Scarica NOZIONI DI DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE e più Appunti in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! NOZIONI DI DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE INTRODUZIONE Il diritto della previdenza sociale ha per oggetto lo studio dei rapporti che intercorrono tra assicurante ed istituto assicuratore per quanto concerne l’aspetto contributivo, e tra l’assicurato e l’istituto medesimo per l’aspetto delle prestazioni. Alla luce del 3.2 Cost., la funzione del diritto della previdenza sociale è la liberazione da situazioni di bisogno che ostacolano il pieno svolgimento della personalità umana. In tale ottica, vengono in rilievo due considerazioni: la prima è la constatazione che la previdenza sociale non sembra più tutelare in via esclusiva i soli soggetti lavoratori subordinati, ma anche altri soggetti che versino in situazioni di bisogno; ulteriormente, occorre considerare che la sfera d’efficacia della tutela previdenziale è il frutto di decisioni direttamente esposte al clima politico ed alla disponibilità delle risorse finanziarie pubbliche disponibili nel momento della loro adozione. L’origine della materia è relativamente recente: fu il cancelliere tedesco Otto Eduard Leopold von Bismarck ad introdurre le prime norme in tema di assicurazione obbligatoria per gli infortuni, le malattie e la vecchiaia sul finire del XIX secolo; ma ciò venne fatto per combattere il pericolo del “bubbone socialdemocratico” e salvaguardare la salute dei lavoratori più giovani in vista di un loro impiego bellico. Si trattava in definitiva di un motivo di ordine pubblico. Vi è oggi una pluralità di disposizioni di vario tenore e di difficile coordinazione. 1 – I SOGGETTI 1. L’assicurante e l’avviamento al lavoro Assicurante è il soggetto che per legge è tenuto a versare i contributi previdenziali a favore del soggetto c.d. assicurato. In questo senso è tale non solo il soggetto imprenditore (2082: Imprenditore), che si avvale normalmente di ausiliari subordinati, ma più genericamente ogni soggetto datore di lavoro. Tuttavia anche i lavoratori medesimi sono tenuti al pagamento dei contributi. Ordinario presupposto dell’obbligo contributivo è la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. In passato in linea di massima i datori di lavoro erano tenuti ad assumere i lavoratori facendone richiesta agli organi territorialmente competenti dell’ufficio di collocamento. La richiesta dal 1991 poteva essere nominativa, tramite indicazione specifica della persona iscritta nelle liste del collocamento con la quale si intende contrarre, anziché limitarsi ad indicare il numero dei lavoratori richiesti (c.d. richiesta numerica, la sola contemplata in origine). Con la l. 608/1996 si è attribuita infine la facoltà ai datori di concludere direttamente il contratto di lavoro coi lavoratori, senza necessità di dovere ottenere in via preventiva l’apposita autorizzazione o nulla osta dagli uffici di collocamento. Il contesto di liberalizzazione del mercato del lavoro ha determinato un sostanziale arretramento della tutela di quei soggetti che presentano maggiori, presumibili difficoltà di inserimento. In passato infatti il datore che avesse occupato oltre dieci dipendenti doveva riservare una certa percentuale delle assunzioni a determinate categorie di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli. Attualmente invece il legislatore ha devoluto alle Regioni la possibilità di prevedere quote variabili di assunzione per così dire riservate, senza fissare percentuali vincolanti. La l. 68/1999 ha inteso rendere effettivo il “diritto al lavoro dei disabili” prevedendo la promozione dell’inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato. La condizione di disabile viene accertata da apposite commissioni presso le aziende sanitarie locali, mentre in caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale risulta certificata dall’INAIL. I disabili intenzionati ad un’occupazione conforme alle loro capacità devono iscriversi in un apposito elenco, tenuto dai c.d. centri per l’impiego. L’obbligo di assunzione grava attualmente sui datori, pubblici e privati, con 15 o più dipendenti, in misura differenziata a seconda delle dimensioni aziendali. L’obbligo di assunzione non opera poi in relazione a datori operanti in alcuni settori (per es. nel settore del trasporto aereo, marittimo e terrestre limitatamente al personale viaggiante) e rimane sospeso nei confronti delle imprese ammesse alla cassa integrazione guadagni o che abbiano in corso una procedura di mobilità. Al fine di rendere effettivo il diritto all’inserimento nel mondo del lavoro, i datori di lavoro devono inviare periodicamente un prospetto informativo sulla situazione del loro organico, e nel caso di mancato rispetto della quota d’obbligo scatta immediatamente una richiesta di avviamento di altri disabili. Al di fuori di qualunque obbligo di assunzione si pone infine il sistema delle c.d. assunzioni agevolate, integrato da una serie di sgravi contributivi ed incentivi economici e fiscali. 2. Mancanza di assicurante in senso stretto e imprese cooperative La fattispecie del lavoro subordinato presuppone un soggetto assicurante giuridicamente distinto dal soggetto assicurato; occorre tuttavia rilevare come in ambito previdenziale vi siano situazioni nelle quali questa distinzione soggettiva non ricorre. In una prima ipotesi può essere che soggetto assicurante ed assicurato coincidano: si pensi ai lavoratori autonomi quali artigiani, commercianti, etc. Anche il libero professionista è tenuto al pagamento dei contributi, qualora eserciti la professione e ne ricavi un reddito. Anche il comune cittadino è poi tenuto a versare annualmente all’INPS un contributo a favore del servizio sanitario nazionale. Un’altra ipotesi di mancanza di datore di lavoro in senso stretto si rinviene nelle imprese aventi natura cooperativa: i soci lavoratori di cooperative sono infatti equiparati ai lavoratori dipendenti ai fini previdenziali, ai fini pensionistici ed in relazione agli infortuni sul lavoro ed alle malattie professionali. Esistono inoltre anche particolari cooperative costituite proprio a fini esclusivamente previdenziali da determinate categorie di lavoratori previste per legge (per es. facchinaggio, pescatori, etc.). Tale sistema è stato soppresso a partire dal 1.1.2007, data a decorrere dalla quale dal punto di vista previdenziale l’intero settore cooperativo è equiparato alle altre imprese, eliminando così la diversificazione dei costi del lavoro a seconda della forma giuridica adottata. Un’altra particolare forma di cooperazione era data dalle compagnie portuali: si trattava di un’ipotesi di comunità di lavoratori a cui lo Stato a fini di utilità generale riservava La giurisprudenza nel concreto dell’operazione di qualificazione contrattuale perviene ad identificare il rapporto di lavoro come subordinato in base ad una serie di indici. 4. L’appalto e la somministrazione di manodopera L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. Ove manchino le suddette caratteristiche perché l’appaltatore si limita ad interporsi tra committente e lavoratori, evitando l’assunzione di questi ultimi da parte del primo, verrà in rilievo una mera somministrazione di manodopera; quest’ultima darà luogo alla possibilità in capo al lavoratore di costituire un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato le prestazioni. La somministrazione di manodopera consiste in un rapporto fra tre soggetti, in base al quale una c.d. agenzia di somministrazione (o somministratore), in possesso di autorizzazione a tal fine, fornisce uno o più lavoratori alle imprese (c.d. utilizzatrici) che ne facciano richiesta, fermo restando che i lavoratori sono in rapporto di lavoro subordinato col somministratore. A differenza dell’appalto di manodopera, l’agenzia di somministrazione non assume l’obbligo di un opus, bensì la fornitura di mere prestazioni lavorative. È precluso all’autonomia contrattuale delle parti un appalto consistente nel mero affidamento di prestazioni lavorative mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario; in questi casi su azione alla quale è legittimato il lavoratore il rapporto si converte ex tunc in un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore. Si discute se la legittimazione espressa del lavoratore sia esclusiva, o se la stessa competa anche all’INPS in quanto titolare ex lege del credito alla contribuzione previdenziale. In entrambe le fattispecie il lavoratore è assicurato presso l’INPS quale lavoratore subordinato. Sono tenuti al pagamento dei contributi tanto il committente quanto l’appaltatore, in solido tra di loro. L’istituto previdenziale può agire contro l’utilizzatore solo dopo l’inadempimento del somministratore. Nel caso di somministrazione di lavoro il somministratore, nel caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato, è tenuto per tutto il periodo di mancata assegnazione del lavoratore al pagamento di una c.d. indennità di disponibilità, sulla quale la contribuzione è dovuta nella misura effettiva, senza quindi tener conto del c.d. minimale contributivo. 5. L’associazione in partecipazione Con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto. Anche se la gestione dell’affare o dell’impresa compete all’associante, l’associato se previsto nel contratto può esercitare un controllo, ed ha sempre diritto al rendiconto. Proprio tali circostanze distinguono la fattispecie in esame da un rapporto di lavoro subordinato. Oggi l’associato che apporta la propria opera lavorativa deve essere assicurato non solo contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ma anche ai fini pensionistici. L’obbligo della relativa contribuzione grava per il 45% a carico dell’associato, e per il residuo sull’associante. 6. Le collaborazioni coordinate e continuative e il lavoro a progetto Il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa si caratterizza per una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale e che, a differenza del lavoro autonomo (si pensi all’attività di un avvocato), può essere richiesta anche da un solo committente in misura tale da divenire assorbente e costituire la fonte di reddito pressoché esclusiva del lavoratore. Rispetto al lavoro subordinato, la fattispecie in esame si caratterizza per la mancanza di un controllo della controparte sull’esecuzione della prestazione lavorativa. Attualmente la contribuzione è pari al 17,80% per i non iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria il cui reddito annuo non sia superiore ad € 37.883,00; sulla quota di reddito eccedente tale limite l’aliquota è del 18,80%. La riforma Biagi (d. lgs. 276/2003) prevede che i rapporti di collaborazione in atto siano ricondotti allo schema del c.d. lavoro a progetto; rapporto contrattuale col quale il lavoratore assume stabilmente l’incarico di eseguire un progetto od un programma di lavoro concordando col committente le modalità di esecuzione, durata e tempi di corresponsione del compenso. La riforma prevede, al contempo, un divieto di stipulare nuovi contratti di collaborazione coordinata e continuativa. In via transitoria, si prevede che i rapporti di collaborazione che non possano essere ricondotti ad un progetto o ad una fase di esso mantengano efficacia fino alla loro scadenza. Dalla disciplina ora illustrata restano escluse varie ipotesi, tra le quali gli agenti ed i rappresentanti di commercio, le professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali, i rapporti instaurati con associazioni e società sportive dilettantistiche, etc. Circa i tratti caratterizzanti il lavoro a progetto, il d. lgs. 276/2003 richiama l’esigenza di inquadramento della prestazione lavorativa all’interno di uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso. 7. Il lavoro non occasionale e il lavoro autonomo Sono altresì assicurati presso un’apposita gestione INPS, nonché tenuti al versamento dei contributi, coloro che svolgono attività lavorativa autonoma puramente occasionale (ed i lavoratori a domicilio) qualora il reddito annuo che derivi dalla loro attività sia superiore ad € 5.000,00, ovvero si tratti di attività che impegnino il soggetto complessivamente oltre 30 giornate lavorative l’anno. In passato si riteneva che chi svolgesse attività di lavoro autonomo in via occasionale dovesse essere esonerato dall’assicurazione e dalla contribuzione: la garanzia di una prestazione previdenziale a favore di tali soggetti li avrebbe posti in una posizione di sostanziale privilegio rispetto a chi invece lavorava e contribuiva in via stabile. Oggi, col passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo, non vi è più quest’ultimo ostacolo. Le fattispecie escluse sono integrate dalle fattispecie definite di c.d. lavoro accessorio, allorquando il guadagno sia inferiore ad € 5.000,00 all’anno o l’impegno sia inferiore alle trenta giornate lavorative. Si tratta di un’attività riservata a determinate tipologie di prestazioni, individuate dalla legge (per es. piccoli lavori domestici a carattere straordinario; insegnamento privato), rese da soggetti a rischio d’esclusione sociale, ovvero non ancora entrati nel mercato del lavoro o in procinto d’uscirne. Anche questi lavoratori sono iscritti nella medesima gestione prevista per i lavoratori non occasionali. Per ricorrere alle prestazioni in oggetto i soggetti interessati devono acquistare presso apposite rivendite autorizzate un carnet di buoni per prestazioni di lavoro accessorio: il prestatore di lavoro riceve poi il proprio compenso presentando i buoni ricevuti dal beneficiario della prestazione. La differenza tra il costo dei buoni e quanto erogato a favore del lavoratore integra la contribuzione spettante all’INPS. Sono infine assicurati i lavoratori autonomi tenuti ad iscriversi ad un apposito albo professionale, nonché gli altri lavoratori autonomi non intellettuali. In mancanza di un’apposita gestione od istituto assicuratore, gli stessi sono assicurati quali lavoratori non occasionali. 8. Il lavoro a orario ridotto, modulato o flessibile Nell’ambito dei rapporti di lavoro vengono in rilievo i contratti di lavoro a tempo parziale, di lavoro intermittente e ripartito. Il principio che regola la tutela di questi assicurati è quello della proporzionalità rispetto al trattamento spettante invece all’assicurato standard, ossia il lavoratore a tempo pieno. La Costituzione impone comunque una tutela minima, integrata ex 38.2 dall’esigenza di un livello minimo di adeguatezza delle prestazioni previdenziali; inoltre ex 3.2 Cost. la minore tutela dell’assicurato in esame è possibile solo se giustificata dalla minore durata della sua attività o anzianità lavorativa rispetto a un lavoratore subordinato a tempo pieno, ovvero per via della sua minore retribuzione. Cominciando dal principio di adeguatezza, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha individuato il livello minimo delle prestazioni pensionistiche in un livello tra il c.d. minimo vitale ed i mezzi idonei a garantire il tenore di vita già raggiunto dal lavoratore. In quest’ottica, la prestazione “riproporzionata” non può essere inferiore al minimo vitale (in ipotesi, quantificabile in una somma corrispondente all’assegno sociale). Dal punto di vista del divieto di ingiustificata disparità di trattamento, vi sono alcune disposizioni irragionevoli relative ai singoli rapporti, che occorre previamente esaminare. Il contratto di lavoro a tempo parziale si caratterizza perché il lavoratore è tenuto ad una prestazione lavorativa temporalmente inferiore alla durata minima prevista dalla legge o dai contratti collettivi in relazione al contratto di lavoro c.d. a tempo pieno. Si distingue, a seconda che la minore durata del lavoro si riverberi in relazione all’orario di lavoro giornaliero o in relazione a determinati periodi dell’anno, tra part time orizzontale e part time verticale. Il lavoratore a tempo parziale per accreditare la medesima quota di contributi di un lavoratore a tempo pieno necessita di un maggiore periodo di tempo. Concretamente, ciò si riverbera per es. sul momento in cui può maturare il diritto ad andare a riposo. È prevista a favore del lavoratore part time la facoltà della contribuzione volontaria o del riscatto. Altra disparità consisteva in passato nel fatto che la pensione di reversibilità veniva riconosciuta alla moglie, in caso di morte del marito, senza limiti, mentre nel caso di premorienza della moglie al marito quest’ultimo poteva percepirla solo in quanto invalido in misura superiore al 66%: questa disparità nei confronti dell’uomo è stata eliminata in riferimento a qualunque istituto previdenziale. Un analogo principio di parità è introdotto in materia di prestazioni ai superstiti determinate da infortuni sul lavoro, le quali sono estese alle stesse condizioni stabilite per la moglie del lavoratore al marito della lavoratrice; anche questo articolo è stato abrogato dal 57 del d. lgs. 198/2006. 11. Circostanze inerenti l’assicurato: l’età Problemi concernenti l’età dell’assicurato si ponevano soprattutto nel campo dell’agricoltura. Il d.P.R. 1124/1965 limitava la tutela assicurativa contro gli infortuni solo dall’età di 12 anni. Opportunamente la l. 457/1972 ha disposto l’abolizione dei limiti d’età suddetti. La stessa Corte costituzionale (262/1976) poi ha sancito l’incostituzionalità dei limiti in questione. In materia di lavoro dei minori è fondamentale la l. 977/1967, secondo la quale occorre distinguere tra gli adolescenti, ossia i ragazzi di età compresa tra i 15 ed i 18 anni, ed i fanciulli, minori di 15 anni e che non hanno pertanto l’età minima per l’ammissione al lavoro, a differenza dei primi. I fanciulli di 14 anni tuttavia possono essere ammessi al lavoro in agricoltura e nei servizi familiari. La l. 977/1967 è stata modificata dal d. lgs. 345/1999, in base al quale l’età minima per l’ammissione al lavoro del minore è stata fissata con riguardo al momento in cui questi ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria, fermo restando che comunque non può essere inferiore a 15 anni. Dal punto di vista previdenziale tuttavia, qualunque sia l’età del minore questi ha sempre diritto alle prestazioni assicurative previste in materia di assicurazioni sociali obbligatorie. Avendo peraltro diritto anche alla retribuzione, ex 2126 (Prestazione di fatto con violazione di legge), si può affermare che la sua tutela è completa sia sotto il versante lavoristico che previdenziale. Gli enti previdenziali per contro possono rivalersi nei confronti del datore per l’importo complessivo delle prestazioni erogate al minore, detratta la somma corrisposta a titolo di contributi omessi. 12. Circostanze inerenti l’assicurato: la nazionalità In materia di previdenza sociale vige il principio della territorialità. Ove la prestazione lavorativa debba svolgersi all’estero, vi è diversità di regime assicurativo a seconda che l’attività sia svolta in paesi aderenti alla Unione europea ovvero in paesi che, pur non appartenenti all’unione europea, abbiano stipulato con l’Italia apposite convenzioni, od infine negli stati che non rientrino in nessuna delle due categorie suddette. 13. La tutela previdenziale nei paesi dell’Unione europea I principi fondamentali in questo ambito sono: F 0 6 1 F 0 2 E parità di trattamento tra lavoratori dei paesi comunitari all’interno dell’area comunitaria stessa; F 0 6 2 F 0 2 E assoggettamento del lavoratore alla legislazione previdenziale dello Stato in cui lavora; F 0 6 3 F 0 2 E possibilità di cumulare (ma non di sovrapporre) i periodi contributivi, ovunque localizzati all’interno della comunità: si tratta della c.d. totalizzazione. Circa quest’ultimo punto, non possono considerarsi distintamente periodi contributivi temporalmente coincidenti: la doppia contribuzione non rileva ai fini della maturazione del diritto ma, eventualmente, ai fini dell’importo. Si noti che la regola è identica a quanto vige nel nostro ordinamento. Il discorso non cambia nell’ipotesi di contribuzione volontaria: il lavoratore italiano che mentre si trova all’estero versi spontaneamente i contributi agli istituti previdenziali italiani non potrà avvalersene se vi sia contribuzione anche nel luogo ove esercita la sua prestazione. Con riguardo alla prestazione pensionistica concretamente erogata, si opera una ripartizione tra i vari istituti assicuratori europei in base al criterio c.d. pro rata temporis. Non è necessario che l’assicurato inoltri la sua domanda a tutti gli istituti previdenziali presso i quali vi sono stati versamenti contributivi: sarà sufficiente una sola domanda (per es. all’INPS) (la data della domanda è a tutti gli effetti unica nei confronti dei diversi istituti assicuratori. Un problema particolare si pone quando il lavoratore, pur avendo raggiunto l’età pensionabile in Italia non l’abbia invece conseguita rispetto al sistema pensionistico di altri paesi presso i quali risultino versati dei contributi: in questo caso l’istituto previdenziale italiano erogherà immediatamente la sua quota, mentre quello straniero vi provvederà solo al compimento da parte dell’assicurato dell’età minima richiesta per la maturazione del diritto. 14. La tutela previdenziale nei paesi convenzionati La tutela previdenziale del lavoratore italiano nei paesi extracomunitari può essere regolata da apposite convenzioni bilaterali, la cui disciplina di fondo è sostanzialmente analoga a quella prevista per i paesi dell’Unione europea. (Secondo la Cassazione in caso di trattamenti pensionistici liquidati, in virtù di convenzioni internazionali, per effetto del cumulo dei contributi versati in Italia e all’estero, e pagati pro rata, affinché operi il riassorbimento dell’integrazione al minimo delle somme risultanti non più dovute a seguito dell’erogazione della pensione estera è necessario presupposto che entrambe le prestazioni siano state conseguite col cumulo dei periodi assicurativi: sono escluse dal riassorbimento altre prestazioni conseguite all’estero). In linea di principio, la regola emergente è che l’obbligo di contribuzione permane a favore degli enti previdenziali italiani quando il lavoratore rimanga all’estero entro un periodo massimo determinato di solito in un anno, o al massimo due (c.d. distacco), mentre in caso di permanenza per periodi superiori (c.d. trasferimento) sorge l’obbligo di contribuzione presso gli istituti previdenziali esteri. 