Scarica Microbiologia - La Placa concentrato [versione 1.3] e più Dispense in PDF di Microbiologia solo su Docsity! MICROBIOLOGIA Appunti di Gabriele Fusto - 5 - EMOLISI RADIALE IN GEL Nel caso di antigeni che possono essere adsorbiti alla superficie delle emazie senza previa fissazione (come per esempio dei virioni), l’aggiunta dell’anticorpo cor- rispondente e di complemento determina un’emolisi. Incorporando in un gel le emazie con gli antigeni (cioè i virioni) adsorbiti alla loro superficie e facendo diffon- dere da pozzetti il siero in esame, dopo l’aggiunta sul gel di un siero di cavia contente del complemento, in presenza di anticorpi specifici nel siero comparirà un alone di emolisi radiale di diametro direttamente pro- porzionale alla concentrazione degli anticorpi specifi- ci contenuti nel siero collocato, all’inizio, nel pozzetto. FISSAZIONE DEL COMPLEMENTO In alcuni casi, l’avvenuta formazione di immunocom- plessi non è associata a fenomeni osservabili diretta- mente, ma può esser messa in evidenza dimostrando la fissazione di una quantità nota di complemento agli immunocomplessi stessi. Per fare ciò, innanzitutto si elimina il complemento presente nel siero denaturan- dolo mediante un riscaldamento ad alte temperature. Dopo aver mescolato le varie diluizioni del siero con una quantità fissa di antigene, a ciascuna miscela si aggiunge una quantità nota di siero di cavia ad attività "complementare" nota ed il tutto viene incubato per un tempo sufficiente a garantir la formazione degli IC. Per sapere se gli IC si sono formati e quindi se il com- plemento si è fissato ad essi, occorre aggiungere ad ogni miscela una quantità fissa di emazie di montone trattate con rispettivo antisiero (IC rivelatore); in caso affermativo, il complemento non sarà disponibile per il legame con le emazie e non si verificherà emolisi; in caso contrario (cioè se non si formano degli immuno- complessi), invece, il complemento sarà ancora libero e potrà dunque legarsi alle emazie, causandone la lisi. In sintesi, l’assenza dell’emolisi indica che c’è una rea- zione positiva tra il siero in esame e l’antigene noto. REAZIONI DI NEUTRALIZZAZIONE La reazione di immobilizzazione consiste nel cimen- tare, in presenza di complemento, un siero immune o presunto tale con un microrganismo normalmente mobile. L’unione degli anticorpi con il complemento alla superficie del microrganismo provoca alterazioni strutturali dello stesso, che si traducono nella perdita della motilità (apprezzabile all’esame microscopico). La reazione di inibizione dell’emoagglutinazione per- mette di valutare la sieropositività mettendo a con- tatto un presunto siero immune con un virus emoag- glutinante (che in caso di positività perde la capacità di legare le emazie poiché neutralizzato da anticorpi). REAZIONI CON TRACCIANTI • Immunofluorescenza diretta e indiretta • Reazioni immuno-enzimatiche (ELISA) = Si tratta di reazioni catalizzate da un enzima (che si attiva in seguito alla formazione di un IC) e che si veri- ficano se si aggiunge il relativo substrato. Solita- mente si associano a dei cambiamenti cromatici - • Western blot = Prevede il frazionamento delle componenti di un microrganismo con l’elettro- foresi ed il loro trasferimento su strisce di nitro- cellulosa, che vengono poi cimentate con siero immune o presunto tale (in caso di sieropositi- vità, gli anticorpi aderiscono in corrispondenza delle bande contenenti gli antigeni specifici e la formazione di immunocomplessi in quel punto viene evidenziata grazie a reazioni enzimatiche) • Particelle di oro colloidale legate alla proteina A stafilococcica (che lega la porzione Fc degli anti- corpi) = Permette di rilevare immunocomplessi - - 6 - PARTE I BATTERI - 10 - CENNI DI GENETICA La replicazione del DNA avviene anche nei batteri con meccanismo "semiconservativo" ed esistono almeno tre DNA polimerasi (I, II, III). La sintesi di nuove mole- cole di DNA avviene in modo continuo nella direzione 5’ → 3’ e in modo discontinuo nella direzione 3’ → 5’. Durante la replicazione, il DNA del cromosoma batte- rico mantiene la forma circolare e la sintesi nucleoti- dica avviene nell’ambito di alcune forcelle replicative. Un meccanismo alternativo "unidirezionale" è quello della replicazione a rolling circle, che si verifica per lo più a livello dei plasmidi. Uno specifico enzima taglia, in un punto di origine, uno dei due filamenti di DNA e rimane legato alla sua estremità 5’, mentre all’estre- mità 3’ una DNA polimerasi aggiunge nucleotidi scelti in base alla complementarietà con la catena rimasta integra, che funge da stampo. Contemporaneamente alla sintesi, la catena di DNA tagliata si dipana, sepa- randosi progressivamente da quella integra, ed al ter- mine della sintesi se ne distacca completamente, po- tendo essa stessa fungere come stampo per la sintesi di un’altra catena con cui può, infine, ricircolarizzarsi. I batteri si riproducono per scissione binaria: la dupli- cazione del cromosoma, assieme al punto in cui esso è ancorato alla membrana, si accompagna a un accre- scimento delle membrane e dunque della cellula bat- terica, che culmina con la formazione di un setto della membrana citoplasmatica, all’interno del quale se ne forma uno di parete cellulare, e che, infine, separa le cellule figlie (a volte la separazione non è completa e ne risultano quindi dei raggruppamenti caratteristici, quali diplo-cocchi / -bacilli e strepto-cocchi / -bacilli). Il genoma batterico è caratterizzato dalla presenza di un unico cromosoma, dalla tendenza dei geni a essere raggruppati in unità trascrizionali policistroniche (per cui cioè una singola molecola di mRNA viene tradotta in più prodotti – sono chiamate operoni), dall’assenza di introni e di sequenze ridondanti e dall’esistenza di plasmidi. Conseguenza della "aploidia" dei batteri è la immediata espressione fenotipica di ogni mutazione. Plasmidi I plasmidi sono degli elementi genetici accessori pre- senti (spesso in copie multiple) nella maggioranza dei batteri. Sono formati da una molecola di DNA bicate- nario circolare, molto più corta (1k - 200k bp) rispetto a quella cromosomica. Tutti i plasmidi contengono dei geni necessari e sufficienti alla loro duplicazione e, se non ne contengono altri, sono detti plasmidi criptici. Molti plasmidi possiedono dei geni che codificano per prodotti utili a garantire la sopravvivenza batterica in particolari situazioni o possono codificare per tossine o enzimi in grado di conferire una resistenza a diversi farmaci antibatterici. I plasmidi coniugativi hanno dei geni il cui prodotto promuove la coniugazione di due batteri (uno donatore e uno accettore) e quindi il tra- sferimento orizzontale degli stessi plasmidi o di altri. Elementi trasponibili Sia il cromosoma batterico sia i plasmidi contengono delle sequenze di DNA chiamate elementi trasponibili che sono in grado di traslocare da una regione all’altra del genoma dello stesso batterio previa duplicazione (l’elemento originale rimane nella propria sede e una sua copia si inserisce in un’altra regione del genoma). L’inserzione provoca in genere una mutazione, poiché interrompe la sequenza di un gene, impedendone la funzione; tuttavia, se questa non è letale, può confe- rire al batterio la capacità di codificare nuovi prodotti. Si possono distinguere tre tipi di elementi trasponibili: sequenze d’inserzione e trasposoni (che differiscono per la loro grandezza) ed elementi invertibili (che gra- zie all’enzima DNA-invertasi son capaci, pur restando nella sede originale, di invertire il loro orientamento). Il trasferimento intercellulare nei batteri può avvenire secondo tre processi: trasformazione (in cui i batteri assumono dall’ambiente DNA presente in forma solu- bile), trasduzione (una conseguenza di errori replica- tivi nei batteriofagi) e coniugazione (un trasferimento diretto da cellula a cellula in seguito al loro contatto). - 11 - COLORAZIONE DI GRAM La colorazione di Gram è la più importante tecnica dif- ferenziale (in cui si utilizzano più coloranti) impiegata per aumentare il contrasto dei preparati microscopici. 1) Trattamento del preparato con una soluzione di cristalvioletto (un colorante) per 2-3 minuti - 2) Fissaggio della colorazione mediante soluzione di Lugol (contenente iodio molecolare e ioduro di potassio), che è lasciata agire per un minuto - 3) Trattamento del preparato con un decolorante (per es. etanolo o acetone) per circa 1-2 minuti 4) Trattamento con un secondo colorante che sia facilmente distinguibile dal cristalvioletto (per es. safranina, che conferisce colore rossastro) - Al termine della procedura, i batteri che risultano co- lorati in violetto (nei quali il decolorante non è riuscito ad asportare il cristalvioletto) son detti Gram-positivi, mentre quelli colorati in rosso (da cui il cristalvioletto è stato rimosso per via di una permeabilità maggiore della cellula batterica) vengono detti Gram-negativi. Gram-positivi I batteri Gram+ hanno una spessa parete cellulare, co- stituita da numerosi strati di PG cui sono intercalati gli acidi tecoici, dei polimeri di alcoli polivalenti (per es. glicerolo) fosforilati e altamente antigenici, ai quali si legano degli amminoacidi oppure dei monosaccaridi. Per la loro diversa composizione nelle diverse specie di batteri, gli acidi tecoici (AT) contribuiscono notevol- mente alla specificità antigenica di questi ultimi; inol- tre, alcuni hanno una funzione strutturale poiché an- corano la parete cellulare alla membrana plasmatica. Gram-negativi I batteri Gram– hanno una parete più sottile formata soltanto da peptidoglicano (senza acidi tecoici) e una seconda membrana plasmatica, esterna alla parete e anch’essa a struttura bilaminare ma asimmetrica, poi- ché mentre il foglietto interno è costituito da fosfoli- pidi, quello esterno è formato da molecole di lipopo- lisaccaride (LPS), nel quale si distinguono tre porzioni: • Il lipide A (un disaccaride fosforilato della gluco- samina legato ad una serie di acidi grassi saturi), chiamato pure endotossina in quanto principale mediatore della patogenicità dei Gram-negativi - • Un core formato da una corta catena di zuccheri contenente un eptoso e il cheto-deossioctonato - • L’antigene O – una lunga catena polisaccaridica dotata di notevole antigenicità e formata da una ripetizione di subunità oligosaccaridiche a com- posizione differente nelle varie specie di batteri - FATTORI DI VIRULENZA BATTERICA Con virulenza si intende il grado di patogenicità di un organismo, cioè la sua capacità di invadere un ospite, di moltiplicarsi al suo interno e di indurvi delle mani- festazioni patologiche. Essa dipende da vari effettori, codificati da geni che, a volte, sono riuniti nel genoma a formare isole di patogenicità [come ad esempio cag in Helicobacter pylori ]. I fattori di virulenza includono fattori di adesività e antifagocitari, fattori che permet- tono di eludere il sistema immunitario (come la capa- cità di variare i caratteri antigenici e il mimetismo mo- lecolare), fattori di invasività (enzimi idrolitici [tra cui ialuronidasi, proteasi ecc] e flagelli, che consentono ai batteri di invadere i tessuti e di raggiungere quelli pro- fondi) e fattori tossigeni (esotossine ed endotossina). Gran parte dei batteri che causano infezioni esogene invadono l’ospite a livello di una mucosa (soprattutto quella respiratoria o enterica), che colonizzano grazie ai loro fattori di adesività, contrastando le varie difese locali (muco, IgA secretorie ecc – anche grazie per es. a idrolasi o tossine ciliostatiche) e spesso entrando in competizione con la sua flora batterica commensale. - 12 - Nei batteri Gram-negativi, data la complessità dei loro involucri esterni, la secrezione delle diverse molecole effettrici avviene mediante appositi sistemi secretori. La presenza in un distretto dell’organismo di una ele- vata concentrazione di particolari sostanze nutritive è un elemento che può favorire la localizzazione prefe- renziale di alcuni batteri in quel distretto (tropismo). Fattori di adesività L’adesività dei batteri è mediata dai polisaccaridi cap- sulari e da proteine dette adesine, che sono collocate sui pili (fimbrie) o sulla superficie batterica (nel cosid- detto strato cristallino). Le adesine si legano ai residui glicidici di glicoproteine o glicolipidi presenti sulle cel- lule epiteliali [un esempio di adesina è la proteina F di S. pyogenes]. I polisaccaridi capsulari possono favori- re l’adesione dei batteri a superfici lisce e inerti (come lo smalto dentale, valvole cardiache e impianti prote- sici) e, in seguito alla moltiplicazione dei batteri stessi, l’accumulo di materiale capsulare può determinare la formazione di un biofilm, che protegge i microrganis- mi dagli effettori del sistema immunitario ed ostacola la diffusione degli antibiotici. La capsula conferisce ai batteri anche una proprietà antifagocitaria (in quanto impedisce il contatto con i fagociti e il legame dei fat- tori del complemento alla loro superficie); può essere messa in evidenza sospendendo i batteri in una goccia di inchiostro china, che all’osservazione microscopica fa sì che essi appaiano circondati da un alone chiaro. Tossine batteriche La tossicità dell’endotossina (lipide A di LPS) dipende da una risposta abnorme del sistema immunitario nei suoi confronti: LPS, veicolato da LPS-Binding Proteins (proteine circolanti prodotte dal fegato) viene legato dal recettore Toll-Like 4 e dal suo co-recettore CD14, entrambi espressi dai macrofagi. L’attivazione di TLR4 induce la sintesi di varie citochine, tra cui le principali sono TNF-α ed IL-1 (che stimolano la sintesi di prosta- glandine e sono i mediatori dello shock endotossico). L’azione delle citochine infiammatorie si accompagna a quella del sistema del complemento, attivato anche esso dal LPS. L’endotossina promuove inoltre l’attiva- zione piastrinica e può causare fenomeni trombotici. Se molto intensi, questi meccanismi difensivi possono apportare, così, più danni che benefici all’organismo. Le esotossine sono di natura proteica e quindi hanno ottime proprietà antigeniche. Di solito sono termola- bili e sensibili all’azione dei succhi gastrici (con l’ecce- zione delle enterotossine stafilococciche e della tossi- na botulinica) e, se denaturate, pur perdendo la loro tossicità, spesso conservano le loro proprietà antige- niche e possono quindi essere impiegate per allestire alcuni vaccini (queste sostanze son dette anatossine). Alcune esotossine interagiscono con dei recettori cel- lulari più o meno diffusi nell’ospite, altre agiscono in- terrompendo i legami inter-cellulari (come la tossina epidermolitica di S. aureus) o danneggiando diretta- mente la membrana cellulare, ad es. provocandovi la formazione di pori (dette citolisine o emolisine); altre ancora agiscono solo dopo essere penetrate dentro la loro cellula bersaglio – queste ultime sono chiamate tossine binarie (o di tipo A-B), in quanto formate da due componenti, delle quali quella indicata con "B" ha funzione recettoriale ed è in grado di interagire con la superficie della cellula, permettendo la traslocazione all’interno del citosol della componente "A", cioè la tossina vera e propria, che è provvista di una qualche particolare attività enzimatica dannosa per la cellula (per es. alcune tossine hanno attività ADP-ribosilante che causa un aumento della concentrazione di cAMP oppure provoca una inibizione della sintesi proteica). TOSSINE CHE AUMENTANO [cAMP] Tossina colerica di V. cholerae Tossina pertossica di B. pertussis Tossina termolabile di E. coli TOSSINE CHE BLOCCANO LA SINTESI PROTEICA Tossina difterica di C. diphtheriae Tossina di Shiga e tossine Shiga-like Tossina A di P. aeruginosa ALTRE IMPORTANTI ESOTOSSINE Tossina dello shock tossico di S. aureus Esotossine pirogene di S. pyogenes Tossine neurotrope: tetanica e botulinica Tossina carbonchiosa (EF + LF + PA) - 15 - TERRENI DI COLTURA La coltivazione dei batteri richiede l’impiego di terreni o mezzi (medium) che soddisfino le esigenze metabo- liche degli stessi. I terreni devono essere sterili prima dell’insemenzamento; in seguito devono essere evita- te contaminazioni da parte di microrganismi estranei. I mezzi di coltura possono essere liquidi o solidi; quelli solidi sono in genere a base di AGAR, un polisaccaride estratto da alghe che, disciolto in un liquido, ne deter- mina la gelificazione. L’agar è un mezzo ideale poiché permette ai batteri di moltiplicarsi liberamente e solo pochi di essi possiedono enzimi capaci di degradarlo; sebbene la sua struttura tridimensionale permetta la diffusione di diverse sostanze nutritive, non consente un libero movimento dei batteri flagellati. Per quanto riguarda la composizione chimica, il terreno di coltura di base è il brodo normale, formato da una soluzione allo 0,5% di peptoni (prodotti dell’autolisi / della dige- stione enzimatica della carne), resa isotonica con l’ag- giunta di NaCl e tamponata a pH neutro. Il brodo nor- male si può solidificare aggiungendo gel di agar (agar normale). Per meglio soddisfare le esigenze nutrizio- nali dei batteri, questi terreni di base possono essere arricchiti (per es. con sangue, siero o liquido ascitico). Le aggiunte possono avere anche altri scopi: il sangue permette di rilevare la produzione di emolisine, men- tre il siero, grazie all’albumina, è in grado di neutraliz- zare vari composti a basso PM potenzialmente tossici. Il terreno deve essere incubato alla temperatura otti- male per i batteri (di solito circa 36°C), fornendo con- centrazioni di O2 e CO2 adeguate al loro metabolismo. Dopo che la coltura ha raggiunto una fase stazionaria [vedi oltre], per ridurre la necessità di rinnovare i ter- reni, si mantengono a una temperatura sub-ottimale. Poiché la qualità della coltura batterica dipende dalla qualità del terreno, per mantenere i batteri costante- mente in condizioni ottimali, si può ricorrere ai che- mostati, dei sistemi che da una parte rimuovono il ter- reno invecchiato e dall’altro ne aggiungono di fresco, simulando la replicazione dei batteri in un organismo animale. Queste vengono chiamate colture continue. Terreni liquidi Lo sviluppo dei batteri in terreno liquido si evidenzia con un intorbidimento del terreno, che può avere un aspetto diverso (a granuli ecc) in base alla specie bat- terica in esame e può essere diffuso in tutto il terreno o essere limitato soltanto ai suoi strati più superficiali. Misurando la quantità dei batteri presenti in un dato volume di terreno liquido a diversi intervalli di tempo, si può costruire il grafico che esprime la cinetica della replicazione batterica, in cui si distinguono varie fasi. 1) Fase di latenza = In questa fase non si ha l’aumento del numero di batteri, poiché questi devono sintetiz- zare gli enzimi necessari per metabolizzare i nutrienti presenti nel terreno prima di svolgere la replicazione 2) Fase di accelerazione = Con l’aumento della percen- tuale di batteri metabolicamente attivi, alcuni di essi cominciano a replicarsi e dunque il numero assoluto dei batteri nella coltura aumenta progressivamente - 3) Fase di crescita esponenziale (logaritmica) = Quando tutti i batteri presenti in coltura sono in grado di svol- gere i processi metabolici necessari alla loro riprodu- zione, il loro numero assoluto aumenta esponenzial- mente (in maniera "lineare" in quanto i batteri non si riproducono tutti nello stesso momento, cosa che avviene invece nelle colture sincronizzate, in cui si ha una fase del grafico "a gradini" piuttosto che lineare) - 4) Fase di decelerazione / stazionaria = Il progressivo esaurimento dei nutrienti e l’accumulo di metaboliti tossici causano prima il rallentamento e poi l’arresto della replicazione di un numero crescente di batteri, fin quando l’incremento del numero dei batteri viene compensato dalla morte degli altri (fase stazionaria) - 5) Fase di declino = Il numero totale di batteri diminui- sce progressivamente poiché il numero di batteri che muoiono supera il numero di batteri che si replicano - 16 - Terreni solidi Nei terreni solidi, le colonie batteriche assumono un aspetto diverso in base alle caratteristiche dei batteri. Affinché le colonie siano visibili ad occhio nudo, sono necessarie fino a 24 ore di incubazione. Le colonie più importanti sono quelle lisce (S), dalla consistenza cre- mosa e con margini netti, e quelle rugose (R), più sec- che e con margini frastagliati. Il passaggio dalla fase S alla fase R avviene in genere per la perdita di una com- ponente superficiale dei batteri (per es. la capsula). In fase R, i batteri hanno caratteri antigenici diversi e un potere patogeno diminuito. Le colonie mucose sono formate da batteri dotati di una capsula abbondante. Colture isolanti Le colture isolanti hanno lo scopo di isolare una parti- colare sp. batterica da un materiale patologico, elimi- nando tutte le possibili specie contaminanti, in modo da procedere all’identificazione dell’agente patogeno ed eventualmente impostare la terapia più adeguata. In genere per l’isolamento si impiegano terreni solidi, perché impediscono ai batteri flagellati di allontanarsi dalla sede di inoculo. Le colture isolanti si allestiscono prelevando batteri dalle colonie formatesi nella coltu- ra primaria ed allestendo da questi delle sub-colture. Per l’isolamento, i terreni solidi sono posti in piastre, in modo da avere a disposizione una superficie tale da permettere lo sviluppo di colonie sufficientemente di- stanziate. La SEMINA dei batteri nella piastra avviene per disseminazione in superficie oppure per diluizio- ne dei batteri nella massa di terreno solido liquefatto. • Disseminazione in superficie = Dopo aver versato e fatto solidificare l’agar nella piastra, con una pipetta si depone una goccia del materiale patologico (even- tualmente diluito) sul terreno in prossimità del mar- gine della piastra e poi si striscia su tutta la superficie in direzione opposta mediante una spatolina in vetro (questo è il metodo di semina batterica più utilizzato) • Diluizione nel terreno liquefatto = In questa tecnica si allestiscono delle miscele di agar-batteri con varie diluizioni del materiale patologico in esame e da cia- scuna