Scarica nozioni di diritto della previdenza sociale e più Prove d'esame in PDF di Diritto Della Sicurezza Sociale solo su Docsity! Nozioni di diritto della previdenza sociale Capitolo 1 storia e fondamento della previdenza sociale Origini del sistema della previdenza sociale L’industrializzazione ha interrotto i legami di solidarietà che si erano sviluppati nella società contadina imponendo l’urbanizzazione di grandi masse operaie chiamate a risiedere vicino agli impianti produttivi e quindi ad abbandonare le famiglie e i luoghi di origine. L’incremento demografico imponeva che fosse espulsa dalla campagna una parte della popolazione rurale e chiaramente le città attiravano tali soggetti. lo sviluppo economico richiedeva manodopera, sostanzialmente priva di specializzazione, e dava luogo, nel settore dei servizi, ad occasioni di guadagno collegate alla crescita delle città stesse. Venuta meno la tradizionale rete di solidarietà, per gli operai delle grandi aziende industriali la malattia e l’infortunio venivano a creare la prospettiva di una povertà così profonda da mettere in pericolo la stessa loro esistenza è quella della loro famiglia. La massa degli invalidi sarebbe stata abbandonata a se stessa; in realtà non mancavano esperienze nelle quali erano stati i lavoratori a preoccuparsi dei rischi del loro avvenire, istituendo quelle società di mutuo soccorso che sono state spesso alla base del sindacalismo moderno. Questi rinunciavano volontariamente ad una parte del proprio guadagno al fine di costituire un fondo comune dal quale attingere quando necessario al pagamento di un capitale o di una rendita in caso di inabilità o di vecchiaia. Il sistema mutualistico mostrò tuttavia presto i suoi limiti. La disciplina generale in tema di responsabilità civile non lasciava gli operai e i contadini sprovvisti di tutela a fronte di incidenti che ne avessero menomato la capacità lavorativa, dato che era sempre possibile attivare l’ordinaria tutela che il principio neminem laedere riserva ad ognuno per ottenere ristoro in caso di danno conseguente a fatto illecito. Il risarcimento non era però sempre semplice per ragioni di tempi e di costi; in assenza di una norma come quella di cui all’odierno art. 2087 codice civile, si discuteva della natura aquiliana o contrattuale della responsabilità dell’imprenditore. Le due soluzioni comportano una differente disciplina in merito alla distribuzione dell’onere della prova: mentre a fronte di un inquadramento in termini di responsabilità da inadempimento è sufficiente che il lavoratore provi solamente l’infortunio, in caso di riconduzione alla responsabilità extracontrattuale (o aquiliana) , egli sarà onerato dalla prova del fatto dannoso e della colpa e quindi della ricostruzione del ricorso causale che collega condotta ed evento, rendendo nei fatti remota la possibilità di una condanna del datore di lavoro. Per evitare l’applicazione di una regola di cui si avvertiva l’inadeguatezza rispetto alle esigenze dei tempi moderni, la dottrina della fine del 19º secolo propone quindi un nuovo criterio di imputazione della responsabilità civile da affiancare a quello tradizionale della colpa, affermando per questi casi la responsabilità da rischio professionale in capo a coloro che esercitano attività pericolose per il solo fatto che il soggetto tragga profitto da tale attività . In questo modo il lavoratore avrebbe potuto giovarsi di una sorta di regime presuntivo idoneo a superare le difficoltà del piano processuale, essendo chiamato il datore, per non incorrere in responsabilità risarcitoria, a dare la prova del fortuito. La soluzione non appariva però in grado di risolvere il problema, dato che restava comunque l’insoddisfazione di tanti che non riuscivano ad ottenere alcun ristoro alla propria invalidità. Fu necessario l’intervento dello Stato. Sull’esempio della legislazione tedesca, nel 1898 fu quindi emanata in Italia la legge contro gli infortuni sul lavoro nell’industria che imponeva agli imprenditori di assicurarsi contro i rischi derivanti dall’esercizio dell’impresa. Risultato: • Lo Stato, addossando agli imprenditori l’obbligo di assicurarsi e