15. La tutela previdenziale in mancanza di accordi internazionali Il lavoratore italiano che doveva recarsi all’estero per motivi di lavoro si trovava sprovvisto di tutela. Al riguardo era prevista la semplice possibilità, e non l’obbligo, per il datore di lavoro di assicurare i suoi dipendenti presentando apposita domanda al Ministero del lavoro e della previdenza sociale; il pagamento dei contributi sarebbe poi avvenuto sulla base di un minore importo. Nella prassi tale sistema non diede luogo ad un’effettiva tutela del lavoratore. Il principio da sgretolare era il principio della territorialità, per il quale le norme previdenziali, essendo di natura pubblica, trovano applicazione solo all’interno del territorio nazionale. La Cassazione affermò che il rapporto di lavoro, avendo natura contrattuale, era regolato dall’allora vigente 25 disp. prel., comma I, per il quale Le obbligazioni che nascono da contratto sono regolate dalla legge nazionale dei contraenti, se è comune; altrimenti da quella del luogo nel quale il contratto è stato conchiuso. È salva in ogni caso la diversa volontà delle parti. Ora, l’assicurazione previdenziale non ha fondamento contrattuale ma legale; il rapporto di lavoro purtuttavia, accanto alle prestazioni principali delle parti, consistenti nella prestazione lavorativa del dipendente e in quella retributiva del datore, prevede una serie di obblighi integrativi di origine legale. In questo senso, l’assicurazione presso gli istituti previdenziali pur non essendo la principale prestazione del datore rimane oggetto di un obbligo derivante dal rapporto di lavoro. Dunque il datore ha l’obbligo di assicurare il lavoratore per il solo fatto della retribuzione a seguito della conclusione del contratto di lavoro in Italia, od anche se egli, al pari del lavoratore, è italiano. Il principio di diritto così stabilito non poteva tuttavia trovare applicazione nei casi non contemplati dal 25 suddetto. Il d.P.R. 1124/1965 è stato giudicato incostituzionale nella parte in cui non prevede l’assicurazione obbligatoria a favore del lavoratore italiano operante all’estero alle dipendenze di un’impresa italiana a causa del contrasto col 35.4 Cost. [La Repubblica […] tutela il lavoro italiano all'estero]. La l. 398/1987 non deroga al principio di territorialità, ma contribuisce ad attenuarne l’efficacia, stabilendo che il lavoratore italiano all’estero, in paesi extracomunitari coi quali non vi siano accodi di sicurezza sociale, deve venire iscritto all’assicurazione per l’invalidità, vecchiaia e superstiti, contro la tubercolosi, contro la disoccupazione involontaria e per la maternità, tutte di competenza dell’INPS; il lavoratore è altresì assicurato contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali presso l’INAIL. Risulta esclusa dall’elenco l’assicurazione alla cassa integrazione guadagni, così come per l’ENAOLI. Il diritto all’assicurazione sorge a favore del cittadino italiano assunto in Italia ovvero in paesi extracomunitari, ma l’obbligo all’opposto non grava su tutti i datori di lavoro: sono infatti obbligati ad assicurare il lavoratore i datori di lavoro residenti, domiciliati od aventi la propria sede (anche secondaria) nel territorio nazionale, le società costituite all’estero ma con partecipazione italiana di controllo ai sensi del 2359 c.c., le società costituite all’estero in cui persone fisiche o giuridiche di nazionalità italiana partecipano in misura superiore ad 1/5 del capitale sociale, ed infine i datori di lavoro stranieri. Nel concreto della contrattazione collettiva, mentre i sindacati dei lavoratori sono simultaneamente presenti, da parte datoriale interviene generalmente un solo sindacato. Per una stessa categoria, possono quindi sussistere più accordi collettivi; potrebbe allora un lavoratore chiedere l’applicazione del contratto che gli è maggiormente conveniente? Il problema richiede una duplice analisi: una in sede storica, ed una in sede dogmatica. Sotto il primo profilo, il problema consisteva nel fatto che i datori di lavoro sovente non davano applicazione ai contratti collettivi, sulla base della loro mancata iscrizione ai sindacati di parte datoriale. Il problema avrebbe avuto facile soluzione se i sindacati si fossero assoggettati alla procedura della registrazione prevista dal 39 Cost.: in questo caso gli accordi avrebbero avuto efficacia erga omnes. In mancanza di norme di legge, la giurisprudenza sancì l’applicabilità dei minimi retributivi previsti dalla contrattazione collettiva quand’anche il datore di lavoro eccepisse di non essere iscritto ad alcun sindacato. Si argomentò a tal fine del combinato disposto degli artt. 2099.2 c.c. e 36 Cost, il primo dei quali sancisce il potere del giudice di fissare, in mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione del lavoratore, mentre il secondo dispone che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Con l. 741/1959 si stabilì che qualora una delle parti di un accordo economico o contratto collettivo avesse depositato nel termine di un anno presso la segreteria del Ministero del lavoro e della previdenza sociale il testo dello stesso, Il Governo è delegato ad emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, uniformandosi nel contenuto a tutte le clausole di tali contratti, purché stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge suddetta. La legge fu sospettata d’incostituzionalità, soprattutto perché un’efficacia erga omnes dei contratti collettivi avrebbe potuto darsi solo a fronte della diversa procedura contemplata dal 39 Cost. La legge in esame diede adito ad un problema: a fronte di una pluralità di contratti depositati e di relativi decreti di attuazione inerenti alla medesima categoria, si poneva la questione di quale regolamentazione applicare nel caso concreto: la Corte costituzionale ha detto che la sfera d’efficacia personale (laddove quella spaziale concerne l'intero territorio nazionale, e quella temporale viene fissata nello stesso contratto) dei contratti in esame è da determinarsi in base alla volontà degli stessi contraenti. Riassumendo abbiamo incontrato diversi concetti di categoria: F 0 6 1 F 0 2 E in senso ontologico, ossia in base alle mansioni effettivamente espletate; F 0 6 2 F 0 2 E in senso sindacale, propria del sindacato relativo ad un determinato settore produttivo; F 0 6 3 F 0 2 E in senso contrattuale. 2 – LA CONTRIBUZIONE 1. Il calcolo dei contributi: generalità Il calcolo dei contributi previdenziali (denominati “premi” nell’ambito dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali) avviene sulla base di apposite tabelle contenenti determinate aliquote percentuali, variabili a seconda del settore di appartenenza del datore (per es. industria). L’aliquota vigente per il medesimo settore e categoria non è unica, ma si divide in tante voci a seconda delle diverse gestioni di pertinenza dell’ente (per es. assegni familiari, indennità di disoccupazione, etc.), e viene generalmente indicata nella sua misura totale ed in quella a carico del lavoratore. Il vero problema consiste nella base di calcolo alla quale applicare le aliquote: essa è data dalla retribuzione, ma cosa dovesse intendersi per “retribuzione”, prima della l. 153/1969, non era pacifico. In precedenza per i dipendenti privati due norme procedevano con un’elencazione di tipo casistico: vi erano infatti due elenchi, ricomprendenti l’uno le indennità considerate retribuzione assoggettabili a contribuzione, l’altro quelle non assoggettabili. Il mancato coordinamento delle norme imponeva che determinate voci retributive potessero considerarsi imponibili ai fini INPS e non imponibili ai fini INAIL, e viceversa; inoltre il datore di lavoro avrebbe potuto erogare parte della retribuzione a titolo di indennità non ricomprese negli elenchi, ovvero solo nell’elenco delle voci non assoggettabili a contribuzione. In dottrina si considerava retribuzione solo quelle somme che, erogate dal datore, trovavano giustificazione nella prestazione lavorativa del dipendente. Fu merito della dottrina giuslavoristica più avanzata avviare un ripensamento sul rapporto di lavoro, inquadrandolo nell’ambito di un rapporto obbligatorio complesso in cui, accanto agli obblighi primari di prestazione (attività lavorativa/retribuzione), si ponessero ulteriori obblighi, integrativi, strumentali (per es. fornire al lavoratore l’attrezzatura necessaria per l’espletamento delle mansioni) e di protezione (2087), e la cui conseguenza pratica fu quella di rivedere il concetto di retribuzione, ricomprendendovi anche quelle prestazioni non immediatamente connesse all’attività lavorativa del dipendente ma connesse, per es., a periodi di ferie, di malattia, di svolgimento di funzioni pubblico-elettive o sindacali. 2. La retribuzione imponibile La l. 153/1969 dichiara che Per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve [problema rilevante era lo stabilire se i contributi dovessero calcolarsi sulla somma effettivamente corrisposta al lavoratore o su quella dovutagli per legge o per contratto collettivo: in quest’ultimo senso ha disposto la l. 389/1989] dal datore di lavoro in danaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro. Si noti la portata omnicomprensiva del criterio (tutto ciò che il lavoratore riceve) e la non necessaria giustificazione di quanto percepito dal lavoratore per via di una prestazione ma, più genericamente, in dipendenza del rapporto lavorativo stesso. Devono invece escludersi dal concetto di retribuzione ai fini previdenziali le voci indicate dalla stessa l. 153/1969, aventi carattere tassativo (Cass. 451/1985) ed insuscettibili di applicazione analogica. Precisamente, si tratta di quelle somme corrisposte a titolo: 1. di diaria o d’indennità di trasferta in cifra fissa, limitatamente al 50% del loro ammontare; 2. di rimborsi a pie’ di lista che costituiscano rimborsi di spese sostenute dal lavoratore per l’esecuzione o in occasione del lavoro; 3. di indennità di anzianità. Si deve ritenere, sulla base della natura della voce in esame, che non rientrino nella retribuzione imponibile ai fini previdenziali le eventuali anticipazioni del trattamento di fine rapporto; 4. di indennità di cassa; 5. di indennità di panatica per i marittimi a terra, in sostituzione del trattamento di bordo, limitatamente al 60% del suo ammontare; 6. di gratificazione o elargizione concessa una tantum a titolo di liberalità, per eventi eccezionali e non ricorrenti, purché non collegate, anche indirettamente, al rendimento dei lavoratori e all’andamento aziendale. 7. di emolumenti per carichi di famiglia comunque denominati, erogati, nei casi consentiti dalla legge, direttamente dal datore di lavoro, fino a concorrenza dell’importo degli assegni familiari a carico della Cassa unica assegni familiari. La retribuzione così determinata viene altresì presa a base per il calcolo delle prestazioni; in questo modo si è cercato di evitare accordi tra datore e lavoratore per non pagare i contributi. Il concetto di retribuzione imponibile ora esaminato era originariamente previsto in riferimento al regime previdenziale dei lavoratori subordinati assicurati presso l’INPS. In passato gli altri regimi previdenziali potevano adeguarsi ovvero discostarsene. La l. 335/1995 ha però esteso il medesimo concetto di retribuzione anche per i dipendenti dello Stato e degli enti locali, nonché al personale assicurato presso autonome gestioni pure mettenti capo all’INPS. La l. 402/1996 è poi intervenuta in sede d’interpretazione degli accordi e dei contratti collettivi ai fini della considerazione delle voci dirette ed indirette della retribuzione: accadeva sovente che in sede di contrattazione collettiva venisse prevista la corresponsione di nuove voci retributive espressamente od implicitamente ritenute non rilevanti ai fini del calcolo di voci indirette della retribuzione, e che tali clausole di esclusione venissero ritenute irrilevanti da parte dell’INPS, sul presupposto della omnicomprensività della retribuzione ai fini previdenziali (tutto ciò che il lavoratore riceve). Al fine di contrastare tali prassi, la l. 402/1996 ha sancito che conservano pieno valore anche ai fini previdenziali le clausole che limitano l’incidenza degli emolumenti diretti su quelli indiretti. Si prevede ora che costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi quelli rilevanti ai fini dell’imposta sui redditi di cui al d.P.R. 917/1986; in base ad essa sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri e maturati nel periodo di riferimento. Il secondo comma del novellato 12 sancisce invece che per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale si applicano le disposizioni di cui all’art. 48 del d.P.R. cit. (917/1986) (in base al quale costituiscono reddito da lavoro tutte le somme e valori in genere, a qualunque titolo percepito nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro). Il 48.2 d.P.R. cit. (917/1986) elenca le voci escluse dal calcolo del reddito ai fini fiscali. Secondo una prima tesi, si è sostenuto che la nozione di retribuzione utile ai fini contributivi sia ricavabile in realtà solo dal 48 cit., integralmente considerato (primo e secondo comma). Attualmente invece la copertura economica dell’insieme delle prestazioni pensionistiche è addossata a chi attualmente versa i contributi (solidarietà intergenerazionale). Ulteriori applicazioni in massimo grado del principio di solidarietà si sono avute con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, che eroga le prestazioni sanitarie a tutti i cittadini, lavoratori e non, ed anche agli stranieri e agli apolidi, e con spese poste a carico dell’intera collettività. Ancora, si pensi all’assegno sociale, erogato indipendentemente da requisiti contributivi. Tuttavia il carattere aperto del principio in esame non ne legittima un’acritica invocazione. Nell’ipotesi in cui una determinata prestazione previdenziale venga erogata direttamente da parte del datore di lavoro in quanto così stabilito in sede di contrattazione collettiva, il datore è tenuto, in forza del principio di solidarietà, a versare la relativa contribuzione all’ente di previdenza? Il caso si è concretamente posto di recente con riguardo ai contributi di malattia: secondo la Cassazione la l. 138/1943, che esonera l’INPS dal pagamento dell’indennità di malattia quando il relativo trattamento economico venga corrisposto per legge o per contratto collettivo dal datore di lavoro, non vale ad esonerare il datore dall’obbligo di versare la relativa contribuzione, atteso che da un lato, in forza del principio di solidarietà che costituisce il fondamento della previdenza sociale, non esiste un nesso di corrispettività tra prestazioni e contributi, e che inoltre l’obbligazione contributiva partecipa della natura delle obbligazioni pubblicistiche, equiparabile alle obbligazioni tributarie sottratte alla disponibilità di negozi giuridici di diritto privato, quali devono ritenersi i contratti collettivi. Preliminarmente si deve osservare che non pare corretto ritenere che la normativa di riferimento operi solo con riguardo ai contratti collettivi del periodo corporativo e non anche relativamente ai contratti collettivi di diritto comune. Infatti i contratti collettivi corporativi non potevano derogare a norme di legge inderogabili, sicché il richiamo al carattere corporativo del contratto è del tutto inconferente. Ciò significa che la ratio della l. 138/1943, nella parte in cui deroga all’esonero dalla contribuzione, non va cercata nella natura formale del contratto, bensì in considerazioni di carattere sostanziale. Il richiamo diretto al principio di solidarietà non pare pertinente. In primo luogo le applicazioni del principio necessitano di essere sottoposte a bilanciamento con altri valori di rango parimenti costituzionale. Pretendere il contributo in questione nel caso in esame, e non pretenderlo per es. (come previsto per legge) con riguardo agli assicurati che rivestono la categoria di dirigenti ovvero di quadri, appare in contrasto col principio di parità di trattamento (3 Cost.), inoltre l’interpretazione della Cassazione sembra gravare di un onere economico aggiuntivo le imprese che garantiscono in forza di contratto collettivo la prestazione in esame (tenute quindi al pagamento del contributo nei confronti dell’INPS ed all’erogazione delle prestazioni) rispetto a quelle che non la prevedono (tenute solo al pagamento dei contributi), falsando in tale modo il gioco della concorrenza (41 Cost.). Si deve poi considerare che la normativa di legge ordinaria attualmente in vigore non esclude un certo grado di corrispettività tra contribuzione e prestazioni previdenziali. Si è già evidenziato al riguardo che l’obbligo contributivo del datore di lavoro non è fissato in via globale ed unica, ma che esistono all’opposto diverse aliquote contributive a seconda della prestazione di riferimento, e ciò perché ogni gestione deve essere finanziariamente autonoma. Inoltre, all’interno della singola gestione il datore di lavoro non è sempre tenuto al pagamento: per es., con riguardo all’indennità di malattia, la relativa contribuzione non è dovuta dal datore di lavoro del settore dell’industria in relazione ai dipendenti che rivestono la qualifica di impiegati, di quadri e di dirigenti. Tuttavia questi ultimi, correlativamente, non godono della relativa indennità da parte dell’INPS, il che implica una certa consequenzialità tra versamento dei contributi e beneficio delle prestazioni. Il principio di solidarietà non implica necessariamente un’estensione dell’obbligo contributivo. La solidarietà può avere la forza di giustificare deroghe al principio di corrispettività, e può anche giungere a giustificare modelli previdenziali integralmente retti da una contribuzione generalizzata e gravante indistintamente sulla collettività, come nel caso del Servizio sanitario nazionale. Tuttavia tale principio non pare aver pervaso la legislazione ordinaria. 5. La fiscalizzazione degli oneri sociali e gli sgravi contributivi, i contratti di riallineamento e le c.d. dichiarazioni di emersione L’ammontare degli oneri contributivi di spettanza all’INPS determina un forte aumento del costo della manodopera, il che si traduce tra l’altro in una perdita di competitività dei nostri prodotti all’estero. Per sostenere le esportazioni si è allora fatto ricorso allo strumento della fiscalizzazione degli oneri sociali: lo Stato, tramite risorse del proprio bilancio, si assume parte dell’onere economico gravante sugli imprenditori di settori maggiormente in difficoltà sul versante delle esportazioni, od anche ai fini del rilancio di settori in crisi, o per alleggerire il peso della disoccupazione in aree depresse. Tecnicamente la fattispecie consiste nell’attribuire alle imprese un credito da conguagliare coi contributi previdenziali: credito integrato da una riduzione di questi ultimi in misura fissa od in via percentuale. La distinzione tra fiscalizzazione e sgravi non è sempre agevole: si suggerisce da parte della dottrina di avere riguardo al carattere contingente o meno dell’intervento dello Stato, alla circostanza che il credito riconosciuto al datore di lavoro sia determinato in misura fissa o percentuale, all’area di intervento circoscritta a determinate zone ovvero all’intero territorio nazionale, ritenendo trattarsi di sgravi nel primo caso, di fiscalizzazione nel secondo. Si discute del requisito (richiesto in alcuni casi) che subordina le riduzioni contributive al fatto che l’impresa favorita dia integrale applicazione a favore dei propri dipendenti dei contratti collettivi nazionali di categoria. In questi casi sembrerebbe venire in questione la lesione del diritto di (non) associarsi liberamente alle associazioni sindacali (3, 18 e 39 Cost.), tramite un’indiretta coazione all’adesione alle stesse. Per questo motivo i più recenti interventi subordinano il beneficio non già all’applicazione del contratto collettivo, ma più semplicemente al fatto che siano assicurati ai dipendenti trattamenti economici non inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi: si tratta della c.d. clausola sociale. In relazione a tale ultimo requisito tuttavia accade che l’impresa non abbia garantito nei fatti il suddetto trattamento; si è pertanto prevista la possibilità di stipulare c.d. contratti di riallineamento con le organizzazioni sindacali (ma solo con quelle più rappresentative sul piano nazionale) in base ai quali l’impresa si obbliga ad una graduale applicazione dei suddetti minimi retributivi, mantenendo in cambio i benefici di legge, nonché la sanatoria per quanto concerne l’evasione contributiva. La Corte di giustizia delle comunità europee ha ritenuto contrastante con il principio della libera concorrenza all’interno dell’area comunitaria gli sgravi degli oneri fiscali previsti per i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro. Con le dichiarazioni di emersione da parte dei datori di lavoro desiderosi di regolarizzare le posizioni contributive dei loro dipendenti, i suddetti si impegnano ad erogare una retribuzione non inferiore a quella prevista nei contratti collettivi nazionali, ottenendo in cambio per il passato la possibilità di un concordato (tributario e) previdenziale, e per il futuro, un regime contributivo attenuato. 6. Minimale e massimale Gli istituti del minimale e del massimale vengono in rilievo tanto sotto l’aspetto contributivo che sotto quello delle prestazioni. Dal punto di vista contributivo, il minimale è l’importo minimo su cui vengono calcolati i contributi, qualora la retribuzione venga corrisposta in una misura inferiore. La ratio dell’istituto è di ripartire equamente gli oneri economici derivanti dall’erogazione delle prestazioni previdenziali, evitando di addossarli in misura eccessiva sugli istituti assicuratori. La retribuzione sulla quale calcolare i contributi non può comunque essere inferiore a quella prevista dai contratti collettivi stipulati su base nazionale dalle organizzazioni maggiormente rappresentative ovvero dagli accordi individuali se migliorativi. (In caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dall’organizzazione sindacale dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativa nella categoria: c.d. contratto leader). La regola subisce però delle eccezioni: secondo il d. lgs. 276/2003, nel caso di contratto di somministrazione i contributi previdenziali sono versati per il loro effettivo ammontare anche in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo; analoga disposizione viene dettata in relazione ai contributi da versare sull’indennità di disponibilità spettante per il lavoro intermittente. (Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, opera invece la regola del minimale: la retribuzione minima oraria sulla quale calcolare i contributi si determina rapportando il minimale giornaliero alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale e dividendo l’importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale previsto per i lavoratori a tempo pieno). Rimanendo sempre in ambito contributivo, il massimale consiste invece nella cifra massima su cui vengono calcolati i contributi. Per il servizio sanitario esiste per es. un massimale oltre il quale il contributo non viene calcolato. Per i contributi INPS non esisteva un massimale: qualunque fosse l’ammontare della retribuzione, sulla stessa occorreva calcolare i contributi; in seguito è stato introdotto il massimale sulle contribuzioni. 4. periodi di assenza obbligatoria e facoltativa dal lavoro per gravidanza e puerperio non retribuiti, ovvero in relazione ai periodi di assenza per congedo genitoriale nei primi 8 anni di vita del bambino o di permesso per i genitori di minore con handicap in situazione di gravità; 5. periodi di aspettativa per ricoprire cariche pubbliche elettive o cariche sindacali provinciali o nazionali. Sono invece accreditati d’ufficio: 1. periodi in corrispondenza dei quali vi è erogazione dell’indennità di disoccupazione; 2. periodi in cui l’assicurato percepisce il trattamento di cassa integrazione guadagni; 3. periodi in corrispondenza dei quali si percepisce l’indennità di tubercolosi; 4. periodi in cui si sono avute omissioni contributive da parte di datori di lavoro, nei casi di fallimento o di crisi dell’azienda, determinata da eccezionali calamità naturali; 5. periodo durante il quale si è percepita la pensione ordinaria d’inabilità; 6. periodo nel quale si è percepito l’assegno ordinario di invalidità; 7. periodo nel corso del quale il rapporto è regolato da contratti di solidarietà difensivi; 8. periodi non lavorativi concessi ai donatori d sangue per esigenze fisiche di recupero. 11. Il riscatto Ai fini della maturazione del diritto alla pensione e dell’incremento del quantum della stessa, l’assicurato può richiedere il versamento a suo carico di contributi effettivi in relazione a determinati periodi di tempo nel corso dei quali non ha svolto attività lavorativa. È possibile riscattare presso l’INPS gli anni del corso legale di laurea (i dipendenti pubblici possono riscattarsi gli anni di laurea solo se quest’ultima sia necessaria in relazione alla qualifica del pubblico impiegato), ovvero gli anni di lavoro subordinato svolto all’estero. I lavoratori dipendenti con almeno 5 anni di contribuzione effettiva possono riscattare periodi corrispondenti a quelli di assenza facoltativa dal lavoro per gravidanza e puerperio e periodi di congedo per motivi familiari concernenti l’assistenza e cura di disabili in misura non inferiore all’80%. Detta facoltà, esercitatile in misura non superiore a 5 anni, non è cumulabile col riscatto degli anni di laurea, e può essere effettuata anche se il periodo si riferisce a prima dell’inizio dell’attività lavorativa. Ulteriori ipotesi di riscatto operano nel caso previsto dalla l. 335/1995, in base alla quale la copertura assicurativa senza oneri e a carico dello Stato è consentita nei casi di interruzione del lavoro consentita da apposite disposizioni di legge per la durata massima di tre anni. Il riscatto è altresì consentito per i periodi di formazione professionale, studio, ricerca ed inserimento nel mercato del lavoro privi di copertura assicurativa in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive; è altresì consentito alle medesime condizioni in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive che svolgono attività di lavoro dipendente in forma stagionale, temporanea o discontinua, in relazione ai periodi non coperti da contribuzione obbligatoria o figurativa. Il d. lgs. 564/1996 prevede inoltre analoga facoltà anche a favore dei lavoratori a tempo parziale. 