miscela si allestiscono infine le colture isolanti L’isolamento colturale in terreni liquidi è possibile sol- tanto per materiali normalmente sterili, come sangue e liquor, in cui lo sviluppo di colonie batteriche è cer- tamente associato ad un processo patologico in atto. Quando la specie batterica che si desidera isolare rap- presenta soltanto una minoranza di quelle contenute nel materiale in esame, l’isolamento può essere faci- litato impiegando degli accorgimenti che riducono la quota di microrganismi contaminanti, come l’esposi- zione al calore (se il batterio che si ricerca è termore- sistente) o ad alcune sostanze alle quali è insensibile. Si possono inoltre impiegare alcuni terreni particolari. • Terreni differenziali = Contengono un composto (per es. lattosio) fermentato da una specie batterica ma non da altre, associato a un indicatore di pH (per es. rosso fenolo) che in caso di fermentazione modifica il proprio colore a causa dell’acidificazione del terreno • Terreni selettivi = Contengono delle sostanze batte- riostatiche nei confronti di eventuali batteri contami- nanti il campione, ma cui il batterio ricercato è insen- sibile (tra queste: antibiotici, antimicotici, sali biliari, cloruro di sodio a elevata concentrazione, tellurito di potassio, sodio taurocolato, verde malachite ed altri) • Terreni di arricchimento = Usati in caso di campioni polimicrobici poiché favoriscono la crescita di una sp. batterica rispetto ad altre. Il brodo a base di selenito di sodio, per esempio, favorisce la crescita di salmo- nelle e shigelle, perciò viene utilizzato per il loro rico- noscimento nelle colture allestite da campioni fecali • Terreni arricchiti = Sono ricchi di nutrienti, in genere a base di sangue di montone o cavallo, rosso d'uovo, siero di vitello oppure di miscele chimicamente defi- nite (contenenti ad es. vitamine e amminoacidi); essi favoriscono la crescita di certe specie batteriche par- ticolarmente esigenti dal punto di vista nutrizionale - STAFILOCOCCHI - 17 - CARATTERI GENERALI • Batteri Gram-positivi • Aerobi-anaerobi facoltativi • Tipica disposizione a grappoli Gli stafilococchi sono batteri commensali della cute e della mucosa naso-faringea, molto resistenti in condi- zioni ambientali sfavorevoli (per es. tollerano concen- trazioni di NaCl pari al 7,5%) e che, occasionalmente, causano infezioni piogeniche. In coltura formano co- lonie tondeggianti con margini netti e pigmentazione bianca, giallastra o aurea (da cui il nome di S. aureus). Alcune spp. hanno ceppi caratterizzati da antibiotico- resistenza multipla, tra i quali il più rilevante è MRSA (lo Staphylococcus aureus resistente alla meticillina). Staphylococcus aureus Lo S. aureus è il principale agente eziologico (AE) delle infezioni cutanee che originano a livello delle ghian- dole sebacee e dei follicoli piliferi (entrambi ricchi dei lipidi che il batterio sfrutta come fonte di nutrimento) ed è spesso responsabile, inoltre, di infezioni ospeda- liere [ceppi antibiotico-resistenti] e intossicazioni ali- mentari [ceppi che producono l’enterotossina]. Altre affezioni di cui S. aureus può essere responsabile sono la necrolisi epidermica acuta infantile [ceppi che pro- ducono la tossina epidermolitica] e una grave sindro- me da shock tossico [ceppi che producono la TSST-1]. Lo S. aureus è provvisto di una capsula polisaccaridica, formata da polisaccaridi tipo 5 / 8 nei ceppi patogeni. Caratteri antigenici Il clumping factor (CF) è un’adesina in grado di legare il fibrinogeno e determinare, in vitro, la formazione di aggregati (clumps) batterici. Poiché il CF è presente in quasi tutti i ceppi di S. aureus, mentre è assente nelle altre specie, la sua ricerca è utile per l’identificazione. La proteina A stafilococcica è in grado di legare la por- zione Fc delle IgG con alta affinità e quella delle IgM e delle IgA₂ con minore affinità; in questo modo attiva il sistema del complemento, stimola la proliferazione dei linfociti, inibisce la fagocitosi degli stafilococchi e può persino innescare delle reazioni di ipersensibilità. Azione patogena Un importante mediatore dell’azione patogena dello stafilococco aureo è la modulina fenolo-solubile, un complesso proteico che, interagendo con neutrofili e macrofagi, stimola la liberazione di agenti chemiotat- tici positivi, contribuendo, così, alla patogenesi delle infezioni piogeniche, assieme alle tossine piogeniche (ovvero le emolisine α / β / γ / δ e la leucocidina-PV). L’emolisina β causa una emolisi incompleta, che viene però resa completa dal fattore CAMP di S. agalactiae. Principali enzimi di S. aureus sono la stafilo-coagulasi, che converte fibrinogeno in fibrina (sempre presente nei ceppi patogeni) e la stafilo-chinasi che invece con- verte il plasminogeno in plasmina (utile per dissolvere gli eventuali coaguli che ostacolano la sua diffusione). Gli enzimi idrolitici che il batterio sfrutta per l’approv- vigionamento nutrizionale includono nucleasi termo- resistente, serin-proteasi, ureasi, lipasi e ialuronidasi. La tossina epidermolitica (presente nella forma A e B) diffonde per via ematica e raggiunge lo strato granu- loso dell’epidermide, in cui causa rottura dei desmo- somi e quindi scollamento dell’epidermide (caratteri- stico della necrolisi epidermica causata da S. aureus). La tossina dello shock tossico (TSST-1), in grado di dif- fondere in circolo attraverso le mucose, senza previa colonizzazione batterica, causa la sindrome omonima (inizialmente descritta in donne che usavano tamponi contaminati), che esordisce con manifestazioni erite- matose cutanee, iperpiressia e compromissione dello stato generale, cui seguono danno multi-organo e un severo shock emodinamico, gravati da un’alta letalità. - 20 - Azione patogena Streptococcus pyogenes aderisce alle cellule epiteliali legandosi, mediante la proteina F (sua principale ade- sina), alla fibronectina presente nelle loro membrane. La principale esotossina prodotta da S. pyogenes è la streptolisina-O, emolisina la cui attività dipende dalla presenza di alcuni gruppi tiolici (–SH), che agisce sulle membrane cellulari provocando la formazione di pori che portano alla morte delle cellule (in particolare dei leucociti e dei cheratinociti). La streptolisina-O ha un elevato potere immunogeno; poiché è ossigeno-labile (per la presenza dei gruppi tiolici, cui O2 si può legare), la sua produzione può essere messa in evidenza solo in colture di agar-sangue mantenute in ANAEROBIOSI. La maggior parte degli stipiti di S. pyogenes sintetizza pure la streptolisina-S, caratterizzata da citotossicità elevata nei confronti di vari tipi di cellule, ma dotata di uno scarso potere immunogeno. A differenza della streptolisina-O, è ossigeno-stabile e la sua produzione può essere messa in evidenza in colture di agar-san- gue mantenute in AEROBIOSI, nelle quali si ha la com- parsa di un alone di β-emolisi (cioè emolisi completa). Streptococcus pyogenes possiede una strepto-chinasi che (analogamente alla stafilo-chinasi dello S. aureus) converte il plasminogeno in plasmina, e alcuni enzimi idrolitici, tra cui una DNAsi, una NADasi (che danneg- gia per lo più i leucociti), una ialuronidasi, una neura- minidasi (che scompone le secrezioni delle vie aeree, facilitando la colonizzazione delle loro mucose) e una C5a-peptidasi (che, degradando il fattore del comple- mento C5a, ne riduce l’azione chemiotattica positiva). S. pyogenes possiede anche una molecola nota come super-antigene streptococcico che, diversamente dai comuni antigeni, può innescare una risposta massiva stimolando direttamente i linfociti T, cioè senza dover essere prima processato dalle cellule ed esposto sulla loro superficie mediante le molecole MHC di classe II. Esotossine pirogene Le esotossine pirogene prodotte da S. pyogenes sono degli importanti mediatori della sua azione patogena. • SPE-A, detta anche tossina eritrogenica, agendo sugli endoteli dei capillari cutanei, determina la comparsa dell’esantema tipico della scarlattina - • SPE-B agisce sulla matrice extracellulare, provo- cando le lesioni più severe osservabili nelle infe- zioni streptococciche (ad es. quelle della fascite) • SPE-C [ha struttura e funzione simili alla SPE-A] - • SPE-F agisce sulle cellule endoteliali dei vasi pol- monari, causandone un aumento della permea- bilità e dunque lo sviluppo di edema polmonare I ceppi produttori di SPE dotati di una capsula abbon- dante, appartenenti al sierotipo M1 (e detti strepto- cocchi killer), possono causare delle infezioni cutanee che, se si estendono ai tessuti profondi, provocano la formazione di un "biofilm" sulle fasce connettivali dei muscoli e dunque lo sviluppo delle gravi lesioni carat- teristiche della fascite necrotizzante. Le SPE possono causare pure una sindrome da shock tossico, analoga a quella provocata dalla TSST-1 prodotta da S. aureus. Identificazione Per l’identificazione di S. pyogenes è fondamentale la coltura batterica in agar-sangue di montone (che ini- bisce Haemophilus haemolyticus, un batterio, spesso commensale della mucosa rino-faringea, che essendo a volte β-emolitico può essere confuso con lo strepto- cocco). Si può anche ricorrere al metodo agar-batteri, in cui il materiale da esaminare è integrato nell’agar. L’identificazione definitiva è possibile SOLO mediante riconoscimento dell’antigene C di gruppo A, possibile ricorrendo a reazioni di immunofluorescenza oppure usando delle apposite particelle di lattice preventiva- mente rivestite di anticorpi specifici, le quali, nel caso di positività, causano delle reazioni di agglutinazione. - 21 - Dal momento che tutti i ceppi di S. pyogenes produco- no la streptolisina-O e che essa è molto immunogena, le indagini sierologiche si basano proprio sulla ricerca degli anticorpi diretti contro tale tossina: in presenza di questi ultimi nel siero in esame, essa è neutralizzata e aggiungendo eritrociti non si verifica alcuna emolisi. Il titolo anti-streptolisinico è l’inverso della diluizione massima del siero alla quale avviene ancora la neutra- lizzazione della tossina ad opera dei relativi anticorpi. Streptococcus pyogenes solitamente è sensibile ai sul- famidici, alle penicilline e all’eritromicina [macrolide]. Molti suoi ceppi mostrano resistenza alle tetracicline. Streptococcus agalactiae Di solito non emolitico, più raramente con una mode- sta attività β-emolitica, S. agalactiae appartiene agli streptococchi di gruppo B. È responsabile di occasio- nali infezioni urinarie ed è il secondo agente eziologi- co più frequente, dopo E. coli, di meningiti neonatali. Spesso è commensale dell’uretra maschile e della va- gina, perciò l’infezione avviene in genere durante rap- porti sessuali oppure, verticalmente, da madre a feto, durante il suo passaggio attraverso il canale del parto. Identificazione Streptococcus agalactiae produce fattore CAMP, che completa la lisi delle emazie esposte alla β-emolisina stafilococcica, che di per sé determina emolisi incom- pleta – questa proprietà può essere sfruttata per una sua identificazione, mediante il cosiddetto CAMP test. L’identificazione definitiva è possibile SOLO mediante riconoscimento dell’antigene C di gruppo B, possibile ricorrendo a reazioni di immunofluorescenza oppure usando delle apposite particelle di lattice preventiva- mente rivestite di anticorpi specifici, le quali, nel caso di positività, causano delle reazioni di agglutinazione. STREPTOCOCCHI VIRIDANTI Commensali del cavo orale, gli streptococchi viridanti appartengono a vari gruppi antigenici o sono sprovvi- sti dell’antigene C; vengono classificati come α-emo- litici e devono il loro nome al fatto che, posti in terreni di agar-sangue, degradando l’emoglobina, producono dei suoi derivati che hanno una colorazione verdastra. Gli streptococchi viridianti sintetizzano glucani, delle molecole che gli permettono di aderire alle superfici lisce, come quelle dello smalto dentale, dell’endocar- dio e delle valvole cardiache – possono, infatti, essere occasionalmente responsabili di endocarditi, qualora riescano a passare in circolo (ad es. durante interventi odontoiatrici, per cui è quindi prevista una profilassi). Le spp. dotate di potenziale patogeno sono S. mutans (l’agente eziologico della carie dentaria), S. salivarius, S. sanguis, S. mitior e S. milleri (quest’ultimo non pro- duce glucani e può, alcune volte, essere β-emolitico). L’identificazione è possibile mediante l’analisi del pro- filo biochimico. In genere sono sensibili ai β-lattamici. ENTEROCOCCHI Gli enterococchi sono degli streptococchi disposti in corte catenelle, assai diffusi in natura e presenti nelle feci dei vertebrati, con antigene C di gruppo D ed in genere non emolitici. Enterococcus fecalis ed Entero- coccus faecium sono commensali del colon umano, a volte responsabili di processi infettivi piogenici. Sono classificati all’interno di un genere distinto da Strepto- coccus [cioè Enterococcus] per alcune caratteristiche: - • Capacità di crescere in terreni con sali biliari o concentrazione di NaCl = 6,5% • Capacità di moltiplicarsi a 45°C e di resistere a 60°C per 30 minuti • Capacità di idrolizzare il glicoside esculina → esculetina + glucosio - • Multi-resistenza agli antibiotici - 22 - Streptococcus pneumoniae S. pneumoniae (chiamato anche pneumococco) è uno streptococco capsulato che si trova a coppie o in corte catenelle. Spesso è commensale delle prime vie aeree e assume potenziale patogeno se riesce a raggiungere le basse vie aeree, seni paranasali o l’orecchio medio. A differenza di altri streptococchi, può svolgere delle reazioni ossidative ma, poiché non possiede catalasi, le ROS prodotte si accumulano nel terreno di coltura. Caratteri antigenici La capsula di S. pneumoniae ha funzione antifagocita- ria ed è alla base della sua patogenicità; a seconda dei polisaccaridi che la costituiscono (muniti di proprietà antigeniche) si possono distinguere fino a 90 sierotipi. S. pneumoniae presenta sulla superficie il cosiddetto antigene C pneumococcico, che è in grado di reagire con la PROTEINA C REATTIVA (per presenza di fosforil- colina negli acidi tecoici legati al peptidoglicano); tale reazione comporta una attivazione del complemento. Azione patogena La sopravvivenza del batterio sulle mucose è favorita dalla produzione di una proteasi capace di degradare gli anticorpi IgA₁ secretori ivi presenti. S. pneumoniae è provvisto, inoltre, di ialuronidasi e di neuraminidasi, e alcuni stipiti presentano una attività proteolitica nei confronti del fattore C3 del sistema del complemento. La pneumolisina è la principale tossina di S. pneumo- niae, la cui liberazione dalla cellula batterica è favorita da un enzima detto autolisina, che causa anche il rila- scio di frammenti di AT e di PG, i quali, come già detto, possono reagire con la proteina C reattiva e determi- nare così l’attivazione del sistema del complemento. Dal momento che la pneumolisina è tiol-dipendente, e quindi ossigeno-sensibile [come la streptolisina-O di S. pyogenes], in aerobiosi l’alone α-emolitico è inibito. Identificazione Fondamentale per la sua identificazione è la messa in coltura dell’espettorato del paziente in terreno agar- sangue reso selettivo con acido nalidixico (antibiotico al quale Streptococcus pneumoniae NON è sensibile). Per differenziarlo dagli streptococchi viridianti (anche essi α-emolitici) si ricorre al test di sensibilità all’opto- china (sostanza alla quale i viridianti sono resistenti), che consiste nell’inserire un disco di carta impregnato di optochina nella coltura: in presenza di pneumococ- chi la crescita dei batteri è inibita e quindi si sviluppa, attorno al disco, un alone di inibizione dell’α-emolisi. Per distinguerlo dagli enterococchi si impiega, invece, il test di sensibilità ai sali biliari, i quali provocano una citolisi dello pneumococco ma non degli enterococchi. L’identificazione di S. pneumoniae è possibile, inoltre, ricorrendo a un test di agglutinazione con Omniserum (siero polivalente che agglutina TUTTI i sierotipi dello pneumococco) e poi ricorrendo a dei sieri specifici per la tipizzazione. In alternativa si ricorre alla reazione di rigonfiamento capsulare, in cui vengono mescolati la sospensione batterica, antisiero e del blu di metilene; nel caso di una reazione positiva, la capsula si rigonfia. Terapia e profilassi Solitamente è sensibile agli antibiotici β-lattamici ma esistono alcuni suoi ceppi resistenti a questi farmaci. Sono disponibili due vaccini per i sierotipi più rilevanti e invasivi, uno 13-valente (inattivato e coniugato – tre dosi nel primo anno di vita) e uno 23-valente (polisac- caridico, per gli anziani ed i soggetti ritenuti a rischio). - 25 - BATTERI ANAEROBI OBBLIGATI I batteri "anaerobi obbligati" includono alcune specie patogene per l’uomo, presenti nell’ambiente, ed altre commensali, che costituiscono la maggior parte della flora batterica dell’intestino, del cavo orale, del naso- faringe, delle prime vie aeree e dei genitali femminili. Essi vengono distinti in asporigeni (lattobacilli, bifido- batteri ecc, commensali dell’uomo) e sporigeni (detti clostridi, che includono le spp. patogene per l’uomo). Fattori predisponenti alle infezioni da anaerobi obbli- gati sono quelli che riducono l’apporto di ossigeno o ne aumentano il consumo, cioè necrosi, traumi, inter- venti chirurgici, presenza di corpi estranei nei tessuti. I clostridi sono dei bacilli Gram-positivi saprofiti degli strati superficiali del suolo o dell’intestino di diverse specie animali (incluso l’uomo), in grado di produrre spore, in sede terminale o sub-terminale, con un dia- metro che eccede quello dello sporangio e conferisce agli stessi una peculiare morfologia rigonfia "a clava". Le principali specie di interesse medico sono Clostri- dium tetani, C. botulinum, C. perfrigens e C. difficile. Clostridium tetani C. tetani è l’agente eziologico del tetano, una malattia grave caratterizzata dalla comparsa di spasmi musco- lari (paralisi spastica) che spesso conduce a morte per compromissione dei muscoli respiratori. La malattia è conseguente all’ingresso di spore nei tessuti profondi attraverso le ferite cutanee contaminate da terriccio; il rischio è maggiore nel caso di ferite lacero-contuse, poiché viene a crearsi un’area di necrosi scarsamente ossigenata, che favorisce la germinazione delle spore e la replicazione dei clostridi, i quali, senza diffondere oltre il punto d’inoculo, iniziano a produrre la tossina. Azione patogena La patogenicità di Clostridium tetani è dovuta alla sua tetano-spasmina (tossina tetanica), caratterizzata da uno spiccato neurotropismo: una volta in circolo, essa risale lungo gli assoni dei nervi periferici e, giunta nel midollo spinale, blocca gli impulsi che inibiscono i mo- toneuroni, causando la caratteristica paralisi spastica. Il componente B della tossina si lega ai neuroni e per- mette la traslocazione del componente A nella cellula, che degrada una sinaptobrevina delle vescicole esoci- totiche contenenti il neurotrasmettitore GABA, impe- dendone così il rilascio e, dunque, l’attività inibitoria. Terapia e profilassi In caso di ferite contaminate è raccomandata la siero- profilassi con le immunoglobuline iperimmuni umane (dirette contro la tossina tetanica). È pure disponibile un vaccino antitetanico allestito con tossoide (incluso nel dTPa) per cui è previsto un richiamo ogni 10 anni. Clostridium botulinum C. botulinum è l’agente eziologico del botulismo, una grave intossicazione alimentare conseguente all’inge- stione di cibi (soprattutto conserve e insaccati) conta- minati da esso, nei quali le spore abbiano germinato, con proliferazione dei batteri e produzione di tossina. Affinché il batterio si moltiplichi sono necessarie delle condizioni particolari, tra cui anaerobiosi e T > 20°C. Nel botulismo si ha una paralisi flaccida discendente che inizia nei mm. oculari e porta alla morte per coin- volgimento dei mm. respiratori o per arresto cardiaco. - 26 - Azione patogena La tossina botulinica è l’unico strumento di patogeni- cità del batterio; termolabile ma resistente all’acidità gastrica, è assorbita a livello intestinale e una volta in circolo mostra un tropismo per le sinapsi colinergiche, dove blocca il rilascio di acetilcolina (la componente B si lega a un recettore e la componente A degrada una sinaptobrevina, una sintaxina e la proteina SNAP-25). Sono noti 7 tipi antigenici di tossina botulinica (A-G), prodotti da altrettanti tipi di C. botulinum (A, B, E sono più spesso i responsabili di intossicazioni alimentari). Diagnosi e terapia La diagnosi del botulismo è possibile inoculando siero del paziente in due gruppi di animali da esperimento, di cui uno pretrattato con una miscela di sieri anti-tos- sina botulinica (in caso di positività, soltanto il gruppo non trattato sviluppa la paralisi flaccida e poi muore). Il trattamento si basa sulla somministrazione di siero contenente anticorpi contro le tossine di tipo A, B, E. Clostridium perfrigens C. perfrigens è ampiamente diffuso nell’ambiente e se ne distinguono 5 tipi in base alla combinazione di tos- sine prodotte (solo A, C e D sono di interesse medico). A = α | B = α, β, ε | C = α, β | D = α, ε | E = α, ι Azione patogena L’esotossina α è una fosfolipasi C sintetizzata da tutti i tipi di C. perfrigens (soprattutto di tipo A), principale mediatore della loro azione patogena; è responsabile della gangrena gassosa (così detta in quanto i batteri producono gas) e di gravi infezioni a carico dei tessuti molli (cioè cellulite, miosite, mionecrosi anaerobiche). L’esotossina β è sintetizzata da C. perfrigens di tipo C ed agisce formando dei pori nelle membrane cellulari; è responsabile dell’enterite necrotizzante, grave pato- logia con elevata letalità che si verifica per ingestione di alimenti poco cotti da parte di individui malnutriti (che quindi presentano una ridotta secrezione di pro- teasi pancreatiche) o infestati da elminti (che produ- cono inibitori della tripsina), in quanto, normalmente, l’esotossina β risulta sensibile all’azione di tali enzimi. Alcuni ceppi di tipo A, in seguito alla sporificazione cui vanno incontro nell’ambiente alcalino del tenue, pro- ducono una