il pagamento del premio, costituiva un sistema di protezione sociale verso il principale dei rischi collegati all’attività dei lavoratori subordinati. • Gli imprenditori erano sollevati dall’obbligo del risarcimento oramai trasferito in capo all’impresa assicuratrice . • I lavoratori infine, attraverso il sistema assicurativo, ottenevano un risarcimento in tempi brevi senza dover attendere la conclusione del processo. Il sistema assicurava, non il pieno ristoro della perdita subita, ma solo un indennizzo, calcolato sulla base della retribuzione percepita in via ordinaria dal lavoratore, senza che il danno ulteriore potesse trovare risarcimento. Garantiva però, a differenza dell’accertamento giudiziale, una facile quantificazione degli importi dovuti e velocità nel pagamento della rendita. Ben presto questo modello assicurativo fu esteso anche ad altre vicende che mettevano in pericolo l’esistenza del lavoratore, determinando la nascita delle assicurazioni contro il rischio della perdita di capacità lavorativa conseguente a maternità, agli infortuni nel settore agricolo, a disoccupazione involontaria. Venne istituita anche, con la legge n° 350 del 1898 la cassa nazionale di previdenza per la gestione dell’assicurazione invalidità e vecchiaia degli operai, estendendo così la tutela anche nella direzione della previdenza pensionistica. Le assicurazioni sociali nella disciplina del codice civile La materia previdenziale si offre al legislatore del codice civile nella forma di assicurazioni sociali, e quindi come sottotipo della fattispecie generale, cui trovano applicazione, in assenza di una disposizione espressa, gli stessi principi dettati per il contratto di assicurazione. 1886 c.c. Tale norma fa fatica ad essere applicata; l'ancoraggio della previdenza sociale alla logica assicurativa finisce per rispecchiarsi soprattutto nella tecnica adottata nelle leggi speciali per disciplinare il funzionamento degli istituti previdenziali pubblici e per regolare il rapporto tra contributi e prestazioni. Così, nell’assicurazione contro gli infortuni, il sistema si basa sul meccanismo della legge dei grandi numeri, in modo tale che l’ammontare complessivo dei premi annualmente raccolti deve corrispondere all’importo di quanto corrisposto a titolo di indennizzo per lo stesso periodo, così ripartendo il rischio tra tutti gli assicurati. Allo stesso modo nella prospettiva di garantire agli imprenditori un esborso limitato a quanto effettivamente necessario ad assicurare il pagamento delle rendite, la misura dei premi viene stabilita secondo classi di rischio differenziate in ragione dell’attività. Anche in relazione al sistema della pensione di vecchiaia la logica assicurativa non viene abbandonata del tutto: i lavoratori infatti trovano discrezione, con il versamento dei contributi, ad un unico fondo che sottostà alle medesime regole proprie delle assicurazioni private. Essi hanno diritto ad una pensione che dopo la riforma del '95, è commisurata alla quantità dei contributi versati è che viene determinata in funzione della speranza di vita di ciascuno di essi. Come nel contratto assicurativo, nella previdenza sociale pubblica e privata, il corretto calcolo della speranza di vita consente di mantenere in equilibrio il sistema. Il contributi non consumati da chi muore prima dell’età media, restano acquisiti al fondo e costituiscono la provvista necessaria a garantire il pagamento della pensione a coloro che vivono a lungo da superare l’età media, azzerando quindi il montante contributivo che questi avevano direttamente accumulato durante la loro carriera lavorativa. Il codice collocava e colloca, la previdenza nell’ambito delle assicurazioni, seppure l’attributo di “sociali”, che connota la fattispecie in termini di specialità, vale ad esprimere l’idea che la solidarietà fra tutti gli assicurati è quindi frutto di un vincolo che lega tutti soggetti che svolgono una medesima professione. La solidarietà previdenziale che emerge dal sistema normativo, appare come un vincolo che si instaura non in via generale fra tutti lavoratori, ma in stretta correlazione all’ambito determinato dal fondo è quindi in conseguenza alle varie leggi che nel tempo hanno disciplinato il diverso panorama italiano. Le previsioni costituzionali L’assetto normativo è cambiato a fronte del sopraggiungere delle disposizioni costituzionali, in particolare in base all’art. 3, il principio di eguaglianza sostanziale: impone alla Repubblica di rimuovere di promuovere il pieno sviluppo della persona umana, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. 