12. La ricongiunzione Il lavoratore dipendente, pubblico o privato, può ricongiungere presso l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti gestita dall’INPS i contributi (effettivi, volontari e figurativi) accreditati presso forme di previdenza esclusive o sostitutive. Questa ricongiunzione, il cui costo è nullo, avviene ai fini del diritto e della misura di un’unica pensione. I contributi sono trasferiti con una maggiorazione pari all’interesse composto annuo del 4,5 % e, nel caso di trasferimento da parte dell’ordinamento dello Stato, i contributi di pertinenza del datore sono calcolati con riferimento alle aliquote vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria dell’INPS. Viene poi contemplata l’ipotesi di ricongiunzione presso il regime dell’assicurazione generale obbligatoria INPS a favore dei lavoratori autonomi assicurati presso le gestioni speciali dello stesso INPS (commercianti, artigiani, coltivatori diretti); in questo caso sono però previste delle limitazioni, perché i lavoratori autonomi sono tenuti al versamento di contributi in misura inferiore rispetto ai lavoratori dipendenti. Di conseguenza l’INPS sarebbe tenuto ad erogare le medesime prestazioni a fronte di un minore ammontare di contributi, con evidente svantaggio economico. La differenza economica resterebbe quindi a carico dell’INPS, se il trasferimento avvenisse a titolo gratuito. Pertanto è previsto che i lavoratori autonomi che intendano avvalersi della facoltà di ricongiunzione sono tenuti al versamento di una somma aggiuntiva, pari al 50% della differenza tra l’ammontare dei contributi trasferiti e l’importo della riserva matematica (la riserva matematica è il valore, alla data della domanda, dei maggiori oneri differiti gravanti sulla gestione per l’incremento della pensione). Si richiede altresì l’ulteriore requisito che all’atto della presentazione della domanda possa farsi valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti pari ad almeno 5 anni. La legge contempla la facoltà di trasferire i periodi di contribuzione obbligatoria, volontaria e figurativa ovunque maturati presso una qualunque gestione diversa dall’assicurazione generale obbligatoria INPS. Questa facoltà si estende ai lavoratori autonomi, alla condizione che colui che richiede la ricongiunzione al momento della domanda sia iscritto alla gestione presso la quale si chiede la ricostituzione della posizione contributiva, ovvero possa vantarvi almeno 8 anni di contribuzione effettiva. Inoltre occorre che all’atto della presentazione della domanda l’istante possa far valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti pari ad almeno 5 anni. La legge predispone che della facoltà di ricongiunzione il soggetto possa avvalersene una sola volta, salvo che successivamente alla prima possano farsi valere almeno altri 10 anni di contribuzione, di cui 5 a titolo effettivo: diversamente, può esercitarsi solo all’atto del pensionamento, e solo presso la gestione nella quale era stata precedentemente accentrata la posizione assicurativa. Se l’interessato non versa, in tutto o in parte, l’ammontare da lui dovuto, la legge dice che s’intende che l’interessato abbia rinunciato alla facoltà di porre in essere la ricongiunzione, ma ciò è inesatto: l’interessato potrà sempre ripresentare una seconda domanda. Le norme per la determinazione del diritto e della misura della pensione unica derivante dalla ricongiunzione sono quelle in vigore nella gestione presso cui si accentra la posizione assicurativa. Ove per un qualunque motivo vi sia pluralità di contributi (per es. figurativi ed effettivi) in relazione ad un medesimo periodo di tempo, sono presi in considerazione quelli effettivi. In mancanza, resta utile un solo tipo di contribuzione, e precisamente quella di importo più elevato. L’articolo prosegue disponendo che i contributi volontariamente versati sono restituiti agli interessati nel caso di ricongiunzione presso l’INPS, e sono invece calcolati a scomputo della somma dovuta dal richiedente nel caso di ricongiunzione presso diverso istituto. La facoltà di ricongiunzione può essere operata anche dai superstiti, ossia dagli aventi diritto alle pensioni di reversibilità. Diverse questioni si prospettano in materia di ricongiunzione. Prima dell’emanazione della l. 29/1979, l’ordinamento contemplava la possibilità di ricongiunzione dei periodi assicurativi maturati presso l’INPS a favore dell’INPDAI; la fattispecie, che oggi rientrerebbe nel campo d’applicazione della legge in esame, era connotata tuttavia dalla gratuità del passaggio. Ci si è pertanto chiesti se, a seguito dell’entrata in vigore della l. 29/1979, rimanesse in vigore o meno la regola della gratuità della ricongiunzione in esame. La questione va probabilmente risolta in senso positivo: la l. 29/1979, pur successiva alla legge disciplinante la ricongiunzione dall’INPS all’INPDAI, ha carattere generale e pertanto si considera inidonea ad incidere sulla precedente normativa, avendo quest’ultima carattere particolare. Un’altra questione concerneva la possibilità di ricongiunzione contributiva dei liberi professionisti, quali avvocati, ingegneri, architetti, dottori commercialisti, etc., esercenti la libera professione: in precedenza non vi era questa possibilità, mentre ora essa esiste, a titolo oneroso. 13. La totalizzazione L’assicurato che non sia in grado di operare la ricongiunzione a causa della sua eccessiva onerosità può comunque avvalersi dei diversi periodi contributivi, ovunque maturati. Viene quindi in rilievo il diverso istituto della totalizzazione. È consentito all’assicurato, previo cumulo, di utilizzare pro rata i periodi contributivi (non coincidenti) maturati nelle singole gestioni al (solo) fine di perfezionare la fattispecie costitutiva del diritto a pensione di vecchiaia o di inabilità. Ciascun ente presso il quale l’assicurato vanti dei periodi di contribuzione calcolerà quale sarebbe la prestazione che erogherebbe a fronte dell’anzianità contributiva ed assicurativa dell’interessato in base al proprio regime. Le singole quote sono poi erogate dall’ente tenuto ad effettuare l’esborso maggiore, salvo rivalersi nei confronti degli altri enti. È necessario che tramite la totalizzazione venga raggiunta il requisito contributivo in tutte le gestioni che concorrono alla totalizzazione medesima: se per es. l’assicurato ha maturato 5 anni di contributi presso una cassa di previdenza professionale che richiede 30 anni di contribuzione per il sorgere del diritto a pensione, e per es. altri 20 anni di Altro indice nello stesso senso è costituito dalla perequazione automatica delle pensioni. Gli interventi più recenti mirano a ricostituire una più esatta proporzione fra la misura dei contributi versati da ogni lavoratore e l’entità dei trattamenti pensionistici a lui riconosciuti. In passato la dottrina aveva richiamato tre istituti per affermare una mutata concezione della previdenza sociale, ma nella cui evoluzione legislativa più recente altra parte della dottrina (ad es. Roberto Pessi) ha ravvisato invece il riaffiorare della più antica impostazione. Occorre anzitutto richiamare l’istituto dei minimali di prestazione, diretto a garantire una pensione d’ammontare minimo a chi avesse comunque versato contributi che, capitalizzati, avrebbero dato diritto ad una pensione di quell’importo. Si prevedeva così l’erogazione di una integrazione al minimo, ad integrale carico dello Stato. La l. 335/1995 ha però disposto il riconoscimento del diritto alla pensione anticipata solo nell’ipotesi in cui l’importo della pensione da liquidarsi fosse pari ad almeno 1,2 volte l’importo dell’assegno stesso. Analoga oscillazione si rinviene nei criteri di calcolo delle pensioni a seguito delle novità introdotte dalla riforma del 1995, che segna un ritorno all’originario sistema di tipo contributivo. Qual è la differenza fra sistema retributivo e contributivo? In origine il quantum della pensione veniva calcolato sull’ammontare dei contributi versai e sulla data dei versamenti, dedotte le spese di gestione dell’istituto previdenziale (sistema contributivo). Successivamente la determinazione dell’importo fu sganciata dai suddetti parametri, poiché la pensione veniva calcolata in via percentuale sulla media delle retribuzioni percepite negli ultimi anni di lavoro. In tale sistema, detto retributivo, la situazione di bisogno veniva quindi determinata in relazione al livello di reddito dell’assicurato, piuttosto che sui contributi. Correlativo a tale modifica è il passaggio da un sistema di finanziamento delle prestazioni previdenziali a capitalizzazione ad uno a ripartizione (patto di solidarietà intergenerazionale). In conclusione l’ordinamento garantisce, di fatto, una tutela che non può ricondursi ad una logica meramente assicurativa, e ciò almeno per un triplice ordine di motivi: F 0 6 1 F 0 2 E il ritorno ad un sistema contributivo non significa che si sia tornati ad un sistema di stampo assicurativo: permane la caratteristica del finanziamento del sistema tramite ripartizione; F 0 6 2 F 0 2 E ragioni di bilancio possono legittimamente richiedere una maggiore solidarietà; F 0 6 3 F 0 2 E la Costituzione impone un vero e proprio risultato a favore dei lavoratori colpiti da eventi generatori di bisogno, consistente nell’erogazione di prestazioni adeguate. Ciò a prescindere dalle fonti di finanziamento del sistema. La discrezionalità legislativa si può quindi legittimamente esercitare sul quantum delle prestazioni, mai sull’an. Sul punto la Corte costituzionale ha stabilito che il concetto di adeguatezza delle prestazioni impone una fissazione dell’ammontare delle stesse in un punto intermedio tra il c.d. minimo vitale ed i mezzi idonei a garantire il tenore di vita raggiunto dal lavoratore. Anche nell’ottica del principio di solidarietà, il mancato riconoscimento della prestazione previdenziale si può giustificare allorquando, a fronte di un elevato costo sociale necessario per erogare la medesima, il singolo assicurato consegua un’utilità minima: in questo senso l’abrogazione della norma relativa all’integrazione al minimo non si configura come un abbandono della concezione finalizzata alla liberazione dal bisogno: il livello minimo di prestazioni viene infatti comunque assicurato attraverso l’assegno sociale. Né può lamentarsi lesione del principio anzidetto nella previsione del requisito dell’entità minima della pensione (una volta ed un quinto l’ammontare del minimo), poiché quando dovesse risultare una somma di ammontare irrisorio o comunque inferiore al minimale di prestazione, questa sarà comunque liquidata al raggiungimento del 65° anno di età anagrafica. Dal 38 Cost. traspare una concezione dell’uomo (essenzialmente) come produttore,imprenditore o prestatore di lavoro; chi non assurge a tale ruolo viene conseguentemente “svalutato”. In quest’ottica, devono allora guardarsi con favore istituti quali il Servizio Sanitario Nazionale. 2. Le singole prestazioni: la pensione di vecchiaia 2.1 Evoluzione storica del sistema: la legge del 1969 e la riforma del 1992 In seguito alla riforma del 1969, il diritto alla pensione di vecchiaia spettava (fino al 1992) a coloro che avessero potuto vantare i seguenti requisiti: F 0 6 1 F 0 2 E assicurazione di durata pari ad almeno 15 anni; F 0 6 2 F 0 2 E contribuzione per un minimo di 15 anni, anche se non continuativa, pari a 780 contributi settimanali; F 0 6 3 F 0 2 E un’età minima di 60 anni se uomini, di 55 se donne. Quanto al primo dei requisiti, l’assicurazione prende data dal primo contributo versato, e non coincide necessariamente con il periodo di contribuzione. Quanto all’età anagrafica, deve precisarsi che i requisiti di età sono necessari ai fini della maturazione del diritto, ma non comportano l’obbligo di andare in pensione. Il d. lgs. 503/1992 ha innalzato i limiti suddetti, portando a 20 anni gli anni di assicurazione e contribuzione richiesti, e a 65 o 60 anni, rispettivamente per gli uomini e le donne, l’età richiesta. Il calcolo delle prestazioni pensionistiche avveniva prendendo a base non i contributi in precedenza versati dallo stesso assicurato, ma la retribuzione pensionabile. La l. 67/1988 disponeva che l’importo da prendere a base per il calcolo della pensione coincideva con la media annuale delle retribuzioni percepite nelle ultime 260 settimane di contribuzione (in pratica gli ultimi 5 anni di lavoro) e che a tale fine queste dovevano essere previamente rivalutate. Per i dipendenti pubblici veniva invece presa a base l’ultima retribuzione percepita all’atto della cessazione dal servizio, solitamente la più alta lungo tutto l’arco della carriera. Con la riforma del 1992 del sistema pensionistico il legislatore ha elevato il periodo temporale al quale fare riferimento per il calcolo della retribuzione media pensionabile: si è prevista così una graduale entrata in vigore della normativa distinguendo a seconda che l’assicurato, al 31 dicembre 1992, avesse già maturato un’anzianità contributiva di almeno 15 anni. In caso positivo, la media retributiva non si sarebbe calcolata prendendo immediatamente a riferimento gli ultimi 10 anni, ma sulla base di un sistema che elevava il periodo di riferimento di un anno ogni due, fino a tutto il 2001, anno oltre il quale la retribuzione pensionabile viene immediatamente calcolata sull’ultimo decennio. Nei confronti di coloro che alla data del 31 dicembre 1992 non avessero potuto far valere 15 anni di anzianità contributiva, invece, la legge di riforma ha previsto che il periodo di riferimento rimanga fissato a 5 anni, ma che questi fossero incrementati dai periodi contributivi che intercorrono tra la predetta data e quella immediatamente precedente la decorrenza della pensione. Chi per es. al 31 dicembre 1992 avesse maturato 14 anni di contribuzione e andasse in pensione all’1 gennaio 2008 si vedrebbe calcolare la retribuzione media sugli ultimi 20 anni (infatti ai 5 anni dovrà aggiungersi la differenza fra il 31 dicembre 1992 ed il 31 dicembre 2007, pari a 15 anni). Nel sistema retributivo, sulla retribuzione pensionabile deve applicarsi una percentuale, in origine pari al doppio degli anni di contribuzione, fino ad un massimo di 40 anni, di modo che la prestazione pensionistica INPS può al massimo essere pari all’80% (40 F 0B 7 2%) della retribuzione pensionabile. Ne discende che gli anni di contribuzione ulteriori rispetto alla soglia predetta risultano ininfluenti rispetto al calcolo della pensione (se non limitatamente all’incremento della media di riferimento). Per altro verso, poi, l’importo della pensione era limitato da un massimale. Una simile conseguenza appariva però iniqua a quanti potessero vantare retribuzioni più elevate del massimale predetto, anche alla luce del fatto che in questo modo l’INPS finiva per erogare trattamenti che, al cospetto di altri istituti assicuratori, erano di importo meno elevato, pur a fronte di un onere contributivo più alto: così nel caso dell’INPDAI, il cui regime comportava obblighi contributivi meno onerosi e che applicava una percentuale, da moltiplicare per gli anni di servizio, pari al 2,66%. È stato pertanto modificato il sistema di calcolo delle pensioni, consentendo di prendere in considerazione anche la parte di retribuzione eccedente il limite massimo di retribuzione annua pensionabile. A tale fine la retribuzione pensionabile è stata ripartita in quattro fasce, determinando, in corrispondenza di ogni fascia di reddito, un’aliquota percentuale, di importo decrescente. La pensione viene ora dunque calcolata su tutta la retribuzione, quale che ne sia l’ammontare. Infine il d. lgs. 503/192 ha disposto un peculiare criterio di calcolo della pensione per coloro che risultino già assicurati in data anteriore al 1° gennaio 1993: il criterio, che potrebbe definirsi misto, prevede che l’ammontare della prestazione sia determinato dalla somma di due importi: l’uno calcolato secondo la normativa vigente in precedenza al d. lgs. 503/1992, per l’anzianità contributiva maturata anteriormente al 1° gennaio 1993; l’altro relativo all’anzianità contributiva maturata successivamente, secondo i criteri dettati dalla nuova normativa. Moltiplicando il montante contributivo per il coefficiente di trasformazione si determina l’importo annuo lordo della pensione di vecchiaia, che è suscettibile di rivalutazione annua. Rilevano in questo nuovo assetto le clausole di salvaguardia: si tratta di meccanismi di correzione cui si potrà ricorrere qualora la spesa per il sistema previdenziale dovesse riprendere a crescere in misura superiore alle previsioni. In particolare una disposizione consente al Ministro del lavoro di rideterminare ogni 10 anni i coefficienti di trasformazione. Accanto a questo meccanismo, la legge prevedeva un secondo tipo di clausola che consentiva al Governo di adottare misure di correzione già nel triennio successivo dall’entrata in vigore della legge. 2.5 Le regole previste per i lavori usuranti Sono attività usuranti quelle per il cui svolgimento è richiesto un impegno psico-fisico particolarmente intenso e continuativo, condizionato da fattori che non possono essere preveduti con misure idonee. Per coloro che svolgono dette attività sono previsti dei benefici, i quali consistono: F 0 6 1 F 0 2 E nella possibilità di riduzione dell’età richiesta per il pensionamento d’anzianità, nella misura di 2 mesi per ogni anno di occupazione in attività usuranti, fino ad una riduzione massima pari a 5 anni; F 0 6 2 F 0 2 E nella possibilità di riduzione dell’anzianità contributiva richiesta ai fini pensionistici, nella misura di un anno ogni 10 anni di occupazione usurante fino ad un massimo di 2 anni; F 0 6 3 F 0 2 E a favore di coloro le cui prestazioni siano liquidate esclusivamente col sistema contributivo, nella facoltà di scelta tra l’avvalersi della riduzione indicata sull’età pensionabile, che può essere anticipata fino ad un anno ovvero nell’applicazione di un coefficiente di trasformazione più elevato di quello normalmente previsto. 2.6 La pensione d’anzianità nella riforma del 1995 e nell’intervento del 2003 La pensione di anzianità viene meno nell’ambito del nuovo sistema contributivo, che conosce una prestazione unica. Il diritto al trattamento di anzianità permane pertanto esclusivamente a favore di coloro che siano già assicurati alla data di entrata in vigore della riforma. Nei confronti di questi ultimi, alcune norme di diritto transitorio individuano un periodo dal 1996 al 2008 nel corso del quale è possibile maturare il diritto al trattamento sulla base di un doppio requisito: sono necessari 35 anni di contribuzione, ma è altresì richiesta una certa età anagrafica, 57 anni. È prevista una fattispecie alternativa, per la quale il diritto alla prestazione si acquista indipendentemente dall’età anagrafica sulla base del solo requisito contributivo, elevato in misura crescente. La riforma mantiene in vita il sistema delle “finestre”. La legge di riforma 243/2004 modifica i requisiti di accesso alla pensione di anzianità, prevedendo dal 2008 l’innalzamento del requisito anagrafico da 57 a 60 anni di età (c.d. scalone). La riforma reintroduce una distinzione in base al sesso, consentendo alle lavoratrici di accedere alla pensione, anche dopo il 2008, coi requisiti previsti dalla normativa attualmente in vigore (35 anni di anzianità contributiva più 57 anni di età anagrafica), ma alla condizione che la pensione sia interamente calcolata col sistema contributivo. Si prevede la riduzione a due delle “finestre” a decorrere dal gennaio 2008. Quanto alla pensione liquidata col sistema contributivo, la riforma più recente eleva l’età pensionabile da 57 a 65 anni di età per gli uomini e 60 per le donne, a far data del 1° gennaio 2008. 3. Il regime previdenziale dei lavoratori non subordinati Già alla fine degli anni ’50 il legislatore istituì delle gestioni speciali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti e gli altri lavoratori a questi ultimi assimilati. Ex 35.1 Cost. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, senza aggettivazioni. Alcune previsioni di ordine tributario e processuale nell’ambito della qualificazione dei rapporti di lavoro avevano individuato una categoria residuale nella quale far confluire prestazioni che, pur senza essere rese nell’ambito di un contratto di lavoro subordinato (2094), erano carenti dei requisiti propri delle forme di lavoro autonomo che trovano specifica regolamentazione di legge. Nell’ambito del contratto d’opera (2222) veniva quindi ad essere enucleata la speciale situazione di quei lavoratori che, pur al di fuori di un vincolo di subordinazione nella fase di esecuzione del contratto, si trovano ad effettuare una prestazione d’opera professionale prevalentemente personale, continuativa e coordinata. Si intendeva quindi alludere a soggetti che intrattengono con le imprese un rapporto di collaborazione stabile, caratterizzato però dall’assenza di controllo sul momento dell’esecuzione della prestazione lavorativa, al pari di quanto tradizionalmente avviene per gli agenti (1742 ss.). Bastava poco perché anche lavoratori che pur si trovavano ad operare alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro (secondo i dettami del 2094) venissero fatti passare per “collaboratori coordinati e continuativi”, allo scopo di un totale azzeramento degli oneri contributivi obbligatori. Per tali lavoratori infatti la legge nulla aveva disposto in passato. Il risultato è stato quello di una incontrollata crescita di tali figure. A tale situazione ha inteso porre rimedio il legislatore della riforma del 1995 istituendo presso l’INPS una ulteriore gestione, nella quale raccogliere sia i lavoratori autonomi che pur iscritti ad un albo professionale fossero privi di una specifica disciplina contributiva, sia tutti i rapporti di lavoro che si concretassero in una collaborazione coordinata e continuativa. Tale speciale disciplina trova applicazione non tanto in relazione ad un profilo soggettivo, e dunque con riguardo a quanti svolgano in via esclusiva attività di collaborazione (come per il caso di coloro che esercitino stabilmente l’attività di amministratori di condominio), ma in via oggettiva, imponendo l’iscrizione alla c.d. “quarta gestione” altresì a quanti, seppur occasionalmente, si trovino ad effettuare una prestazione lavorativa connotata dalle caratteristiche di continuatività e coordinamento. Attraverso le previsioni di cui al d. lgs. 276/2003 si è poi registrato un tentativo di chiarificazione della situazione di tali lavoratori, creando una nuova fattispecie sostanziale, quale il lavoro a progetto. Il d. lgs. 276/2003 ha previsto infatti che le collaborazioni coordinate e continuative dovessero essere ricondotte allo schema contrattuale del lavoro a progetto, qualificando tale fattispecie come una forma di lavoro autonomo in cui il lavoratore assume l’incarico di eseguire un progetto od un programma di lavoro, concordando col committente le modalità di esecuzione, la durata del rapporto, i criteri di esecuzione dell’opera ed i tempi di corresponsione del compenso. 3.1 Lavoratori agricoli, commercianti, artigiani Nell’ambito dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale sono state costituite tre gestioni speciali per l’assicurazione di invalidità, vecchiaia e per i superstiti per lavoratori che effettuano la loro prestazione al di fuori di un vincolo di subordinazione. A queste gestioni si è recentemente aggiunta una ulteriore (quarta) gestione, a carattere residuale. Alla gestione speciale sono oggi iscritti i coltivatori diretti, i coloni ed i mezzadri, nonché gli imprenditori agricoli professionali. Alla gestione degli artigiani possono iscriversi, oltre gli artigiani, anche i “familiari coadiuvanti”. Alla gestione per gli esercenti l’attività commerciale sono iscritti quanti esercitino un’attività commerciale, turistica od un’altra delle attività del terziario, oltre ai familiari “coadiutori”. La legge ha esteso l’obbligo di iscrizione a tutti i lavoratori autonomi che operino nel settore terziario e che svolgano la propria opera abituale e prevalente in attività organizzate di natura commerciale, turistica, di produzione, di intermediazione e produzione di servizi. La riforma del 1995 ha introdotto anche per tali lavoratori il metodo contributivo. Nel sistema retributivo, la pensione di vecchiaia viene liquidata al raggiungimento dell’età pensionabile (65 anni per gli uomini e 60 per le donne) in presenza di un’anzianità contributiva di 20 anni; la pensione di anzianità spetta, oltre all’ipotesi di un’anzianità contributiva di 40 anni, ai lavoratori con un’età anagrafica di 58 anni, al raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 35 anni. Vengono altresì erogati trattamenti di maternità, nonché trattamenti di famiglia. 