enterotossina che aumenta la permeabi- lità intestinale causando diarrea e crampi addominali. La terapia delle sue infezioni prevede la somministra- zione di sulfamidici e di un siero immune polivalente. Clostridioides difficile Clostridioides difficile (in passato appartenente al ge- nere Clostridium) è il microrganismo che più frequen- temente provoca la diarrea da antibiotici ed è agente eziologico della colite pseudomembranosa, entrambe conseguenza di una infezione endogena (nei portatori intestinali di ceppi farmaco-resistenti del clostridio) o esogena (contratta, in genere, in ambito ospedaliero). C. difficile sintetizza un fattore che inibisce la motilità dell’intestino e due tossine – La tossina A è un’ente- rotossina che aumenta la permeabilità della mucosa intestinale, mentre la tossina B (che in alcuni ceppi è l’unica prodotta) ha un effetto citotossico sull’epitelio intestinale ed è dunque responsabile di lesioni necro- tiche. Esistono alcuni ceppi, resistenti a molti antibat- terici, che producono notevoli quantità di tali tossine. La diagnosi è possibile ricercando le tossine nel mate- riale fecale (con tecniche immunologiche) o con PCR. La terapia è a base di metronidazolo o vancomicina e può beneficiare del trapianto fecale che, ripristinando la normale composizione della flora batterica intesti- nale, può contrastare la proliferazione del clostridio. CORINEBATTERI E AFFINI — LISTERIA - 25 - CARATTERI GENERALI • Batteri Gram-positivi • Aerobi-anaerobi facoltativi I corinebatteri sono dei bacilli a forma di CLAVA per la presenza di una dilatazione ad uno o ad entrambi gli estremi cellulari. Durante la loro divisione, assumono una disposizione ad L e poi a V e infine le cellule figlie diventano parallele. La sovrapposizione di corinebat- teri in diverse fasi della divisione cellulare gli conferi- sce un caratteristico aspetto, detto "a lettere cinesi". In terreni ricchi di fosfati, alcuni corinebatteri presen- tano uno o due granuli metacromatici (che assumono cioè una colorazione diversa dal colorante impiegato) il cui riscontro può essere d’aiuto nell’identificazione. Corynebacterium diphtheriae C. diphtheriae è responsabile della difterite, infezione tipica della prima infanzia, con localizzazione a livello di naso-faringe, tonsille, velo palatino e ugola, dove si forma una caratteristica pseudo-membrana difterica. Dalla sede d’infezione iniziale, la tossina batterica dif- fonde per via ematica e raggiunge tutto l’organismo, causando lesioni degenerative a carico dei nervi peri- ferici (con conseguenti paralisi) e di vari organi (parti- colarmente severe sono le lesioni del miocardio, che costituiscono la causa più frequente di morte). L’infe- zione è trasmessa sia dai malati che dai portatori sani. C. diphtheriae possiede nella sua parete cellulare un antigene O polisaccaridico (che è comune a varie spp. di corinebatteri) e un antigene K proteico (specifico). Azione patogena La tossina difterica è una tossina di tipo "A-B", la cui componente A mostra un’attività ADP-ribosilante nei confronti di elongation factor 2 (EF-2), che è coinvolto a livello ribosomiale nella sintesi delle catene peptidi- che. La ribosilazione forma un complesso inattivo che blocca la sintesi proteica e provoca la morte cellulare. Anche lipidi e proteine superficiali sembrano svolgere qualche ruolo, poiché dotati di proprietà allergizzanti. Identificazione L’identificazione di C. diphteriae è possibile mediante la ricerca microscopica diretta eseguita su frammenti della pseudo-membrana difterica oppure ricorrendo a dei sieri anti-tossina coniugati con fluoresceina, che colora la superficie dei corinebatteri. Se la ricerca mi- croscopica è insufficiente, si possono allestire colture in siero di vitello (in cui C. diphteriae cresce molto più rapidamente rispetto ad altri batteri presenti nell’es- sudato faringeo) e in un terreno selettivo contenente agar-sangue e tellurito di potassio, che invece inibi- sce la maggioranza dei possibili batteri contaminanti e nel quale i bacilli difterici formano colonie nerastre. SIccome l’oro-faringe umana può ospitare dei corine- batteri NON patogeni, per identificare C. diphtheriae con sicurezza bisogna dimostrare la produzione della tossina difterica mediante una prova biologica (nella quale si effettua l’inoculazione di sospensione batte- rica in due cavie, di cui una trattata con l’anti-tossina) o mediante la prova di precipitazione in agar (in cui si mette una striscia di carta imbevuta di anti-tossina sul fondo di una piastra, nella quale si versa poi agar; se dopo l’insemenzamento dei batteri questi producono tossina, si formerà precipitato nello spessore del gel). - Si può anche ricorrere allo studio della fermentazione degli zuccheri per identificare gli stipiti non tossigeni (C. diphtheriae può fermentare glucosio ma non frut- tosio) ed alla ricerca di fosfatasi (assenti nei bacilli dif- terici) mediante l’aggiunta del fosfato di fenolftaleina. Per sapere se un soggetto è immune o meno nei con- fronti della tossina difterica si può ricorrere alla cosid- detta reazione di Schick, che consiste nell’inoculazio- ne intradermica di una quota di tossina purificata pari a 1 / 50 DL (DL per una cavia), al fine di valutare la pre- senza degli anticorpi specifici; in caso affermativo non si avranno reazioni, altrimenti comparirà una papula. - 28 - Identificazione Una prima evidenza della infezione da M. tuberculosis è fornita dal riscontro microscopico, nell’espettorato, di bacilli acido-resistenti, in quanto non vi sono bacilli con tale proprietà tra i commensali dell’oro-faringe e delle vie aeree; tuttavia, dei micobatteri commensali possono essere presenti nell’uretra e dunque è possi- bile repertarne normalmente nel sedimento urinario. Per un’identificazione certa è necessario l’isolamento colturale, previa decontaminazione del materiale pa- tologico con acetil-cisteina [fluidificante] e NaOH (che uccide la maggior parte dei batteri contaminanti e poi è neutralizzato con HCl). La coltura viene effettuata in terreno solido a base di tuorlo d’uovo, con l’aggiunta di verde malachite (il quale inibisce lo sviluppo di altri microrganismi). Le colonie che si sviluppano hanno un aspetto vegetante e leggera pigmentazione giallastra. L’esame colturale è utile anche per valutare lo spettro di sensibilità di M. tuberculosis agli antimicobatterici. Diagnosi e terapia La diagnosi d’infezione è possibile mediante la ricerca di alcune sequenze specifiche del DNA di M. tubercu- losis oppure con il test IGRA (usato per diagnosticare le infezioni latenti), in cui si dosa la quantità di IFN-γ che i linfociti T helper CD4+ rilasciano se sono messi a contatto, in vitro, con antigeni micobatterici sintetici. Il test di Mantoux valuta la presenza di immunità cel- lulo-mediata specifica nei confronti di M. tuberculosis mediante l’inoculazione intradermica di tubercolina, una soluzione contenente le proteine micobatteriche purificate; la comparsa di una papula indica un prece- dente incontro tra sistema immunitario e micobatteri (la reazione è positiva anche in chi è stato vaccinato). Per l’immunizzazione nei confronti del micobatterio si ricorre a un vaccino allestito con un ceppo apatogeno di M. bovis, detto "bacillo di Calmette-Guérin" (BCG). Farmaci indicati per la terapia iniziale sono isoniazide, rifampicina, pirazinamide ed etambutolo (tutti i giorni per almeno 2 mesi). Per il mantenimento si impiegano l’isoniazide e la rifampicina (3 volte / sett. per 4 mesi). MICOBATTERI NON TUBERCOLARI I micobatteri non tubercolari infettano diverse specie animali ed occasionalmente possono infettare anche l’uomo, nel quale però sono opportunisti. Assumono importanza soprattutto nei soggetti immunodepressi, ad es. affetti da immunodeficienza, in cui spesso cau- sano linfoadenopatie e infezioni cutanee e polmonari. In base al ritmo di crescita in coltura vengono classifi- cati in micobatteri a crescita rapida / a crescita lenta, mentre in base alla loro capacità di produrre pigmenti vengono distinti in non cromogeni (i quali non ne pro- ducono – M. avium complex), fotocromogeni (che ne producono soltanto dopo l’esposizione ad un’intensa sorgente luminosa) e scotocromogeni (che ne produ- cono anche in assenza di luce – M. paratuberculosis). Mycobacterium leprae M. leprae è l’agente eziologico della lebbra (chiamata anche malattia di Hansen per ridurre lo stigma ad essa associato), affezione cronica caratterizzata dalla com- parsa di lesioni granulomatose della cute e delle mu- cose (che, ulcerandosi, causano la distruzione dei tes- suti) e a carico delle terminazioni nervose periferiche (con la conseguente perdita della sensibilità cutanea). L’infezione lebbrosa è a trasmissione interumana (per via aerea) ed ha un lungo periodo di incubazione, che può durare persino anni. Mycobacterium leprae mo- stra un marcato tropismo per la cute e per le mucose, dove si localizza e moltiplica all’interno dei macrofagi. In base alla risposta immunitaria dell’individuo si pos- sono distinguere due forme principali di tale malattia. La lebbra lepromatosa si caratterizza per la comparsa di macule eritematose pigmentate che diventano no- duli (prima isolati e poi confluenti), ulcerano ed infine vanno incontro a necrosi, causando la distruzione dei tessuti – con frequente riassorbimento delle falangi. Nella lebbra tubercoloide, invece, le lesioni granulo- matose interessano principalmente i tronchi nervosi. La terapia prevede somministrazione giornaliera (per almeno 2 anni) di dapsone, clofazimina e rifampicina. NEISSERIE E AFFINI — MORAXELLE / KINGELLE - 29 - CARATTERI GENERALI • Diplococchi Gram-negativi • Aerobi-anaerobi facoltativi • Aspetto "a chicchi di caffè" Le neisserie possiedono una forma di LPS a basso PM, detta lipo-oligosaccaride (LOS), che è priva della por- zione polisaccaridica che si trova nel LPS (antigene O) e quindi è responsabile di un mimetismo molecolare. N. sicca, N. mucosa, N. subflava e N. flavescens sono spp. commensali delle prime vie aeree che raramente causano infezioni opportunistiche. Neisseria meningi- tidis (AE della meningite batterica) e N. gonorrhoeae, invece, sono dotate di notevole potenziale patogeno. Neisseria meningitidis Neisseria meningitidis (chiamata pure meningococco) si comporta, solitamente, da parassita extra-cellulare, sebbene alcuni stipiti molto virulenti siano in grado di sopravvivere dentro i fagociti. La sua azione patogena è mediata dal LOS ed è responsabile di una meningite purulenta che colpisce principalmente bambini e ado- lescenti e si manifesta, tipicamente, con sintomi quali rigidità nucale, cefalea, febbre, nausea, vomito, foto- fobia, alterazioni dello stato mentale, convulsioni ecc. Le infezioni da meningococco si verificano come casi sporadici in gran parte del mondo e meno frequente- mente epidemici, mentre in alcuni Paesi è endemico, soprattutto in Africa. N. meningitidis si trasmette per via aerea e si localizza nella mucosa naso-faringea, da cui poi raggiunge il SNC per via ematica. Alcuni indivi- dui sono portatori sani del batterio che, pur essendo asintomatici, costituiscono una sorgente di infezione. Solitamente N. meningitidis è sensibile ai sulfamidici, che raggiungono delle alte concentrazioni nel liquor e sono usati anche per il trattamento dei portatori sani. Caratteri antigenici N. meningitidis presenta, nella membrana plasmatica esterna, un antigene polisaccaridico comune a tutti gli stipiti (forse analogo dell’antigene O presente in LPS), mentre la sua capsula presenta degli antigeni polisac- caridici più specifici, in base ai quali si distinguono ben 13 sierogruppi – i più comuni sono A, B, C, Y e W-135 (la maggior parte delle infezioni è sostenuta da B e C). Il vaccino polivalente (allestito con i polisaccaridi cap- sulari dei sierogruppi A, C, Y e W-135) conferisce una immunità di breve durata nei confronti di quattro dei sierogruppi più comuni, mentre quello monovalente (allestito col polisaccaride capsulare di sierogruppo C) conferisce un’immunità più duratura, ma soltanto nei confronti del sierogruppo C. Siccome i meningococchi del sierogruppo B sono privi di antigeni immunogeni, vaccini diretti contro di esso, di recente introduzione, contengono proteine ricombinanti diverse (fHBP ecc). Identificazione Il riscontro microscopico di diplococchi Gram-negativi nel liquor di un soggetto che presenta sintomi di me- ningite è suggestivo di una infezione meningococcica, tuttavia, dal momento che anche altri Gram-negativi possono causare meningiti, l’identificazione definitiva è possibile soltanto mediante reazioni di immunofluo- rescenza (che possono essere eseguite direttamente sul liquor se è ricco di cocchi) e allestimento di colture in piastre di agar cioccolato (cioè agar-sangue cotto). Dalle colonie formate in coltura, il meningococco può essere identificato mediante impiego di sieri specifici per gli antigeni capsulari, in base allo studio della fer- mentazione degli zuccheri ed in base alla capacità del batterio di ossidare (in aerobiosi) composti aromatici incolore convertendoli in dei loro derivati pigmentati. Nel muco dei portatori, le neisserie patogene si distin- guono da quelle apatogene per un differente aspetto delle colonie (cremose e incolore se patogene, secche e di colore giallastro se apatogene) e in quanto quelle patogene richiedono terreni arricchiti per svilupparsi. - 30 - Neisseria gonorrhoeae Neisseria gonorrhoeae (nota anche come gonococco) è agente eziologico della gonorrea. L’infezione si può trasmettere per via sessuale, mediante il contatto con indumenti contaminati o verticalmente dalla madre al feto durante il passaggio nel canale del parto infetto. Nel maschio, il gonococco si localizza nel tessuto con- nettivo sub-epiteliale uretrale, in cui richiama nume- rosi neutrofili i quali, fagocitandolo, sono causa di una caratteristica secrezione purulenta detta blenorragia. Nella femmina, il gonococco si localizza invece princi- palmente nelle ghiandole associate all’apparato geni- tale, determinando una sintomatologia più modesta. Dalle sedi iniziali, in assenza di un trattamento, l’infe- zione si può diffondere attraverso i vasi linfatici e poi per via ematica ad altre sedi, provocando varie com- plicanze, tra cui meningiti, artrite gonococcica, endo- carditi e orchiti / salpingo-ovariti, che possono provo- care sterilità rispettivamente nell’uomo / nella donna. Azione patogena Al momento dell’isolamento, il gonococco è dotato di un antigene capsulare di natura polisaccaridica, detto antigene K, con funzione antifagocitaria, che si perde rapidamente in coltura. La sua patogenicità è mediata principalmente dal lipo-oligosaccaride; inoltre i ceppi patogeni sono provvisti di pili, che favoriscono l’attec- chimento sulle mucose genito-urinarie, e di proteasi, che demoliscono le IgA1 secretorie presenti su di esse. Esistono ceppi resistenti a molti farmaci (sulfamidici, penicilline, tetracicline) e sono in aumento quelli resi- stenti ai chinoloni. Per una terapia efficace delle infe- zioni possono quindi essere necessarie cefalosporine. Identificazione Per l’identificazione del gonococco, in genere, è suffi- ciente un esame microscopico sull’essudato uretrale, poiché nella normale flora dell’apparato genito-urina- rio sono assenti batteri con le caratteristiche morfo- logiche delle neisserie. Qualora l’esame microscopico sia negativo, si ricorre all’isolamento colturale in pia- stre di agar cioccolato oppure alla ricerca di antigeni specifici del batterio mediante reazioni immuno-enzi- matiche. L’infezione può inoltre essere diagnosticata mediante indagini sierologiche sul siero del paziente. MORAXELLE Le moraxelle sono bacilli e cocco-bacilli Gram-negativi disposti in coppie o corte catenelle e aerobi obbligati. Alcune specie sono innocue commensali dell’uretra e possono dunque essere confuse con N. gonorrhoeae. Moraxella catarrhalis è spesso un commensale delle prime vie aeree, che occasionalmente è responsabile di sinusiti ed otiti medie (resistente ai farmaci β-latta- mici ma sensibile agli amminoglicosidi e ai chinoloni). KINGELLE Le kingelle (tra cui K. kingae è la specie più comune) sono un genere di cocco-bacilli Gram-negativi, aerobi- anaerobi facoltativi, con attività β-emolitica. K. kingae è commensale della mucosa faringea dei bambini, nei quali si trasmette con le secrezioni naso-faringee; può causare stomatiti o lievi infezioni delle alte vie aeree, ma se riesce ad attraversare le mucose (grazie ad una citolisina) e a diffondere in circolo, può essere respon- sabile di gravi infezioni osteo-articolari (osteomieliti e spondilodisciti) e di endocarditi (appartiene al gruppo HACEK, dei microorganismi commensali, ma insidiosi, che occasionalmente son responsabili di endocarditi). - 33 - Ceppi S T E C I ceppi entero-emorragici di E. coli (E H E C) devono la loro patogenicità alla produzione di due tossine dette Shiga-like (SLT-1 / SLT-2), che hanno un meccanismo d’azione analogo a quello della tossina sintetizzata da S. dysenteriae tipo 1; infatti SLT-1 è antigenicamente identica alla tossina di Shiga, mentre SLT-2 è diversa, anche se molto simile. Questi ceppi sono anche indi- cati con le sigle STEC [da Shiga-Toxin] e VTEC [da Vero- Toxin, altro nome con cui si indicano queste tossine]. Essendo degli enterobatteri NON invasivi, provocano enteriti scarsamente sintomatiche ma, per la capacità delle tossine Shiga-like di attraversare la mucosa inte- stinale e, una volta in circolo, di legarsi alla superficie delle cellule endoteliali di diversi organi (danneggian- dole) si possono verificare complicanze gravi, tra cui colite emorragica e una sindrome uremico-emolitica (STEC-HUS) caratterizzata da anemia emolitica, insuf- ficienza renale acuta e micro-angiopatia trombotica. SHIGELLE Le shigelle sono degli enterobatteri, agenti eziologici di una forma di dissenteria che, dopo breve periodo d’incubazione, si manifesta con delle frequenti scari- che diarroiche muco-sanguinolente accompagnate da febbre, vomito, dolori addominali e malessere gene- rale. L’infezione si contrae mediante ingestione di ali- menti contaminati dalle feci di soggetti malati o con- valescenti e quindi è molto frequente nei Paesi in via di sviluppo, dove può presentarsi in focolai epidemici. In base ai caratteri biochimici e antigenici, si possono distinguere 4 specie o "sottogruppi" [A-D] di shigelle, ciascuno comprendente un certo numero di sierotipi. S. dysenteriae è l’unica a non fermentare il mannitolo. A) Shigella dysenteriae . . . . . . . . . . . . [10 sierotipi] - B) Shigella flexneri . . . . . . . . . . . . . . . . [08 sierotipi] < C) Shigella boydii . . . . . . . . . . . . . . . . [15 sierotipi] - D) Shigella sonnei . . . . . . . . . . . . . . . . . [02 sierotipi] Azione patogena Le shigelle resistono all’acidità gastrica e colonizzano la mucosa del colon, dove si moltiplicano e rilasciano l’endotossina in seguito alla propria lisi. Dalla sede co- lonizzata hanno scarsa tendenza a diffondere altrove. L’azione patogena di tutte le shigelle è mediata da LPS ma, nelle infezioni da Shigella dysenteriae tipo 1, con- tribuisce pure la tossina di Shiga da essa sintetizzata, che può provocare alterazioni a carico del SNC, colite emorragica e sindrome uremico-emolitica. La tossina si lega con il componente B al recettore Gb3 di mem- brana e viene endocitata liberando dal componente A il frammento A1 attivo, una glicosidasi che, staccando un residuo di adenina dall’RNA ribosomiale 28S (una delle molecole di RNA che assieme ad alcune proteine formano la subunità maggiore del ribosoma umano), impedisce il legame dell’amminoacil-tRNA e blocca la sintesi proteica, con conseguente morte della cellula. Identificazione Le shigelle possono essere identificate dimostrando la loro capacità di penetrare, anche in vitro, nelle cellule e di provocare una cherato-congiuntivite nelle cavie. - 34 - SALMONELLE Le salmonelle sono degli enterobatteri responsabili di gastroenteriti e di malattie sistemiche. Le varie specie son differenziate in base ai loro antigeni somatici (O), capsulari (Vi) e flagellari (H). La specie più importante nella patologia umana è Salmonella enterica, di cui si distinguono 6 sottospecie, ciascuna con svariati siero- tipi (detti pure serovar). Il 95% dei serovar appartiene a Salmonella enterica subsp. enterica ed i più rilevanti sono S. typhi, S. paratyphi A / B / C e S. typhimurium. S. typhi e S. paratyphi sono serovar adattati all’uomo, trasmessi attraverso il circuito oro-fecale e responsa- bili di gravi infezioni sistemiche, con compromissione intestinale (chiamate tifo e paratifo rispettivamente). S. typhimurium è un serovar ubiquitario, responsabile dell’affezione nota come salmonellosi, una gastroen- terite che insorge a poche ore dall’ingestione del cibo contaminato – solitamente carne o uova poco cotte, ed è caratterizzata da febbre elevata, vomito, diarrea. Diagnosi, terapia e profilassi I sierotipi adattati all’uomo sono gli unici enterobat- teri per i quali è possibile ricorrere a delle reazioni sie- rologiche per la diagnosi, in quanto nel tifo e nei para- tifi si hanno dei periodi d’incubazione abbastanza lun- ghi da permettere lo sviluppo degli anticorpi specifici. Nei casi più severi, che necessitano di un trattamento, i farmaci antibatterici impiegati sono cloramfenicolo, penicilline ad ampio spettro d’azione e cefalosporine. Per la profilassi son disponibili alcuni vaccini antitifici, tra cui uno intero inattivato e uno vivo attenuato, da somministrare per os, ed uno allestito con l’antigene Vi purificato da somministrare per via intramuscolare. KLEBSIELLE Le klebsielle sono degli enterobatteri capsulati com- mensali delle mucose e patogeni opportunisti, spesso repertabili nel materiale fecale umano. Le specie d’in- teresse medico includono Klebsiella pneumoniae (che può esser responsabile di infezioni respiratorie e delle vie urinarie) e K. oxytoca (occasionalmente responsa- bile di infezioni respiratorie e urinarie in pz debilitati e caratterizzata da multi-resistenza agli antibatterici). Yersinia pestis • Cocco-bacillo Gram-negativo • Aerobio-anaerobio facoltativo I batteri