89 previdenziale impone a coloro che ne beneficeranno di sobbarcarsene i relativi costi, con un grado di partecipazione sempre più elevato a seconda delle condizioni patrimoniali e dello stesso momento storico in cui maturano il diritto alla pensione. La corte costituzionale ha stabilito, ferma restando la legittimità del riferimento ad esigenze di bilancio, che il concetto di adeguatezza delle prestazioni pensionistiche, impone una fissazione dell’ammontare delle stesse in un punto intermedio tra il minimo vitale e i mezzi idonei a garantire il tenore di vita raggiunto dal lavoratore. Il mancato riconoscimento della prestazione previdenziale si può giustificare quindi solo allorquando, a fronte di un elevato costo sociale necessario per erogare la medesima, il singolo assicurato consegua un’utilità minima. Anche l’abrogazione della norma relativa alla integrazione al minimo, non si configura necessariamente come un abbandono della concezione finalizzata alla liberazione dal bisogno: il livello minimo di prestazioni viene comunque assicurato attraverso l’assegno sociale, riconosciuto in caso di concreto stato di bisogno del singolo. La partizione tra assistenza del co. 1 e previdenza del co. 2, appare rilevante, e per questo si deve reagire alla tendenza che mira a collocare l’intera previsione costituzionale dell’art. 38 nell’ambito di quelli che la dottrina costituzionalistica qualifica come diritti sociali, dato che in questo modo si perderebbe la specificità della previdenza, rappresentata dalla partecipazione del singolo lavoratore al suo finanziamento. Dall’intero complesso delle disposizioni di cui all’art. 38 Cost, traspare in linea con le previsioni degli articoli 1, 2 e 4, una concezione che impone all’uomo lo svolgimento di un’attività orientata alla produzione, quale imprenditore, lavoratore autonomo, socio di una cooperativa o prestatore di lavoro, privato o pubblico, negando la libertà di estraniarsi dal consorzio civile. Fonti internazionali ed europee. La disciplina italiana deve confrontarsi con alcune fonti internazionali, che dettano norme uniformi di tutela dei lavoratori nella prospettiva di una tendenziale convergenza fra i vari sistemi sociali, come la Convenzione OIL n°102 del 1952, concernente la norma minima della sicurezza sociale e il “Codice europeo di sicurezza sociale”, elaborato nell’ambito del consiglio d’Europa ed adottato a Strasburgo nel 1964, che riprende in larga parte il contenuto della convenzione. Rimane scarsa l’armonizzazione della disciplina previdenziale nell’ambito degli Stati membri dell’Unione Europea. Già il trattato di Roma del 25 marzo 1957 conteneva una norma diretta a facilitare la mobilità dei lavoratori subordinati, prevedendo un sistema che assicurasse al lavoratore che si sposta all’interno del mercato comune, di poter cumulare ai fini della maturazione dei diritti previdenziali, i periodi di lavoro effettuato nei diversi Stati della comunità e di poter ottenere il pagamento della pensione anche dopo aver fatto ritorno al proprio paese. Sono stati emanati i vari regolamenti che hanno disciplinato il coordinamento fra i vari ordinamenti, dettando una serie di disposizioni, che attengono prevalentemente all’area del diritto internazionale privato. La corte di giustizia ha esteso la portata di molti precetti, per rafforzare il diritto individuale alla libertà di movimento, facendo applicazione soprattutto del principio di parità di trattamento. Per il resto, l’art. 153 TFUE prevede che l’unione sostenga e completi l’azione degli Stati membri anche nel campo della sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori, consentendo lo sviluppo di politiche di coordinamento aperto fra i vari sistemi