3.2 I liberi professionisti Già il codice civile nel definire il contratto d’opera intellettuale delineava uno status speciale per le professioni intellettuali, stabilendo che per l’esercizio di esse fosse necessaria l’iscrizione in appositi albi od elenchi, prefigurando indirettamente una speciale tutela previdenziale per tali soggetti. Le leggi che regolano le singole professioni intellettuali prevedono ai fini previdenziali l’obbligo dell’iscrizione ad una cassa di categoria per quanti esercitino in via abituale la professione regolata. Ogni singola Cassa è stata dotata di autonomia contabile ed organizzativa (c.d. privatizzazione). Un regime speciale è poi previsto per i soggetti che svolgono una attività autonoma di libera professione senza vincolo di subordinazione, per il cui esercizio sia necessaria l’iscrizione in appositi albi od elenchi, nel caso in cui non sia stata costituita un’apposita cassa di categoria. 4. Il regime previdenziale degli iscritti alla c.d. “quarta gestione” La l. 335/1995 ha previsto l’istituzione di un’apposita Gestione separata, presso l’INPS, per: (denominata nel settore pubblico “anticipata”), è prevista ora un’anzianità contributiva pari a 35 anni, come per i dipendenti del settore privato. Nel caso di dimissioni alle donne coniugate o comunque con prole a carico spettava un aumento dell’anzianità di servizio fino a 5 anni: tale disposizione ha fatto sì che molte lavoratrici potessero andare in pensione con solo 11 anni di attività effettivamente espletata (c.d. pensioni baby). Anche la disciplina dei dipendenti di enti locali, assicurati (un tempo presso la CPDEL, ed ora presso l’INPDAP), ha risentito della portata riformatrice del d. lgs. 503/1992. La precedente normativa contemplava come requisito per la pensione anticipata (erogabile a prescindere dall’età) la cessazione del rapporto d’impiego dopo 20 anni di servizio a causa della soppressione dell’ufficio o riduzione di organico, per incapacità professionale o scarso rendimento, o per le altre cause tassativamente previste dalla legge, ovvero dopo 25 anni di servizio utile nel caso di dimissioni. Il d. lgs. 503/1992, analogamente a quanto disposto per il settore dei dipendenti dello Stato, distingue tra coloro che alla data del 1° gennaio 2003 abbiano maturato o meno un’anzianità di servizio superiore ad otto anni, elevando proporzionalmente nel primo caso gli anni di anzianità richiesti in base ai parametri descritti supra, ed imponendo nel secondo caso il conseguimento dei 35 anni di servizio. La normativa contemplava anche l’ipotesi della pensione di vecchiaia, od ordinaria, i cui requisiti erano dati dal conseguimento dei 60 anni per gli uomini e 55 per le donne, e da 15 anni di servizio utile. Il legislatore ha innalzato i suddetti limiti: ora occorre un’età di 65 anni per gli uomini e di 60 per le donne, oltre ad un’anzianità di servizio di 20 anni. La legge di riforma del 1995 consegue una maggiore armonizzazione tra i vari regimi pensionistici: F 0 6 1 F 0 2 E accanto all’istituzione di una gestione separata in seno all’INPDAP per i trattamenti pensionistici dei dipendenti dello Stato, si previde che il trattamento di fine servizio, comunque denominato, fosse regolato in base a quanto previsto dal 2120 (Disciplina del trattamento di fine rapporto); F 0 6 2 F 0 2 E la legge ha allineato la base contributiva e pensionabile per i dipendenti pubblici a quella del settore privato; F 0 6 3 F 0 2 E si è prevista, nelle ipotesi di liquidazione con il sistema retributivo, l’estensione del regime della pensione d’inabilità; F 0 6 4 F 0 2 E nel caso di pensioni dovute per cessazione dal servizio per raggiunti limiti d’età, infermità o morte, ovvero a titolo di reversibilità, si dispone l’estensione della disciplina prevista per l’integrazione al minimo; F 0 6 5 F 0 2 E si è stabilito infine che le lavoratrici dipendenti da amministrazioni pubbliche potessero accedere al pensionamento di vecchiaia già al sessantesimo anno di età, allineando così la normativa sull’età pensionabile a quella prevista nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti. Per il resto la disciplina della riforma del 1995 ha realizzato una parificazione pressoché totale fra il regime applicabile ai dipendenti pubblici ed a quelli privati, applicando anche ai primi il metodo contributivo per quanti fossero stati assunti successivamente alla data di entrata in vigore della riforma. Tuttavia, è stata prevista l’applicazione di un metodo misto per il calcolo del trattamento pensionistico per tutti coloro che avessero già maturato un’anzianità contributiva di 18 anni, consentendo la facoltà di opzione fra i due sistemi a quanti vantassero un’anzianità di 5 anni. L’età pensionabile è fissata in 60 anni per le donne e 65 per gli uomini, ma numerose disposizioni consentono una prosecuzione biennale od anche quinquennale. L’anzianità contributiva richiesta è pari a 20 anni. La pensione di anzianità viene riconosciuta anche prima del raggiungimento dell’età pensionabile, purché si sia in presenza di un’età anagrafica, ora fissata in 57 anni, e di 35 anni di contribuzione, oppure di una certa anzianità contributiva, indipendentemente dal requisito anagrafico. Deve notarsi che ai fini dell’acquisizione del diritto alla pensione il dipendente civile dello Stato ha diritto alla pensione normale a fronte di 20 anni di servizio “effettivo”. Per servizio effettivo s’intende il periodo di tempo nel corso del quale vi sia stata attività lavorativa presso lo Stato e correlativa contribuzione, ma non solo: integrano infatti tale servizio anche attività espletate in un tempo anteriore alla nomina in ruolo dell’impiegato statale. (L’ammontare dei contributi necessari per il riscatto si determina con riferimento alla retribuzione percepita al momento della presentazione della domanda). Diverso dal servizio effettivo è il servizio valutabile: quest’ultimo viene in considerazione ai soli fini del calcolo del quantum della pensione, e non dell’an. Il servizio valutabile è dato dal servizio effettivo più gli aumenti previsti per il servizio utile, ossia periodi di tempo che vengono calcolati in relazione all’esercizio di mansioni particolari. Gli aumenti derivanti dal servizio utile valgono esclusivamente ai fini del calcolo dell’ammontare della pensione, e non anche ai fini della maturazione del diritto alla stessa. Il limite massimo del servizio utile è pari a 40 anni. 7. Il cumulo tra pensione e reddito da lavoro Uno dei nodi cruciali di ogni riforma del sistema pensionistico è dato dal problema del cumulo dei redditi da lavoro, autonomo o dipendente, con le prestazioni pensionistiche. Volendo tentare una sintesi delle norme attualmente vigenti, si deve tener presente che, per quanto concerne il cumulo della pensione di vecchiaia, liquidata esclusivamente col sistema contributivo, con i redditi da lavoro dipendente od autonomo, occorre distinguere a seconda dell’età dell’assicurato: F 0 6 1 F 0 2 E per gli assicurati di età pari o superiore a 63 anni, i redditi da lavoro dipendente od autonomo sono cumulabili con la misura minima delle pensioni e col 50% del residuo importo della pensione (ipotizzando una pensione di euro 1.200.00 (con minimale pari a 600.00), il pensionato potrà trattenere il minimo (600.00) più il 50% del residuo (quindi il 50% di 600.00, pari a 300.00): in totale, 900.00); F 0 6 2 F 0 2 E per i pensionati di età inferiore ai 63 anni, la prestazione liquidata col metodo contributivo non è cumulabile coi redditi da lavoro dipendente nella loro interezza, mentre è cumulabile col reddito da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente il trattamento minimo, e comunque fino a concorrenza coi redditi stessi. Per la pensione di vecchiaia liquidata col sistema retributivo, è disposta la possibilità di un cumulo pieno con i redditi da lavoro dipendente ed autonomo. Per quanto concerne la pensione d’anzianità, si dispone la possibilità del cumulo totale in tre sole ipotesi: F 0 6 1 F 0 2 E nel caso in cui il lavoratore abbia comunque raggiunto i 40 anni di anzianità contributiva; F 0 6 2 F 0 2 E nell’ipotesi in cui l’età anagrafica sia superiore a 58 anni ed i contributi versati siano pari ad almeno 37 anni; F 0 6 3 F 0 2 E nel caso in cui il pensionato abbia raggiunto l’età della pensione di vecchiaia. In assenza di tali condizioni, la pensione di anzianità non può esser cumulata con redditi da lavoro dipendente, mentre è ammessa una cumulabilità parziale coi redditi da lavoro autonomo, nella misura del 30% della quota eccedente il minimo e comunque nei limiti del 30% del reddito da lavoro autonomo. 8. L’assegno (già pensione) d’invalidità La disciplina in precedenza vigente assumeva come elemento costitutivo necessario ai fini del sorgere del diritto una riduzione della capacità di guadagno in misura superiore a 2/3. Occorreva poi un periodo di almeno 5 anni di assicurazione ed altrettanti di contribuzione. Per capacità di guadagno si intende la capacità di continuare a svolgere la medesima attività lavorativa svolta in precedenza dal soggetto infortunatosi. Si noti la differenza col concetto della capacità di lavoro, operante nel campo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali: quest’ultimo criterio sta ad indicare la generica capacità del soggetto assicurato a svolgere un qualunque genere di attività lavorativa. In sintesi, F 0 6 1 F 0 2 E l’INPS eroga la pensione in esame qualunque sia la causa della lesione, mentre l’INAIL eroga una rendita solo se l’infortunio avviene in occasione del lavoro; F 0 6 2 F 0 2 E l’INPS richiede requisiti contributivi ed assicurativi di almeno 5 anni, mentre l’INAIL non ne pone (trova infatti piena applicazione il principio della automaticità delle prestazioni); F 0 6 3 F 0 2 E la percentuale d’incapacità richiesta dall’INPS è pari a più di 2/3 (e prendeva a base la capacità di guadagno), mentre l’INAIL eroga la rendita a fronte di una diminuzione superiore al 16% della capacità di lavoro; F 0 6 4 F 0 2 E per il calcolo dell’indennità l’INPS prende a base l’ammontare ed il valore dei contributi versati, mentre l’INAIL applica un sistema misto che prevede due elementi (uno a-reddituale in ragione della misura della lesione, in correlazione con l’età del soggetto, ed un altro dove le percentuali sono messe in rapporto con l’importo della retribuzione). Ai fini della concessione del trattamento pensionistico l’INPS doveva tenere in considerazione la situazione socio-economica della provincia ove risiedeva l’infortunato. Il legislatore è intervenuto prevedendo sul punto il diritto dell’assicurato a due distinte prestazioni: l’assegno ordinario d’invalidità e la pensione ordinaria d’inabilità; quest’ultima viene corrisposta all’assicurato solo se sia rimasto incapace nella misura del 100% e non nel caso di lesioni inferiori. da parte dell’assicurato, solo alla condizione che lo stesso si fosse protratto per almeno due anni. Eguale diritto spetta, nel caso di separazione, al coniuge cui non sia stata addebitata la stessa. Qualora l’assicurato sia passato a nuove nozze e vi sia, dunque, anche un coniuge superstite, la giurisprudenza, in presenza delle condizioni anzidette, ha riconosciuto al coniuge divorziato il diritto di ottenere una quota della pensione di reversibilità, dividendo così fra i due (o più) superstiti il trattamento di reversibilità, in base alla durata legale dei rispettivi matrimoni. Il passaggio a nuove nozze comporta per il coniuge divorziato il venir meno di detta quota; F 0 6 2 F 0 2 E i figli minorenni, ove siano studenti di età compresa fino ai 21 anni, elevata a 26 se universitari (ma nei limiti della durata del c orso legale di laurea), a carico e senza attività lavorativa alla data del decesso, ed infine a qualunque età se inabili. Il figlio ha diritto ad una quota pari al 70%, ove sia il solo superstite; se i figli superstiti sono due, la quota individuale è pari al 40%; se i figli sono tre o più il trattamento di reversibilità è pari all’esatto ammontare della pensione dell’assicurato; F 0 6 3 F 0 2 E in mancanza delle persone suddette, i genitori dell’assicurato deceduto che abbiano compiuto i 65 anni di età e non godano di trattamenti pensionistici, e, in mancanza anche di questi ultimi, i fratelli celibi e le sorelle nubili che siano inabili ed a carico dell’assicurato. La l. 335/1995 stabilisce che nel caso in cui il trattamento debba essere liquidato esclusivamente secondo il sistema contributivo, qualora non sussistano i requisiti per la pensione ai superstiti in caso di morte dell’assicurato (cioè almeno cinque anni di anzianità contributiva), ai medesimi superstiti, che non abbiano diritto a rendite per infortunio sul lavoro o malattia professionale in conseguenza del predetto evento e che si trovino in particolari condizioni di reddito, compete un’indennità una tantum. La riforma ha altresì disposto dei limiti all’importo del trattamento oggetto di reversibilità, in relazione al reddito del superstite che ne benefici, ma non si può ridurre il reddito del titolare al di sotto del livello della fascia inferiore. Le riduzioni inoltre non si applicano quando nel nucleo familiare siano presenti anche figli minori, studenti od inabili (c.d. cristallizzazione). 11. La pensione supplementare La pensione supplementare spetta a quanti siano titolari di trattamenti pensionistici, presso forme di previdenza esclusive, sostitutive od esonerative, quando possano far valere dei contributi nei confronti dell’INPS, sia pure in misura insufficiente per il sorgere del diritto alla pensione di vecchiaia. Questa situazione postula che non vi sia stata ricongiunzione dei contributi in un’unica gestione. La liquidazione da parte dell’INPS di una pensione supplementare è subordinata al conseguimento dell’età pensionabile od al riconoscimento d’invalidità. (Se, dopo la liquidazione della pensione supplementare, vengono versati a favore del pensionato altri contributi nell’assicurazione obbligatoria, tali contributi danno diritto ai supplementi di pensione). Si tratta di un trattamento reversibile che spetta altresì anche agli iscritti alla gestione separata. 12. La perequazione automatica delle pensioni Con l’istituto della perequazione automatica il legislatore ha inteso far fronte alla diminuzione del reale potere d’acquisto delle pensioni, scemato dagli aumenti del costo della vita. L’istituto ha conosciuto diverse modalità di applicazione. Inizialmente l’aumento avveniva secondo il criterio del punto unico di contingenza: tutte le pensioni venivano aumentate di una cifra fissa uguale per tutti in relazione ad ogni punto di contingenza. In seguito si stabilì una perequazione semestrale,che operava tramite la variazione percentuale semestrale della scala mobile dei lavoratori dell’industria. Successivamente è stato disposto che l’istituto abbia cadenza annuale, e che l’aumento sia calcolato sull’effettivo incremento del costo della vita, e non sul tasso d’inflazione programmato. La percentuale di aumento si applica per l’intero sull’importo di pensione non eccedente il doppio del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, per il 90 % per gli importi compresi fra il doppio ed il triplo, per il 75% oltre il limite del triplo. 13. Il minimale di prestazione e la quota sociale Il minimale di prestazione è l’importo minimo che si ritiene adeguato a garantire una capacità di sostentamento dell’assicurato, in conformità al parametro costituzionale dell’adeguatezza. La c.d. integrazione al trattamento minimo è l’integrazione, fino alla concorrenza di un certo ammontare, automaticamente disposta con riguardo ai trattamenti pensionistici che risultino di importo inferiore al detto ammontare minimo. L’onere economico dell’integrazione resta a carico delle singole gestioni pensionistiche. Tale prestazione però non è più prevista a beneficio delle pensioni calcolate secondo il metodo contributivo. Per quanti non riescano a maturare, al momento del raggiungimento dell’età massima per la pensione l’importo minimo previsto per quel sistema, non resta che l’intervento dell’assegno sociale. La maggiorazione viene ricollegata dal legislatore ad una situazione di effettivo bisogno. L’integrazione al trattamento minimo non spetta ai soggetti che posseggano: F 0 6 1 F 0 2 E nel caso di persona non coniugata, redditi propri assoggettabili all’IRPEF per un importo superiore a due volte l’ammontare annuo del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti; F 0 6 2 F 0 2 E nel caso di persona coniugata, redditi propri per un importo superiore a due volte l’ammontare annuo del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, ovvero redditi cumulati con quelli del coniuge per un importo superiore a quattro volte il trattamento minimo. Alcune norme speciali hanno disposto più favorevoli limiti di reddito o trattamenti di importo più elevato rispettivamente per es. per quanti possano vantare una certa anzianità contributiva od anagrafica, o per quanti siano sprovvisti di reddito annuo al di sopra di un certo limite stabilito dalla norma. 14. L’assegno (e la pensione) sociale L’assegno (già pensione) sociale costituisce attuazione del 38 Cost., concretizzandosi in un trattamento riconosciuto in caso di bisogno al singolo, indipendentemente da ogni requisito contributivo. La prestazione, originariamente prevista nella forma della pensione sociale, ha ora la denominazione di “assegno”. Il diritto all’assegno sociale spetta ai cittadini italiani effettivamente residenti in Italia che abbiano compiuto 65 anni. Analogo diritto spetta ai residenti cittadini di San Marino o comunitari che abbiano svolto attività lavorativa, autonoma o subordinata in Italia; ai rifugiati politici residenti; ai cittadini extracomunitari che hanno ottenuto la carta di soggiorno. L’erogazione della prestazione è subordinata, in tutti i casi, alla condizione che l’interessato non sia titolare di alcun reddito ovvero lo sia per un ammontare inferiore a quello della pensione sociale. Nel caso che l’interessato sia coniugato e non legalmente separato, ovvero in comprovato stato di abbandono, i redditi cumulati dei coniugi non devono essere superiori ai limiti stabiliti dalla legge. L’assegno è erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti. Il reddito che costituisce base per il riconoscimento dell’assegno viene ad essere determinato secondo regole particolari: alla formazione del reddito, infatti, concorrono i redditi, al netto dell’imposizione fiscale e contributiva, di qualsiasi natura, nonché gli assegni alimentari. Non si computano nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati, le anticipazioni sui trattamenti stessi, le competenze arretrate soggette a tassazione separata, nonché il proprio assegno ed il reddito della casa di abitazione. L’onere dell’assegno (e già della pensione) sociale è a carico della gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, il cui finanziamento viene integralmente assicurato dallo Stato. (La distinzione tra previdenza ed assistenza sociale è stata basata su diversi criteri: sul fatto che i soggetti destinatari delle prestazioni concorrano o meno alla ripartizione dell’onere economico derivante dalle stesse, sullo status di lavoratore o di semplice cittadino degli stessi, etc.). La prestazione è esente da imposizione tributaria e non è reversibile; inoltre essa non è né cedibile né sequestrabile o pignorabile. La legge dispone la riduzione dell’assegno, fino ad un massimo del 50%, nel caso in cui l’interessato sia ricoverato in istituti o comunità con retta a carico di enti pubblici. Parte II: Interventi di sostegno al reddito e a tutela dei lavoratori. Misure di carattere assistenziale 1. Introduzione: controllo della spesa pensionistica e tutela del lavoratore sul mercato del lavoro L’INPS, a differenza dei fondi di previdenza complementare, non utilizza accantonamenti patrimoniali: il pagamento delle pensioni avviene usando le somme che l’Istituto ritrae mensilmente. Di conseguenza, l’equilibrio economico del sistema pensionistico rimane fragile. L’importo dell’indennità è stato fissato in misura percentuale, ed è oggi pari al 40% della retribuzione di riferimento, calcolata sulla base delle giornate lavorative degli ultimi tre mesi lavorativi. In costanza del trattamento in esame, vengono altresì corrisposti gli assegni per il nucleo familiare e viene riconosciuto l’accredito di contributi figurativi. Problemi particolari sono sorti in ordine all’interpretazione del requisito della “involontarietà” dello stato di disoccupazione: la normativa in materia, in conformità al 38.2 Cost., subordina infatti il diritto alla prestazione ad uno stato di disoccupazione involontaria. La legge dispone che quando la disoccupazione derivi da dimissioni, da licenziamento in tronco (i.e. per giusta causa), da sciopero o da serrata del datore, il diritto al trattamento non viene meno, ma il periodo indennizzabile è ridotto di trenta giorni dalla data di cessazione del lavoro. Il requisito dell’involontarietà non deve interpretarsi con lo sguardo rivolto alla causa della perdita del lavoro, ma considerando le cause per le quali l’assicurato permane in uno stato di disoccupazione. Il solo caso in cui il trattamento potrebbe continuare ad essere erogato è costituito da un rifiuto giustificato. Analogamente, la Corte costituzionale ha ritenuto che sussista il diritto alla prestazione già dall’ottavo giorno in tutti i casi in cui il recesso dal rapporto di lavoro, pur frutto di una scelta del lavoratore, sia stato determinato da un comportamento del datore, che abbia costituito giusta causa di dimissioni. Altra questione riguarda i periodi di inattività nelle ipotesi in cui il lavoratore svolga un’attività stagionale: la Corte aveva riconosciuto il diritto all’indennità nei periodi di “stagione morta”; chiamata ad applicare la stessa ratio decidendi nel lavoro a part time verticale, essa ha ritenuto legittima siffatta esclusione, in quanto in tali casi il rapporto di lavoro non viene ad interrompersi. Una speciale forma di indennità, la c.d. indennità a requisiti ridotti, spetta a quanti, pur non potendo far valere le settimane di accreditamento contributivo richieste per l’indennità ordinaria, abbiano comunque lavorato per almeno 78 giorni nell’anno precedente quello della presentazione della domanda (e possano comunque vantare due anni di anzianità assicurativa). Viene in tali ipotesi riconosciuta e liquidata dall’INPS in unica soluzione un’indennità di importo pari al 30% della retribuzione di riferimento, per una durata eguale alle giornate lavorate. Nell’ambito dell’agricoltura hanno diritto all’indennità i lavoratori agricoli subordinati, iscritti negli elenchi nominativi, che possano vantare un requisito assicurativo di due anni ed almeno 102 contributi giornalieri nel biennio suddetto. Trattamenti speciali sono riconosciuti ai lavoratori licenziati dalle imprese edili od ai lavoratori rimpatriati per il mancato rinnovo del contratto stagionale. 