del genere Yersinia appartengono allo stesso ORDINE degli enterobatteri. Sono patogeni per diversi animali ma possono anche infettare l’uomo (zoonosi). La principale specie di interesse medico [e storico!] è Yersinia pestis, l’agente eziologico della peste, che ha il suo reservoir naturale in roditori di America, Africa e Asia, nei quali l’infezione (definita enzootica) è man- tenuta da pulci che, nutrendosi del sangue di animali infetti, consentono la replicazione dei batteri nel loro organismo (nel quale provocano un blocco del tratto digerente) e li trasmettono ad altri roditori rigurgitan- doli durante un successivo pasto ematico. La pulce dei ratti, Xenopsilla cheopis, può trasmettere l’infezione anche dagli animali all’uomo (zoonosi), mentre il con- tagio interumano può avvenire sia per il morso della pulce umana Pulex irritans (per contatto con i soggetti malati o con i loro indumenti che la ospitano), sia per via inalatoria mediante goccioline di saliva dei malati. Gli aminoglicosidi sono i farmaci di prima scelta per la terapia, mentre le tetracicline e il cloramfenicolo sono impiegati per la chemioprofilassi dei soggetti esposti. - 35 - Azione patogena Una volta inoculate, le yersinie vengono fagocitate da neutrofili (che le eliminano) e da macrofagi (nei quali invece sopravvivono e si moltiplicano) e dal sito d’ino- culo esse raggiungono poi, passando nei vasi linfatici, i linfonodi regionali, nei quali causano intensa flogosi (che si palesa clinicamente con la comparsa dei cosid- detti bubboni, da cui deriva il nome peste bubbonica) e colliquazione purulenta. Successivamente, Y. pestis si localizza nella milza, nel fegato e nei polmoni, dove provoca delle estese lesioni necrotiche-emorragiche. I fattori che influenzano la virulenza di Yersinia pestis dipendono da 3 plasmidi, i quali codificano rispettiva- mente per le proteine del sistema secretorio (tipo III), per la proteina capsulare Fraction 1, che ha funzione antifagocitaria, e per un attivatore del plasminogeno. Identificazione L’identificazione è possibile con isolamento colturale in terreni arricchiti e addizionati di emina (che è accu- mulata da Yersinia pestis e conferisce alle colonie una pigmentazione rosso-bruna) e con il successivo esame microscopico su preparati con colorazione di Giemsa. Il batterio può esser identificato anche mediante rea- zioni di immunofluorescenza o reazione di agglutina- zione con siero anti-F1, specifico per questa proteina. La ricerca degli anticorpi nel siero dei pazienti si effet- tua invece mediante la reazione di agglutinazione con emazie sulla cui superficie è adsorbita la proteina F1. Altre specie Altre specie di interesse medico sono Y. pseudotuber- culosis e Y. enterocolitica, piccoli bacilli Gram-negativi che possono, occasionalmente, infettare l’uomo per il contatto diretto con animali infetti o per l’ingestione di alimenti contaminati dai loro escrementi. In genere sono sensibili agli amminoglicosidi ed alle tetracicline. • Yersinia pseudotuberculosis provoca un’adenite mesenterica coi sintomi di un’appendicite acuta - • Yersinia enterocolitica causa enteriti con diarrea grave (forse per la produzione di enterotossina) Proteus spp. Proteus è il genere di batteri più spesso responsabile, dopo Escherichia coli, delle infezioni delle vie urinarie. P. mirabilis (che si distingue da altre spp. poiché sinte- tizza indolo) è la specie di maggiore interesse medico. Sintetizzando ureasi, i batteri del genere Proteus por- tano alla produzione di NH₃ che incrementa il pH delle urine, favorendo così la formazione dei calcoli urinari. - 36 - Per l’eradicazione è indicata la somministrazione per 3-4 sett. di ampicillina o claritromicina, sali di bismuto e un inibitore di pompa protonica come l’omeprazolo. CAMPILOBATTERI I campilobatteri sono dei batteri Gram-negativi flagel- lati che possono assumere morfologia varia (bacillare, incurvata, elicoidale o coccoide), ossidasi-positivi, mi- croaerofili ed incapaci di fermentare alcuno zucchero. Sono presenti in numerosi vertebrati, ma i volatili da allevamento rappresentano la principale sorgente di infezione. Campylobacter jejuni e Campylobacter coli causano circa il 25% delle enteriti della prima infanzia. HAEMOPHILUS / PSEUDOMONAS / BORDETELLA / BRUCELLE / LEGIONELLA - 39 - Haemophilus influenzae • Cocco-bacillo Gram-negativo • Aerobio-anaerobio facoltativo H. influenzae, così chiamato poiché ritenuto erronea- mente responsabile dell’influenza dal suo scopritore, è un batterio pleomorfo, con forma bacillare o cocco- bacillare, spesso commensale della mucosa naso-oro- faringea e a trasmissione esclusivamente interumana. La sua patogenicità è dovuta all’azione antifagocitaria della sua capsula e alla tossicità del lipopolisaccaride. Essendo un emofilo, ha bisogno di due fattori ematici per svilupparsi: gruppo eme dell’emoglobina (neces- sario per la sintesi di alcuni enzimi) e nucleotide NAD; deve, dunque, essere coltivato in terreno agar-sangue (non ha attività emolitica, a differenza di altri emofili). Caratteri antigenici In base al polisaccaride capsulare (indicato come SSS) si distinguono 6 sierotipi (indicati con le lettere A-F) e un gruppo di ceppi non tipizzabili (indicati come NT), tutti dotati di due antigeni proteici comuni: "M" e "P". H. influenzae di tipo B causa, soprattutto nell’infanzia, meningiti, laringiti e affezioni delle vie aeree inferiori. Diagnosi, terapia e profilassi La diagnosi si effettua mediante isolamento colturale (in coltura i batteri formano inizialmente colonie lisce per la presenza della capsula, poi questa si perde e si ha formazione di colonie rugose) o ricercando SSS nel liquor (in caso di meningite) mediante reazioni immu- no-enzimatiche che impiegano sieri immuni specifici. H. influenzae è sensibile a vari antibiotici. Per il tratta- mento delle meningiti, si ricorre all’ampicillina per via endovenosa associata a un inibitore delle β-lattamasi. Per quanto riguarda la profilassi, è disponibile un vac- cino (obbligatorio ed incluso nell’esavalente) allestito con il polisaccaride capsulare di tipo B, coniugato con un vettore proteico per aumentare l’immunogenicità. Pseudomonas aeruginosa • Bacillo Gram-negativo • Aerobio-anaerobio facoltativo P. aeruginosa è un batterio ubiquitario, mobile per la presenza di flagelli polari e caratterizzato da una resi- stenza ai disinfettanti a base di ammonio quaternario (cloruro di benzalconio). Si può repertare occasional- mente nell’espettorato e nel materiale fecale, poiché è commensale transitorio delle prime vie respiratorie. Deve il proprio nome al fatto che in coltura le colonie assumono un colore blu-verdastro per la produzione dei pigmenti piocianina (verde) e fluoresceina (gialla). Nell’uomo è un batterio opportunista, spesso respon- sabile di infezioni delle vie aeree inferiori nei pazienti intubati, immunodepressi o affetti da fibrosi cistica, in cui la letalità è elevata. Può causare anche gravi infe- zioni oculari, auricolari e a carico di impianti protesici. Le infezioni rappresentano anche una frequente com- plicanza delle ustioni estese e di ampie ferite cutanee. Azione patogena Il LPS di P. aeruginosa ha bassa tossicità, perciò la sua patogenicità è mediata principalmente da altri fattori, tra cui la presenza dei flagelli e di alcuni polisaccaridi extracellulari, che consentono ai batteri di aderire alle superfici e costituiscono un biofilm; tale biofilm pro- tegge i batteri dagli effettori del sistema immunitario e inoltre ostacola la diffusione dei farmaci antibiotici. P. aeruginosa produce anche due tossine con attività ADP-ribosilante, dette, rispettivamente, esotossina A (analoga a quella difterica, che si lega a EF-2 e blocca la sintesi proteica) ed esotossina S. Tra le altre tossine vi sono due emolisine, una leucocidina, una elastasi e alcune proteasi che permettono l’invasione batterica. Persino il pigmento piocianina contribuisce alla pato- genicità del batterio, poiché ha un’azione ciliostatica. - 40 - Diagnosi e terapia La diagnosi dell’infezione è possibile con l’isolamento colturale del batterio, caratterizzato da metabolismo ossidativo (dunque ossidasi-positivo) e dall’incapacità di fermentare. In anaerobiosi, per potersi sviluppare, può sfruttare nitrati come accettori finali di elettroni. P. aeruginosa spesso è resistente a gran parte dei far- maci antibatterici per via della scarsa permeabilità dei suoi involucri esterni, della sua capacità di sintetizzare β-lattamasi e aminoglicosidasi e della frequente pre- senza di alterazioni di diversi bersagli farmacologici e di meccanismi che portano all’espulsione dei farmaci. Per questi motivi, per impostare una terapia, di solito a base di più farmaci, è necessario un antibiogramma. Bordetella pertussis • Piccolo bacillo Gram-negativo • Aerobio obbligato / ossidasi+ e catalasi+ B. pertussis è un bacilletto a circolazione interumana, agente eziologico della pertosse, malattia tipica della prima infanzia consistente in un’infiammazione naso- faringea seguita dopo circa 1-2 settimane da un inte- ressamento delle vie aeree inferiori, che si accompa- gna a una distintiva tosse parossistica (da cui il nome). Il batterio aderisce all’epitelio tracheale e bronchiale, dove tende a restare localizzato, grazie all’emoagglu- tinina filamentosa e ai pili dotati di adesine specifiche. I prodotti tossici del batterio causano flogosi e necrosi della mucosa naso-faringea ed accumulo di secrezioni per la paralisi ciliare (dovuta alla citotossina tracheale [vedi oltre] – comporta il rischio di sovrainfezioni); ciò porta allo sviluppo della tipica tosse parossistica, che comporta episodi di ipossia i quali, assieme all’azione diretta della tossina del batterio [vedi oltre], possono provocare delle severe complicanze encefalopatiche. Azione patogena B. pertussis ha una capsula dotata di azione antifago- citaria e LPS tossico, ma il suo principale strumento di patogenicità è la tossina pertossica. Il componente B della tossina lega alcune glicoproteine della superficie cellulare, favorendo la traslocazione del componente A nel citosol; questo, in seguito al distacco di un fram- mento, acquisisce un’attività ADP-ribosil-trasferasica nei confronti di varie proteine G, in particolare della subunità α-inibitoria della proteina G-inibitoria, che di norma inibisce l’adenilato ciclasi; questa risulta quindi costitutivamente attiva e si ha un aumento di [cAMP]. B. pertussis possiede poi una tossina dermonecrotica che induce vasocostrizione, una citotossina tracheale (tossica, soprattutto, per le cellule ciliate dell’epitelio respiratorio, nelle quali inibisce la sintesi di DNA), una adenilato ciclasi batterica che, entrando nelle cellule, aumenta direttamente [cAMP] e una emolisina, detta ciclolisina, che formando pori nelle membrane con un dominio emolitico, permette ad un dominio catalitico di entrare nelle cellule ed agire aumentando [cAMP]. Tossina pertossica -------------------→ Aumenta [cAMP] Tossina dermonecrotica ----→ Induce Vasocostrizione Citotossina tracheale -----→ Agisce Paralisi ciliare Adenilato ciclasi ---------→ Aumenta [cAMP] Ciclolisina ------------------------------→ Aumenta [cAMP] Diagnosi, terapia e profilassi La diagnosi certa d’infezione è possibile mediante iso- lamento colturale o ricercando delle sequenze di DNA batterico (PCR). Nelle colture i batteri formano inizial- mente colonie lisce per la presenza di capsula (fase I), poi perdono man mano i fattori che influenzano la pa- togenicità, formando colonie rugose (fase II, III ecc). Come P. aeruginosa, non è capace di fermentare e ha un metabolismo di tipo ossidativo (è ossidasi-positiva e catalasi-positiva), ma può ricavare energia soltanto in presenza di ossigeno (P. aeruginosa sfrutta nitrati). Nonostante la sensibilità in vitro a vari antibiotici, per una terapia efficace occorrono dei sieri iperimmuni. - 43 - Azione patogena La tossina botulinica è l’unico strumento di patogeni- cità del batterio; termolabile ma resistente all’acidità gastrica, è assorbita a livello intestinale e una volta in circolo mostra un tropismo per le sinapsi colinergiche, dove blocca il rilascio di acetilcolina (la componente B si lega a un recettore e la componente A degrada una sinaptobrevina, una sintaxina e la proteina SNAP-25). Sono noti 7 tipi antigenici di tossina botulinica (A-G), prodotti da altrettanti tipi di C. botulinum (A, B, E sono più spesso i responsabili di intossicazioni alimentari). Diagnosi e terapia La diagnosi del botulismo è possibile inoculando siero del paziente in due gruppi di animali da esperimento, di cui uno pretrattato con una miscela di sieri anti-tos- sina botulinica (in caso di positività, soltanto il gruppo non trattato sviluppa la paralisi flaccida e poi muore). Il trattamento si basa sulla somministrazione di siero contenente anticorpi contro le tossine di tipo A, B, E. Clostridium perfrigens C. perfrigens è ampiamente diffuso nell’ambiente e se ne distinguono 5 tipi in base alla combinazione di tos- sine prodotte (solo A, C e D sono di interesse medico). A = α | B = α, β, ε | C = α, β | D = α, ε | E = α, ι Azione patogena L’esotossina α è una fosfolipasi C sintetizzata da tutti i tipi di C. perfrigens (soprattutto di tipo A), principale mediatore della loro azione patogena; è responsabile della gangrena gassosa (così detta in quanto i batteri producono gas) e di gravi infezioni a carico dei tessuti molli (cioè cellulite, miosite, mionecrosi anaerobiche). L’esotossina β è sintetizzata da C. perfrigens di tipo C ed agisce formando dei pori nelle membrane cellulari; è responsabile dell’enterite necrotizzante, grave pato- logia con elevata letalità che si verifica per ingestione di alimenti poco cotti da parte di individui malnutriti (che quindi presentano una ridotta secrezione di pro- teasi pancreatiche) o infestati da elminti (che produ- cono inibitori della tripsina), in quanto, normalmente, l’esotossina β risulta sensibile all’azione di tali enzimi. Alcuni ceppi di tipo A, in seguito alla sporificazione cui vanno incontro nell’ambiente alcalino del tenue, pro- ducono una enterotossina che aumenta la permeabi- lità intestinale causando diarrea e crampi addominali. La terapia delle sue infezioni prevede la somministra- zione di sulfamidici e di un siero immune polivalente. Clostridium difficile Clostridium difficile è il microrganismo che più spesso è responsabile della diarrea da antibiotici ed è agente eziologico della colite pseudomembranosa, entrambe conseguenze di una infezione endogena (nei portatori intestinali di ceppi farmaco-resistenti del clostridio) o esogena (contratta, in genere, in ambito ospedaliero). C. difficile sintetizza un fattore che inibisce la motilità dell’intestino e due tossine – La tossina A è un’ente- rotossina che aumenta la permeabilità della mucosa intestinale, mentre la tossina B (che in alcuni ceppi è l’unica prodotta) ha un effetto citotossico sull’epitelio intestinale ed è dunque responsabile di lesioni necro- tiche. Esistono alcuni ceppi, resistenti a molti antibat- terici, che producono notevoli quantità di tali tossine. La diagnosi è possibile ricercando le tossine nel mate- riale fecale (con tecniche immunologiche) o con PCR. La terapia è a base di metronidazolo o vancomicina e può beneficiare del trapianto fecale che, ripristinando la normale composizione della flora batterica intesti- nale, può contrastare la proliferazione del clostridio. SPIROCHETE — TREPONEMA / BORRELIE / LEPTOSPIRE - 44 - CARATTERI GENERALI Le spirochete sono dei batteri di forma allungata con corpo avvolto a spirale e un diametro trasverso molto ridotto (eccezion fatta per le borrelie, risultano infatti visibili al microscopio ottico solamente impiegando le tecniche che ne aumentano lo spessore). La struttura della loro parete cellulare è simile a quella dei Gram- negativi, ma dotata di grande flessibilità. Sono mobili grazie alla presenza di fibrille interne contrattili (dette endoflagelli) e NON sono coltivabili in terreni abiotici. Le principali spp. d’interesse medico sono Treponema pallidum, Borrelia burgdoferi, Leptospira interrogans. Treponema pallidum T. pallidum è responsabile della sifilide, malattia a tra- smissione sessuale. La sua azione patogena è dovuta alla sua capacità di eludere il sistema immunitario per una ridotta antigenicità delle sue proteine superficiali (o per una loro scarsezza). Le lesioni che si verificano sono imputabili ad una reazione flogistica dell’ospite. Patogenesi L’infezione inizia a livello delle mucose genitali, dove i treponemi si moltiplicano, causando, entro 2-3 setti- mane, la formazione di una papula, che poi si ulcera liberando un essudato ricco di treponemi. La lesione, detta sifiloma primario, successivamente cicatrizza in maniera spontanea, anche in assenza di trattamento. Dopo circa 2-4 mesi, si ha la comparsa di un esantema e di ulteriori lesioni sulle mucose (sifilide secondaria). In un terzo dei pz non trattati, dopo un lungo periodo di latenza asintomatico, che può durare anche anni, si ha la sifilide terziaria, che interessa prevalentemente il SNC (tabe dorsale), il sistema cardio-vascolare (con aneurisma dell’aorta) e la cute, sulla quale compaiono le gomme luetiche (delle lesioni, di consistenza dura, che subiscono necrosi colliquativa e poi cicatrizzano). Diagnosi e terapia La diagnosi batteriologica è possibile con una ricerca microscopica dei treponemi nell’essudato dei sifilomi, eseguita in campo oscuro, con impregnazione argen- tica o con le tecniche di immunofluorescenza diretta; con la PCR si può anche ricercare il DNA treponemico. La diagnosi sierologica si esegue mediante test trepo- nemici e NON treponemici. Nei test non treponemici si ricercano anticorpi diretti contro la cardiolipina, un antigene umano che è liberato dai tessuti danneggiati nel corso dell’infezione, mentre nei test treponemici si ricercano gli anticorpi diretti contro alcune proteine proprie del treponema. In alternativa, si può ricorrere alle reazioni immuno-enzimatiche o al Western blot. Il principale test non treponemico è il VDRL (Venereal Diseases Research Laboratory), nel quale il siero viene fatto reagire con un estratto di cardiolipina. In caso di sieropositività si ha una reazione di flocculazione, con formazione di schiuma. Il test è molto sensibile, però poco specifico in quanto gli anticorpi anti-cardiolipina possono esser presenti anche in soggetti sani; perciò, in caso di positività, si ricorre pure ai test treponemici. TEST TREPONEMICI • FTA-ABS (immunofluorescenza indiretta) • TPHA (reaz. emoagglutinazione indiretta) • TPI (reaz. che causa un’immobilizzazione) T. pallidum è altamente sensibile alla penicillina tanto che, se l’infezione è nello stadio iniziale, ne basta una singola dose – l’azitromicina è una valida alternativa. BORRELIE Le borrelie sono le uniche spirochete con un diametro sufficientemente grande da esser visibili al microsco- pio ottico senza l’ausilio di tecniche che ne aumentino artificialmente lo spessore. Sono trasmesse col morso o la puntura di alcuni artropodi ematofagi. Nell’uomo sono essenzialmente la causa di due quadri patologici (borreliosi): la febbre ricorrente e la malattia di Lyme. - 45 - I farmaci ai quali le borrelie risultano più sensibili sono β-lattamici (in particolare il ceftriaxone) e tetracicline. Febbre ricorrente La febbre ricorrente è un tipo di borreliosi provocata da alcune spp. del genere Borrelia trasmesse all’uomo da zecche molli o pidocchi. È caratterizzata dall’alter- narsi ciclico di episodi febbrili e periodi di remissione. Gli episodi febbrili sono dovuti alla capacità delle bor- relie di variare i caratteri antigenici delle proprie pro- teine di superficie nel corso di un’infezione, eludendo così il riconoscimento da parte del sistema immunita- rio e impedendo lo sviluppo di un’immunità duratura. La diagnosi microbiologica della febbre ricorrente può essere posta in seguito al riscontro di borrelie in uno striscio di sangue periferico prelevato durante un epi- sodio febbrile e colorato con metodo Giemsa (eosina e blu di metilene) o attraverso l’isolamento colturale. Malattia di Lyme La malattia (o borreliosi) di Lyme è causata da Borrelia burgdoferi complex, che include, oltre alla sp. Borrelia burgdoferi propriamente detta, altre 2 spp. che ormai sono distinte da essa: Borrelia garinii e Borrelia afzelii. Queste spirochete sono trasmesse attraverso il morso di zecche del genere Ixodes, che in Italia sono presenti nelle regioni settentrionali. La malattia, che in alcune aree si può considerare endemica, è caratterizzata da tre stadi clinici, cui si associano variabilmente sintomi generali (febbre, astenia, cefalea, mialgie) e linfoade- nopatie. Di solito il morso della zecca, e quindi l’esor- dio della malattia, si verificano in estate o in autunno. Nel primo stadio, intorno all’area del morso compare un eritema cronico migrante, con aspetto a bersaglio. Nel secondo stadio compaiono, per la diffusione delle borrelie nell’ospite, sintomi da coinvolgimento artico- lare, in genere come oligoartrite migrante, e cardiaco, che si può manifestare con blocco atrio-ventricolare. Il terzo stadio può comparire anche a distanza di anni dall’esordio ed è caratterizzato da un interessamento del sistema nervoso, che si manifesta con poli-neuro- patie centrali e periferiche, associato a una poliartrite e ad una caratteristica acrodermatite cronica atrofica. Il materiale sul quale tentare l’isolamento del batterio per la diagnosi batteriologica va scelto in base alle fasi e alle manifestazioni della malattia. La diagnosi siero- logica, invece, è possibile mediante reazioni immuno- enzimatiche o d’immunofluorescenza e Western blot. LEPTOSPIRE Le leptospire sono dei batteri col corpo avvolto in una spirale a passo stretto e che a sua volta è ripiegata una o due volte a formare una C o una S. Quelle patogene per l’uomo sono raggruppate in una specie unica, che presenta oltre 200 sierotipi – Leptospira interrogans. L. interrogans è l’agente eziologico della leptospirosi, una zoonosi che si può presentare in modo variabile, a seconda della suscettibilità dell’ospite, con manife- stazioni che vanno