Infine, sono utilizzabili come fonte storica solo se si riesce a ricostruire bene il contesto che le ha generate. A proposito Millar afferma che un documento epigrafico può essere uti- lizzato come fonte storica quando si ha un numero sufficiente di testi appartenenti alla stessa area geografica o tematica e quando questi possono essere ricondotti ad un contesto intellegibile. Louis Robert (studioso dell’Asia Minore) affermava che l’epigrafista necessita di conoscenza filologica, letteraria, ma egli deve anche collaborare con le altre discipline storiche (archeologia, papirologia, numismatica), ricordandosi che i testi epigrafici sono solo il punto di partenza per approfondire aspetti della vita e della storia del mondo antico. Capitolo 11 (Geografia e storia) Nel VII e VI secolo si intensificano le relazioni all’interno del Mediterraneo e nasce l’esigenza pra- tica di produrre testi geografici. La prima carta geografica (pìnax) fu di Anassimandro di Mileto (metà VI secolo); Ecateo di Mileto perfezionò questa prima carta e la arricchì di una Periegesi. Il Gran Re commissionò molte spedizioni esplorative all’interno del suo regno, come quella di Scilace di Carianda (discese fino alla foce dell’Indo e scrisse sia un Periplo sia una Periegesi). Dunque, la necessità di testi geografici si faceva sentire nelle colonie greche, come anche a Cartagine e in Per- sia. Le tipologie principali sono due. Il periplo è la descrizione morfologica della costa (più pratico, la via di comunicazione principale era quella marittima); la periegesi è la descrizione di tutte le zone della terra, interne e costiere (più narrativa, con interessi anche antropologici ed etnografici). Per primo Ecateo tentò di mettere in ordine le tradizioni e leggende che circolavano sui luoghi esterni alla Grecia nella sua Periegesi (utilizzò probabilmente il periplo di Scilace) che rimase per molto tempo una delle principali fonti di informazione, utilizzata anche da Erodoto. L’interesse et- nografico è tipico dell’Asia Minore, ponte tra mondo greco e persiano; molti della scuola ionica si dedicheranno a questi interessi, tra cui Aristagora di Mileto (a Sparta, dal re Cleomene, porta le carte geografiche per chiedere aiuto). Con il V secolo l’intresse geografico si espande anche ad Atene, con Erodoto, Tucidide e Senofonte (Anabasi) che testimoniano il rapporto stretto tra geogra- fia e storia. Nel IV secolo si utilizza un approccio più scientifico nello studio del rapporto tra uomo e ambiente (Aristotele, ad esempio, studia la geografia senza alcuna connessione storica, solo per interessi fi- sici). Alessandro Magno nelle sue campagne portò con sé studiosi per sfatare i pregiudizi dei Greci in merito di popoli lontani (Aristobulo e Nearco hanno interessi prettamente geografici). Pitea di Marsiglia nella seconda metà del IV secolo si avventurò nell’Oceano atlantico puntando a nord (an- che se né Strabone né Polibio gli credono). In età ellenistica il centro degli studi, anche geografici, diventa Alessandria d’Egitto, dove lavora Eratostene, vero innovatore della scienza geografica (mi- sura la circonferenza terrestre, intuisce la forma della terra grazie ad interessi matematici ed astro- nomici, anche se la sua opera non fu apprezzata da Strabone). Gli studi alessandrini diventano però eruditi, fine a sé stessi, senza finalità storico-antropica (tant’è che li utilizza Apollonio Rodio, lette- rato, nelle Argonautiche). Eraclide Critico nel Sulle città della Grecia descrive l’Attica, la Beozia e l’Eubea di III secolo. Infine, anche Polibio dimostra interessi geografici, fondamentali per lo sto- rico e per l’uomo politico. A Roma la geografia non ha uno sviluppo pari a quello che ha in Grecia. Ricordiamo le Origines di Catone il Censore e i vasti interessi di Posidonio di Apamea. Nel I secolo a.C. assume maggiore im- portanza con gli interessi etnografici e geografici di Cesare (distingue tra tribù celtiche e germani- che) e il desiderio di Cicerone di scrivere una Geographikà (lettere ad Attico); inoltre Augusto si fa carico della realizzazione di una carta dell’intera ecumene. In questo contesto si inserisce Strabone di Amasea, nel Ponto, nato nel 64 ca. da una ricca famiglia; trasferitosi ventenne a Roma, vi rimase fino alla morte, 24 d.C. circa. Scrive anche di storia (Commentari storici, continuazione dell’opera di Polibio), ma la sua opera principale sono i Geographikà. Nei primi due libri, I Prolegòmena, delinea i compiti del geografo: egli deve essere filosofo stoico e deve scrivere per un uomo politico, per il quale la conoscenza della geografia, accompagnata da quella della storia, è fondamentale. Strabone, partendo da Omero, ripercorre le posizioni di tutti i geografi fino all’età ellenistica: non gli interessano solo gli aspetti fisici, ma anche quelli della geografia umana (non apprezza Erato- stene, anche se ne fa largo uso, per le sue scarse conoscenze matematiche). Dunque, la geografia ha uno scopo innanzitutto pratico e politico: segue Polibio, ma si distacca conferendo alla geografia maggiore importanza rispetto alla storia. Mostra affinità con Dionigi di Alicarnasso: stesso am- biente culturale augusteo di integrazione tra mondo greco e romano. Strabone fu ignorato dai con- temporanei, ma riabilitato in età bizantina. Pausania, originario d’Asia Minore (forse di Magnesia sul Sipilo o Pergamo), nasce intorno al 110 d.C. e muore nel 180 ca. Scrisse la Periegesi della Grecia in dieci libri, interamente pervenuti, nar- rando il suo viaggio nelle regioni della Grecia continentale. Scrive nel clima pacifico dell’età degli Antonini, quando la Grecia si riappropria del ruolo di guida culturale dell’Impero: Pausania vuole riproporre le immagini di una Grecia di una volta. È, dunque, un’operazione nostalgica (posizione antitetica di Strabone. La Periegesi ebbe poco successo in antichità; Wilamowitz la giudicò come inattendibile, ma nella seconda metà del XX secolo è stata rivalutata, sia come fonte attendibile sia per il suo valore culturale e letterario. Pausania segue il modello erodoteo: dal punto di vista stili- stico lo imita; in quanto fonte lo cita; per quanto riguarda il metodo utilizza le stesse argomentazioni di Erodoto. L’autopsia è fondamentale per Pausania, ma si avvale anche di fonti orali (gli exegetài) e di fonti scritte (Omero, Pindaro, Erodoto, Tucidide, Senofonte, Ieronimo di Cardia, Duride, forse Plutarco e opere di letteratura minore di cui sappiamo pochissimo). Per le fonti orali utilizza lo stesso criterio erodoteo (<<Mi corre l’obbligo di dire le cose affermate dai Greci, ma non sono poi costretto a credere a tutte>>). L’opera di Pausania, dunque, non è di grande valore letterario e arti- stico, ma estremamente utile come fonte, inserendosi in un contesto di recupero della Grecia clas- sica a Roma.