2.2 La Cassa integrazione guadagni La Cassa integrazione guadagni trova origine nel contratto collettivo 13 giugno 1941, avente efficacia erga omnes e riferito esclusivamente agli operai del settore industriale; per gli impiegati era infatti già prevista un’apposita forma di tutela, ex l. 262/1926, sull’impiego privato. Le previsioni del contratto collettivo del 1941 andavano a favore del datore di lavoro: si voleva infatti evitare che i lavoratori, in occasione di sospensioni od interruzioni dell’attività, abbandonassero il loro datore, lasciandolo privo di maestranze. Grazie all’intervento della cassa era invece reso possibile il mantenimento del rapporto, tramite una traslazione dell’onere retributivo a carico degli istituti previdenziali. Nella nuova realtà socio-economica il problema non consiste più nella difesa della produzione, e di riflesso dei datori, ma dell’occupazione e quindi dei lavoratori. Di qui l’opportunità di un intervento legislativo, che ne restringeva l’area di operatività soggettiva ai soli operai dipendenti da imprese industriali; la l. 223/1991 ha tuttavia esteso il trattamento ordinario anche agli impiegati ed ai quadri. L’integrazione salariale è dovuta nella misura dell’80% della retribuzione globale che agli operai sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate (nei limiti di un massimale fissato dall’INPS), comprese fra le zero ore ed il limite dell’orario settimanale fissato nei contratti collettivi, che viene comunque in considerazione in misura non superiore alle 40 ore. Nei periodi di cassa integrazione il lavoratore ha diritto alla contribuzione figurativa, calcolata sulla base della retribuzione cui è riferita l’integrazione salariale. Invece sulla retribuzione erogata per le ore di lavoro prestate nel caso di integrazione ad orario ridotto occorre pagare, secondo la regola generale, i relativi contributi effettivi. Sorgeva al riguardo in passato il problema della disparità di trattamento tra lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore settimanali, rispetto ai quali l’INPS accreditava i contributi figurativi, ed i dipendenti dello stesso datore che lavoravano per un numero sia pure ridotto di ore alla settimana: questi ultimi si vedevano accreditare una contribuzione effettiva proporzionale alla retribuzione percepita. Per ovviare alla disparità di trattamento si è allora disposta la possibilità di un (eccezionale) cumulo tra contributi effettivi e figurativi, per le ore non lavorate, a favore dei lavoratori in cassa integrazione. 2.3 L’intervento ordinario e straordinario di integrazione salariale L’intervento di integrazione salariale può rivestire carattere ordinario o straordinario. In precedenza l’istituto trovava applicazione a fronte di situazioni temporanee e non imputabili al datore di lavoro, ed occorreva altresì che l’impresa non avesse operai in soprannumero. L’aspetto della temporaneità, in precedenza riferito alla sospensione degli operai dal lavoro, viene ora riferito all’evento che causa la sospensione, senza più alcun accenno ai tempi della riammissione. Anche la non imputabilità dell’evento viene riletta non più alla luce degli artt. 1218 e 1256, in forza dei quali il creditore (nel nostro caso il datore) è responsabile dell’inadempimento (nella fattispecie della mancata prestazione lavorativa dei dipendenti) fino al limite dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile (per es. incendio, terremoto, etc.), ma occorre solo che l’imprenditore abbia operato secondo i canoni dell’ordinaria diligenza (1176: Diligenza nell’adempimento). In origine la legge richiamava come presupposti dell’intervento ordinario situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili agli imprenditori o agli operai (pertanto non nei casi di sciopero, né di serrata), ovvero determinate da situazioni temporanee di mercato. L’intervento straordinario era invece concesso in caso di crisi economiche settoriali o locali, ovvero per ristrutturazioni, riorganizzazioni o conversioni aziendali. La prima ipotesi citata di intervento straordinario (crisi economiche settoriali o locali) è stata abrogata, ma alle fattispecie precedentemente contemplate se ne è aggiunta una nuova, consistente in specifici casi di crisi aziendale che presentino particolare rilevanza sociale in relazione alla situazione occupazionale locale e alla situazione produttiva del settore. La distinzione tra i due tipi di trattamento si coglie sotto diversi profili, quale il campo d’azione, che ricomprende nel primo caso l’industria (escluso il settore edilizio), e, nel secondo, oltre l’industria, anche l’edilizia, le unità organiche delle grandi imprese commerciali e le grandi imprese commerciali. Altre differenze rilevano sul piano della durata del trattamento: tre mesi, prorogabili eccezionalmente fino ad un massimo di 12, ed eventualmente senza limiti in caso di evento oggettivamente non evitabile nel caso di integrazione ordinaria. Nel caso di integrazione straordinaria il termine varia in relazione alle cause dell’intervento: un anno nell’ipotesi di crisi aziendale; due nell’ipotesi di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione; un anno in caso di procedure concorsuali. La legge prevede un tetto massimo di 36 mesi di intervento nell’ambito di un quinquennio, indifferentemente dalla natura ordinaria o straordinaria dell’integrazione salariale. Sul piano della procedura, l’intervento ordinario postula una delibera della Commissione provinciale CIG, a composizione tripartita, in seguito a domanda inoltrata alla sede provinciale dell’INPS. L’intervento straordinario richiede un decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. La domanda di ammissione viene vincolata alla presentazione di un programma, che deve costituire oggetto di esame congiunto con le rappresentanze dei lavoratori. Il provvedimento di ammissione al finanziamento della cassa ha natura amministrativa, di modo che eventuali ricorsi avverso la mancata concessione del provvedimento di integrazione, sia di tipo ordinario che straordinario, devono essere proposti avanti la magistratura amministrativa, nel rispetto del termine decadenziale di 60 giorni, previsto in generale per l’impugnativa degli atti amministrativi. L’imprenditore, prima di presentare domanda di integrazione salariale per i propri dipendenti, deve avviare una procedura di consultazione in ordine alla crisi dell’azienda coi sindacati. La domanda deve essere presentata entro 25 giorni dalla fine del periodo di paga in corso al termine della settimana in cui ha avuto inizio la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro. Il finanziamento dell’intervento ordinario grava sul solo imprenditore, laddove alla copertura dell’intervento straordinario provvede anche la contribuzione dei lavoratori ed il finanziamento a carico dello Stato. (Secondo un certo orientamento della Corte di Giustizia comunitaria, i trattamenti di integrazione salariale potrebbero configurarsi come ipotesi vietate in quanto aiuti di stato alle imprese beneficiarie). Sono sorti diversi problemi in ordine all’applicazione della l. 164/1975. Essa dispone che la procedura sindacale venga condotta con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, con le organizzazioni sindacali di categoria dei lavoratori più Le parti suddette procedono ad un esame congiunto delle cause della situazione e sulla possibilità di un diverso uso del personale, anche mediante contratti di solidarietà e flessibilità di orario (gli accordi sindacali raggiunti nel corso della procedura, quando diretti al riassorbimento dei lavoratori, possono comportare modifiche di mansioni anche in deroga al divieto di reformatio in peius di cui al 2103. Nel caso di mancato accordo, un ulteriore tentativo viene esperito da parte della DPL. Raggiunto l’accordo, ovvero esauritasi la procedura, l’impresa colloca in mobilità i lavoratori, comunicando per iscritto il recesso nel rispetto dei termini di preavviso, ed inviando l’elenco dei lavoratori alla direzione regionale del lavoro. Ai fini dell’individuazione dei lavoratori da porre in mobilità, la legge 223/1991 richiama come criterio di scelta le esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri stabiliti nei contratti collettivi, ovvero, in mancanza di un accordo, i criteri dei carichi di famiglia, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Scopo della mobilità è quello di favorire il reimpiego dei lavoratori, che ai fini del collocamento vengono iscritti in apposite liste, c.d. di mobilità, e godono di un diritto di precedenza nelle assunzioni. I lavoratori collocati in mobilità hanno diritto ad un’indennità per un periodo massimo di 12 mesi, elevabile a 24 per i lavoratori che abbiano compiuto i 40 anni, ed a 36 per quelli che abbiano compiuto i 50 anni. Per i primi 12 mesi la misura dell’indennità è pari a quella del trattamento d’integrazione salariale goduto (o che sarebbe spettato) nel periodo immediatamente precedente la risoluzione del rapporto; successivamente si riduce all’80% dello stesso trattamento. L’indennità non è cumulabile con ogni altra prestazione di disoccupazione, con l’indennità di malattia e di maternità, e compete solo nel caso in cui il lavoratore possa far valere almeno 12 mesi di anzianità aziendale, di cui almeno 6 di lavoro effettivamente prestato, con un rapporto di lavoro non a termine; non è corrisposta dopo il compimento dell’età pensionabile. I periodi di godimento di tale indennità sono utili ai fini del diritto e dell’ammontare della pensione e, nel corso degli stessi, compete l’assegno per il nucleo familiare. Ai lavoratori che ne facciano richiesta per intraprendere un’attività di lavoro autonomo, od anche a carattere cooperativo, l’indennità di mobilità può essere corrisposta anticipatamente in unica soluzione. Le some anticipate devono essere restituite nel caso in cui il lavoratore, entro 24 mesi dalla loro corresponsione, rinvenga altra occupazione. Dal punto di vista del finanziamento, a carico del datore vi è l’obbligo di un contributo speciale pari a sei volte il trattamento mensile normale di mobilità spettante al lavoratore, ridotto alla metà nel caso che sia stato raggiunto l’accordo sindacale, ed eliminato, in tutto od in parte, nel caso in cui l’impresa procuri offerte di lavoro a tempo indeterminato accettate o rifiutate. La legge accanto ad un intervento di sostegno al reddito prevede altresì misure dirette a promuovere l’occupazione dei lavoratori collocati in mobilità: essa infatti prevede la loro iscrizione in una lista. La legge prevede la cancellazione dalla lista nonché la decadenza dal trattamento di mobilità eventualmente percepito quando venga meno lo stato di disoccupazione, ovvero quando si tratti di sanzionare comportamenti del lavoratore non rispettosi degli obblighi intesi alla verifica dello stesso. 2.5 Il prepensionamento Una misura alternativa alla mobilità è stata a lungo rappresentata dal c.d. prepensionamento, che ha svolto la funzione di invogliare i lavoratori ormai relativamente prossimi al pensionamento ad anticiparlo nel tempo: il suo presupposto è pertanto costituito dalla risoluzione del rapporto di lavoro. Attualmente la legge dispone la possibilità di prepensionamento senza limitazioni temporali a favore degli assicurati che vantino un’anzianità contributiva non inferiore a 15 anni ed un’età inferiore di non più di 60 mesi (5 anni) rispetto a quella prevista per la pensione di vecchiaia, allorquando si tratti di lavoratori dipendenti da imprese che beneficino da più di 24 mesi del trattamento di integrazione salariale straordinario e che abbiano stipulato coi sindacati dei lavoratori maggiormente rappresentativi sul piano nazionale contratti collettivi che prevedano il ricorso al lavoro a tempo parziale. Nel momento in cui si convenga il passaggio al tempo parziale per un orario non inferiore a 18 ore settimanali, il dipendente potrà avanzare la domanda di prepensionamento, la quale resta però subordinata all’autorizzazione della Direzione regionale del lavoro. La legislazione ha gradualmente aumentato il costo a carico del datore dell’onere economico derivante dall’anticipata liquidazione del trattamento pensionistico, riducendo tuttavia sempre di più le ipotesi previste nella legislazione di settore. 2.6 I contratti di solidarietà e i fondi di solidarietà per il sostegno al reddito Il contratto di solidarietà difensivo è diretto ad evitare il licenziamento di una parte del personale di un’impresa attraverso una riduzione dell’orario individuale, in modo da ridistribuire fra tutti i lavoratori gli effetti conseguenti alla contrazione della produzione industriale. Nella sua originale formulazione normativa, il contratto di solidarietà si è dimostrato praticabile solo per le imprese e per quelle categorie (i dirigenti) per le quali non era previsto l’intervento di integrazione salariale. In seguito tale tendenza venne invertita: in particolare, oltre all’ampliamento delle categorie di impresa beneficiarie, all’aumento della misura del trattamento di integrazione concesso (dal 50 al 75%) ed alla corresponsione di un contributo ai datori, si prevedeva che i datori che stipulassero contratti di solidarietà con una contrazione dell’orario di lavoro superiore al 20% beneficiassero di una riduzione dell’ammontare della contribuzione previdenziale ed assistenziale nella misura del 25% (elevata al 30% per le imprese operanti nelle aree depresse). Nel caso in cui la riduzione dell’orario di lavoro fosse stata superiore invece al 30%, la legge comportava un abbassamento del 35% dei contributi dovuti (elevata al 40% per le aree depresse). La disciplina nelle originali intenzioni del legislatore doveva trovare applicazione solo fino alla data del 31 dicembre 1995, ma la l. 608/1996 ne ha anticipato la scadenza al 14 giugno 1995. Alcune disposizioni del testo abrogato sono comunque rimaste in vita: sono state mantenute senza limitazione di tempo, per le sole imprese direttamente destinatarie del trattamento di CIG, le incentivazioni in tema di contribuzione, vincolandone tuttavia la concessione alle effettive disponibilità finanziarie del fondo dell’occupazione. La funzione di sostegno a forme di solidarietà aziendale (o categoriale) sembra ora affidata ad una misura sperimentale diretta all’istituzione presso l’INPS di fondi dotati di autonomia finanziaria e patrimoniale, per l’erogazione di trattamenti di integrazione salariale a beneficio di quelle categorie o di quei settori di impresa esclusi dal campo di applicazione della disciplina della CIG. Anche in questa ipotesi si rimette alla contrattazione collettiva l’iniziativa per la costituzione di tali fondi. 3. La tutela nel caso della crisi di impresa: il fondo di garanzia del TFR Una speciale assicurazione sociale garantisce al lavoratore il pagamento del TFR. Questo costituisce un elemento retributivo obbligatorio per tutte le categorie dei prestatori di lavoro subordinato, che viene maturato nel corso della prestazione, in proporzione al salario dovuto al lavoratore, secondo una precisa formula, contenuta nel 2120 (Disciplina del trattamento di fine rapporto). La somma così accantonata viene poi in concreto corrisposta solo al momento dell’interruzione del rapporto di lavoro, indipendentemente dalla causa che lo abbia determinato, salvo che nell’ipotesi che ne sia stata richiesta l’anticipata corresponsione parziale, prevista dalla legge a determinate condizioni. (Ai sensi del 2120.1 il TFR si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. Il d. lgs. 252/2005 ha previsto un meccanismo di destinazione tacita ai fondi di previdenza complementare del TFR, in assenza di un’espressa volontà contraria del singolo. La legge ha altresì previsto che, in caso di mancata devoluzione alle forme di previdenza complementare, una quota parte del trattamento sia accantonata presso un apposito fondo costituito presso l’INPS, che provvederà alla liquidazione di una parte del trattamento stesso). Poiché l’accantonamento dei ratei annui ha natura meramente contabile, senza determinare un flusso finanziario effettivo, se non nell’ipotesi nella quale il TFR sia destinato a finanziamento dei fondi di previdenza complementare (il 2117 propone un’ulteriore diversa soluzione: esso, rubricato “Fondi speciali per la previdenza e l'assistenza”, dichiara che I fondi speciali per la previdenza e l'assistenza che l'imprenditore abbia costituiti, anche senza contribuzione dei prestatori di lavoro, non possono essere distratti dal fine al quale sono destinati e non possono formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dell'imprenditore o del prestatore di lavoro), può accadere che, nel caso in cui il datore di lavoro sia fatto oggetto di esecuzione in forma concorsuale, il lavoratore sia costretto per realizzare il proprio credito ad attendere la conclusione della procedura concorsuale. Sulla scorta di una direttiva comunitaria si è dato così vita ad un sistema assicurativo diretto alla più efficace tutela del credito, garantendo al lavoratore subordinato una prestazione di importo pari al TFR maturato, ogni qual volta il relativo debito sia stato accertato con l’inserimento nello stato passivo, o, comunque, tutte le volte che sia stata inutilmente intrapresa l’esecuzione forzata, nei confronti di quei datori di lavoro (privati, piccole imprese) che non sono soggetti alle procedure concorsuali. Il trattamento si estende altresì alle ultime tre mensilità di retribuzione, ove non siano state corrisposte. A conferma del fondamento universalistico della tutela della maternità, una pluralità di interventi normativi ha esteso i benefici del congedo di maternità anche alle donne che prestino un’attività lavorativa al di fuori del contratto per prestazioni subordinate di cui al 2094: si tratta di lavoratrici autonome, di libere professioniste, di lavoratrici impiegate in lavori socialmente utili, etc. Nel caso delle libere professioniste il diritto alla prestazione non è subordinato all’effettiva astensione dall’attività lavorativa. Ad ulteriore conferma della vocazione universalistica della tutela, deve ricordarsi come una prestazione di maternità sia riconosciuta sia a soggetti che, al momento del parto, hanno cessato di essere occupate, ma che possano vantare un minimo di copertura previdenziale (almeno tre mesi di contribuzione nei 18 mesi precedenti), sia, in via generale, a soggetti che si trovino in situazione di bisogno. Nel primo caso, per le lavoratrici discontinue (italiane, comunitarie od extracomunitarie con permesso di soggiorno) si prevede un assegno di maternità erogabile non solo per le nuove nascite, ma anche per i minori di 6 anni di età in affidamento preadottivo od in adozione; nel secondo caso si prevede un assegno di maternità, di importo lievemente ridotto, a quante non superino determinate soglie di reddito. 5. La tutela della salute 5.1 L’assicurazione per la malattia ordinaria La nozione di malattia non sembra poter coincidere con una situazione di assoluta impossibilità (1256: Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea) all’effettuazione della prestazione lavorativa, dovendo essere piuttosto intesa, nell’ottica del diritto alla salute di cui al 32 Cost., come una affezione che produce un’incapacità del lavoratore a rendere la sua prestazione. La nozione rilevante ai fini giuridici appare più ristretta rispetto a quella propria della scienza medica, come dimostra la questione affrontata in giurisprudenza in relazione a quelle patologie che per la loro cura richiedono cure idrotermali: si tratta, in genere, di malattie fastidiose ma non sempre tali da rendere la condizione fisica del lavoratore inidonea alla prestazione lavorativa. La giurisprudenza costituzionale, a garanzia del diritto all’effettiva fruizione delle ferie, ha ritenuto che la malattia insorta durante il periodo di ferie ne sospenda il decorso. (La Cassazione ha escluso ai fini dell’interruzione che la malattia debba necessariamente comportare un ricovero ospedaliero per poter interrompere il decorso delle ferie). La tutela previdenziale si concreta nel riconoscimento di un’indennità giornaliera posta a carico dell’INPS; tale prestazione viene riconosciuta ai soli operai, dal momento che per gli impiegati è ancora in vigore la previsione di cui al r.d.l. 1825/1924, che impone al datore di retribuire le assenze per malattia del proprio dipendente, secondo una certa misura percentuale, integrale per i primi periodi di malattia e poi decrescente (trattamenti migliori sono però previsti dalla contrattazione collettiva). La prestazione è alimentata da una quota parte dei contributi, determinata in una misura percentuale della retribuzione imponibile. Tali contributi alimentano altresì le indennità di maternità. Sussiste in giurisprudenza un vivace contrasto se i datori di lavoro siano tenuti al versamento contributivo per quei lavoratori ai quali, per disposizione di legge o di contratto collettivo, debbano comunque corrispondere la retribuzione, in caso di assenza per malattia. L’indennità giornaliera di malattia spetta solo al termine di un periodo (c.d. di carenza) di durata generalmente pari a tre giorni, per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare o, per lavoratori a termine, per un periodo di durata pari all’attività lavorativa prestata nei 12 mesi precedenti. (Il periodo di carenza non opera in caso di ricaduta o di altra malattia intervenuta entro 30 giorni dal primo evento morboso; in caso di contratti di lavoro a termine, l’indennità viene altresì corrisposta per malattie insorte entro 60 giorni dalla cessazione del rapporto). L’importo dell’indennità varia in relazione alla durata della malattia (è crescente dopo il periodo iniziale), alle categorie dei lavoratori ed ai diversi settori merceologici. La contrattazione collettiva, dettando condizioni di miglior favore, ha generalmente previsto a carico del datore di lavoro un’integrazione dell’importo dell’indennità giornaliera erogata dall’INPS, così sostanzialmente equiparando la misura del trattamento complessivo degli operai a quella goduta per disposizione di legge (o di contratto collettivo) dagli impiegati. L’indennità viene di regola anticipata dal datore di lavoro, che provvede poi a trattenere l’importo al momento del versamento dei contributi mensili, secondo il sistema del conguaglio. Per i periodi di malattia viene accreditata la contribuzione figurativa, fino ad un periodo massimo di 24 mesi di assenza dal lavoro. Il lavoratore assente per malattia è obbligato a comunicare al datore il motivo della sua assenza e la durata presunta della malattia, nonché a provvedere successivamente, entro due giorni dall’inizio dell’assenza, a trasmettere all’INPS e al datore copia di un certificato del medico curante. La ritardata trasmissione determina la perdita dell’indennità di malattia corrispondente ai giorni in cui il ritardo stesso si è protratto (la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di tale disposizione nella parte in cui non consente all’interessato di addurre e dimostrare l’esistenza di un valido motivo a giustificazione del mancato rispetto del termine). Il precetto di reperibilità è limitato a due fasce orarie giornaliere per una durata complessiva di quattro ore. La norma (l. 638/1983) che statuisce la perdita dell’intero trattamento economico di malattia per i primi dieci giorni a danno del lavoratore risultato assente ad un’unica visita di controllo è stata dichiarata legittima dalla Corte costituzionale, che tuttavia ha ritenuto incompatibile con la garanzia a mezzi adeguati alle esigenze di vita, di cui al 38 Cost., l’ulteriore previsione della perdita di metà del trattamento economico, a partire dall’undicesimo giorno e per tutta la durata della malattia, quando non sia subordinata ad un secondo accertamento di controllo. 5.2 L’assicurazione contro la tubercolosi Sono assicurati contro la tubercolosi, oltre al lavoratore, anche i suoi familiari a carico. La gestione è di pertinenza dell’INPS, presso la quale sono assicurati anche dipendenti statali. L’ente previdenziale si limita ad erogare delle prestazioni di carattere economico, in quanto l’assistenza sanitaria viene attualmente garantita dal Servizio sanitario nazionale. Requisito necessario ai fini delle prestazioni è un periodo assicurativo e contributivo di un solo anno. Le prestazioni (“indennità”) sono di due tipi, sanatoriali o post-sanatoriali. L’indennità post-sanatoriale viene erogata, per un periodo non superiore a due anni, allorquando il ricovero abbia avuto una durata non inferiore a 60 giorni. È infine previsto un assegno mensile di cura e sostentamento, qualora la malattia abbia inciso sulla capacità di guadagno degli assistiti in misura superiore al 50%. L’assegno, erogato solo una volta cessata la corresponsione delle indennità, è riconosciuto per un periodo di due anni, rinnovabili senza limiti. In concomitanza coi periodi di corresponsione delle indennità spetta il riconoscimento d’ufficio della contribuzione figurativa. 