da leggeri sintomi catarrali a gravi quadri patologici caratterizzati da insufficienza renale ed epatica oppure con interessamento delle meningi. L’infezione umana avviene per contatto con acque su- perficiali contaminate dalle urine degli animali infetti. Nella prima settimana, si ha una fase leptospiremica, durante la quale le spirochete possono essere isolate dal sangue periferico; in seguito si localizzano nei reni, nel fegato, nella milza e nelle meningi. In una seconda fase, le leptospire sono espulse con le urine e, quindi, si possono repertare nelle stesse, mediante un esame microscopico in campo oscuro o isolamento colturale. Le leptospire sono sensibili a penicilline, tetracicline e cloramfenicolo – tuttavia, il trattamento può risultare complesso perché la diagnosi, solitamente, è tardiva. Per la profilassi è disponibile un vaccino, allestito con leptospire inattivate del sierotipo più frequente, la cui somministrazione è indicata nei soggetti con maggior rischio d’infezione (lavoratori delle risaie e allevatori). - 48 - Ciclo vitale Le clamidie presentano un ciclo vitale dimorfico in cui si distinguono cioè una forma infettante, detta corpo elementare, e una replicativa, detta corpo reticolare. Il corpo elementare è una cellula piccola e densa, me- tabolicamente inerte e capace di sopravvivere in am- biente extracellulare. Una volta inglobato da una cel- lula fagocitaria, il corpo elementare si idrata, subisce un processo trasformativo e diviene corpo reticolare, che è più voluminoso, metabolicamente attivo ed è in grado di replicarsi all’interno della cellula parassitata. Prima di liberarsi all’esterno per la morte della cellula parassitata, i corpi reticolari vanno incontro a disidra- tazione, trasformandosi di nuovo in corpi elementari, che possono, così, parassitare altre cellule dell’ospite. Nella fase replicativa le clamidie appaiono, all’interno della cellula parassitata, come delle inclusioni citopla- smatiche, che spingono il nucleo in periferia; in Chla- mydia trachomatis, tali inclusioni, ricche di glicogeno, sono evidenziabili applicando una soluzione di Lugol. Le lesioni che si osservano nelle infezioni sono dovute alle sostanze rilasciate dalle cellule parassitate ed alla risposta cellulo-mediata dell’organismo, per cui si ha una ricca infiltrazione mucosa linfocitaria. Negli stadi tardivi delle infezioni prevalgono i fenomeni fibrotici. La diagnosi si esegue mediante l’isolamento colturale dai materiali patologici o ricercando il DNA batterico con la PCR. Per la terapia, le tetracicline sono i farmaci d’elezione, mentre i macrolidi sono la seconda scelta. Chlamydia trachomatis I sierotipi A, B, Ba e C sono responsabili del tracoma, una grave cherato-congiuntivite in cui gli esiti fibrotici possono determinare entropion e lesioni corneali per sfregamento delle ciglia, che possono risultare in una opacizzazione cicatriziale della cornea e così nella per- dita della vista (il tracoma è, infatti, la seconda causa più frequente di cecità acquisita – dopo la cataratta). Nei bambini, gli stessi sierotipi che causano il tracoma possono anche causare una congiuntivite follicolare. Gli 8 sierotipi indicati con le lettere da D a K causano invece delle infezioni genitali, di solito asintomatiche. Nell’uomo si ha una uretrite, poco purulenta, spesso accompagnata da paratracoma (congiuntivite follico- lare lieve, dovuta all’auto-inoculazione delle clamidie per il contatto delle mani contaminate con gli occhi). Nella donna causano più spesso una cervicite con mo- desta leucorrea, che può evolvere in un’endometrite. Se l’infezione si estende alle tube di Falloppio, gli esiti fibrotici possono causar infertilità da alterata pervietà tubarica. L’infezione si può anche estendere al perito- neo, provocando una malattia infiammatoria pelvica. L’infezione da clamidia può, inoltre, essere trasmessa dalla madre al feto durante il passaggio nel canale del parto infetto, con risultante congiuntivite neonatale. - 49 - MICOPLASMI • Batteri pleomorfi privi di parete cellulare • Saprofiti o parassiti endocellulari [?] • Aerobi-anaerobi facoltativi I micoplasmi sono i più piccoli batteri conosciuti (dalle dimensioni di poche centinaia di nm). Sono tutti privi di una parete cellulare (dunque non evidenziabili con colorazione Gram), proprietà che li rende pleomorfi e resistenti agli antibatterici che inibiscono la sintesi del peptidoglicano (β-lattamici e glicopeptidi). Tra le sva- riate spp. conosciute, alcune sono commensali della mucosa oro-faringea (M. salivarium), altre sono natu- ralmente patogene o opportuniste, responsabili di in- fezioni polmonari (Mycoplasma pneumoniae) oppure uro-genitali, trasmesse sessualmente (M. penetrans, M. genitalium, M. hominis, Ureaplasma urealyticum). I micoplasmi rappresentano pure dei frequenti conta- minanti di colture cellulari e batteriche in laboratorio. Il principale fattore di virulenza dei micoplasmi è rap- presentato dall’antigene P1, situato nella membrana plasmatica, che permette la loro adesione alla super- ficie delle cellule epiteliali. L’infezione cronica soste- nuta da questi batteri si associa ad alterazioni morfo- logiche e genetiche della cellula ospite, che potrebbe essere associata con l’insorgenza di alcune neoplasie. Mycoplasma pneumoniae M. pneumoniae possiede un genoma molto ristretto (meno di 1M di bp), che giustifica la sua dipendenza dal metabolismo della cellula ospite per sopravvivere e riprodursi. È l’unico batterio che presenta molecole di colesterolo (derivate dalla cellula ospite) nella sua membrana, proprietà che favorisce sia l’ingresso nella cellula ospite che l’elusione del sistema immunitario, ma che può anche determinare risposte autoimmuni per la somiglianza tra la composizione antigenica del batterio e quella delle normali cellule dell’organismo. M. pneumoniae possiede, inoltre, un organulo specia- lizzato – una estroflessione della membrana, rivestita di adesine ed altre proteine (incluse P1 e P30), che gli conferisce motilità e gli permette di aderire ai diversi recettori esposti sulle cellule dell’epitelio respiratorio (acido sialico, glicolipidi, glicoproteine, fibronectina). La patogenicità di M. pneumoniae è mediata anche da una tossina CARDS (Community-Acquired Respiratory Distress Syndrome) e da una abbondante produzione di ROS, che causano infiammazione e desquamazione dell’epitelio respiratorio. Clinicamente, l’infezione da M. pneumoniae si manifesta come polmonite atipica o tracheo-bronchite, particolarmente gravi in soggetti immunocompromessi. Nel 25% dei casi si hanno pure complicanze extra-polmonari, ad es. a carico del SNC. Per la diagnosi di infezione si possono utilizzare inda- gini sierologiche (cioè reazioni immuno-enzimatiche) o ricercare sequenze di DNA del micoplasma con PCR. Poiché i micoplasmi sono resistenti alla maggior parte degli antibiotici (per l’assenza di una parete cellulare), per il trattamento si ricorre ai macrolidi (eritromicina e claritromicina) che, pur essendo solo batteriostatici, riducono la durata e l’intensità delle infezioni. Il mico- plasma comunque ha una forte tendenza a persistere nell’ospite e l’eradicazione completa è molto difficile. - 50 - STRUTTURA E CLASSIFICAZIONE DEI VIRUS - 53 - COMPOSIZIONE E STRUTTURA I virus sono dei parassiti endocellulari obbligati, il cui genoma (DNA o RNA) è racchiuso in un involucro pro- teico, detto capside. L’insieme del genoma e del cap- side è detto nucleocapside e la particella virale viene denominata virione. Alcuni virus possiedono esterna- mente un ulteriore involucro, di natura lipoproteica, chiamato pericapside (o envelope / peplos), derivato da un frammento della membrana della cellula ospite in cui sono state preventivamente incluse alcune pro- teine virali e del quale il virione si riveste al momento della gemmazione. Lo spazio compreso tra l’envelope e il capside è occupato da proteine virali che formano la cosiddetta matrice – che nei virus muniti di un cap- side isometrico prende, invece, il nome di tegumento. Gli involucri proteggono il genoma in ambiente extra- cellulare e consentono la penetrazione del virus nella cellula in virtù dell’affinità che certe strutture protei- che superficiali presentano con dei recettori cellulari. Il genoma dei virus può essere costituito da molecole di RNA (ribovirus) o di DNA (deossiribovirus), a singolo o doppio filamento, ed essere lineare o frammentato. Il capside virale è composto da numerose catene poli- peptidiche disposte in modo simmetrico – siccome le catene polipeptidiche hanno una polarità, si possono disporre solo in due modi, ovvero secondo simmetria elicoidale (in cui le catene si dispongono intorno a un asse ideale, delimitando uno spazio virtuale elicoidale che contiene il genoma del virus) oppure secondo una simmetria icosaedrica (si tratta di capsidi "isometrici" la cui morfologia può esser approssimata a una sfera). Nei virus con capside isometrico, le catene polipepti- diche superficiali si dispongono a formare delle strut- ture chiamate capsomeri. I capsomeri situati ai vertici dell’icosaedro sono formati da cinque subunità che si proiettano all’esterno, perciò sono chiamati pentoni, mentre tutti gli altri capsomeri del capside sono costi- tuiti da sei subunità e perciò vengono chiamati esoni. Nei virus che ne sono muniti, l’envelope contiene pro- teine virali organizzate in una serie di brevi strutture dette peplomeri (o spikes) proiettate verso l’esterno. STRUTTURA – VIRIONI NUDI VS VIRIONI CON ENVELOPE - 54 - CLASSIFICAZIONE DI BALTIMORE Il più importante e adottato sistema di classificazione dei virus è quello di Baltimore, che distingue i diversi virus in base alla modalità con cui sintetizzano mRNA. I virus appartenenti allo stesso gruppo possiedono un identico meccanismo di replicazione del loro genoma. Nella classificazione di Baltimore si considerano il tipo di genoma virale (DNA / RNA), il numero dei filamenti (ss = singolo / ds = doppio) e, per i ribovirus a singolo filamento, anche la polarità di questo rispetto all’RNA messaggero (positiva se uguale / negativa se inversa). Nei virus a RNA a singolo filamento positivo (+ssRNA), questo può funzionare direttamente da RNA messag- gero (mRNA) senza che debba prima essere trascritto. GRUPPO I – [ Virus a dsDNA ] • Herpesviridae Simplexvirus - HSV-1 e HSV-2 Varicellovirus - Virus Varicella-Zoster Cytomegalovirus - Citomegalovirus umano Roseolovirus - HHV-6 e HHV-7 Lymphocryptovirus - Virus di Epstein-Barr • Papillomaviridae α-papillomavirus β-papillomavirus • Polyomaviridae Polyomavirus • Adenoviridae Adenovirus • Poxviridae Poxvirus - Virus del m. contagioso GRUPPO II – [ Virus a ssDNA ] • Parvoviridae Parvovirus - Parvovirus B19 Bocavirus GRUPPO III – [ Virus a dsRNA ] • Reoviridae Rotavirus GRUPPO IV – [ Virus a +ssRNA ] • Coronaviridae α-coronavirus - HCoV-229E - HCoV-NL63 β-coronavirus - HCoV-OC43 - HCoV-HKU1 - MERS-CoV - SARS-CoV • Caliciviridae + Astroviridae • Togaviridae Rubivirus - Virus della rosolia • Picornaviridae Enterovirus - Poliovirus Hepatovirus - Virus dell’epatite A (HAV) • Hepeviridae Hepevirus - Virus dell’epatite E (HEV) • Flaviviridae Hepacivirus - Virus dell’epatite C (HCV) Flavivirus - Virus della Febbre Gialla, West Nile, Dengue e Zika (trasmessi dalle zanzare) - 55 - GRUPPO V – [ Virus a –ssRNA ] • Orthomyxoviridae α-influenzavirus β-influenzavirus γ-influenzavirus • Paramyxoviridae Respirovirus Rubulavirus Morbillivirus Pneumovirus • Rhabdoviridae Lyssavirus - Virus della rabbia • Arenaviridae + Bunyaviridae • Filoviridae Ebolavirus GRUPPO VI – [ Virus a ssRNA con int. a DNA ] • Retroviridae Lentivirus - HIV-1 / HIV-2 GRUPPO VII – [ Virus a dsDNA con int. a RNA ] • Hepadnaviridae Orthoepadnavirus - Virus dell’epatite B (HBV) REPLICAZIONE DEL GRUPPO I Per i virus del gruppo I, il nucleocapside è trasportato presso un poro della membrana nucleare, attraverso il quale il DNA virale viene immesso dentro al nucleo. Una volta nel nucleo, il DNA virale viene trascritto in una serie di mRNA dall’apparato di trascrizione della cellula ospite, quindi il DNA virale isolato è infettante. I poxvirus rappresentano una eccezione poiché svol- gono gran parte della loro trascrizione nel citoplasma grazie a una RNA polimerasi DNA-dipendente inclusa nei virioni, quindi il loro DNA isolato non è infettante. REPLICAZIONE DEL GRUPPO II Nei parvovirus "autonomi" la replicazione è possibile soltanto in cellule in attiva moltiplicazione ed in fase S del ciclo cellulare. Per essere replicata e quindi tra- scritta dagli enzimi cellulari, la molecola di DNA a sin- golo filamento dei parvovirus deve prima essere con- vertita in una forma intermedia a doppio filamento. REPLICAZIONE DEL GRUPPO III Nei rotavirus, quando il genoma è ancora contenuto nel capside interno, il filamento di RNA– (con polarità negativa) dei vari segmenti genomici viene trascritto da una RNA polimerasi virale in filamenti di RNA+ (con polarità positiva). Tali filamenti di RNA+ inizialmente fungono da mRNA, mentre in seguito vengono incor- porati nei capsidi in formazione, all’interno dei quali sono, infine, sintetizzati i filamenti di RNA– comple- mentari; il genoma della progenie è così completato. REPLICAZIONE DEL GRUPPO IV Il genoma dei virus del gruppo IV è costituito da una singola catena di RNA+ che è poliadenilata all’estremi- tà 3’ e legata ad una piccola proteina all’estremità 5’. Dopo l’esposizione del genoma, la proteina all’estre- mità 5’ viene rimossa e l’RNA+ è quindi tradotto in una poliproteina, che successivamente è scissa nelle varie proteine virus-specifiche. L’RNA+ fa poi da stampo per la sintesi di una molecola di RNA– complementare per intervento di una RNA polimerasi virale derivata dalla scissione della poliproteina. I filamenti di RNA– fanno dunque da stampo per la sintesi di molecole di RNA+ che possono costituire il genoma della progenie virale oppure fungere come degli ulteriori RNA messaggeri. - 58 - CICLO DI MOLTIPLICAZIONE 1) Attacco alla superficie cellulare 2) Penetrazione del virus nella cellula 3) Esposizione del genoma virale 4) Sintesi dei prodotti virus-specifici 5) Assemblaggio dei nuovi virioni 6) Liberazione della progenie virale Fase di attacco Il contatto iniziale tra virus e cellula è il risultato di una collisione casuale; perché possa avvenire un "attacco" è necessario che vi sia l’incontro tra una struttura pre- sente sulla superficie del virione, detta antirecettore (di natura proteica o glicoproteica), con una struttura idonea complementare, detta recettore, situata sulla membrana plasmatica della potenziale cellula OSPITE e da cui dipende la SENSIBILITÀ di questa all’infezione. I recettori cui gli antirecettori si legano sono strutture che possono avere varie funzioni ed essere espresse da più specie animali o soltanto dall’uomo (caratteri- stica che definisce lo spettro d’ospite di un virus) e da tutti o solo da alcuni tipi di cellule (caratteristica che condiziona il tropismo di specie e di tessuto dei virus). Per via della fondamentale funzione svolta dall’anti- recettore virale, tra i vari anticorpi che si producono nel corso di un’infezione, quelli diretti contro di esso sono gli unici in grado di neutralizzare la capacità del virus di infettare le cellule dell’organismo, anche se, in alcuni casi, l’antirecettore potrebbe trovarsi in una sorta di depressione molecolare che lo rende inacces- sibile a questi anticorpi (teoria del canyon). Esistono anche alcuni casi in cui il virus è in grado di modificare la sequenza amminoacidica del proprio antirecettore e di sfuggire, così, alla neutralizzazione da parte degli anticorpi, pur conservando la capacità dell’antirecet- tore d’interagire con il recettore delle cellule sensibili. Fase di penetrazione Nella fase di penetrazione, la cellula ospite svolge un ruolo ATTIVO. I virus privi di envelope entrano nella cellula per traslocazione (attraversando direttamente la membrana plasmatica) oppure per endocitosi (con disgregazione del loro capside). Nelle infezioni soste- nute dai virus dotati di envelope, invece, si ha una fu- sione dell’involucro pericapsidico [cioè dell’envelope] con la membrana plasmatica (o con quella della vesci- cola endocitotica che ha inglobato il virus) grazie alle proteine fusogene del virione. Sia la disgregazione del capside virale sia la fusione dell’involucro pericapsidi- co con una membrana si associano all’esposizione del genoma virale, cioè al suo rilascio nella cellula ospite. IDENTIFICAZIONE DEI VIRUS La ricerca di un virus deve essere effettuata in un ma- teriale (per es. muco naso-faringeo, liquor) prelevato dal sito in cui si sospetta vi sia l’infezione. Il materiale viene sospeso in una soluzione tamponata e centrifu- gato per allontanare detriti cellulari e altri microorga- nismi contaminanti; infine, alla sospensione vengono aggiunti farmaci antibatterici e antimicotici per elimi- nare le eventuali contaminazioni microbiche residue. La sospensione così ottenuta viene inoculata in delle colture cellulari, in genere appartenenti ad una linea immortale derivante da carcinoma umano (HeLa ecc) e coltivate in una soluzione isotonica tamponata che contiene glucosio, amminoacidi e vitamine ed è arric- chita con siero animale. Il tutto viene incubato per un tempo sufficiente a far replicare i virus. Alla comparsa di un effetto citopatico, viene prelevato liquido dalle colture e si può procedere all’identificazione del virus. L’identificazione di un virus si basa sul riconoscimento dei suoi caratteri antigenici mediante saggio con sieri immuni specifici che vengono scelti in base agli effetti citopatici osservati in vitro, alla presentazione clinica dell’infezione e alla situazione epidemiologica. Se non si apprezzano effetti citopatici, la presenza del virus può essere dimostrata impiegando per es. anticorpi marcati con fluoresceina diretti contro antigeni virali. - 59 - TITOLAZIONE DEI VIRUS Per conoscere la concentrazione di un virus in un dato materiale – indicata come titolo virale, si può deter- minare il suo titolo infettante (mediante la conta delle placche di citolisi) o il suo titolo emoagglutinante, che sono entrambi direttamente proporzionali al numero dei virioni completi contenuti nel materiale in esame. Altri metodi consistono nel cercare antigeni virali con reazioni immuno-enzimatiche / acidi nucleici con PCR. Conta delle placche di citolisi Per stabilire il titolo infettante di un materiale, ad una serie di colture cellulari (in genere collocate in piastre con pozzetti multipli) si aggiunge un volume della so- luzione contenente il virus a titolo ignoto, impiegando diverse DILUIZIONI per ciascuna delle serie di colture. Per evidenziare l’effetto citopatico (ovvero le placche di citolisi), le colture sono trattate con una soluzione di cristalvioletto, che colora solo le cellule vive, quindi queste placche appaiono come delle aree decolorate. Per evitare che i virioni infettino delle cellule distanti, dopo essersi moltiplicati, si aggiunge agar alle colture (ciascuna placca sarà in questo modo provocata da un singolo virione e dalla relativa progenie che si sarà dif- fusa alle cellule limitrofe a quella infettata per prima). La conta delle placche di citolisi si esegue sulla coltura inoculata con la soluzione alla massima diluizione che è ancora capace di determinare un effetto citopatico. Il numero delle placche è direttamente proporzionale alla concentrazione di particelle virali nella soluzione iniziale, espressa in PFU (Plaque-Forming Units) / mL. Emoagglutinazione Poiché i virus dotati di envelope possiedono sulla loro superficie delle emoagglutinine, che vengono esposte anche dalle cellule infettate sulla propria membrana, addizionando alle colture di tali cellule degli eritrociti, questi vengono adsorbiti alla superficie cellulare (per effetto delle emoagglutinine), dando luogo a una rea- zione che rivela la presenza del virus. Anche in questo caso si ricorre a diverse diluizioni per definire il titolo emoagglutinante, che è espresso come l’inverso della diluizione massima alla quale si osserva ancora la rea- zione di emoagglutinazione (per esempio 1:30 → 30). FARMACI ANTIVIRALI • Inibitori di trascrittasi inversa nucleosidici [abacavir, lamivudina, zidovudina ecc] Trattamento delle infezioni da HIV e HBV • Inibitori di trascrittasi inversa non-nucleosidici [efavirenz, etravirina, rilpivirina ecc] Trattamento delle infezioni da HIV • Inibitori di proteasi virali [darunavir, lopinavir, boceprevir ecc] Trattamento delle infezioni da HIV e HBV • Inibitori di DNA polimerasi virale [aciclovir, famciclovir, ganciclovir ecc] Trattamento delle infezioni da VZV e CMV • Inibitori di RNA polimerasi virale [sofosbuvir e dasabuvir] Trattamento delle infezioni da HCV • Inibitori di neuraminidasi / fusione envelope [zanamivir e oseltamivir / amantidina] Trattamento delle influenze di tipo A e B - 60 - ONCOGENESI VIRALE I virus (a DNA / a RNA) capaci di indurre o favorire la comparsa di alterazioni del ritmo di PROLIFERAZIONE cellulare in vitro o di NEOPLASIE in vivo sono chiamati virus oncogeni. La trasformazione cellulare è dovuta alla persistenza e all’espressione di un genoma virale (intero o parziale) nella cellula ospite, cioè alla sintesi di proteine virus-specifiche in grado di alterare le vie che regolano la crescita cellulare, agendo su oncogèni e geni oncosoppressori. La trasformazione implica per la cellula la capacità di moltiplicarsi illimitatamente in coltura e di determinare la formazione di neoplasie se inoculata in animali da esperimento immunodepressi. Virus di Epstein-Barr Il virus di Epstein-Barr (Herpesviridae) infetta latente- mente i linfociti B, inducendoli ad esprimere antigeni nucleari (indicati come EBNA) e varie proteine latenti di membrana (LMP); queste, assieme a CD21 e CD23, promuovono la trascrizione di vari geni coinvolti nella proliferazione cellulare (ad es. bcl-2). I linfociti infetti sfuggiti alla risposta cellulo-mediata dell’ospite diven- tano immortali e perdono la capacità di differenziarsi in plasmacellule. Se si verifica un’ulteriore mutazione, si può avere la definitiva trasformazione neoplastica. Quando vi sono deficit