nazionali. Le previsioni delle istituzioni europee sono confluite nella programmazione ora contenuta nell’art. 34 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea , intitolato alla sicurezza e assistenza sociale , secondo il quale “ogni individuo che risiede o si sposta legalmente all’interno dell’unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. Capitolo 2 i soggetti Il rapporto giuridico previdenziale e la sua costituzione. La dottrina ha abbandonato l’idea di un rapporto unitario, che unisca lavoratore, datore ed istituto assicuratore nel quale finanziamento e prestazioni sono direttamente correlate, facendo invece spazio ad una concezione che scinde le due relazioni, collocandole su piani diversi . Il diritto della previdenza sociale ha per oggetto lo studio dei rapporti che intercorrono tra assicurante ed istituto assicuratore per quanto concerne l’aspetto contributivo (“rapporto contributivo”), e tra l’assicurato è l’Istituto medesimo per l’aspetto delle prestazioni (“rapporto giuridico previdenziale”). Assicurante = Il soggetto che per legge è tenuto a versare i contributi previdenziali a favore del lavoratore assicurato , quindi ogni soggetto datore di lavoro. Ordinario presupposto dell’obbligo contributivo è quindi la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, indipendentemente dal fatto che il rapporto sia stato costituito in violazione di norma di legge o dalla mancata effettiva corresponsione della retribuzione. In realtà l’obbligazione viene ad essere condizionata nel suo sorgere dalla qualificazione giuridica dell’attività prestata, dato che il lavoro autonomo puramente occasionale resta esente dall’obbligo di contribuzione, ogni volta che il reddito che il prestatore ne ricava sia inferiore ad un certo ammontare annuo complessivo. Il lavoro irregolare Ai fini della costituzione del rapporto giuridico contributivo, è del tutto irrilevante il fatto che la prestazione di lavoro sia regolare o in nero e quindi senza effettuare le prescritte comunicazioni agli organi pubblici e senza procedere al versamento delle imposte. Regola analoga si applica per quanto riguarda i diritti del lavoratore derivanti dal rapporto di lavoro subordinato, atteso in generale principi di libertà di forma del contratto, ma soprattutto la speciale disciplina della nullità del contratto di lavoro dettata dall’articolo 2126 che vale a sanare per gli aspetti retributivi ogni violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro. La mancata denuncia dar luogo a responsabilità per il datore che omette tale incombenza nella prospettiva di un risparmio sul piano dei costi contributivi ; trovano applicazione in questo caso le sanzioni di cui all’articolo 37 legge 689 del 1981. la mancata denuncia all’Inail non è priva di effetti per l’imprenditore, in tal caso non verrà adoperare la regola della traslazione del rischio in capo all’Istituto assicuratore, che interverrà quindi a riconoscere al lavoratore un indennizzo in forza del principio di autenticità e quindi solo in via di anticipazione con riserva di rivalersi sul datore per gli importi sborsati detratta la somma corrisposta a titolo di contributi omessi. Lo stesso principio si applica per le altre prestazioni, nel limite tuttavia delle presse della prescrizione della contribuzione posto che una volta che sia decorso quel termine è possibile per il lavoratore esperire solamente l’azione di risarcimento dei danni di cui al comma due dell’articolo 2116. La costituzione di rapporti invalidi non dispensa comunque quindi il datore deriva dall’obbligo contributivo. L’articolo 207 del trattato unico Inail limitava la tutela assicurativa contro gli infortuni solo dall’età di 12 anni ; minori di 12 anni che si infortunava non aveva quindi diritto ad alcuna prestazione previdenziale. Articolo quattro della legge 8 agosto 1972 numero 457 ha disposto l’abolizione dei limiti d’età. La corte costituzionale ha confermato l’illegittimità dei limiti in questione. In materia di lavoro dei minori fondamentale resta la legge 17 ottobre 1967 numero 977 secondo la quale occorre distinguere tra gli adolescenti, ossia ai ragazzi di età compresa tra