5.3 Il servizio sanitario nazionale Il 32.1 Cost. dichiara che La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Un tempo la tutela era assicurata, ad opera di diversi enti pubblici, nei confronti dei soli lavoratori. La tutela veniva assicurata in riferimento a determinate malattie, e con un carattere di intervento meramente “curativo”, ossia successivo al sorgere del bisogno, e non anche preventivo. Infine il livello delle prestazioni medico-sanitarie variava sensibilmente da categoria a categoria, ossia in ragione dell’ente pubblico assicuratore. In un’ottica costituzionalmente orientata, occorre invece sottolineare come la tutela della salute costituisca obbligo dello Stato a fronte di un diritto fondamentale, che deve trovare protezione principalmente nell’interesse della persona: ne dovrebbe conseguire la generalità della stessa. Corollario del principio dovrebbe essere il carattere indifferenziato della tutela, nel senso quantomeno di un livello minimo di prestazioni da garantirsi a chiunque. Ulteriormente, il concetto di tutela della salute è più ampio di quello di cura delle malattie: ne consegue l’esigenza di una sua globalità che si estende non solo ad un intervento curativo, ma anche preventivo e, successivamente al decorso della malattia e se necessario, di riabilitazione. Alla stregua dei rilievi suesposti, con l. 833/1978 è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale. Il servizio coinvolge non solo lo Stato, ma anche le Regioni, e si apre altresì alla collaborazione con soggetti privati, che siano stati fatti oggetto di un’apposita procedura di “accreditamento”. Il nuovo 117 Cost. attribuisce alla legislazione concorrente di Stato e Regioni la materia della “tutela della salute”. I soggetti protetti dal SSN, ossia quelli aventi diritto alle prestazioni sanitarie, sono tutti i cittadini, compresi i lavoratori italiani all’estero. La tutela viene poi estesa agli stranieri residenti in Italia che ne facciano richiesta nonché, a particolari condizioni, ai cittadini stranieri presenti nel territorio italiano. Originariamente il SSN era alimentato dal fondo sanitario nazionale, finanziato e ripartito in sede di bilancio dello Stato e dalla tassa sulla salute. Inoltre il fondo era alimentato dalle somme corrisposte dai cittadini per avere accesso a determinate prestazioni (c.d. ticket). Il creditore peraltro, secondo le norme civilistiche, potrà spontaneamente adempiere ed in tal caso il creditore avrà diritto a trattenere quanto percepito in esecuzione dell’obbligo ormai prescritto (c.d. soluti retentio: 2034: Obbligazioni naturali), ma l’adempimento di questa obbligazione (c.d. naturale, od imperfetta) sarà rimesso alla volontà del debitore. Peraltro, se il debitore adempie egualmente, il creditore è tenuto ad accettare il pagamento (salvo la regola generale del motivo legittimo di rifiuto ex 1206: Condizioni [della mora del creditore]). Il termine ordinario di prescrizione previsto in via generale, ossia per tutti i casi in cui la legge non disponga diversamente, è pari a dieci anni; per singole categorie di rapporti esistono termini minori (prescrizione breve), pari per es. a cinque anni per le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro (2948 n. 5). Diverso dal concetto di prescrizione, c.d. estintiva, fin qui esaminato, è il concetto di prescrizione presuntiva, operante non sul piano del diritto sostanziale, ma del diritto processuale. Colui che agisce per il soddisfacimento del proprio diritto di credito è tenuto a provare solo il contratto o la diversa fonte dell’obbligazione posta a fondamento della sua pretesa, oltre ad allegarne l’inadempimento. (2697: Onere della prova: Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda. Secondo Cass. S.U. 13533/2001 il creditore, sia che agisca per l’adempimento, ovvero per il risarcimento o la risoluzione del contratto, ha esclusivamente l’onere di provare il titolo della sua pretesa (di solito, il contratto) ed allegarne il mancato soddisfacimento, ed incombe poi sul debitore la prova di avere esattamente adempiuto). Resta invece in capo al debitore provare di aver adempiuto (onus probandi incumbit ei qui dicit). Il discorso però cambia qualora siano decorsi i termini propri delle prescrizioni presuntive, che sono di misura pari ad uno o tre anni, a seconda per es. che la fattispecie abbia ad oggetto il diritto dei lavoratori subordinati a retribuzioni corrisposte in relazione a periodi non superiori al mese (come il normale stipendio), ovvero a periodi superiori (come la gratifica natalizia, o la quattordicesima). Si presume che il datore abbia già provveduto al pagamento, o, più genericamente, che la relativa obbligazione si sia estinta. Tale presunzione è suscettibile di esser vinta solo da un’ammissione giudiziale del debitore ovvero deferendo a quest’ultimo giuramento decisorio sull’intervenuta estinzione. Diverso dall’istituto della prescrizione è infine quello della decadenza. Il termine di decadenza anzitutto non è suscettibile di sospensione o di interruzione; la decadenza inoltre si evita solo con l’esercizio del diritto, a meno che il diritto non derivi da contratto: solo in questo caso rileverebbe anche il riconoscimento del diritto da parte del debitore. Anche in ambito previdenziale in caso di interruzione della prescrizione il relativo termine ricomincia a decorrere nuovamente (mentre nel caso di sospensione il termine, cessata la causa sospensiva, non ricomincia a decorrere ex novo, ma riparte tenendo conto del periodo di prescrizione maturato). In ambito previdenziale il regime generale della prescrizione soffre tuttavia di significative eccezioni. L’assicurante, decorso il termine di prescrizione dell’obbligo contributivo, rilevabile d’ufficio dal giudice, non può più adempiere nemmeno spontaneamente, né l’INPS può accettare questo tardivo pagamento (l. 1155/1936), in deroga alle disposizioni del codice civile (2034: Obbligazioni naturali). La deroga è stata motivata da ragioni di equilibrio contabile degli enti previdenziali e certezza giuridica dei rapporti indisponibili, ovvero dall’esigenza di evitare il rischio di ricostruire posizioni contributive senza effettivo fondamento finanziario. La prescrizione inoltre può essere interrotta, oltre che dal creditore (l’istituto previdenziale), anche per atto di diffida proveniente dal servizio ispettivo della Direzione, regionale o provinciale, del lavoro, nonché dalla denuncia presentata dal lavoratore o dai suoi superstiti alla quale faccia seguito l’azione di recupero dei contributi omessi. In materia previdenziale infine il computo dei termini di prescrizione dell’obbligo contributivo subisce una deroga avente carattere del tutto particolare: ex l. 638/1983, per il periodo ricompreso tra il 12 settembre 1983 e l’11 settembre 1986 il termine non decorre. 2. La prescrizione dell’obbligo contributivo dopo la riforma ex l. 8 agosto 1995, n. 335 La l. 335/1995 ha modificato in modo sostanziale i termini della prescrizione in materia previdenziale: in precedenza, la regola generale era nel senso della prescrizione decennale dei crediti contributivi, mentre oggi il termine generale di prescrizione è pari a 5 anni. La regola del termine quinquennale si applica anche alle contribuzioni relative ai periodi antecedenti all’entrata in vigore della norma. Resta però fermo il termine decennale nei casi di atti interruttivi della prescrizione già compiuti prima della data suddetta, ovvero nell’ipotesi di procedure iniziate nel rispetto della normativa previgente. In sede di applicazione giurisprudenziale, la disciplina della l. 335/1995 si interpreta nel senso che: F 0 6 1 F 0 2 E per i contributi successivi alla data di entrata in vigore della legge (17 agosto 1995) la prescrizione resta decennale fino al 31 dicembre 1995, mentre diviene quinquennale dal 1 gennaio 1996; F 0 6 2 F 0 2 E per i contributi relativi a periodi precedenti alla data di entrata in vigore della legge, la prescrizione diviene quinquennale dal 1 gennaio 1996, tuttavia il termine decennale permane ove, entro il 31 dicembre 1995, siano stati compiuti dall’istituto atti interruttivi, ovvero siano iniziate, durante la vigenza della precedente disciplina, procedure per il recupero dell’evasione contributiva; F 0 6 3 F 0 2 E nel caso in cui gli atti interruttivi siano effettuati nel periodo tra il 17 agosto 1995 ed il 31 dicembre 1995 risulta immune da prescrizione il decennio precedente alla data dell’interruzione o alla data di inizio della procedura. 3. Il principio di automaticità Nel caso di omissione contributiva il lavoratore assicurato può subire dei danni in ordine al quantum o addirittura all’an della prestazione per mancato raggiungimento del periodo contributivo minimo richiesto ai fini del sorgere del diritto. Per salvaguardare egualmente il diritto dell’assicurato alle prestazioni l’ordinamento previdenziale si informa al principio di automaticità delle prestazioni, autentico inveramento del 38 Cost.: il lavoratore ha diritto alla pensione quand’anche il datore non abbia versato i relativi contributi. Il principio, posto nei suoi termini generali dal 2116 (Prestazioni), è immediatamente operativo, ma è suscettibile di temperamento, posto che la stessa disposizione ammette che norme di legge possano disporre diversamente; secondo la Corte costituzionale il principio di automaticità opera anche qualora le leggi relative alle singole forme di assicurazione sociale non vi si adeguino, e rispetto allo stesso sono possibili deroghe solo se espresse. Così in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di competenza dell’INAIL, il principio trova integrale applicazione. Nell’assicurazione generale per invalidità, vecchiaia e superstiti di competenza INPS il principio riceve invece applicazione attenuata: si stabilisce infatti che il requisito di contribuzione s’intende verificato anche quando i contributi non siano effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione decennale: quindi rileva in questo caso la distinzione tra periodo contributivo prescritto e non. La giurisprudenza è divisa sul punto se il principio di automaticità trovi applicazione solo per i periodi di omessa contribuzione essenziali al raggiungimento del requisito contributivo minimo, o se esso invece operi anche ai fini della determinazione della misura del trattamento pensionistico. Se il periodo non si è ancora prescritto, il lavoratore non dovrebbe subire il danno della mancata erogazione della pensione; l’INPS tuttavia non eroga alcuna prestazione finché non recupera i contributi omessi, e pertanto un danno in capo all’assicurato sussiste egualmente. Il limite del riferimento al periodo contributivo non prescritto è venuto meno nel caso in cui il datore sia assoggettato alle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero nel caso di amministrazione straordinaria. 4. La tutela contro le omissioni per il periodo non prescritto Sul datore grava l’obbligo di consegnare ogni anno al lavoratore un prospetto attestante l’avvenuto versamento dei contributi dovuti alle varie gestioni previdenziali e tutti i dati necessari per verificare l’esatta applicazione delle norme in materia di previdenza ed assistenza. Presso l’INPS è stato istituito il casellario centrale delle posizioni previdenziali attive. La comunicazione di notizie errate da parte dell’INPS è fonte di responsabilità dello stesso. In caso di inadempimento del datore di lavoro, l’assicurato può sollecitare l’intervento dell’ente previdenziale tramite una raccomandata che riveste natura di dichiarazione di conoscenza. Nel caso che i contributi in esame non siano prescritti, titolare del credito contributivo è l’istituto previdenziale, che pertanto è il solo soggetto legittimato ad agire per i recupero delle somme non versate. L’assicurato può esperire due azioni: contro l’INPS ovvero contro il datore di lavoro assicurante. Nel primo caso, agisce per attuare il principio di automaticità; a tal fine, l’assicurato dovrà dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, l’effettivo pagamento La somma da versare all’INPS, una volta accertato l’importo pensionistico che l’assicurato (od i suoi aventi causa) avrebbe percepito se il datore avesse regolarmente versato i contributi previdenziali, viene calcolata in ragione dell’età dell’assicurato. Ai sensi della l. 1338/1962 inoltre lo stesso lavoratore può versare la relativa somma all’INPS. Ciò costituisce per lui un vantaggio sia perché ottiene subito la corresponsione mensile della prestazione pensionistica (senza attendere l’esito del giudizio), sia perché il datore di lavoro può essere venuto meno. La rendita integra con effetto immediato la pensione che sia eventualmente già in essere; in caso contrario la somma è calcolata a tutti gli effetti ai fini dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti. Per esperire il rimedio in esame (al quale può ricorrere anche il datore di lavoro spontaneamente, qualora non possa più versare i contributi a seguito dell’intervenuta prescrizione), occorre che vi sia prova dell’esistenza del rapporto di lavoro, della sua durata e della relativa retribuzione. La legge consente tuttavia all’assicurato anche altre due azioni: il lavoratore può infatti costituire la rendita presso l’INPS e poi agire per la restituzione o il risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro. Se agisce per la restituzione, il termine prescrizionale dell’azione di restituzione decorre non dal momento del pagamento della riserva matematica ma dal momento della prescrizione dell’obbligazione contributiva del datore di lavoro, perché è già da quel momento che il lavoratore può pretendere che il datore di lavoro emendi subito, con la costituzione della rendita vitalizia, il danno potenziale conseguente all’omissione contributiva. Nel caso in cui agisca invece a titolo risarcitorio, la prescrizione decorre dal momento già individuato con riferimento all’azione ex 2116 (Prestazioni). (Le due fattispecie (azione restitutoria avente ad oggetto la provvista per la costituzione della rendita vitalizia ed azione risarcitoria di un danno fatto pari alla riserva matematica) sembrano sovrapporsi, ma in realtà sono concettualmente ben distinte. In un caso il lavoratore chiede la restituzione di un preciso importo versato per eliminare una potenzialità di danno cagionato da un atto illecito del datore di lavoro; nell’altro il lavoratore domanda il risarcimento di un danno che si sarebbe verificato se non avesse provveduto alla costituzione della rendita vitalizia e che viene indicato, in linea di prima approssimazione, come pari alla somma versata per la costituzione della rendita medesima. La differenza maggiormente apprezzabile in concreto tra la prospettiva restitutoria e quella risarcitoria è che in questa seconda evenienza il danno che si sarebbe verificato potrebbe essere inferiore alla riserva matematica o addirittura mancare del tutto, come nel caso in cui la posizione contributiva ricostruita con la riserva matematica risulti essere del tutto ininfluente al fine della quantificazione del trattamento pensionistico (ad es. per l’esistenza di altra contribuzione ampiamente sufficiente allo scopo). Nella prima evenienza invece la retribuzione ha ad oggetto un importo determinato in cifra fissa: quello versato all’INPS a titolo di riserva matematica. Il termine prescrizionale di questa azione risarcitoria decorre dalla perdita (totale o parziale) della prestazione previdenziale. Si ha quindi che l’eventuale prescrizione del diritto alla costituzione di rendita vitalizia (con conseguente non ripetibilità di quanto a tal fine versato dal lavoratore) non comporta alcuna preclusione al successivo esercizio dell’azione risarcitoria ex 2116.2, una volta verificatisi i presupposti per l’attivazione del trattamento previdenziale. Il lavoratore può infine anche agire direttamente nei confronti dell’INPS al fine di vedersi riconosciuto il diritto alla costituzione della rendita da parte dell’ente previdenziale in sostituzione del datore di lavoro, ma la giurisprudenza subordina l’esperibilità dell’azione alla prova da parte del lavoratore dell’impossibilità di ottenere la rendita da parte dello stesso datore di lavoro. Infine un’ulteriore tutela compete nel caso in cui l’ente previdenziale, nonostante la denuncia sporta dall’assicurato dell’omissione contributiva da parte del datore, abbia lasciato cadere in prescrizione il debito contributivo dell’assicurante: in questi casi l’ente resta obbligato al risarcimento del danno nei confronti dell’assicurato. 6. Le sanzioni civili In capo al datore assicurante che abbia omesso il pagamento dei contributi sono previste delle sanzioni aventi natura civile, amministrativa e penale. Le sanzioni civili consistono nel pagamento di una somma aggiuntiva rispetto ai contributi omessi, di importo variabile fino al 40% od al 60% della somma non versata a seconda che ricorra un’ipotesi di omissione in senso stretto ovvero di evasione contributiva. L’omissione in senso stretto ricorre nel caso di presenza di tutte le denunce e le registrazioni obbligatorie necessarie e resta solo omesso il pagamento. L’evasione contributiva ricorre quando a monte dell’omissione vi è omessa od infedele registrazione. La minor percentuale del 40% è dovuta anche nel caso in cui l’assicurante si renda responsabile di evasione, ma prima della contestazione dell’ente previdenziale ed entro dodici mesi dal momento in cui è sorto l’obbligo di pagamento denunci spontaneamente l’inadempimento contributivo, a condizione che paghi i contributi omessi entro 30 giorni dalla denuncia. Oltre i tetti massimi del 40% e del 60%, qualora non si sia provveduto al pagamento integrale del dovuto, son dovuti gli interessi di mora al tasso legale (calcolati però sul solo debito contributivo). Le somme aggiuntive in questione possono essere altresì ridotte fino alla misura degli interessi legali, sulla base di criteri generali dettati dall’ente impositore, in ragione di oggettive e gravi ragioni di incertezza relative all’esistenza dell’obbligo contributivo, connesse a contrastanti o sopravvenuti diversi orientamenti giurisprudenziali od amministrativi; nel caso di aziende in crisi, riconversione o ristrutturazione di particolare rilevanza sociale od economica a fini occupazionali; etc. In precedenza il regime sanzionatorio era molto più gravoso: ne conseguono problemi di diritto transitorio. In linea generale, il regime in esame entra in vigore a partire dal 1 ottobre 2000. Per quanto concerne invece i crediti già in essere al 30 settembre 2000, vale a dire i crediti contributivi denunciati, riconosciuti unilateralmente od accertati, per i quali i contributi e le relative sanzioni non sono state ancora pagate al 30 settembre 2000, sarà dovuta una somma calcolata sulla base della l. 662/1996, ma la differenza tra quanto dovuto in base a quest’ultima norma e quanto sarebbe stato invece dovuto in base alla l. 388/2000 costituisce (ex l. 388/2000) un credito contributivo nei confronti dell’ente previdenziale, che potrà essere conguagliato nei confronti dell’ente previdenziale. Le sanzioni in esame sono espressamente definite come civili. Ne dovrebbe conseguire l’applicazione delle regole del diritto civile, per es. in materia di imputazione di pagamento, di trasmissibilità agli eredi, di possibilità di remissione da parte degli enti previdenziali. La giurisprudenza ribadisce come tali sanzioni servano a rafforzare l’obbligazione principale, al tempo stesso predeterminando l’importo del risarcimento: una tale funzione è simile in sostanza a quella prevista nell’ambito dell’autonomia contrattuale dalla clausola penale di cui al 1382. Permane il problema derivante dal fatto che una sanzione civile dovrebbe esser basata esclusivamente sul fatto oggettivo dell’inadempimento, inteso come mancata soddisfazione dell’interesse del creditore, mentre la modulazione della sanzione in esame avviene anche sulla base della condotta del debitore. 7. Le sanzioni amministrative e le ordinanze ingiunzione Le sanzioni amministrative connesse alle omissioni contributive sono state sostanzialmente abrogate. Secondo parte della giurisprudenza, in conformità ai principi di legalità, irretroattività e divieto di applicazione analogica previsti dall’1 l. 689/1981, il comportamento costituente illecito amministrativo è assoggettato alla legge del tempo del suo verificarsi: ne consegue l’impossibilità di applicare la disciplina successiva più favorevole, sicché la norma abrogata continua ad applicare i suoi effetti in ordine ai rapporti sorti durante il periodo di vigenza della medesima. Un diverso e più mite orientamento ritiene invece che la l. 388/2000 si incentri sulla potestas puniendi della pubblica amministrazione, e pertanto assume rilievo il momento della comunicazione dell’ordinanza ingiunzione da parte della pubblica autorità medesima. Le sanzioni amministrative permangono sostanzialmente per le violazioni di cui alla l. 689/1981. Si tratta delle violazioni che non consistono, di per sé, in un’evasione contributiva, per es. in materia di regolare tenuta dei libri obbligatori. L’accertamento della violazione avviene a seguito dell’esercizio di potere ispettivo, tramite appositi ispettori che, nell’esercizio delle loro funzioni, agiscono in qualità di agenti od ufficiali di polizia giudiziaria, e che godono di alcuni poteri di cui al Codice di procedura penale. Gli ispettori redigono appositi verbali dei fatti appresi. Ove risultino inadempimenti la cui violazione determina l’applicazione di una sanzione amministrativa, l’ispettore provvede a diffidare il datore di lavoro a regolarizzare le inosservanze, qualora sanabili, fissando a tal fine un termine. La diffida interrompe il termine di contestazione dell’illecito, che in linea di principio deve immediatamente essere contestato al trasgressore quando possibile, altrimenti deve essergli notificata nel termine di 90 giorni, o 360 se il trasgressore risiede all’estero. Il momento dell’accertamento deve intendersi non con riguardo al momento della rilevazione del fatto astrattamente contestabile, ma al momento della conclusione dell’accertamento. Se a seguito della diffida interviene la regolarizzazione della situazione, il datore di lavoro può estinguere la violazione contestatagli mediante il pagamento della sanzione amministrativa determinata in misura ridotta. Nel caso di violazioni aventi natura di contravvenzione penale, compete al personale ispettivo delle direzioni provinciali del lavoro, oltre al potere di diffida, anche un potere fosse quella di punire il mancato introito dei contributi da parte dell’ente previdenziale, il mancato pagamento dei contributi gravanti sul datore integrerebbe di per sé reato. La verità è che il legislatore ha inteso reprimere non il fatto omissivo del mero versamento dei contributi, ma il più grave fatto commissivo dell’appropriazione indebita da parte del datore di lavoro di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti. (La giurisprudenza è pervenuta però ad una soluzione difforme in materia di omesso versamenti di ritenute alle casse edili da parte del datore di lavoro relativamente al denaro trattenuto sulla retribuzione del dipendente, sul presupposto che la cassa edile sia un mero depositario della somma in esame, non assimilabile ad un ente previdenziale rispetto al quale il lavoratore-assicurato possa vantare un diritto di credito, sussistente solo nei confronti del datore di lavoro). Un’ultima questione riguardante la fattispecie in esame ha avuto riguardo all’ipotesi di regolarizzazione. Accade infatti che il legislatore periodicamente ammette delle procedure di condono che conducono all’estinzione del reato. Tali procedure si articolano di solito, previa determinazione della somma complessivamente dovuta, nel concedere all’assicurante imputato di saldare il proprio debito previdenziale mediante pagamenti rateali. Questi ultimi tuttavia potevano essere particolarmente dilazionati nel tempo. Si prevedeva altresì la possibilità, in pendenza di pagamento, di sospendere le procedure esecutive, mentre nulla veniva previsto in ordine al procedimento penale. Ciò era un problema, perché poteva darsi che venisse accordata una dilazione tale da andare oltre il termine di prescrizione del reato. In questi casi, in alcune pronunce si è pertanto ritenuto che il reato si estinguesse per condono a prescindere dall’integrale pagamento del dovuto, essendo a tal fine sufficiente la presentazione della domanda di condono ed il pagamento delle rate dovute fino al momento della celebrazione del processo. Ma estinto il reato, veniva meno in capo all’imputato la minaccia della sanzione penale. Altre pronunce all’opposto hanno allora ritenuto che fosse necessario per dichiarare l’intervenuta regolarizzazione e la conseguente estinzione del reato l’intervenuto integrale pagamento della somma dovuta: ma se l’assicurante correva il pericolo di essere condannato penalmente in pendenza di pagamento, parimenti poteva venir meno l’incentivo ad aderire al condono. Una terza giurisprudenza, presupponendo la necessità dell’integrale pagamento ai fini estintivi, impone all’imputato nel corso del procedimento di rinunciare alla prescrizione del reato prima ancora della maturazione del relativo termine, sostanzialmente a pena di celebrazione del giudizio. Si è trattato tuttavia di una soluzione giustamente disconosciuta dalla Cassazione. Il problema può trovare soluzione nel 159.1 n. 3 c.p., secondo il quale il corso della prescrizione resta sospeso in caso di rinvio del processo su istanza dell’imputato e del suo difensore. 