dell’immunità cellulo-mediata (immunodeficienza congenita o acquisita, terapia con immunosoppressori in portatori di trapianto, malaria) l’infezione da EBV rappresenta l’evento primario che si può associare allo sviluppo del linfoma di Hodgkin (con traslocazioni che attivano l’oncogène c-myc), del linfoma di Burkitt e di alcuni carcinomi naso-faringei. Papillomavirus L’infezione da HPV è sempre associata alla comparsa di lesioni proliferative circoscritte, con caratteristiche diverse a seconda dell’epitelio colpito. Il loro genoma possiede alcune sequenze ORF (Open Reading Frame) che codificano per proteine non strutturali "precoci" (E – Early), cioè espresse all’inizio del ciclo replicativo; E1-E2 promuovono la trascrizione del genoma virale, mentre E5-E6-E7 stimolano la proliferazione cellulare. • E5 si lega a PDGFR, attivandolo costitutivamente • E6 si lega al prodotto del gene oncosoppressore p53, formando un complesso inattivo e promuo- vendone la degradazione (mediante ubiquitina) - • E7 (analogamente alla proteina E6) si lega al pro- dotto del gene oncosoppressore RB (che inibisce la progressione del ciclo cellulare), inattivandolo - Alcuni genotipi di papillomavirus umani sono notoria- mente associati allo sviluppo di carcinomi, in partico- lare quelli della cervice uterina (i genotipi più spesso coinvolti sono 16, 18, 31 e 45). L’intervallo di tempo che incorre tra l’infezione iniziale e lo sviluppo della neoplasia può essere lungo (anche decenni) e di solito richiede altri fattori determinanti, ovvero un secondo evento (per es. una mutazione puntiforme o l’attiva- zione di un oncogène), che però è reso più probabile dall’inibizione dell’apoptosi e dal mantenimento delle cellule nello stato di proliferazione. Il DNA di HPV-16 e HPV-18 è spesso integrato nel genoma delle cellule neoplastiche – tale integrazione comporta la perdita dei geni codificanti per le proteine tardive, che è com- pensata dall’aumentata espressione di quelle precoci. - 63 - Patogenesi delle recidive erpetiche Dalla sede dell’infezione primaria, i virioni, migrando lungo le terminazioni nervose sensitive, raggiungono i gangli nervosi corrispondenti e, all’interno dei corpi neuronali, la loro molecola di DNA assume configura- zione circolare, restando latente in forma episomiale (cioè senza integrarsi nel genoma della cellula ospite). In seguito a degli stimoli locali o generali (fisici, emo- tivi, ormonali), in una quota di neuroni infetti latente- mente, il virus si riattiva, dando luogo a un ciclo repli- cativo completo ed alla produzione di progenie virale. La progenie virale migra in direzione centrifuga, lungo le terminazioni nervose, fino a raggiungere le regioni cutanee o mucose in cui è avvenuta l’infezione prima- ria, causando così le lesioni vescicolari caratteristiche. Dopo ogni episodio di recidiva, anche la nuova proge- nie virale migra in direzione centripeta, infettando in forma latente un’altra frazione dei neuroni gangliari; in tal modo l’infezione può persistere per tutta la vita. Per le proprietà delle glicoproteine del loro envelope, i virioni riescono a eludere il sistema immunitario e gli anticorpi prodotti durante l’infezione non ne influen- zano né il decorso, né la frequenza delle riattivazioni. La diagnosi è possibile isolando i virus in colture cellu- lari inoculate con materiale patologico o con reazioni di immunofluorescenza utilizzando anticorpi specifici. L’aciclovir riduce la durata delle espressioni cliniche e incrementa l’intervallo tra gli episodi di riattivazione. VIRUS VARICELLA-ZOSTER Il virus Varicella-Zoster (VZV) è l’agente eziologico sia della varicella, espressione dell’infezione primaria, sia dell’herpes zoster, espressione delle sue riattivazioni. La varicella è una malattia esantematica dell’infanzia, che si trasmette per via inalatoria ed è caratterizzata dalla comparsa, dopo un periodo di circa 2 settimane di incubazione, di piccole papule, che poi evolvono in vescicole ed infine in pustole e la cui guarigione può a volte esitare in delle depressioni cicatriziali sulla cute. L’herpes zoster è un’affezione che colpisce esclusiva- mente soggetti adulti che durante l’infanzia sono stati affetti da varicella (l’incidenza dovrebbe essere quindi minore nei vaccinati). Si manifesta con la comparsa di vescicole in una regione di cute innervata da un nervo sensitivo, più frequentemente a livello toracico, che si associa spesso a nevralgia del nervo corrispondente. La PATOGENESI dell’herpes zoster è dovuta alla persi- stenza dei virioni all’interno dei gangli dorsali di alcuni nervi sensitivi, attraverso i quali raggiungono la cute. La riattivazione diventa clinicamente manifesta sola- mente quando l’efficienza del sistema immunitario si riduce (per senescenza ecc) ed esso non è più in grado di contenere la replicazione virale nel sito di latenza. Per la profilassi è disponibile un vaccino allestito con virus vivo attenuato, incluso nel tetravalente "MPRV" (obbligatorio nel secondo anno di vita, con richiamo a 6 anni). Il vaccino è pure raccomandato nei soggetti di età superiore ai 60 anni per prevenire l’herpes zoster. Per la terapia si può impiegare l’aciclovir (disponibile in varie forme), mentre la nevralgia da herpes zoster è trattabile con preparati topici a base di capsaicina. - 64 - CITOMEGALOVIRUS UMANO Il Citomegalovirus umano (CMV) si replica all’interno delle cellule epiteliali ed endoteliali e dentro monociti e linfociti circolanti, nei quali persiste in forma latente in seguito all’infezione primaria. L’antirecettore virale riconosce l’EGFR (Epidermal Growth Factor Receptor) di queste cellule. Il virus deve il suo nome all’aspetto che assumono le cellule che infetta, le quali appaiono ingrossate, con una o multiple inclusioni intra-citopla- smatiche ed una voluminosa inclusione intranucleare. L’infezione primaria si acquisisce di solito nell’infanzia ed è, per lo più, asintomatica, sebbene comporti l’eli- minazione di virioni con la saliva; se viene contratta in gravidanza, può essere trasmessa al feto, in cui il CMV può causare una malattia citomegalica da inclusioni, spesso fatale o responsabile di gravi complicanze neu- rologiche nel feto; si associa a spleno-epatomegalia e ittero, porpora trombotica trombocitopenica, difetti oculari, sordità, microcefalia e calcificazioni cerebrali. Per la diagnosi di infezione il virus può esser ricercato nella saliva, nelle urine o nei leucociti circolanti inocu- lando il materiale patologico in colture di fibroblasti e impiegando reazioni immuno-enzimatiche o di immu- nofluorescenza; si può anche cercare il genoma virale con la PCR. La terapia si può avvalere del ganciclovir. VIRUS DI EPSTEIN-BARR Il virus di Epstein-Barr (EBV, noto anche come HHV-4) è l’agente eziologico della mononucleosi infettiva. Se ne distinguono due tipi, di cui il tipo 1 è prevalente in Occidente e il tipo 2 è ubiquitario. Possiede uno spic- cato tropismo per i linfociti B (poiché esprimono un recettore per un prodotto di C3 legato dall’antirecet- tore del virus), ma questi sono solo parzialmente per- missivi nei suoi confronti, perciò al loro interno resta in forma latente; le cellule epiteliali sono invece com- pletamente permissive, poiché consentono l’espres- sione dei geni codificanti per la DNA polimerasi virale. Caratteristiche dell’infezione L’infezione latente è diffusa nella popolazione adulta e la sua riattivazione anche se asintomatica si accom- pagna a eliminazione del virus con la saliva, che si può dunque trasmettere per contatto interumano diretto. Il virus infetta inizialmente le cellule dell’epitelio oro- faringeo, dove si replica prima di infettare i linfociti B che transitano attraverso l’epitelio o che i virioni rag- giungono nei linfonodi regionali per tramite di cellule dendritiche. L’infezione primaria, solitamente, è asin- tomatica ma in alcuni soggetti, dopo 1-2 mesi d’incu- bazione si ha comparsa della mononucleosi infettiva, caratterizzata da linfoadenopatie, febbre, malessere generale, tonsillite purulenta e spleno-epatomegalia. Nella mononucleosi infettiva, i linfociti B infetti sono indotti a proliferare e produrre anticorpi IgM; ne con- segue una intensa risposta cellulo-mediata, che porta alla proliferazione dei linfociti T citotossici, presenti in gran numero in circolo (da qui il nome della malattia). L’infezione di solito è contenuta dalla risposta cellulo- mediata, però in alcuni soggetti si può avere una sua cronicizzazione, caratterizzata da febbricola, cefalea, astenia e un’infiammazione oro-faringea persistente. La diagnosi avviene attraverso la cosiddetta reazione di Paul-Bunnel-Davidsohn, ossia la ricerca sierica degli anticorpi IgM specifici (capaci di agglutinare le emazie di montone), previo assorbimento del siero con rene di cavia e con emazie bovine; ciò si rende necessario poiché pure in soggetti sani e in altre condizioni pato- logiche (come nella malattia da siero) si può avere la presenza di anticorpi in grado di agglutinare le emazie di montone, ma solo quelli specifici per EBV non sono eliminati dall’assorbimento con il rene di cavia; quello con emazie bovine elimina entrambi i tipi di anticorpi. Il ganciclovir trova impiego per la terapia della prima infezione, ma non ha effetto alcuno su quella latente. GLI ALTRI DEOSSIRIBOVIRUS - 65 - ADENOVIRUS Gli adenovirus sono virus a dsDNA che, in base ai ca- ratteri antigenici, sono distinti in almeno 47 sierotipi diversi. In genere causano la morte della cellula infet- tata, ma alcuni sierotipi sono responsabili di infezioni persistenti o latenti. Sierotipi differenti sono in grado di infettare epiteli mucosi diversi e, occasionalmente, pure le meningi. L’immunità che segue a un’infezione è duratura ma, dato che non esiste cross-reattività tra i vari sierotipi, il rischio di infezione è sempre elevato. Le affezioni da adenovirus non hanno caratteri distin- tivi e la loro identificazione si fonda sulla ricerca degli antigeni specifici nei materiali patologici con tecniche immuno-enzimatiche o immunofluorescenza diretta. POXVIRUS Escludendo il virus del vaiolo umano, ormai eradicato, l’unico poxvirus che interessa esclusivamente la spe- cie umana è quello del mollusco contagioso, anche se occasionalmente si possono avere infezioni sostenute da certi poxvirus animali, come quelli responsabili del vaiolo bovino e del vaiolo della scimmia, che comun- que hanno ridotta tendenza al contagio interumano. Il virus del mollusco contagioso ha uno spiccato tro- pismo per le cellule dell’epidermide umana: in quelle dello strato basale il ritmo di moltiplicazione raddop- pia, con conseguente IPERPLASIA di tale strato e com- parsa di piccoli noduli epidermici, costituiti da cellule contenenti una voluminosa inclusione intra-citoplas- matica formata da virioni e prodotti virali accumulati. La diagnosi è esclusivamente clinica; i noduletti guari- scono facilmente in seguito a spremitura degli stessi. PAPILLOMAVIRUS • Virioni di forma tondeggiante • Privi di involucro pericapsidico • Capside a simmetria icosaedrica • Genoma virale a dsDNA circolare [gruppo I] I papillomavirus umani (HPV), appartenenti alla fami- glia Papillomaviridae e suddivisi in diversi generi (tra cui α-papillomavirus e β-papillomavirus sono i princi- pali), possiedono uno spiccato tropismo per gli epiteli mucosi (genere α) o per l’epitelio cutaneo (genere β), nei quali danno luogo ad una infezione restrittiva, che dipende dalla fase del ciclo cellulare di queste cellule. I diversi ceppi di HPV sono distinti in base a omologie delle sequenze nucleotidiche di certe regioni del loro genoma e non in base alle loro proprietà antigeniche (come avviene per la maggior parte degli altri virus), perciò ci si riferisce a "genotipi" anziché a "sierotipi". Alcuni genotipi di HPV (per es. 16 e 18) sono associati allo sviluppo di carcinomi (tra cui quello della cervice). L’infezione da HPV si associa ad intensa proliferazione dello strato basale e quindi ispessimento dell’epitelio. Nelle cellule dello strato basale, il DNA virale rimane in forma latente, mentre negli strati superficiali (in cui il DNA cellulare non si replica più) si ha intensa repli- cazione virale e dunque formazione di progenie infet- tante che si libera con la desquamazione dell’epitelio. Lesioni da HPV Le lesioni da HPV sono dette papillomi e se ne distin- guono due tipi principali: verruche e condilomi acumi- nati (da non confondere con quelli piani della sifilide). Le verruche sono lesioni ruvide e secche, manifesta- zione di una infezione confinata all’epidermide. Le più frequenti sono quelle volgari (sulla superficie dorsale delle falangi), seguite da quelle palmari e plantari, in cui l’infezione è solitamente contratta in luoghi molto frequentati (per es. palestre e piscine) dove l’umidità e il caldo facilitano la sopravvivenza del virus nell’am- biente; mani e piedi sono interessati per la presenza di microlesioni, dovute ai frequenti traumatismi mec- canici cui sono soggetti, che fungono da via d’accesso per i virus. Le verruche piane compaiono solitamente in certi pazienti sottoposti a una terapia immunosop- pressiva e spesso regrediscono in maniera spontanea. - 68 - Diagnosi, terapia e profilassi La diagnosi di infezione avviene mediante il tampone naso-faringeo, cui possono seguire un test antigenico (il cosiddetto tampone rapido) o un test molecolare; nel primo si cercano le componenti proteiche virali ed il risultato si può avere in circa 15 minuti, anche grazie a dei kit d’analisi portatili, con una sensibilità che però è inferiore a quella del test molecolare (80% vs 99%); in quest’ultimo si ricerca invece l’RNA virale mediante Real Time PCR, procedura che può richiedere 2-6 ore e che si può effettuare solo in laboratori specializzati. I test sierologici permettono di rilevare la presenza di anticorpi specifici per la proteina spike di SARS-CoV-2 di tipo IgG e IgM; essi possono essere qualitativi (per cui è sufficiente una goccia di sangue e che forniscono il risultato immediatamente) oppure quantitativi, che richiedono invece un prelievo di sangue ed analisi me- diante delle procedure immuno-enzimatiche (ELISA). L’immunità acquisita in seguito a un’infezione sembra avere una durata limitata (6 mesi) e dunque le reinfe- zioni, anche più gravi di quella iniziale, sono possibili. Tra i vaccini prossimi alla commercializzazione, quello della Pfizer è costituito da mRNA che codifica per una forma modificata della proteina Spike, incapsulato in nanoparticelle lipidiche, invece quello di AstraZeneca sfrutta un vettore adenovirale (incapace di replicarsi). Tra i farmaci usati vi sono il bamlanivimab (anticorpo monoclonale diretto contro la proteina Spike di SARS- CoV-2, indicato nei pz positivi ad alto rischio di svilup- pare complicanze) e il remdesivir (antivirale ad ampio spettro metabolizzato in un analogo dell’adenosina in grado di interferire con la RNA polimerasi virale, indi- cato nei pz ospedalizzati). Il trattamento sintomatico si avvale di corticosteroidi ed eparina a basso PM per prevenire le coagulopatie (che possono essere fatali), sebbene quest’ultima sembra avere efficacia limitata nel ridurre la frequenza degli eventi trombo-embolici. ENTEROVIRUS - 69 - CARATTERI GENERALI • Virioni di forma tondeggiante • Privi di involucro pericapsidico • Capside a simmetria icosaedrica • Genoma virale a +ssRNA [gruppo IV] Il genere Enterovirus (famiglia Picornaviridae) include virus di piccole dimensioni accomunati dalla trasmis- sione attraverso il circuito oro-fecale e che in passato erano suddivisi in 4 gruppi (Poliovirus, Coxsackievirus A-B, Echovirus), ma in seguito ad una revisione tasso- nomica, basata sulle omologie del loro genoma, sono stati riorganizzati in 12 specie (Enterovirus A - L) che, nel complesso includono oltre 130 sierotipi differenti. Al genere Enterovirus sono stati accorpati pure i rino- virus umani, di cui vi sono 3 specie (Rhinovirus A-B-C). Coxsackievirus A I sierotipi chiamati "Coxsackievirus A" sono distribuiti tra le tre specie di Enterovirus A, B e C. Enterovirus A include ad es. CV-A16, che è il principale responsabile, assieme all’EV-A71, della malattia mani-piedi-bocca, condizione che colpisce neonati e bambini al di sotto dei 5 anni di età ed è contraddistinta dalla comparsa di un esantema vescicolare, cioè di macule e vescicole distribuite principalmente sul palmo delle mani, sulla pianta dei piedi, attorno a bocca e narici, e spesso sui glutei. L’infezione si trasmette attraverso la saliva e le secrezioni naso-faringee, oppure attraverso il circuito oro-fecale – per tale motivo, il contagio può avvenire facilmente in comunità pediatriche come gli asili nido. L’infezione in genere si risolve spontaneamente, però occasionalmente si hanno complicanze neurologiche. Altre malattie sostenute da Coxsackievirus A sono la cosiddetta erpangina (una faringite vescicolare che si contrae in estate) e la congiuntivite emorragica acuta (sostenuta principalmente da una variante antigenica di Coxsackievirus A24, ma anche da Enterovirus D70 e da Adenovirus tipo 11, che si possono trasmettere per es. con l’uso promiscuo di asciugamani contaminati). Coxsackievirus B Tutti e 6 i sierotipi di Coxsackievirus B appartengono alla specie Enterovirus B. Sono responsabili di diverse affezioni, caratterizzate da febbre e sintomi aspecifici o gastrointestinali, ma a volte possono causare anche delle gravi miocarditi-pericarditi e meningite asettica. CV-B1 e CV-B4 sono stati suggeriti come dei possibili agenti eziologici del diabete mellito di tipo 1, poiché induttori di autoimmunità nei confronti delle cellule β pancreatiche, mentre le infezioni sostenute da CV-B3 e CV-B6 sembrano avere un ruolo protettivo nei con- fronti della patologia in quanto portano allo sviluppo d’immunità crociata nei confronti del sierotipo CV-B1. Di solito, gli Enterovirus sono responsabili di infezioni acute che si risolvono rapidamente per lo sviluppo di una risposta immune specifica, tuttavia, il genoma dei virus appartenenti alla specie Enterovirus B (compre- so quindi quello dei Coxsackievirus B) può subire mu- tazioni che li trasformano in forme "defettive" (o non citolitiche) le quali sono potenzialmente responsabili di alcune infezioni persistenti a livello miocardico, che si palesano con miocarditi e cardiomiopatie dilatative. Echovirus Il nome degli echovirus deriva dalla locuzione "Enteric Cytopathic Human Orphan virus" poiché inizialmente questi virus non furono associati con alcuna malattia. Alcuni echovirus sono stati riclassificati come ceppi di alcune specie del genere Enterovirus o di altri generi. - 70 - Poliovirus I 3 sierotipi di Poliovirus [PV-1, PV-2, PV-3] sono com- presi nella sp. Enterovirus C – che costituisce la specie tipo del genere Enterovirus. Sono distinti tra loro per lievi differenze nelle proteine capsidiche. Il genoma a +ssRNA di questi enterovirus è di soli 7500 nucleotidi. PV-1 è il sierotipo più frequentemente responsabile di infezione, attualmente endemico solo in Pakistan e Afghanistan. PV-2 e PV-3 sono stati dichiarati ufficial- mente eradicati nel 2015 e nel 2019 rispettivamente. Mediante le proteine capsidiche, i poliovirus interagi- scono con il recettore immunoglobulino-simile CD155 (detto anche PVR – cioè Poliovirus Receptor), normal- mente espresso dalle cellule umane [è necessario alla formazione di giunzioni aderenti tra cellule epiteliali e il suo ligando naturale è la vitronectina]. Al legame tra il virione e il PVR segue l’endocitosi del virione stesso. Benché CD155 sia espresso dalla maggior parte delle cellule umane, i poliovirus riescono a replicarsi solo in certi tessuti, mentre negli altri la replicazione pare sia ostacolata dall’azione degli interferoni di tipo I (α / β). Analogamente agli altri virus del gruppo IV, il genoma dei poliovirus funge direttamente da mRNA ed è tra- dotto in una poliproteina che poi viene scissa in varie proteine virus-specifiche: una RNA polimerasi; alcune proteasi che tagliano la poliproteina; una piccola pro- teina chiamata VPg che si lega all’estremo 5’ dell’RNA virale (fungendo da primer per la replicazione); varie proteine che contribuiscono alla formazione del com- plesso di trascrizione; e VP0 (che viene ulteriormente tagliata nelle proteine capsidiche VP1, VP2, VP3, VP4, ognuna delle quali è presente in 60 copie nel capside). I poliovirus sono capaci di resistere all’ambiente acido dello stomaco e grazie alla loro rapidità di replicazio- ne, riescono a causare un danno d’organo prima che si possa instaurare una risposta immunitaria efficace nei loro confronti. Inoltre i siti di ancoraggio dei polio- virus sono collocati in alcuni recessi (i cosiddetti fondi dei canyon) difficilmente accessibili dagli anticorpi ma comunque capaci di legare CD155 sulle cellule ospite. Patogenesi dell’infezione I poliovirus si replicano nel tratto digerente e vengono eliminati con le feci, che costituiscono la fonte di con- tagio. Nel 95% dei casi si verifica soltanto una viremia transitoria e l’infezione rimane asintomatica. Nel 5% dei casi, i poliovirus diffondono attraverso i vasi linfa- tici in altri siti (per es. grasso bruno, sistema reticolo- endoteliale, muscoli) in cui si replicano dando luogo a una seconda viremia, che porta allo sviluppo di alcuni sintomi aspecifici quali febbre, cefalea e faringodinia. In meno dell’1% dei casi di infezione, i poliovirus rie- scono a raggiungere il SNC e a replicarsi nei motoneu- roni all’interno del midollo spinale, del tronco encefa- lico e della corteccia motoria, con conseguente morte dei motoneuroni stessi, che risulta in una paralisi mo- toria transitoria o permanente (condizione nota come poliomielite), occasionalmente preceduta da spasmi muscolari. Si tratta di un evento assai raro nei neonati poiché essi possiedono degli anticorpi specifici acqui- siti dalla madre. La paralisi motoria può portare ad un arresto respiratorio e quindi alla morte. Non è chiaro come i poliovirus possano giungere al SNC, ma si ipo- tizza che vi riescano 1) attraversando direttamente la barriera emato-encefalica; 2) per via retrograda lungo i motoneuroni stessi; 3) per mezzo dei fagociti infetti. Profilassi