i 15.18 anni e bambini minori di 15 anni che non hanno pertanto l’età minima per l’ammissione al lavoro a differenza dei primi. L’età minima per l’ammissione al lavoro del minore è stata fissata con riguardo al momento in cui questi ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria. Dal punto di vista previdenziale qualunque sia l’età del minore, egli ha sempre diritto alle prestazioni assicurative previste anche se adibito al lavoro in violazione delle norme sull’età minima. Avendo diritto alla retribuzione si può affermare che la sua tutela è completa sotto il versante sia lavorativo sia previdenziale. Regole simili valgono per i lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio italiano, per i quali i datori di lavoro sono comunque tenuti al versamento dei contributi indipendentemente dalla validità del contratto di lavoro. Il lavoro subordinato Assicurati sono anche i lavoratori autonomi oltre a quelli subordinati, il parasubordinati, i soci di cooperativa, i venditori porta a porta e chi gratuitamente si dedica al lavoro di cura non retribuito a beneficio di persone non autosufficienti. Sono anche assicurati materia di infortuni di studenti che attendono ad 89 esercitazioni pratiche, tecnico scientifiche che svolgono esercitazioni di lavoro, ossia persone che normalmente non lavorano né sono tenute alla dichiarazione dei redditi. Le organizzazioni di volontariato devono assicurare i propri aderenti che prestano attività di lavoro di volontariato contro gli infortuni e le malattie connesse allo svolgimento dell’attività stessa. Art. 2094 dispone che è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. La norma del codice sembra richiedere quattro requisiti: l’obbligo di fare , la collaborazione , l’onerosità e la subordinazione . Obbligo di fare: ricorre in tutti contratti di lavoro subordinato, anche se aventi per oggetto mansioni di semplice custodia o attesa. Occorre quindi parlare più che di un obbligo di fare, di un obbligo di disponibilità del prestatore. L’obbligo non è escluso nel rapporto di lavoro subordinato; un obbligo di fare ricorrere nel contratto d’opera in cui la distinzione rispetto al contratto di lavoro subordinato è sottile, dovendo osservare nonna la natura dell’attività in sé considerata ma le circostanze concrete in cui viene svolta . Mentre nel contratto di lavoro subordinato rileva l’attività considerata semplicemente nella sua estensione temporale, nel contratto d’opera la prestazione viene dedotta in ragione del suo risultato . Collaborazione: vale da un lato come richiama gli obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro, dall’altro si estrinseca nell’obbligo del lavoratore di mantenersi a disposizione del datore ai fini di una proficua prosecuzione del rapporto. Onerosità: la categoria dei contratti onerosi sicuramente non esaurita dal contratto di lavoro subordinato. l’onerosità ricorre per esempio anche in un contratto di compravendita il più generale in tutti contratti in quel perseguimento di un vantaggio giuridico è subordinato ad un collettivo sacrificio. Subordinazione: solo se sussiste la subordinazione ricorre la fattispecie dell’articolo 2094 e di riflesso la figura dell’assicurato. Non va confusa con la subordinazione di cui si parla in relazione ad altri contratti . In questi casi viene in rilievo una subordinazione tecnica, mentre nel nostro caso parliamo di subordinazione per individuare il potere del datore di organizzare a proprio piacimento la prestazione del lavoratore Non solo in relazione al risultato, ma anche con riguardo alle modalità di raggiungimento dello stesso. È irrilevante, in ordine all’obbligo di retribuzione, l’effettivo conseguimento dello scopo da parte del datore, ossia dell’avvenuta realizzazione o meno di un profitto. La giurisprudenza nel concreto dell’operazione di qualificazione contrattuale, perviene ad identificare rapporto di lavoro come subordinato in base ad una serie di indici quali l’inserzione del lavoratore nell’organizzazione predisposta dal datore, la sottoposizione alle direttive tecniche, al controllo e al potere disciplinare dell’imprenditore , le modalità di retribuzione , l’obbligo di osservare un orario di lavoro. Il diritto della previdenza sociale ha ampliato notevolmente suo raggio di azione rispetto al diritto del lavoro in senso proprio dato che si rivolge oramai a tutte le forme di attività professionale esercitata informa stabile, indifferentemente dalla natura del contratto. La disciplina previdenziale sembra aspirare ad un ambito di applicazione quanto mai vasto capace di tutelare il lavoro in tutte le sue forme di applicazione. In questa direzione il legislatore ha progressivamente ampliato il numero dei soggetti protetti, prevedendo forme di tutela per ogni figura di lavoratore. Appalto e somministrazione di manodopera L’assicurazione previdenziale del lavoratore subordinato ricorre anche in caso di appalto di somministrazione di manodopera. In questi casi si registra a beneficio dell’interesse pubblico a godere di un flusso costante di finanziamenti, un rafforzamento dell’obbligazione contributiva, mediante la previsione di una responsabilità aggiuntiva del committente e dell’impresa utilizzatrice. L’appalto è il contratto in base al quale il soggetto appaltatore assume con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio, l’obbligo nei confronti del committente del compimento di un’opera. All’assunzione del rischio a proprio carico si correla l’esercizio del potere direttivo necessario al compimento dell’opera. dall’Inps . Appaiono esonerati dall’obbligo contributivo presso l’apposita gestione Inps solo coloro che svolgono attività lavorativa autonomo puramente occasionale incaricati di vendite a domicilio, qualora tutte di reddito annuo che derivi dalla loro attività non sia superiore a € 5000 . In passato si riteneva che chi svolgesse attività di lavoro autonomo in via occasionale dovesse essere esonerato dall’assicurazione e dalla contribuzione; la garanzia di una prestazione previdenziale favore di tali soggetti gli avrebbe posti in una posizione di sostanziale privilegio rispetto che invece lavorava il contribuiva in via stabile. Oggi invece quest’ultimo ostacolo è stato rimosso grazie al passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo. Si finisce quindi per sottoporre a copertura previdenziale qualunque attività di lavoro al fine di garantire una sorta di base comune di diritti, a prescindere dalla natura giuridica del contratto nel cui ambito la prestazione professionale viene ad essere effettuata anche tenendo conto che , grazie al metodo contributivo, l’accumulazione previdenziale rimarrà comunque conveniente per l’istituto pubblico. Il lavoro del socio di impresa cooperativa Un’altra ipotesi di mancanza di datore di lavoro in senso stretto rinveniva nelle imprese aventi natura cooperativa (2511 ) nelle quali, in caso di prestazione resa nei confronti della società stessa o di terzi per lavori delle stesse assunti, non sembrava sussistere propriamente un rapporto di subordinazione dato che si riteneva che la prestazione lavorativa venisse resa in esecuzione del vincolo sociale e quindi al di fuori della divisione fra lavoro autonomo e subordinato. In questo senso in passato, ai fini previdenziali i soci lavoratori di cooperative erano equiparati ai lavoratori dipendenti. I contributi per questi lavoratori erano versati sulla base delle retribuzioni previste dai contratti collettivi per i lavoratori subordinati del corrispondente settore. Attualmente articolo 1 comma tre della legge numero 142 del 2001 ha separato il rapporto associativo da quello che ha ad oggetto la prestazione d’opera, prevedendo che quest’ultimo possa essere instaurato come un ulteriore distinto rapporto di lavoro, informa subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, è che al medesimo si applichi la corrispondente tutela previdenziale. Tale modifica ha ridisegnato la fisionomia delp rapporto, in modo che in capo alla società sussiste oggi un obbligo contributivo nei confronti dei soci lavoratori, secondo il tipo di lavoro effettivamente realizzato, in conformità alle modalità materiali che caratterizzano l’esecuzione del rapporto, senza possibilità di distinguere tra lavoratori assunti dalla società per conto di terzi i