9. I condoni previdenziali Si è ritenuto che la domanda di condono non sia assimilabile ad un negozio transattivo, con la conseguenza che l’ente assicurante è libero di operare successivi accertamenti sull’effettiva ampiezza dell’obbligo contributivo (fermo restando il dovere dell’ente medesimo di procedere con correttezza). Sempre sul presupposto che la domanda di condono non sia assimilabile ad un negozio di diritto privato di carattere transattivo, se ne è derivato che è ammissibile che all’interno della stessa sia espressa una riserva di petizione. In precedenza tale assunto era stato smentito da un orientamento della giurisprudenza, tuttavia in senso contrario si è espresso il legislatore con l. 448/1998. È stata quindi ritenuta ammissibile, nonostante l’intervenuta istanza di condono, l’azione dell’assicurante diretta all’accertamento negativo del suo presunto debito contributivo. (A tale conclusione, la giurisprudenza è pervenuta negando la natura transattiva del condono, escludendo la possibilità di estendere analogicamente al settore previdenziale una disposizione speciale dettata nell’ambito della differente materia tributaria, nonché affermando la necessità di privilegiare l’interesse privatistico – riconducibile agli artt. 24 e 113 Cost. – rispetto a quello pubblicistico). 10. La riscossione dei contributi e l’opposizione alle cartelle esattoriali La riscossione forzata dei crediti contributivi non pagati, delle somme aggiuntive e degli interessi legali avviene previa cessione da parte degli istituti assicuratori ad una società di diritto privato (la S.c.c.i. s.p.a.) o ad apposite società per azioni costituite proprio per rendersi cessionarie a titolo oneroso, in massa e senza necessità di notifica od accettazione da parte del debitore ceduto (in deroga al 1264) dei suddetti crediti (c.d. cartolarizzazione dei crediti contributivi). Circa le modalità operative della riscossione, qualora il debitore non provveda entro 30 giorni dal ricevimento dell’avviso “bonario” notificatogli dall’ente, si procede su istanza della S.c.c.i. alla c.d. iscrizione a ruolo, che costituisce titolo esecutivo per procedere ad esecuzione forzata. Il ruolo è un elenco di debitori formato da un ufficio pubblico, ossia l’ente previdenziale, munito di visto d’esecutorietà e trasmesso all’ente incaricato della riscossione. L’iscrizione deve avvenire, a pena di decadenza, per i contributi od i premi non versati dal debitore, entro il 31 dicembre dell’anno successivo al termine fissato per il versamento; in caso di denuncia o comunicazione tardiva di riconoscimento del debito, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello della conoscenza da parte dell’ente; per i contributi o premi dovuti in forza di accertamenti effettuati dagli uffici, entro il 31 dicembre dell’anno successivo alla data di notifica del provvedimento ovvero, in presenza di ricorso all’autorità giudiziaria, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui il provvedimento è divenuto definitivo. L’iscrizione avviene sul presupposto di un accertamento degli uffici degli enti pubblici previdenziali (ovvero in caso di decisione dell’organo amministrativo a seguito di impugnazione contro l’atto di accertamento dell’ente previdenziale); se l’accertamento è impugnato avanti all’autorità giudiziaria, l’iscrizione non è tuttavia possibile fino all’emissione di un provvedimento esecutivo del giudice. (La tempestività dell’impugnazione, idonea a precludere l’iscrizione a ruolo, è data dal deposito del ricorso. Si discute se nell’ipotesi in cui il ricorso del datore di lavoro sia depositato in cancelleria del giudice del lavoro dopo l’iscrizione a ruolo del credito ma prima della notifica della cartella esattoriale, ciò sia sufficiente a sollevare il datore dall’onere di impugnare nei termini la cartella esattoriale, ed a rendere illegittima per sé sola l’iscrizione a ruolo stessa. Secondo una prima tesi, poiché il ricorso preclude l’iscrizione a ruolo ma non anche la formazione della cartella esattoriale, si sostiene che non si verifica alcun effetto preclusivo: ne consegue la necessità di impugnare la cartella esattoriale nel termine previsto dalla legge. In senso contrario si osserva però che si è disposto che la cartella esattoriale debba indicare la data di iscrizione a ruolo del debito, ossia del momento a partire dal quale lo stesso è divenuto esecutivo. Più in generale, se pure era previsto dalla legge un termine entro il quale la cartella esattoriale doveva essere notificata al debitore, il problema era dato dal fatto che all’opposto nulla era stabilito con riguardo al termine entro il quale il ruolo dovesse essere consegnato al concessionario: la Corte costituzionale ha stabilito che il d.P.R. 602/1973 è illegittimo nella parte in cui non prevede detto termine. Il legislatore è pertanto intervenuto stabilendo che il concessionario debba notificare la cartella a pena di decadenza entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo per le somme dovute in base agli accertamenti dell’ufficio). Tale forma di tutela giurisdizionale si estrinseca in un’azione di accertamento negativo del credito dell’ente impositore. Una volta intervenuta l’iscrizione a ruolo, a cura del concessionario viene notificata al debitore la cartella esattoriale: si tratta di un atto analogo all’atto di precetto e finalizzato a portare a conoscenza il debitore dell’avvenuta iscrizione a ruolo e della data della stessa, dell’entità delle somme dovute e della causa delle stesse, nonché gli estremi del soggetto creditore e le modalità di pagamento. Il debitore viene altresì avvisato del fatto che qualora non adempia entro il termine di 60 giorni dalla notificazione della cartella, si procederà ad esecuzione forzata (oltre che ad iscrivere ipoteca legale o a disporre fermo amministrativo), nonché all’acquisizione stragiudiziale di notizie relative ai crediti vantati dai debitori presso i terzi; matureranno inoltre gli interessi di mora. La legge stabilisce che la notifica della cartella esattoriale debba avvenire entro l’ultimo giorno del dodicesimo mese successivo a quella della consegna del ruolo al concessionario. Avverso l’iscrizione a ruolo, il debitore qualora intenda contestare nel merito il credito vantato dall’ente di previdenza può proporre ricorso avverso l’ente impositore ed il cessionario del relativo credito al giudice del lavoro entro 40 giorni dalla notifica della cartella di pagamento. (Si discute della perentorietà del termine dei 40 giorni. Secondo un primo orientamento, la finalità del termine è quella di costituire in capo all’ente previdenziale un titolo esecutivo in tempi brevi: la conseguenza è che decorso detto termine non sarebbe più possibile contestare l’esistenza del credito contributivo tramite l’introduzione di un giudizio di accertamento negativo del credito; un diverso orientamento si basa invece sulla mancata qualificazione del termine in esame come perentorio, e sul fatto che l’iscrizione a ruolo non avviene sulla base di un accertamento giudiziale incontrovertibile, bensì sulla base della sola auto-dichiarazione dell’ente previdenziale medesimo). Il procedimento è regolato dalle norme sul processo previdenziale, ed il suo oggetto può vertere tanto sull’an che sul quomodo della pretesa previdenziale. Il ricorso spesso contiene un’istanza di sospensione dell’esecutività del ruolo, suscettibile di accoglimento in presenza di gravi motivi. Nel giudizio l’INPS si costituisce anche per conto della S.c.c.i., anche se non sempre in presenza di una procura speciale, per cui a rigore quest’ultima deve essere dichiarata contumace. Se invece il ricorso non è stato notificato alla S.c.c.i. (od alla Banca Monte dei Paschi di Siena) deve essere ordinata l’integrazione del contraddittorio, trattandosi di un’ipotesi di litisconsorzio necessario. Il datore di lavoro alle volte si astiene dall’effettuare la denuncia di cui supra all’INAIL, o perché evasore o perché convinto in buona fede di non dover essere assoggettato ad onere contributivo alcuno: in questi casi l’INAIL diffida il datore mediante cartolina raccomandata, fissandogli un termine di 10 giorni per l’adempimento. Se persiste nella propria opinione, il datore potrà ricorrere nello stesso termine all’Ispettorato del lavoro, contro le cui decisioni è data facoltà di un ulteriore ricorso al Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Circa il quantum dell’obbligo contributivo, esso varia non solo in relazione alla lavorazione svolta, ma altresì, in aumento od in diminuzione, in relazione all’effettiva situazione dell’azienda per quanto riguarda il rispetto delle norme di prevenzione degli infortuni e dell’igiene sul lavoro ed in considerazione dell’andamento degli infortuni e delle malattie verificatesi in azienda. Il datore di lavoro peraltro può ritenere che il suo obbligo contributivo sia di ammontare troppo elevato, o perché l’INAIL ha provveduto ad inquadrare l’attività esercitata nell’ambito di una voce che l’assicurante ritiene erronea e che comporta il pagamento di premi in misura superiore rispetto a quella ritenuta corretta, o perché si eccepisce che l’esiguo numero di infortuni verificatisi nell’azienda giustifichi un abbattimento del premio. In questi casi è data possibilità di ricorrere ad una commissione nominata con decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale composta da un ispettore del lavoro, che la presiede, e da rappresentanti dei datori e dei lavoratori, e contro le cui decisioni è possibile ricorrere ulteriormente al Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Il d.P.R. 314/2001 dispone la sospensione dell’efficacia del provvedimento oggetto di ricorso. Il termine di prescrizione del diritto alla riscossione dei premi è pari a cinque anni. Il dies a quo coincide con la data in cui il datore di lavoro è tenuto ad eseguire il versamento, che per il primo premio coincide con la data di inizio del lavoro. La prescrizione è interrotta per effetto di atto idoneo a costituire in mora il debitore o per via di riconoscimento da parte di quest’ultimo, nonché a seguito dell’accertamento da parte degli ispettori dell’INAIL. La prescrizione è sospesa quando il datore di lavoro pone in essere comportamenti dolosi tesi ad occultare l’esistenza del credito, come l’irregolare tenuta di libri paga e matricola. 3. Attività protette e soggetti assicurati Per quanto concerne la sfera soggettiva di efficacia della tutela, di devono combinare due criteri: F 0 6 1 F 0 2 E il primo si riferisce alle attività protette, distinte a seconda che il pericolo di infortunio discenda dalla pericolosità dell’ambiente in cui si svolge l’attività tutelata, ovvero dalla natura stessa del lavoro; F 0 6 2 F 0 2 E il secondo criterio si riferisce direttamente alle persone protette. L’assicurazione in esame è obbligatoria con riferimento alle persone addette a macchine mosse non direttamente da persona che ne usa, ad apparecchi a pressione, ad apparecchi ed impianti elettrici o termici, nonché delle persone comunque occupate in opifici, laboratori od in ambienti organizzati per lavori, opere o servizi, che comportino l’impiego di tali macchine, apparecchi od impianti. Secondo la precedente normativa venivano in rilievo solo le macchine mosse da agente inanimato con qualunque tipo di energia, mentre oggi l’assicurazione sussiste anche se il macchinario sia azionato da un compagno di lavoro. La tutela sussiste anche quando le macchine di cui supra siano adoperate anche in via transitoria o non servano direttamente ad operazioni attinenti all’esercizio dell’industria che forma oggetto di detti opifici od ambienti, ovvero siano adoperati dal personale comunque addetto alla vendita, per prova, presentazione pratica od esperimento. Se le macchine vengono usate in uno spazio isolato al di fuori dell’ambiente di lavoro principale, la tutela viene limitata solo agli addetti della macchina stessa (per es. gli autisti), mentre ove si trovino all’interno dello stabilimento, la tutela è estesa a tutti i dipendenti. Sono considerati come addetti a macchine, apparecchi od impianti tutti coloro che compiono funzioni in dipendenza e per effetto delle quali sono esposti al pericolo di infortunio direttamente prodotto dalle macchine, apparecchi od impianti suddetti. Il presupposto della norma è la pericolosità dell’ambiente, determinata dalla presenza di macchine, comunque azionate. Essendo la pericolosità presunta dalla legge in modo assoluto, non si può accogliere l’argomentazione di chi ritiene che ci si possa sottrarre all’obbligo assicurativo laddove esistono dispositivi di sicurezza che eliminino o scemino fortemente la possibilità di un effettivo pericolo. Le fattispecie finora esaminate postulano una pericolosità in considerazione dell’ambiente in cui si svolge il lavoro, in quanto caratterizzato dalla presenza di macchine, ma la pericolosità può essere intrinseca alla natura stessa dell’attività lavorativa, ossia al suo contenuto oggettivo. Il TU elenca tassativamente una serie di attività in costanza delle quali, pur mancando i requisiti sopra analizzati, ricorre l’obbligo assicurativo presso l’INAIL. Le attività in esame sono diverse: di costruzione, manutenzione, riparazione e demolizione di opere edili (n. 1); di scavo (n. 4); di trasporto per via terrestre (n. 7); di carico e scarico (n. 10); etc. Secondo il 4 TU 1124/1965, sono altresì compresi nell’assicurazione, in quanto non tutelati sulla base delle precedenti disposizioni, i soggetti ricompresi nelle nove fattispecie elencate; si tratta, ad es., F 0 6 1 F 0 2 E di coloro che in modo permanente od avventizio prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui opera manuale retribuita, qualunque sia la forma di retribuzione; F 0 6 2 F 0 2 E di coloro che anche senza partecipare materialmente al lavoro sovraintendono al lavoro di altri; F 0 6 3 F 0 2 E degli artigiani, che prestano abitualmente opera manuale nelle rispettive imprese; F 0 6 4 F 0 2 E degli apprendisti. In sintesi, l’assicurazione concerne tanto i lavoratori subordinati che autonomi, oltre ai lavoratori associati; ricomprende infine studenti e carcerati. In ambito agricolo, l’assicurazione è estesa in dipendenza dell’attività agricola stessa, e non di singoli tipi di lavorazioni, ed in base alla posizione dei lavoratori. Nel primo senso, è attività agricola quella diretta alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame ed attività connesse, anche se i lavori siano eseguiti con uso di macchine e non per conto e nell’interesse dell’azienda conduttrice del fondo; sono altresì considerate agricole le lavorazioni connesse, complementari ed accessorie dirette alla trasformazione ed all’alienazione dei prodotti agricoli, purché siano svolte sul fondo dell’azienda o nell’interesse e per conto di un’azienda agricola; infine, sono considerate agricole le lavorazioni alle quali si estende la tutela contro gli infortuni nell’industria quando siano svolte da un imprenditore agricolo ovvero siano svolte per conto e nell’interesse di aziende agricole e forestali. I lavoratori protetti sono tutti quelli fissi od avventizi, addetti ad aziende agricole o forestali, come pure i proprietari, i mezzadri, gli affittuari, i loro coniugi e figli che prestino opera manuale abituale nelle rispettive aziende, i sovrastanti ai lavori di aziende agricole e forestali che prestino opera retribuita, i soci di società cooperative conduttrice di aziende agricole e forestali. 4. L’oggetto dell’assicurazione: gli infortuni sul lavoro L’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte od un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni. L’evento rilevante è quindi la lesione della salute derivante dallo svolgimento di attività lavorativa (rischio professionale). Affinché l’assicurato abbia diritto alle prestazioni dell’INAIL in caso di infortunio devono quindi realizzarsi tre presupposti: causa violenta, occasione del lavoro, evento lesivo. La causa violenta è tale quando l’evento dalla cui verificazione discendono, anche a distanza di tempo, effetti dannosi, si verifichi con carattere di evidenza e repentinità. Il requisito in esame differenzia la fattispecie di infortunio sul lavoro rispetto alla malattia professionale, nella quale la stessa causa della lesione opera impercettibilmente ed in modo diluito nel tempo. (Malattie professionali ed infortuni sul lavoro sono assicurati cumulativamente). Ulteriore requisito è che l’evento si sia realizzato in occasione del lavoro: questa circostanza vale infatti a differenziare il rischio specifico che grava sul lavoratore dal rischio generico gravante sulla generalità dei consociati. Il problema si è posto soprattutto con riguardo al c.d. infortunio in itinere, ossia l’infortunio che colpisce l’assicurato nel corso di spostamenti che trovano motivazione nel rapporto di lavoro. Ferma restando l’indennizzabilità di quegli eventi che si verificano quando l’attività lavorativa debba svolgersi necessariamente in itinere (ad es. commessi viaggiatori), la regola della tendenziale irrilevanza dell’infortunio in itinere soffriva di una tassativa eccezione: si trattava dell’infortunio occorso al marittimo durante il viaggio compiuto per andare a prendere imbarco sulle navi al servizio delle quali è arruolato, o per essere rimpatriato – ma non per andare o tornare per le ferie o la malattia, perché l’eccezione è suscettibile di estensione analogica – nel caso in cui la dimissione dal ruolo abbia avuto luogo per qualsiasi motivo in località diversa da quella di arruolamento o da quella in cui si trovava al momento della chiamata per l’imbarco. Per affermare l’indennizzabilità dell’evento secondo la prevalente giurisprudenza occorreva riferirsi al concetto dell’aggravamento del rischio generico: l’infortunio in itinere era indennizzabile nel momento in cui sul verificarsi dell’evento abbiano inciso circostanze connesse con la prestazione di lavoro. Nel caso di inabilità parziale, la rendita spetta in una misura ricompresa tra il 50 ed il 60% se l’inabilità va dall’11 al 60%, mentre se va dal 61% al 79% spetta in una misura analoga. Nel caso di inabilità compresa tra l’80% ed il 100% la rendita è pari al 100% della retribuzione. Il TU 1124/1965 contempla altresì, come ulteriori prestazioni, un assegno per l’assistenza personale continuativa, una rendita ai superstiti in caso di morte dell’assicurato ed un assegno una tantum per spese funerarie, le cure mediche e chirurgiche, compresi gli accertamenti clinici (demandate alle strutture del Servizio Sanitario Nazionale), e le forniture degli apparecchi di protesi. Per gli invalidi nei cui confronti non operi il collocamento obbligatorio, viene prevista l’erogazione di un assegno di incollocabilità. Nell’ipotesi di concause di lesioni, che si realizza quando una lesione normalmente guaribile entro un certo termine guarisce entro un termine maggiore, in considerazione delle peculiari condizioni fisiche dell’infortunato, l’INAIL deve coprire il periodo più lungo (e non per il termine ordinario o di effettiva convalescenza), in considerazione del fatto che diversamente l’assicurato verrebbe a trovarsi sprovvisto di tutela proprio quando si trova in un più grave stato di bisogno. Un altro problema è costituito dalle c.d. concause di inabilità, e si verifica nell’ipotesi in cui un soggetto subisca nel corso del tempo più lesioni la cui somma, se singolarmente considerate, determinerebbe un’incapacità in misura superiore al 100%. A correggere la situazione in esame interviene la c.d. formula Gabrielli, per la quale la perdita percentuale derivante dagli infortuni successivi al primo non va calcolata in termini assoluti, ma in relazione al grado di attitudine lavorativa sussistente dopo l’ultimo infortunio verificatosi In relazione al danno biologico, lo stesso è indennizzato in capitale se pari o superiore al 6% ed in rendita dal 16% in avanti. Circa il termine di prescrizione, il diritto alle prestazioni si prescrive nel termine breve di tre anni. Si prescrive invece nel termine ordinario di 10 anni il diritto alla liquidazione della rendita per inabilità permanente quando la stessa sia già stata riconosciuta dall’INAIL. Il termine comincia a decorrere nel caso di infortunio dal giorno dello stesso, mentre nel caso di malattia professionale la manifestazione della malattia professionale coincide con il primo giorno di astensione completa dal lavoro ovvero col giorno in cui è presentata all’istituto la denuncia. La Corte costituzionale chiarisce che è ben possibile che l’inabilità permanente superi la soglia di indennizzabilità solo in un momento successivo all’infortunio, e che pertanto solo da tale momento il diritto può essere esercitato e può quindi decorrere la prescrizione. Per quanto riguarda i ricorsi esperibili dall’infortunato, questi si riducono ai casi in cui si contesta o la durata della temporanea con la richiesta di un più lungo periodo di infermità indennizzata o la percentuale della rendita assegnata ritenuta inadeguata (nei quali casi decide eventualmente una collegiale medica), ovvero ancora quando si contesta l’importo dell’indennità di temporanea o della rendita ritenuta inferiore al dovuto perché certe indennità non sono state calcolate nella retribuzione imponibile o perché l’assicurante ha assoggettato a contribuzione una somma inferiore a quella effettivamente erogata all’infortunato. 7. Le malattie professionali L’assicurazione contro gli infortuni si estende anche a quella contro le malattie professionali che, al pari dei primi, sono eventi in grado di incidere negativamente sulla capacità lavorativa dell’assicurato. Le malattie professionali si differenziano tuttavia dagli infortuni per il fatto che la loro causa non è violenta, bensì lenta e progressiva. Inoltre le stesse devono essere contratte non “in occasione” del lavoro, ma “a causa” dello stesso. L’originaria normativa garantiva gli assicurati solo a fronte di fattispecie integralmente ricadenti nell’ambito di apposite tabelle allegate al TU 1124/1965, nelle quali venivano prese in considerazione tre ordini di circostanze: F 0 6 1 F 0 2 E il tipo di malattia (per es. malattie causate da piombo, leghe e composti); F 0 6 2 F 0 2 E le lavorazioni svolte; F 0 6 3 F 0 2 E il periodo di indennizzabilità decorrente dalla cessazione dell’attività morbigena. Qualora si fossero realizzate tutte e tre le circostanze contemplate in tabella, operava una presunzione iuris et de iure circa la sussistenza di un nesso eziologico tra la lavorazione morbigena e la malattia dell’assicurato, ed il lavoratore aveva diritto alle prestazioni previdenziali. Il sistema presentava degli inconvenienti a causa della sua tassatività. Il contrasto col 38.2 Cost., che esige una tutela dell’assicurato in caso di malattia “a tutto campo”, era evidente. La Corte costituzionale è pertanto intervenuta determinando il passaggio dal sistema tabellare al sistema misto. La disciplina dell’assicurazione in esame attualmente vigente si articola in diverse forme: F 0 6 1 F 0 2 E per le malattie tabellate, causate da lavorazioni tabellate, denunciate entro i termini massimi di indennizzabilità del pari tabellati, l’assicurato trarrà vantaggio dalla presunzione legale assoluta; F 0 6 2 F 0 2 E per le malattie tabellate e provocate da lavorazioni tabellate, ma denunciate all’INAIL oltre i termini suddetti, occorre distinguere a seconda che l’assicurato possa dimostrare che la manifestazione della malattia sia avvenuta entro i termini suddetti o meno: nel primo caso fruirà della presunzione legale propria del sistema della lista, altrimenti dovrà provare la natura professionale della malattia; F 0 6 3 F 0 2 E per le malattie non tabellate e/o contratte in lavorazioni non tabellate, l’assicurato dovrà provare con i mezzi ordinari l’eziologia professionale della malattia. Anche nel caso di malattie professionali la possibilità di prestazioni economiche è subordinata al fatto che la riduzione permanente della capacità lavorativa sia superiore al 10%. 