dell’infezione Il primo vaccino antipoliomielitico realizzato fu quello di Salk, allestito con i 3 ceppi inattivati con formalina e somministrabile per via iniettiva. Il vaccino di Sabin è invece allestito con ceppi di poliovirus vivi attenuati (incapaci di replicarsi al di fuori del sistema digerente) ed è somministrato oralmente; conferisce una immu- nità che probabilmente dura per tutta la vita ed è più efficace a livello gastrointestinale rispetto al vaccino di Salk; rappresenta il vaccino di scelta per le vaccina- zioni di massa nei Paesi in cui il virus è endemico, ma poiché vi è il rischio, seppur basso, che esso provochi una poliomielite iatrogena, nei Paesi in cui il virus non è endemico è solitamente impiegato il vaccino di Salk. In Italia, il vaccino (obbligatorio e incluso nella combi- nazione esavalente) viene somministrato con tre dosi nel primo anno di vita, con un richiamo a 6 e a 12 anni. PARAMYXOVIRIDAE — PARAINFLUENZE / MORBILLO / PAROTITE - 73 - CARATTERI GENERALI • Virioni polimorfi con envelope • Capside a simmetria elicoidale • Genoma a –ssRNA non segmentato [gruppo V] Il genoma dei Paramyxoviridae è formato da un’unica molecola di RNA a catena singola e a polarità negativa associata ad alcune molecole delle proteine NP, L e P, che costituiscono il complesso trascrittasico di questi virus, ovvero la loro RNA polimerasi RNA-dipendente. Nell’envelope sono presenti due glicoproteine fonda- mentali: una che costituisce l’antirecettore (detta HN se dotata sia di attività emoagglutinante sia neurami- nidasica, H se munita soltanto di attività emoaggluti- nante o G se priva di entrambe) e una ad azione fuso- gena (detta F e attivata in seguito a un taglio da parte di proteasi cellulari), che permette, invece, la fusione dell’envelope del virus con la membrana della cellula ospite, consentendo, inoltre, al virus d’infettare diret- tamente le cellule contigue (formando estesi sincizi). All’interno dell’envelope c’è la proteina di matrice M. L’RNA polimerasi è del tutto autonoma, perciò, diver- samente da quanto avviene per gli Orthomyxoviridae, la replicazione si verifica interamente nel citoplasma. Classificazione I 4 generi di tale famiglia si distinguono per le caratte- ristiche del loro antirecettore virale (detto HN, H o G). • Respirovirus [HN] Virus parainfluenzali 1 / 3 • Rubulavirus [HN] Virus parainfluenzali 2 / 4A / 4B Virus della parotite • Morbillivirus [H] Virus del morbillo • Pneumovirus [G] Virus respiratorio sinciziale VIRUS PARAINFLUENZALI • Tipo 1 e tipo 3 = genere Respirovirus • Tipo 2, 4A, 4B = genere Rubulavirus I virus parainfluenzali hanno un’attività sia emoagglu- tinante che neuraminidasica [HN] e sono responsabili di infezioni delle mucose respiratorie che negli adulti sono limitate a quella naso-faringea, mentre nei bam- bini che sono infettati dal virus per la prima volta può estendersi alla trachea e alle vie respiratorie inferiori. L’immunità conseguente all’infezione è modesta, per- ciò sono frequenti, soprattutto in inverno, delle rein- fezioni sostenute dai medesimi tipi, di solito associate a quadri clinici con sintomi aspecifici (parainfluenze). VIRUS DEL MORBILLO Il virus del morbillo è agente eziologico della malattia omonima tipica dell’infanzia. Il suo antirecettore non ha attività neuraminidasica ma solo emoagglutinante. Il virus si moltiplica inizialmente nelle cellule della mu- cosa respiratoria (dove si lega al recettore CD46) e poi si trasmette a cellule dendritiche, macrofagi e linfociti raggiungendo le stazioni linfonodali, nelle quali conti- nua a moltiplicarsi, causando la formazione di sincizi. L’infezione, che si contrae per via inalatoria, ha un pe- riodo di incubazione di circa 10 giorni. I primi sintomi includono febbre, malessere, tosse; dopo pochi giorni dal loro esordio, in coincidenza con la comparsa in cir- colo degli anticorpi specifici, si manifesta il caratteri- stico esantema maculo-papuloso, che è dovuto a una reazione d’ipersensibilità mediata da questi anticorpi. In genere la malattia guarisce in maniera spontanea e l’immunità acquisita è duratura. In rarissimi casi com- paiono delle lesioni a carico delle meningi o encefaliti. È disponibile un vaccino, allestito con virus vivo atte- nuato, incluso nella combinazione "MPRV" obbligato- ria nel secondo anno di età (con un richiamo a 6 anni). - 74 - Una variante del virus del morbillo che presenta mu- tazioni nei geni che codificano per le proteine H, F, M dell’envelope, è responsabile della cosiddetta panen- cefalite sclerosante subacuta (PESS), una severa com- plicanza del morbillo che solitamente ha esito fatale. VIRUS DELLA PAROTITE Il virus della parotite (appartenente al genere Rubula- virus) è il responsabile della parotite epidemica, una malattia tipica dell’infanzia, caratterizzata da febbre e ipertrofia delle ghiandole parotidi. Il suo antirecettore è dotato sia di attività emoagglutinante che neurami- nidasica. L’infezione si trasmette attraverso la saliva e ha periodo d’incubazione di circa due settimane. Nei maschi in età post-puberale l’orchite è una frequente complicanza, che in alcuni casi può causare infertilità. È disponibile un vaccino, allestito con virus vivo atte- nuato, incluso nella combinazione "MPRV" obbligato- ria nel secondo anno di età (con un richiamo a 6 anni). VIRUS RESPIRATORIO SINCIZIALE Il virus respiratorio sinciziale è la più frequente causa di infezioni severe delle basse vie respiratorie durante la prima infanzia, che si ripresentano ad ogni stagione invernale in forma epidemica e con mortalità elevata. Negli adulti, solitamente, provoca una sintomatologia attenuata, ma nei soggetti anziani o immunocompro- messi può pure determinare un quadro clinico severo. VIRUS DELLA RABBIA / VIRUS DELLA ROSOLIA - 75 - VIRUS DELLA RABBIA Il virus della rabbia è un virus con genoma a –ssRNA (dunque incluso nel gruppo V) appartenente al genere Lyssavirus, famiglia Rhabdoviridae. I virioni hanno una forma tronco-conica e capside a simmetria elicoidale. Dal punto di vista epidemiologico, si distinguono una rabbia urbana, sostenuta da animali domestici (ormai eradicata in Italia mediante vaccinazione degli stessi) ed una rabbia silvestre, sostenuta da animali selvatici (in particolare dalle volpi e dai pipistrelli), che è stata combattuta impiegando esche contenenti un vaccino. L’infezione umana è di solito conseguenza del morso di cani infetti, che eliminano virioni con la saliva. Una volta inoculato, inizia a replicarsi nelle cellule musco- lari striate in prossimità della ferita, dove può restare localizzato per un periodo variabile. In seguito, attra- verso le terminazioni nervose, il virus migra centripe- tamente verso il midollo spinale (in cui si riscontrano delle tipiche inclusioni dette corpi di Negri all’interno del soma dei neuroni) e dunque verso l’encefalo, con- tinuando a replicarsi. Raggiunto il SNC, il virus migra centrifugamente verso le ghiandole salivari, da cui poi è eliminato con la saliva e può infettare altri animali. L’infezione ha un periodo d’incubazione variabile, che dipende dal sito della ferita e dunque dalla lunghezza del tragitto che il virus deve compiere per raggiungere l’encefalo. Clinicamente la rabbia si manifesta con un grave quadro clinico da encefalite acuta, che è carat- terizzato da sintomi quali contratture muscolari, iper- estesie e allucinazioni, la cui comparsa si associa ine- vitabilmente a prognosi infausta; la malattia termina entro pochi giorni, di solito per decesso conseguente a una paralisi bulbare – in base alla sua evoluzione se ne posson distinguere due forme: furiosa e paralitica. In seguito al morso di un sospetto animale rabbioso, per prevenire la progressione dell’infezione, occorre detergere la ferita e somministrare tempestivamente un vaccino antirabbico (allestito con virus inattivato) per via parenterale. Se la ferita interessa delle regioni ricche di terminazioni nervose, è opportuno associare una infiltrazione sottocutanea (nella zona circostante il morso) di immunoglobuline iperimmuni specifiche. VIRUS DELLA ROSOLIA NB: il virus è trattato qui per associazione con le altre due malattie tipiche dell’infanzia (morbillo e parotite), però è più affine ai coronavirus e agli enterovirus per appartenenza al medesimo gruppo di Baltimore (IV). Il virus della rosolia è l’unica specie inclusa nel genere Rubivirus, appartenente alla famiglia Togaviridae, dei virus con genoma a +ssRNA (cioè gruppo IV), provvisti di envelope e con un capside a simmetria icosaedrica. La rosolia è una affezione di lieve entità, frequente in età prescolare e scolare, che si manifesta con febbre modesta, un esantema caratterizzato dalla comparsa di macule fugaci e una tipica linfoadenopatia a livello sub-occipitale, post-auricolare e cervicale. La malattia guarisce spontaneamente entro pochi giorni e ad essa consegue l’immunità duratura nei confronti del virus. Nell’adulto, il decorso della malattia può essere lieve- mente più grave, soprattutto nelle donne, nelle quali si posson verificare alcune volte artralgie e parestesie. Se l’infezione si contrae in gravidanza (soprattutto nel primo mese di gestazione), in un’elevata percentuale dei casi si verificano gravi complicanze per la trasmis- sione del virus al feto, il quale risulterà affetto da una sindrome da rosolia congenita, caratterizzata da sva- riati disturbi, tra i quali cecità, sordità, malformazioni, microcefalia, anemia emolitica, epato-splenomegalia, porpora trombotica trombocitopenica ed una polmo- nite interstiziale. L’effetto teratogeno sembra dovuto alla capacità del virus di rallentare l’attività mitotica. Il virus si contrae per via inalatoria e si moltiplica ini- zialmente nelle prime vie aeree, da cui poi diffonde ai linfonodi e nel circolo sanguigno, raggiungendo infine i capillari cutanei e mucosi, dove provoca l’esantema. La diagnosi è agevole ricercando gli anticorpi specifici con una reazione d’inibizione dell’emoagglutinazione o ricercando il genoma virale nel sangue (con la PCR). Il vaccino, allestito con virus vivo attenuato, è racco- mandato soprattutto nelle donne che non hanno con- tratto il virus nell’età infantile, per evitare i rischi che l’eventuale PRIMA infezione in gravidanza comporta. - 78 - Patogenesi dell’immunodeficienza Nella maggior parte dei soggetti si verifica un progres- sivo calo del numero di linfociti CD4+ in base al quale si definisce il livello di immunodeficienza in una scala di gravità crescente in cui i diversi stadi son caratteriz- zati dalla comparsa di sintomi e segni correlati per lo più a infezioni da batteri opportunisti o virus riattivati. Lo stadio di AIDS coincide con un calo del numero dei linfociti T CD4+ al di sotto di 200 unità / μL (normal- mente di circa 1000 unità / μL) ed è caratterizzato da infezioni opportunistiche molto severe, da manifesta- zioni neoplastiche (ad es. sarcoma di Kaposi e linfoma di Burkitt) e infine da una grave encefalopatia da HIV. La riduzione progressiva del numero di linfociti T CD4+ è dovuta sia all’effetto citopatico diretto del virus, sia all’azione della gp120 che viene rilasciata in ambiente extracellulare: essa, interagendo col recettore CXCR4 dei linfociti T CD4+ NON infetti, ne induce l’apoptosi. A questo si associa una diminuita produzione di nuovi linfociti T CD4+ in quanto anche le cellule progenitrici, sebbene non infette, risultano danneggiate da diversi prodotti virali rilasciati nel midollo osseo dalle cellule "reticolari" di sostegno (che sono infette); sorte simile subiscono i neuroni, che vengono invece danneggiati dai prodotti virali liberati dalle cellule della microglia. Diagnosi La diagnosi è possibile mediante la ricerca di anticorpi sierici con reazioni immuno-enzimatiche (nelle prime 3-4 settimane però non raggiungono livelli rilevabili), mediante la ricerca dell’antigene virale p24 nel siero, o di RNA e DNA virale nei linfociti circolanti (con PCR). Per determinare il carico virale si effettua una ricerca quantitativa di DNA (attraverso PCR), virus infettante in circolo, proteina capsidica p24 e molecole di RNA. Terapia L’approccio HAART (Highly Active Anti-Retroviral The- rapy) prevede l’impiego di farmaci con meccanismo di azione differente, per diminuire la probabilità di com- parsa di ceppi resistenti, che è frequente a causa della elevata variabilità genomica di HIV; tali farmaci sono: • Inibitori della trascrittasi inversa nucleosidici [azidotimina, lamivudina, zidovudina, tenofovir ecc] e non-nucleosidici [nevirapina, rilpivirina] • Inibitori della fusione dell’envelope [enfuvirtide → gp41, maraviroc → CCR5] • Inibitori dell’endonucleasi-integrasi [raltegravir, elvitegravir, dolutegravir ecc] • Inibitori della proteasi [darunavir, lopinavir ecc] VIRUS EPATITICI — HAV / HBV / HCV / HDV / HEV - 79 - INTRODUZIONE I virus epatitici, pur appartenendo a generi e famiglie diverse, sono accomunati dalla capacità di provocare delle epatiti, che costituiscono la manifestazione pri- maria dell’infezione; ciò è dovuto alla presenza di spe- cifici recettori (di solito glicoproteine) sulla superficie degli epatociti e al fatto che tali cellule sono le uniche nell’organismo umano a essere sensibili e permissive nei confronti della replicazione di questo tipo di virus. HAV e HEV provocano infezioni acute, mentre HBV e HCV possono causare infezioni croniche (cui segue un importante danneggiamento del parenchima epatico e dunque cirrosi) e lo sviluppo del carcinoma epatico. EPATITE A • Picornaviridae, genere Hepatovirus • Privo di involucro pericapsidico • Genoma virale a +ssRNA [gruppo IV] L’epatite A è endemica in tutto il mondo e dà luogo a epidemie occasionali, all’interno di alcune collettività, per contaminazione degli alimenti o della rete idrica. In Italia HAV è la causa più frequente di epatite virale. L’infezione si trasmette mediante il circuito oro-fecale (il virus è repertabile nelle feci già diversi giorni prima dell’eventuale comparsa di sintomi). Il periodo d’incu- bazione dura almeno 2 settimane, massimo un mese. L’infezione decorre spesso a livello subclinico oppure è paucisintomatica (ma comunque non suggestiva) ed al suo superamento consegue un’immunità duratura. La diagnosi si basa sul riscontro di anticorpi anti-HAV di classe IgM durante la fase acuta, che si accompagna a un incremento delle transaminasi (le IgG compaiono più tardi e sono indicative di una infezione pregressa). Un vaccino, allestito con virus inattivato, è raccoman- dato per chi ha intenzione di recarsi in zone di elevata endemia. Negli individui esposti, la somministrazione di immunoglobuline umane può prevenire l’infezione. EPATITE B • Hepadnaviridae, Ortohepadnavirus • Provvisto di involucro pericapsidico • Genoma virale a dsDNA [gruppo VII] Il periodo di incubazione della malattia è lungo (fino a 6 mesi) e la trasmissione può avvenire per via emato- gena (mediante la contaminazione con sangue o emo- derivati), per via sessuale (soprattutto in maschi omo- sessuali) o verticalmente, da madre a feto, per via dia- placentare o durante il passaggio nel canale del parto. In Italia HBV è la seconda causa più frequente di epa- tite virale. I soggetti più esposti al rischio di infezione includono gli operatori sanitari, i tossicodipendenti e chi è sottoposto a procedure odontoiatriche o viene tatuato con strumenti non sterilizzati accuratamente. La risposta immunitaria umorale e cellulo-mediata in genere porta alla guarigione, però, se non è efficiente, può consentire l’instaurarsi di una infezione cronica, che, in una certa frazione dei casi, può portare ad una grave e irreversibile epatopatia e a insorgenza di HCC. La composizione antigenica di HBV è abbastanza sta- bile ed eventuali lievi variazioni non compromettono l’efficacia dell’immunità indotta dal vaccino, tuttavia, poiché il suo ciclo replicativo prevede un intermedio a RNA, è comunque più variabile degli altri deossiribo- virus; nel virus circolante esistono infatti variazioni in alcune sequenze nucleotidiche del DNA, che permet- tono di distinguere 8 diversi genotipi (A-H), dei quali A è ubiquitario e D è presente in Europa meridionale. Patogenesi dell’infezione Il DNA dell’HBV, circolare e parzialmente bicatenario, entra nel nucleo, all’interno del quale, ad opera degli enzimi cellulari di riparazione, viene convertito in una molecola di DNA completamente bicatenario. La tras- crizione del genoma di HBV non richiede la preventiva integrazione nel genoma cellulare, benché questa sia possibile e associata allo sviluppo di epato-carcinoma. - 80 - Il DNA bicatenario è trascritto dall’apparato di trascri- zione della cellula con la sintesi di mRNA subgenomici (che vengono tradotti nel citosol nelle proteine virus- specifiche) e di RNA pregenomici, che possono essere tradotti parzialmente oppure fungono da stampo per la sintesi di DNA genomico ad opera di una particolare DNA polimerasi virus-specifica che dapprima agisce in maniera RNA-dipendente (cioè come una trascrittasi inversa), sintetizzando l’intermedio DNA-RNA, e poi in maniera DNA-dipendente, formando la catena di DNA complementare e completando così il DNA genomico. I virioni maturi hanno tre glicoproteine di membrana, dette, in base alle dimensioni, L-HBs, M-HBs e S-HBs. La progenie virale si libera per esocitosi assieme a una quota notevole di HBsAg (assemblato in forma di par- ticelle tondeggianti o filamenti di lunghezza variabile). Genetica del virus Nel genoma di HBV sono presenti quattro sequenze codificanti, parzialmente embricate, dette C, P, S e X. • C può codificare per 2 proteine: "C", che costi- tuisce l’antigene del capside del virus (HBcAg) e "C+pre-C" che, dopo alcuni tagli, viene rilasciata nell’ambiente EC e costituisce l’antigene HBeAg - • P codifica per la DNA polimerasi virale e per un peptide che funziona come suo segnale d’inizio • S codifica per le glicoproteine dell’envelope che insieme formano l’antigene di superficie HBsAg • X codifica per una proteina ad azione transatti- vante che promuove la trascrizione del genoma virale e di alcuni geni cellulari e che, inoltre, è in grado di legarsi al prodotto di p53, inattivandolo Diagnosi, terapia e profilassi L’infezione da HBV si diagnostica mediante la ricerca di anticorpi anti-HBcAg e anti-HBsAg, mentre gli anti- geni stessi si cercano solo nel sangue dei donatori per prevenire la trasmissione del virus con le trasfusioni. Nei soggetti esposti al rischio di infezione (ad es. negli operatori sanitari contaminatisi accidentalmente con il sangue di pz infetti) potrebbe essere utile la sommi- nistrazione di preparati con immunoglobuline umane ad elevato titolo anticorpale (nei confronti di HBsAg). La terapia dell’infezione cronica si basa sulla sommi- nistrazione d’interferone α-pegilato e di inibitori della trascrittasi inversa (soprattutto tenofovir / entecavir). Il vaccino oggi in uso è allestito mediante tecniche del DNA ricombinante: un plasmide contenente il gene S (che codifica per le glicoproteine di HBsAg) è inserito in Saccharomyces cerevisiae, affinché esprima HBsAg sulla superficie e possa essere usato come un vettore. EPATITE C • Flaviviridae, genere Hepacivirus • Provvisto di involucro pericapsidico • Genoma virale a +ssRNA [Gruppo IV] • Riconosce CD81 come suo recettore Il genoma di HCV codifica per una singola poliproteina che è poi tagliata in 3 proteine strutturali ed in 5 pro- teine non strutturali dotate di attività enzimatica, tra le quali una è probabilmente l’RNA polimerasi. Il virus riconosce come suo recettore la glicoproteina CD81. HCV ha una discreta variabilità genomica, sono infatti noti almeno 6 genotipi, ciascuno con diversi sottotipi; per tale motivo è difficile allestire un vaccino efficace. PARTE III MICETI E PROTOZOI MICETI DI INTERESSE MEDICO - 85 - CARATTERI GENERALI I miceti sono degli organismi eucariotici, chemiosinte- tici ed eterotrofi, muniti di una parete cellulare rigida pluristratificata formata da fibrille di chitina associate a glucani, mannani, lipidi e proteine – in alcuni miceti si trova inoltre una quota del polisaccaride chitosano. A volte possiedono dei pigmenti (ad es. melanina) che trattengono acqua e li proteggono dalle radiazioni UV. Il loro metabolismo è sia ossidativo che fermentativo (sono dunque organismi aerobi-anaerobi facoltativi). I miceti formano un tallo, una struttura vegetativa che nelle muffe (miceti pluricellulari) è formata da tubuli ramificati detti ife, mentre nei lieviti (miceti unicellu- lari) da cellule isolate indipendenti, raggruppate in un ammasso di aspetto e consistenza cremosa o pastosa. Le ife possono essere costituite da una singola cellula (ife cenocitiche) oppure essere suddivise in più cellule mediante dei setti trasversali provvisti di un poro, che permette un flusso libero di correnti citoplasmatiche tra di esse (ife settate mononucleate o plurinucleate). Un insieme di ife è detto micelio; nel micelio si distin- guono una porzione vegetativa, immersa nel terreno, ed una porzione aerea, che ha funzione riproduttiva. Le cellule dei lieviti, in seguito ai processi di gemma- zione possono assumere forma allungata e restare tra loro unite, formando delle strutture dette pseudoife, le quali, assieme, formano quindi uno pseudomicelio. Alcuni miceti sono detti dimorfi in quanto sono in gra- do di assumere sia una struttura ifale che lievitiforme. I miceti si differenziano anche per la modalità di ripro- duzione, che può essere sessuata o asessuata, dovuta alla germinazione di propaguli, detti rispettivamente spore e conìdi. Nei lieviti, il raggiungimento di un rap- porto critico massa / superficie dei singoli elementi ne induce la replicazione, mentre nelle muffe il processo avviene all’estremità ifale o mediante ramificazione. AZIONE PATOGENA I miceti di interesse medico possono essere distinti in geofili (cioè saprofiti del suolo), zoofili (commensali o parassiti di animali domestici o selvatici) e antropofili (commensali o parassiti soltanto dell’essere umano). Le infezioni da miceti, chiamate MICOSI, sono comuni ed ubiquitarie e possono essere esogene o endogene. Nelle micosi esogene, l’agente infettante è costituito da spore o conìdi fungini. All’origine di