8. L’art. 10 t.u., l’esonero dell’assicurante dalla responsabilità civile e la Corte costituzionale In caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale ascrivibile ad un fatto illecito del datore di lavoro assicurante o dei soggetti dei quali lo stesso debba rispondere dal punto di vista civilistico, viene astrattamente in rilievo il 2087 [Tutela delle conduzioni di lavoro], che impone in capo al datore di lavoro un’obbligazione di protezione in favore dei suoi dipendenti. Il sistema della responsabilità civile viene però derogato in base al 10 TU 1124/1965, il quale stabilisce che L'assicurazione a norma del presente decreto esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro. Si verifica dunque un esonero da responsabilità civile, ma vi sono delle eccezioni, cioè salvo che nel caso di evento dannoso derivante da una condotta (propria o del personale da lui incaricato per la direzione e la sorveglianza del lavoro) che ha costituito oggetto di sentenza penale di condanna, ovvero in caso di estinzione del reato medesimo per morte od amnistia. In quest’ultimo caso l’assicurato danneggiato può chiedere la condanna dell’assicurante a titolo di responsabilità civile in ordine al danno differenziale (ossia quella parte di danno che non viene coperta dalle prestazioni economiche erogate dall’INAIL), e l’INAIL può per contro agire in regresso nei confronti di quest’ultimo per recuperare quanto erogato in favore dell’assicurato. La norma è il risultato di un compromesso; in taluni punti l’esito dello stesso si rivela tuttavia insoddisfacente, specie per quanto concerne l’ammontare delle prestazioni a favore di determinate categorie di assicurati i quali, per il fatto di godere di una retribuzione più bassa del normale (per es. gli apprendisti) ovvero di non godere di alcuna retribuzione in senso stretto (per es. gli studenti) si vedono riconoscere prestazioni del tutto insoddisfacenti. In questi casi l’impossibilità di ottenere un integrale risarcimento per la parte del danno non coperta dalle prestazioni dell’INAIL è stata da alcuni considerata contraria al 3 Cost., sulla base dell’assunto che l’assicurato infortunatosi ha diritto ad una tutela più ridotta di quella spettante al soggetto non assicurato che subisca un infortunio, il quale può agire in base alle ordinarie regole di responsabilità civile. La Corte costituzionale ha però rigettato l’istanza, sostenendo che se l’assicurato è svantaggiato rispetto al comune cittadino per il motivo esaminato, a differenza di questi è avvantaggiato sotto due profili: dal punto di vista processuale perché non ricade su di lui alcun onere probatorio per ottenere l’indennizzo, e dal punto di vista sostanziale perché il suo diritto alle prestazioni non viene meno neppure nel caso in cui l’infortunio sia dovuto a sua colpa, anche grave. (Nel caso l’infortunio sia derivato da dolo dell’assicurato accertato con sentenza penale, l’INAIL ex TU 1124/1965 può agire in regresso verso lo stesso per recuperare le prestazioni erogate). Vantaggi e svantaggi pertanto vengono a compensarsi, considerata altresì la vigenza del principio di automaticità delle prestazioni, ad ulteriore garanzia dell’assicurato. Tuttavia la tenuta del sistema era destinata a vacillare non appena le fattispecie di responsabilità del datore aumentino: in questo caso infatti egli verrebbe sempre più esposto al costo del danno derivante dall’infortunio nei confronti dell’assicurato, quantomeno per la parte che non risulta coperta dall’INAIL (c.d. danno differenziale). Si consideri poi che per quanto riguarda le somme erogate dall’INAIL, il TU 1124/1965 prevede la possibilità dell’ente di agire in regresso verso il datore a fronte dell’erogazione di prestazioni previdenziali nei casi in cui sia prevista la responsabilità civile di questi. La Corte costituzionale ha ampliato la responsabilità civile del datore in tutti i casi in cui il danno sia causato da un comportamento costituente reato perseguibile d’ufficio, La Corte infine statuì l’illegittimità del 10 TU 1124/1965 nella parte in cui precludeva all’assicurato di chiedere la condanna del datore di lavoro al risarcimento dell’intero danno biologico, anziché la sola quota di danno eccedente la somma già indennizzata dall’INAIL. In conseguenza di questo frazionamento teorico del danno biologico (parte inteso come relativo alla capacità lavorativa generica, parte invece agli aspetti extralavorativi della persona dell’assicurato), parte della giurisprudenza ha ritenuto allora che l’assicurato danneggiato non potesse pretendere dal danneggiante l’intero risarcimento del danno biologico, ma solo una frazione dello stesso, individuata talvolta nella misura di 2/3 dello stesso (ciò sul presupposto che per 1/3, la parte di giornata mediamente destinata al lavoro, lo stesso fosse già coperto dal sistema degli indennizzi dell’INAIL). Di riflesso, all’INAIL era concesso rivalersi nei confronti del danneggiante, nella misura di 1/3. Presupposto di quest’orientamento era la convinzione che l’attitudine al lavoro di cui al TU 1124/1965 fosse un aspetto particolare (siccome non terrebbe conto della vita extralavorativa del danneggiato) del danno biologico. Altra parte della giurisprudenza non ha invece ritenuto di seguire tale indirizzo, ritenendo che l’attitudine al lavoro sia concetto del tutto differente da quello di capacità lavorativa generica ed inerente piuttosto ad una capacità lavorativa in atto, e quindi ad un valore di natura patrimoniale. Le conseguenze erano che il lavoratore assicurato poteva pretendere l’intero risarcimento del danno, e che l’INAIL non poteva agire in regresso avverso il datore- assicurante a titolo di danno biologico. Ciò poteva determinare degli squilibri, per es. nel caso in cui l’infortunio non avesse avuto ripercussioni patrimoniali apprezzabili, considerato anche che le percentuali di invalidità dell’INAIL erano mediamente più elevate rispetto a quelle elaborate ai fini del risarcimento del danno biologico in sede civile, accadeva che l’assicurato danneggiato incassava per intero sia l’indennizzo INAIL che il risarcimento del danno biologico dal responsabile civile, ma poiché l’INAIL non poteva agire in surrogazione per tale ultima voce di danno contro il responsabile civile, si verificava un ingiustificato lucro del danneggiato. Il d. lgs. 38/2000 ha ricompreso nell’ambito dell’INAIL il danno biologico, definito come la lesione all’integrità psico-fisica suscettibile di valutazione medico legale della persona. Con ciò si è evitato in capo all’assicurato l’onere di rivolgersi al responsabile civile per ottenere il relativo risarcimento e, di riflesso, impedendogli di ottenere un doppio risarcimento sul punto. Permangono però dei problemi, derivanti dal fatto che a tutt’oggi il risarcimento del danno biologico, in sede di giudizio di responsabilità civile, avviene sulla base di tabelle predisposte in via ufficiosa (senza portata vincolante) dai vari Tribunali e/o distretti di Corte d’appello senza avere riguardo alla tabella delle menomazioni (di cui al d. lgs. 38/2000), di cui invece si deve avvalere l’INAIL per quantificare l’indennizzo per il danno biologico: sorge il problema relativo alla possibilità del danneggiato di chiedere il risarcimento del danno differenziale. La facoltà dell’assicurato di agire nei confronti del responsabile civile per il risarcimento del danno differenziale (che può ricomprendere anche il danno biologico permanente inferiore al 5%, nonché quello temporaneo, che non risultano indennizzati dal decreto in esame) è discussa, perché si potrebbe ritenere che il sistema indennitario predisposto dal d. lgs. 38/2000 ripropone un modello transattivo che deve intendersi come complessivamente satisfattivo per l’assicurato e per il datore di lavoro assicurante. 10. La surroga e il regresso dell’INAIL L’INAIL, qualora eroghi delle prestazioni economiche a favore dell’assicurato a seguito di infortunio sul lavoro causato da un terzo, subentra ex 1916 (Diritto di surrogazione dell'assicuratore) nel diritto al risarcimento del danno dell’assicurato nei confronti del responsabile civile. La ratio dell’istituto è quella di evitare che l’infortunato possa conseguire per effetto del medesimo accadimento dannoso un doppio risarcimento. Da tale meccanismo discendono due conseguenze: la prima è che il termine di prescrizione già maturato nei confronti dell’assicurato non ricomincia a decorrere nuovamente una volta che nel credito è subentrato l’ente assicuratore, e ciò perché si tratta del medesimo diritto di credito; la seconda è che l’azione di surroga, avendo ad oggetto l’esercizio di un “normale” credito risarcitorio, è di competenza del giudice ordinario anziché del giudice del lavoro. Tali ultime differenze caratterizzano l’azione in esame rispetto a quella di regresso: quest’ultima compete iure proprio all’INAIL nei confronti del datore di lavoro assicurante nei casi in cui non opera l’esonero dalla responsabilità civile, e discende direttamente dal rapporto di assicurazione sociale. Il termine per l’esercizio dell’azione di regresso è poi di soli tre anni (TU 1124/1965). Nel caso di surroga, si discute se la successione dell’assicuratore nei diritti dell’assicurato si verifichi a seguito della comunicazione (c.d. denunciatio) al terzo responsabile da parte dell’assicuratore della volontà di avvalersi della surrogazione ovvero solo a seguito del pagamento della relativa indennità assicurativa, come si evincerebbe dalla lettera della legge (l’assicuratore che ha pagato l’indennità…). L’INAIL, una volta esercitato il diritto di surroga, subentra nella medesima situazione sostanziale del danneggiato; il terzo responsabile potrà quindi sollevare eccezioni inerenti a tale rapporto. Nel caso di transazione tra danneggiato-assicurato e danneggiante, l’INAIL ha diritto di detrarre dalle prestazioni assistenziali che è tenuta ad erogare quanto percepito dall’assicurato. Nel caso di concorso di colpa dell’assicurato nella causazione del danno (1227: Concorso del fatto colposo del creditore), lo stesso attiene al quantum del risarcimento sul piano dei rapporti col terzo responsabile. Per contro, resta invece fermo il limite esterno del diritto di surroga, vale a dire l’ammontare delle prestazioni erogate dall’INAIL: il concorso di colpa non incide sulla somma dovuta dall’INAIL. Circa l’oggetto della surroga, la Corte costituzionale ha precluso all’INAIL di surrogarsi nel danno biologico o nel danno morale spettante all’assicurato; non di meno la stessa ha lasciato àdito a dei dubbi ritenendo che parte dell’indennità erogata dall’INAIL avvenga a tale ultimo titolo. La Cassazione ha però ritenuto possibile solo la surroga avente ad oggetto il danno patrimoniale, ma al fine di valutare quest’ultimo sono sorti due orientamenti: F 0 6 1 F 0 2 E il primo valuta il danno alla capacità lavorativa specifica in base a criteri medico- legali, e procede poi alla capitalizzazione dello stesso tenendo conto della retribuzione dell’assicurato; F 0 6 2 F 0 2 E il secondo richiede invece all’INAIL la prova, più rigorosa, dell’effettivo danno patrimoniale subìto dall’assicurato medesimo. Un altro orientamento invece ritiene che nell’ambito della rendita vi sia una componente di danno biologico, che è stata quantificata nella misura di un terzo, ovvero rimettendone la valutazione ad un consulente tecnico d’ufficio. Il diritto di regresso postula l’ammissione dell’assicurato alle prestazioni erogate dall’INAIL, e l’esistenza della responsabilità civile del datore di lavoro derivante da un fatto di reato perseguibile d’ufficio commesso dallo stesso datore o da personale dipendente del cui operato egli debba rispondere. Sono perseguibili d’ufficio i reati di omicidio colposo, le lesioni personali colpose gravi (ossia quelle con malattia di durata superiore a 40 giorni) o gravissime commesse con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro, e tutte le lesioni che abbiano cagionato una malattia professionale. Il regresso, a differenza della surroga di cui al 1916 (Diritto di surrogazione dell'assicuratore), è un diritto che sorge autonomamente in capo all’INAIL per effetto dell’erogazione delle prestazioni economiche da parte dello stesso e nei casi in cui l’assicurante non è esonerato da responsabilità civile. Si tratta quindi di un’azione che inerisce per sua natura al sistema previdenziale, e pertanto esercitabile nelle forme del processo del lavoro, entro un periodo massimo di tre anni. 6 – I RICORSI AMMINISTRATIVI E GIURISDIZIONALI 1. I ricorsi amministrativi I ricorsi amministrativi sono delle dichiarazioni di volontà attraverso le quali il titolare di una situazione giuridica soggettiva ritenuta lesa da un provvedimento amministrativo si rivolge all’autorità amministrativa affinché questa, ex auctoritate sua, riveda il proprio operato. A seguito della presentazione del ricorso, l’amministrazione adìta è tenuta ad avviare un procedimento di natura amministrativa volto a riesaminare il proprio operato (potere di autotutela). In caso di controversia con l’ente previdenziale, l’esperimento dei ricorsi in esame si pone come condizione necessaria per accedere alla tutela giurisdizionale. Il difetto della domanda amministrativa di erogazione delle prestazioni previdenziali determinerebbe del resto l’assoluta improponibilità della domanda giudiziale di tutela, determinandosi in tal caso una temporanea carenza di giurisdizione, rilevabile in qualsiasi stato e grado del giudizio. I ricorsi amministrativi hanno ad oggetto gli atti coi quali l’istituto previdenziale neghi il diritto alle prestazioni. Quando l’assicurato ritiene di aver maturato il diritto ad una prestazione previdenziale, deve farne istanza all’istituto previdenziale, ma poiché la prestazione viene erogata su domanda dell’interessato, che integra allora un requisito sostanziale di fattispecie, se nel caso concreto la stessa non è stata presentata si dice che l’autorità giudiziaria eventualmente adìta in via diretta dall’assicurato manca in via assoluta e permanente della possibilità di conoscere della controversia. In questi casi il processo instaurato dall’assicurato si interrompe definitivamente. Occorre che l’ente assicurante si pronunci sulle istanze dell’assicurato: in relazione a tale esigenza, la l. 533/1973 dispone che in materia di previdenza ed assistenza In tema di revisione delle rendite, la Cassazione precisa che il termine per complessivi 15 anni per la revisione della rendita per inabilità professionale non preclude la revisione ad opera dell’INAIL per miglioramenti delle condizioni dell’assicurato oltre il quindicennio dalla costituzione della rendita, sempre che il ritenuto miglioramento si sia verificato entro detto quindicennio. È preclusa la possibilità per l’INAIL di disporre la revisione per miglioramento (e si verifica quindi il consolidamento del trattamento in atto) ove l’Istituto, entro un anno dalla data di scadenza del quindicennio dalla costituzione della rendita, non comunichi all’interessato l’inizio del relativo procedimento. In ordine al dies a quo della prescrizione in esame, secondo la Cassazione lo stesso decorre non dalla data della manifestazione di detta malattia, ma dal omento in cui la malattia medesima abbia dato luogo al postumo indennizzabile. Secondo la Cassazione, ai fini della decorrenza della prescrizione triennale la consapevolezza dell’esistenza della malattia e della sua origine professionale si può ragionevolmente presumere sussistente alla data della domanda amministrativa). L’instaurazione del processo si attua tramite ricorso (e non già con atto di citazione) e l’intero procedimento è informato ai canoni dell’oralità e della rapidità. Infine, la provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado garantisce ulteriormente la celere soddisfazione del bisogno dell’assicurato. Nel rito del lavoro ricadono le controversie tra l’istituto di previdenza e gli assicurati per quanto concerne le prestazioni, e tra l’istituto di previdenza ed i datori per quanto concerne il rapporto contributivo. Non vi rientrano invece le controversie per es. tra l’INPS ed i suoi dipendenti per l’aspetto retributivo. La domanda relativa alle controversie suddette non è procedibile se non sono esauriti i procedimenti speciali per la composizione in sede amministrativa, ovvero quando siano decorsi i termini ivi fissati per il compimento dei procedimenti stessi, oppure quando siano comunque decorsi 180 giorni dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo: tre termini alternativi. Il giudice, constatato nella prima udienza il mancato esperimento delle procedure amministrative, sospende l’iter del processo già validamente instaurato, e dispone che l’attore presenti il ricorso in sede amministrativa entro un termine perentorio di 60 giorni: sarà poi onere dell’attore riassumere il processo entro 180 giorni dalla cessazione della causa di sospensione, a pena di estinzione dello stesso. Se il mancato esperimento delle procedure di conciliazione non è rilevato (d’ufficio o a seguito di eccezione di parte) nel corso della prima udienza, il giudice non può rilevarlo successivamente: ad ulteriore dimostrazione che i procedimenti speciali avanti all’autorità amministrativa non sono veri e propri ricorsi amministrativi, perché non opera il principio di perentorietà del termine. In ordine al rilievo delle procedure amministrative nel corso del giudizio civile, la legge dispone che nei procedimenti riguardanti le controversie in esame non si tiene conto dei vizi, delle preclusioni e delle decadenze verificatesi. Definiamo preclusione la perdita, l’estinzione o la consumazione di una facoltà processuale che si subisce per il fatto o di non avere osservato l’ordine assegnato dalla legge al suo esercizio, come i termini perentori e la successione legale delle attività e delle eccezioni, o di aver compiuto un’attività incompatibile con un’altra, o di aver già una volta validamente esercitato la facoltà. La decadenza consiste invece nella perdita di un diritto per il decorso di un certo termine e dell’inattività del soggetto interessato. Il concetto di vizio non sembra strettamente qualificabile in termini dogmatici, ed è empiricamente definibile come quell’irregolarità foriera di conseguenze negative per l’avente diritto. La domanda introduttiva del giudizio di cognizione deve contenere i dati anagrafici dell’interessato, il codice fiscale e il domicilio. Il 444 c.p.c. (Giudice competente) si occupa della competenza (la competenza è istituto che attiene alla ripartizione degli affari giudiziari tra i diversi tipi di organi giudicanti e, nell’ambito del medesimo tipo, con riguardo alla ripartizione sul territorio nazionale): essa in primo grado spetta al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, in composizione monocratica. Già anteriormente alla modifica del 1998 tali cause erano trattate da un organo monocratico: il pretore. Laddove la controversia riguardi infortuni sul lavoro o malattie professionali di addetti alla navigazione o pesca marittima, è competente il Tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo in cui ha sede l’ufficio del porto di iscrizione della nave (non quindi del porto d’approdo, che potrà invece esercitare le funzioni, non giurisdizionali, relative all’accertamento dell’evento). Il 444.3 si riferisce alle questioni concernenti gli obblighi “dei datori di lavoro”, ma la formula è imprecisa: con la stessa il legislatore intendeva riferirsi a tutti i contribuenti, come per es. i lavoratori autonomi privi di dipendenti che versino i contributi a loro stesso vantaggio (quest’ultima interpretazione sembra però respinta dalla recente giurisprudenza, secondo la quale il 444.3 introduce un’eccezione, per cui non è suscettibile di applicazione estensiva od analogica); per tali controversie è competente il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’ente previdenziale. Si tratta di una peculiare applicazione del 25 c.p.c. (Foro della pubblica amministrazione), per il quale nelle controversie in cui è parte in causa un’amministrazione dello Stato competente per territorio è il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice competente secondo le norme ordinarie. Il 445 c.p.c. concerne la nomina del consulente tecnico d’ufficio, la cui funzione consiste nel rispondere ai quesiti formulati dal giudice allorquando siano richieste nozioni di carattere tecnico di cui il giudice non è in possesso: per es., si pensi alla misura della riduzione della capacità lavorativa. La c.t.u. è infatti un’indagine di tipo medico-legale che si svolge nel contraddittorio tra le parti (mentre nella fase amministrativa l’esistenza dei requisiti di salute viene accertata unilateralmente). La nomina di un consulente tecnico d’ufficio è necessaria per il giudice di primo grado, a pena di invalidità della sentenza, mentre in sede d’appello tale obbligo non sussiste; in caso di omessa nomina in primo grado, però, il giudice deve nominare un consulente. Il giudice è tenuto a prendere in esame la consulenza tecnica e ad indicare gli specifici motivi in base ai quali ritenga di disattenderla. Gli istituti di patronato e di assistenza sociale legalmente riconosciuti, su istanza dell’assistito, possono in ogni grado del giudizio rendere informazioni ed osservazioni orali o scritte tramite un loro rappresentante, ed il giudice deve tenerne conto in sede di giudizio. I patronati sono enti collettivi legittimati a svolgere attività nei confronti dell’ente previdenziale per conto dell’assistito. Sono chiamati a prestare attività di assistenza gratuita nei confronti di tutti coloro che ne facciano richiesta e non solo ai propri iscritti, e sono finanziati dallo Stato in base al numero di pratiche svolte. Le sentenze emanate nelle controversie di cui al 442 c.p.c. sono provvisoriamente esecutive; tuttavia l’immediata esecutività delle sentenze di primo grado è divenuta regola generale del processo civile. Il 431 c.p.c. consente di iniziare l’esecuzione sulla base della sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per depositare la sentenza. Avverso le sentenze rese nelle materie di cui al 442 c.p.c. è ora previsto l’appello alla Sezione lavoro della Corte d’appello, e non più del Tribunale su base distrettuale. Nelle controversie in materia d’invalidità pensionabile deve essere valutato dal giudice anche l’aggravamento della malattia, nonché tutte le infermità comunque incidenti sul complesso invalidante che si siano verificate nel corso tanto del procedimento amministrativo quanto del processo giudiziario. Si tratta di un’eccezione al regime delle preclusioni vigente in ambito processuale, per il quale la controversia deve essere esattamente delimitata e delineata nel corso della prima udienza. Nel caso pendano avanti al medesimo tribunale diversi procedimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza, connessi tra di loro anche solo per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, in tutto od in parte, gli stessi devono essere riuniti, salvo nelle ipotesi in cui la riunione non renda eccessivamente gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo. Il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non è assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non sia manifestamente infondata e temeraria. La disposizione era stata abolita, ma tale abrogazione è stata ritenuta incostituzionale. La stessa è stata però modificata: il legislatore esclude dal privilegio dell’esonero dalle spese processuali i soggetti più abbienti. (Un ambito peculiare di controversie in materia di prestazioni previdenziali riguarda l’ipotesi in cui l’istituto assicuratore abbia erroneamente erogato delle prestazioni non dovute agli assicurati: già l’80 r.d.l. 1422/1924 attribuiva rilievo alla buona fede dell’assicurato nella percezione della prestazione previdenziale al fine di escludere il diritto alla ripetizione dell’ente previdenziale, in deroga alla disciplina ordinaria, nella quale la buona fede dell’accipiens vale solo a modulare l’obbligo di corrispondere gli interessi sulla somma indebitamente percepita, fermo restando l’obbligo di restituzione della stessa. L’80 r.d.l. 1422/1924 ha quindi natura eccezionale, e non si applica oltre i casi considerati. Una regola analoga a quella dell’80 r.d.l. 1422/1924 è stata estesa al settore del pubblico impiego. Di seguito si è stabilito che le pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, delle assicurazioni generali sostitutive o integrative dell’assicurazione generale obbligatoria e delle gestioni speciali possono essere in ogni momento rettificate dagli enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di