quelle superfi- ciali, favorite da traumi anche lievi, può esservi il sem- plice contatto dell’agente con i tegumenti, mentre in quelle viscerali la principale via d’accesso per gli stessi è quella aerogena – meno rilevante è quella digestiva e SOLO in presenza di una stasi del sistema digerente. Nelle micosi endogene, l’agente infettante è, invece, rappresentato da un micete commensale delle prime vie aeree, della cute o delle mucose che, in presenza di fattori favorenti (per es. immunodepressione), può proliferare, causando infezioni clinicamente rilevanti. FARMACI ANTIMICOTICI • Griseofulvina = Indicata per micosi superficiali, essa agisce bloccando la sintesi sia degli acidi nucleici che della chitina; dopo la somministrazione per via orale, si accumula negli strati cheratinizzati dell’epidermide - • Antibiotici polienici = Legandosi agli steroli di mem- brana, causano in quest’ultima la formazione di pori, con la conseguente morte cellulare per lisi osmotica; tra loro, l’amfotericina B, ad ampio spettro d’azione e somministrata per via parenterale, è indicata per la terapia delle micosi sistemiche, mentre la nistatina, somministrata per via orale, è indicata per infezioni del tratto digestivo sostenute da lieviti, poiché agisce solo localmente senza essere assorbita dall’intestino • Composti azolici = Inibiscono la sintesi degli steroli di membrana – miconazolo e clotrimazolo sono indicati per il trattamento topico, ketoconazolo e fluconazolo sono invece indicati per trattare le micosi sistemiche - 88 - Pneumocystis jirovecii In passato ritenuto un protozoo e chiamato P. carinii (nome col quale ora ci si riferisce alla specie murina), è un micete opportunista. La maggioranza della popo- lazione acquisisce anticorpi specifici già nell’infanzia. Una volta inalato, il micete si riproduce per scissione binaria o trasformandosi in una forma cistica da cui, poi, originano per lisi 8 piccoli trofozoiti tondeggianti. In soggetti immunocompetenti, dopo opsonizzazione da parte degli anticorpi specifici e dei fattori del com- plemento, è fagocitato dai macrofagi alveolari, men- tre nei soggetti immunocompromessi ciò non avviene e si ha lo sviluppo della pneumocistosi, una alveolite "desquamativa" in cui i setti inter-alveolari divengono fibrotici e si ha accumulo di microrganismi e di macro- fagi nel lume alveolare, con conseguente compromis- sione degli scambi gassosi tra aria e sangue (senza una terapia adeguata, la pneumocistosi ha letalità = 50%). In pazienti con immunodepressione nota, quadro cli- nico e reperti radiologici suggestivi orientano verso la diagnosi di pneumocistosi, ma la certezza si può avere mediante una ricerca microscopica diretta nel tessuto polmonare o nel liquido di lavaggio bronco-alveolare; è anche possibile cercare antigeni e sequenze di DNA appartenenti al micete, mentre NON è utile la ricerca di anticorpi specifici in quanto l’immunità viene acqui- sita precocemente dalla maggior parte degli individui. La terapia di elezione prevede la somministrazione di trimetoprim e sulfametossazolo in rapporto 1:5, com- binazione detta cotrimossazolo, impiegata anche per la chemioprofilassi in pazienti affetti da immunodefi- cienza (in tal caso si somministra in forma di aerosol). PROTOZOI DI INTERESSE MEDICO - 89 - CARATTERI GENERALI I protozoi sono degli organismi eucariotici unicellulari, chemiosintetici ed eterotrofi, di solito aerobi obbligati o aerobi-anaerobi facoltativi. Essi assimilano sostanze dall’esterno mediante fagocitosi o pinocitosi, si ripro- ducono per scissione binaria e si muovono grazie alla presenza di pseudopodi o di ciglia e flagelli, i quali ori- ginano da un corpuscolo basale (detto blefaroplasto). Un flagello è costituito da nove coppie di microtubuli disposte circolarmente intorno a una coppia centrale, mentre il blefaroplasto è costituito da nove triplette. Oltre a tali elementi, gli emoflagellati possiedono una struttura basofila detta cinetoplasto, che corrisponde al DNA addensato del loro unico grande mitocondrio. Alcuni protozoi sono in grado di aderire alla superficie di determinati epiteli mucosi, da cui talvolta possono invadere i tessuti profondi, mentre altri sono parassiti endocellulari che possono resistere al killing intracel- lulare dei fagociti (e diffondersi altrove grazie ad essi). Alcuni protozoi sembrano capaci di eludere il sistema immunitario variando continuamente la propria com- posizione antigenica superficiale; altri rilasciano in cir- colo grandi quantità di antigeni solubili, che finiscono per saturare diversi effettori del sistema immunitario, rendendoli non disponibili ad agire contro i protozoi. La diagnosi di una infezione protozoaria si fonda sulla ricerca microscopica diretta, a fresco e previa colora- zione, eventualmente associata a delle prove colturali e biologiche, e di tecniche indirette (reazioni sierolo- giche per ricercare anticorpi, amplificazione del DNA). Per via del complesso ciclo vitale di certi protozoi, un farmaco, attivo su un determinato stadio di sviluppo, può non esserlo su altri; è anche possibile la comparsa di fenomeni di farmaco-resistenza. A volte sono sensi- bili ad alcuni farmaci antibatterici e antifungini che ri- conoscono bersagli analoghi nella cellula protozoaria. Gli sporozoi sono parassiti endocellulari che hanno la caratteristica di potersi riprodurre sia con una modali- tà asessuata (schizogonia) che sessuata (sporogonia). Gli emoflagellati Gli emoflagellati sono così detti in quanto diffondono attraverso il circolo ematico e sono dotati di un unico flagello. Hanno vari stadi di sviluppo che differiscono morfologicamente e sono denominati in base ai rap- porti spaziali esistenti tra nucleo e punto di emissione del flagello (che corrisponde alla estremità anteriore). I differenti stadi degli emoflagellati sono: amastigote (piccolo, di forma ovalare e dotato di un flagello rudi- mentale), promastigote (di forma allungata e dotato di un lungo flagello, che emerge dalla estremità ante- riore del protozoo), epimastigote (di forma allungata e simile al promastigote ma dotato di una membrana ondulante – si tratta dello stadio presente nella saliva degli artropodi vettori) e trypomastigote (presente in circolo, è lo stadio di dimensioni maggiori, con cineto- plasto situato posteriormente al nucleo e flagello che emerge nel terzo posteriore e poi decorre fino al polo anteriore, rimanendo entro la membrana ondulante). CLASSIFICAZIONE FLAGELLATI Giardia intestinalis Trichomonas vaginalis EMOFLAGELLATI Trypanosoma cruzi T. brucei rhodesiense / gambiense Leishmania spp. - L. tropica complex - L. mexicana complex - L. braziliensis complex - L. donovani complex AMEBE Entamoeba hystolitica Acanthamoeba spp. Naegleria fowleri SPOROZOI Plasmodium spp. Toxoplasma gondii Cryptosporidium parvum - 90 - Giardia intestinalis È un protozoo ubiquitario che si trasmette attraverso il circuito oro-fecale e si può presentare in due forme morfologicamente diverse: una di resistenza, chiama- ta cisti, ed una vegetativa, chiamata invece trofozoìte. Il trofozoìte ha un aspetto piriforme e appiattito; pre- senta 2 nuclei ovali e simmetrici nella parte anteriore, 8 flagelli e un DISCO VENTRALE mediante il quale esso aderisce all’epitelio della mucosa dell’intestino tenue. La cisti ha forma ovale, con 4 nuclei, flagelli retratti e citoplasma condensato; possiede una parete rinforza- ta che le conferisce resistenza agli agenti ambientali. Azione patogena A entrare nell’organismo sono le cisti, che si formano a livello dell’intestino crasso prima di essere eliminate con le feci – raggiunto l’ambiente acido gastrico di un altro ospite, ciascuna cisti dà origine a due trofozoìti. Dopo l’escistamento, tali trofozoìti si localizzano sulla mucosa duodeno-digiunale, dove inducono modifica- zioni morfo-funzionali dell’orletto a spazzola degli en- terociti, che, tuttavia, nella maggior parte degli infetti non determinano delle manifestazioni cliniche poiché l’adesione è rapidamente inibita dalle IgA secretorie. Nei soggetti con scarsa produzione di IgA secretorie, i protozoi posson proliferare causando manifestazioni diarroiche e malassorbimento (giardiasi) – in tal caso nelle feci diarroiche la giardia si può trovare in forma di trofozoìti (in quanto non ha il tempo di incistarsi). Anche le vie biliari e la colecisti possono esser invase. Diagnosi e terapia La diagnosi si basa sulla ricerca microscopica diretta a fresco delle cisti nelle feci emesse spontaneamente o dei trofozoìti nelle feci diarroiche. Si può pure ricorre- re alla ricerca indiretta di antigeni specifici di Giardia nelle feci utilizzando le reazioni immuno-enzimatiche. Per la terapia della giardiasi è usato il metronidazolo. Trichomonas vaginalis È un protozoo ubiquitario, fragile al di fuori dell’orga- nismo umano ed incapace di produrre forme cistiche; si presenta, dunque, solamente in forma di trofozoìte. Il trofozoìte ha aspetto piriforme e presenta un unico nucleo centrale; dall’area blefaroplastica, che è collo- cata anteriormente al nucleo, hanno origine 4 flagelli anteriori ed un flagello ricorrente, che si porta al polo caudale accolto all’interno di una estroflessione della membrana plasmatica (detta membrana ondulante). T. vaginalis non possiede mitocondri ma granuli detti idrogenosomi, che svolgono le reazioni fermentative. Azione patogena Il protozoo si trasmette dalla donna all’uomo (e vice- versa) mediante i rapporti sessuali e provoca un’infe- zione localizzata alle mucose genitali, che viene detta tricomoniasi (a volte priva di manifestazioni cliniche, soprattutto nei maschi, i quali sono, frequentemente, dei portatori asintomatici dell’infezione protozoaria). T. vaginalis danneggia l’epitelio vaginale, provocando microerosioni ulcerative cui seguono infiltrazione leu- cocitaria e desquamazione dell’epitelio; si ha dunque una vaginite che clinicamente si manifesta con l’emis- sione abbondante di essudato giallo-verdastro, pruri- to intenso, dispareunia [dolore durante i rapporti ses- suali]. La mucosa vaginale, edematosa, ha un aspetto "a fragola" per la presenza di molti punti eritematosi. Nel maschio l’infezione sintomatica si presenta come una uretrite purulenta con edema del meato urinario. Diagnosi e terapia La diagnosi si basa sulla ricerca microscopica diretta a fresco per apprezzare la motilità del protozoo oppure mediante la colorazione di May-Grunwald-Giemsa su preparati allestiti dagli essudati vaginali o dalle urine. Per la terapia si usa il metronidazolo, che deve essere assunto pure dal partner per evitare delle reinfezioni. - 93 - Azione patogena Nella maggior parte dei casi non si verifica invasione della mucosa e l’infezione decorre a livello subclinico per la produzione di anticorpi sierici ed IgA secretorie (gli asintomatici sono il principale serbatoio dell’infe- zione, in quanto eliminano numerose cisti con le feci). L’infezione sintomatica (AMEBIASI) può presentarsi in forma intestinale, acuta o cronica, o extra-intestinale. L’amebiasi intestinale acuta esordisce con dei dolori addominali acuti ed una diarrea muco-sanguinolenta, senza febbre o compromissione dello stato generale; se non viene curata adeguatamente, la cicatrizzazione delle ulcere causa una cronicizzazione della malattia. Se le amebe penetrano nella parete intestinale, pos- sono raggiungere, attraverso il sistema portale o i vasi linfatici, il lobo epatico destro, formandovi un ascesso (ameboma epatico) nel quale si moltiplicano; questo è associato a febbre irregolare, epatomegalia e dolore ipocondriaco destro e ad una severa compromissione dello stato generale. Dal fegato l’infezione si può pure estendere, per contiguità, al lobo inferiore del polmo- ne destro e da questo, raramente, anche all’encefalo. Diagnosi e terapia La ricerca microscopica diretta a fresco o previa colo- razione su materiale fecale permette di evidenziare le cisti e, in caso di diarrea, i trofozoìti, ma non consente di distinguere Entamoeba hystolitica da E. dispar (che sebbene morfologicamente identica non è patogena); la presenza di residui eritrocitari nei trofozoìti è però una caratteristica esclusiva di Entamoeba hystolitica. La diagnosi di certezza dell’amebiasi da E. hystolitica è possibile solo ricercando anticorpi specifici nel siero o gli antigeni specifici nel materiale fecale o bioptico. Per trattare l’infezione asintomatica si usano iodochi- nololo e paromomicina (farmaci luminali non assorbiti dall’intestino), mentre per il trattamento delle forme sintomatiche ad essi si associa metronidazolo, il quale agisce a livello sistemico. Nelle forme extra-intestinali possono inoltre essere necessari interventi chirurgici. Acanthamoeba spp. Acanthamoeba è un genere cui appartengono specie di amebe a vita libera, in grado di vivere e di riprodursi autonomamente; sono diffuse nelle acque stagnanti. Il loro ciclo vitale prevede una forma vegetativa (tro- fozoìte), caratterizzata da alcune proiezioni aghiformi chiamate acantopodi, e una forma di resistenza (cisti). Le cisti sono provviste di parete a due strati, dei quali quello interno ha una tipica disposizione "poligonale" (nei punti di contatto tra endocisti ed esocisti vi sono dei pori che consentono la fuoriuscita del trofozoìte). In genere penetrano nell’organismo dalle vie respira- torie inferiori (dopo l’inalazione di aerosol che le con- tengono) o attraverso soluzioni di continuo delle mu- cose; la colonizzazione del SNC si verifica per via ema- togena o trans-nasale diretta (eventualità assai rara). Azione patogena Sono responsabili di una grave cheratite nei portatori di lenti a contatto (che possono contaminare) e della cosiddetta encefalite granulomatosa amebica, grave malattia, spesso fatale, che interessa soprattutto sog- getti affetti da deficit dell’immunità cellulo-mediata. L’encefalite si può manifestare con confusione, cefa- lea, nausea e vomito, letargia, convulsioni e coma. Le aree di encefalo colpite presentano una reazione gra- nulomatosa con infiltrazione di cellule multinucleate. Diagnosi e terapia Per quanto riguarda l’encefalite, la diagnosi si fonda sulla ricerca delle amebe nel liquor e sulla biopsia ce- rebrale del granuloma (che contiene trofozoìti e cisti). La terapia può essere efficace soltanto se la diagnosi è posta precocemente, e prevede l’impiego di diversi farmaci, tra i quali pentamidina, rifampicina, sulfadia- zina, sulfametossazolo, amfotericina B e fluconazolo. - 94 - Naegleria fowleri Naegleria fowleri è un’ameba a vita libera, ubiquitaria nelle acque stagnanti. Il suo ciclo vitale prevede una forma vegetativa (trofozoìte), una forma di resistenza (cisti), che possiede una parete doppia, ed una forma flagellata, provvista di 2-4 flagelli e di un voluminoso vacuolo pulsatile, caratterizzata da notevole motilità. Il trofozoìte e la forma flagellata possono raggiungere l’encefalo direttamente per via trans-nasale, attraver- sando la lamina cribrosa dell’etmoide, e provocano la meningo-encefalite acuta primaria, malattia ad esor- dio acuto con febbre, cefalea, nausea e vomito; isto- logicamente si hanno aree d’infiammazione e necrosi. Diagnosi e terapia La diagnosi si basa sulla ricerca delle amebe nel liquor e sulla biopsia cerebrale (fondamentale); la terapia si basa sulla somministrazione intravenosa e intratecale di amfotericina B, sebbene spesso non risulti efficace. Plasmodium spp. Il genere Plasmodium comprende le spp. di sporozoi responsabili nell’uomo delle diverse forme di malaria. SPOROZOO MALATTIA P. falciparum Malaria terzana maligna P. vivax / P. ovale Malaria terzana benigna P. malariae Malaria quartana La malaria è endemica in diverse regioni del mondo, tra cui Africa Sub-Sahariana, Asia e America Latina; in Europa è stata ufficialmente eradicata, ma si possono osservare, regolarmente, dei casi di importazione nei viaggiatori di rientro da quelle zone e negli immigrati. L’infezione malarica assume caratteri clinici più gravi in soggetti non immuni o che hanno perso l’immunità acquisita (che in aree endemiche dura solo 2-3 anni). Ciclo vitale La trasmissione interumana dei plasmodi è causata da punture delle zanzare femmine del genere Anopheles che, durante il pasto ematico, li inoculano nell’ospite, sotto forma di sporozoìti (una delle loro varie forme). Gli sporozoìti sono cellule fusiformi mononucleate ed estremamente mobili che, una volta nell’ospite, colo- nizzano rapidamente gli epatociti, all’interno dei quali svolgono un processo di SCHIZOGONIA, che porta alla formazione di uno schizonte multinucleato, dal quale traggono origine numerosi merozoìti – piccole cellule mononucleate che, poi, lasciano il fegato e, passando nel circolo sanguigno, parassitano, infine, gli eritrociti. In P. vivax e in P. ovale, parte degli sporozoiti, anziché dividersi, si differenzia in una forma quiescente (detta ipnozoìta) che resta all’interno degli epatociti; questo fenomeno è responsabile delle recidive e permette la sopravvivenza dei plasmodi anche in zone temperate, in cui d’inverno non sono presenti le zanzare vettrici. Una volta parassitato un globulo rosso, un merozoìta diventa un trofozoìte, di forma ameboide, contenuto dentro un vacuolo parassitoforo; esso si nutre a spese della cellula ospite, mediante un apposito citostoma. Il trofozoìte è dotato di un vacuolo digestivo che gli fa assumere una forma "ad anello con castone" e al cui interno la digestione di emoglobina porta alla forma- zione e all’accumulo di granuli di emozina. In seguito, il trofozoìte matura in uno schizonte (si ha quindi una seconda fase schizogonica) da cui originano numerosi merozoìti che a loro volta invadono altri globuli rossi. Dopo diverse generazioni, alcuni merozoìti si differen- ziano nelle forme sessuate, che hanno una morfologia diversa in base alla specie di plasmodio; la femmina è detta macrogametocita, il maschio microgametocita. Quando le forme sessuate sono ingerite, assieme, da una zanzara, fuoriescono dal globulo rosso; il macro- gametocita matura in macrogamete ed il microgame- tocita subisce un processo che porta alla formazione di alcuni microgameti flagellati. La "fecondazione" del macrogamete da parte di un microgamete (processo detto SPOROGONIA) porta a formazione dello zigote, che matura in oocinete e poi oocisti, all’interno della quale si può sviluppare un gran numero di sporozoìti. - 95 - In seguito alla rottura della parete dell’oocisti, gli spo- rozoiti raggiungono le ghiandole salivari della zanzara e da queste vengono poi rigurgitati e dunque inoculati in un nuovo ospite durante il seguente pasto ematico. Azione patogena La malaria terzana maligna, dopo un periodo di incu- bazione di 1-2 settimane, esordisce bruscamente con febbre elevata, cefalea, artralgie, malessere e brividi; l’accesso febbrile è conseguente alla lisi eritrocitaria, che comporta il rilascio in circolo dei cataboliti tossici, e la defervescenza è associata a sudorazione profusa. In assenza di terapia, la febbre assume una periodicità a giorni alterni: è detta "terzana" poiché l’accesso feb- brile si verifica ogni terzo giorno della malattia [inclu- dendo in conteggio il giorno del precedente accesso]. Nei bambini e nei soggetti privi d’immunità si possono inoltre avere emorragie cerebrali puntiformi, stupore e coma (in questo caso si parla di malaria perniciosa). La malaria terzana benigna ha un periodo di incuba- zione di 2-3 settimane e caratteristiche cliniche simili a quelle della forma maligna, però sfumate e sempre senza l’evoluzione in malaria perniciosa. In mancanza di una completa sterilizzazione epatica può recidivare (a distanza di anni) per la riattivazione degli ipnozoìti. La malaria quartana in genere ha un periodo di incu- bazione di 3-4 settimane (ma questo si può protrarre persino per 6-8 mesi), con accessi febbrili ogni quarto giorno di malattia [anche in questo caso occorre inclu- dere, nel conteggio, il giorno del precedente accesso]. Diagnosi La ricerca microscopica diretta con colorazione MGG su uno striscio sottile di sangue periferico prelevato in concomitanza con un accesso febbrile è l’indagine che consente di definire morfologicamente il plasmodio e di risalire alla specie esatta. L’esame in goccia spessa è molto utile per concentrare i plasmodi e ha dunque una sensibilità maggiore. La diagnosi, inoltre, è possi- bile mediante amplificazione di alcune loro sequenze genomiche e mediante la ricerca di antigeni specifici. I test sierologici hanno utilità limitata poiché l’immu- nità indotta dall’infezione differisce in base allo stadio di sviluppo, alla specie e al ceppo di Plasmodium (non sono comunque applicabili nelle regioni di endemia). Terapia Nell’impostazione della terapia, occorre tenere conto della gravità della malattia, della specie di plasmodio coinvolta e dell’area di endemia (poiché P. falciparum e P. vivax posson presentare una farmaco-resistenza). Per la malaria non complicata dovuta a P. falciparum oppure a spp. non identificate, nelle aree clorochino- sensibili, si utilizzano i seguenti protocolli terapeutici: Atovaquone + proguanile Artemetere + lumefantrina Chinina + doxiciclina / tetraciclina Clorochina / idrossiclorochina Per la malaria non complicata sostenuta da P. ovale o P. vivax nelle regioni clorochino-sensibili e P. malarie o P. knowlesi in tutte le regioni, si possono impiegare la clorochina oppure l’idrossiclorochina (Plaquenil ®). Per la malaria non complicata, sostenuta da P. vivax, nelle aree clorochino-resistenti si possono impiegare: Atovaquone + proguanile Chinina + doxiciclina / tetraciclina Meflochina + primachina / tafenochina Per la malaria grave sostenuta da una qualsiasi specie di Plasmodium occorre somministrare precocemente artesunato endovena ogni 12 ore e, successivamente, una combinazione di altri farmaci disponibili (per os). Per prevenire le recidive, possibili in caso di infezione da P. vivax e P. ovale, si può somministrare la prima- china per 2 settimane o la tafenochina in dose singola. Per chi si reca in zone endemiche, la chemioprofilassi prevede un’assunzione combinata di atovaquone e di proguanile (Malarone ®) a partire da due giorni prima della partenza e fino a una settimana dopo il rientro.