lavori rientranti nello scopo mutualistico. Con decreto legislativo 423 del 2011 a partire dal 1 gennaio 2007sono state così soppresse le disposizioni di legge che stabilivano a beneficio delle società un salario convenzionale in modo che l’intero settore cooperativo è stato equiparato alle altre imprese dal punto di vista previdenziale, eliminando ogni vantaggio derivante alla forma giuridica adottata dal datore e dunque l’alterazione della concorrenza che ne conseguiva. La certificazione del rapporto di lavoro Il decreto legislativo 276 del 2003, agli articoli 75 seguenti contempla la possibilità di certificare I contratti di lavoro ad opera di apposite commissioni, costituite su iniziativa degli enti bilaterali rappresentativi di datori e lavoratori, delle direzioni provinciali del lavoro, delle università pubbliche private, delle province delle fondazioni universitarie. Le parti possono quindi richiedere la certificazione della natura subordinata del rapporto ai fini previdenziali e ai sensi dell’articolo 79 del decreto tale certificazione non ha effetto solo Inter partes ma anche verso i terzi quali gli istituti previdenziali. Contro il provvedimento adottato da tali commissioni è possibile proporre ricorso al giudice del lavoro previo tentativo pregiudiziale di conciliazione, per erronea qualificazione del rapporto, per vizio del consenso o per difformità tra il programma negoziale così come qualificato e la sua successiva concreta attuazione. Nel caso in cui il ricorso venga accolto, la sentenza che accerta ad esempio la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato comporta che tra le parti si producono i relativi effetti fin dall’inizio del rapporto, in caso di erronea qualificazione, o dal momento in cui ha avuto inizio la difformità tra il programma negoziale è quello certificato. La sentenza di accertamento ha efficacia ex tunc e la sua efficacia retroattiva ha effetto solo tra le parti . Ne consegue che la certificazione, qualora a suo tempo richiesta delle parti è previa comunicazione terzi interessati, mantiene la propria efficacia nei confronti dei terzi tre quali gli enti previdenziali. L’effetto della certificazione consiste nella nullità di qualsiasi atto che presupponga una qualificazione del rapporto diversa da quella certificata: conseguentemente l’Inps non può ad esempio chiedere il pagamento di contributi come se venisse in rilievo rapporto di lavoro subordinato ad orari normali a fronte di una certificazione di un diverso tipo di rapporto . L’istituto avuto una ridotta applicazione , per ragioni di difficoltà pratiche che la certificazione dei singoli 89 rapporti di lavoro avrebbe in concreto comportato. una minima esperienza si è registrata in relazione al lavoro prestato sia nell’ambito di contratti di appalto, sia nel caso di soci di cooperativa , perché in questi casi la certificazione riguardano a comunità di lavoratori. Resta però che non potendosi attribuire alle certificazioni alcuna efficacia vincolante nei confronti dell’autorità giudiziaria, in forza del principio del diritto al giudice naturale, l’attività delle commissioni appare quasi del tutto inutile. Divieto di discriminazioni 1. Il divieto di discriminazione per sesso La disciplina del rapporto di lavoro e la materia previdenziale, garantiscono piena parificazione ai lavoratori, indipendentemente dal sesso, età, nazionalità. Il divieto di ogni discriminazione trova fondamento nelle previsioni costituzionali e nel diritto europeo. In particolare oltre alla carta di Nizza, la carta del 1947, non solo prevede il generale principio di eguaglianza dell’articolo 3 cost, ma anche, per quanto attiene al sesso, la previsione dell'art. 37 Cost, ove dispone che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano ai lavoratori. È stata necessaria l’emanazione di un’apposita legge: n° 903 del 9 dicembre 1977 , per garantire la parità di trattamento tra uomini e donne. Dopo questa ci sono stati molti altri provvedimenti diretti ad estendere in ogni settore dell’ordinamento il divieto di discriminazione. Tutti i testi normativi emanati sono stati poi trasfusi nelle disposizioni del decreto n° 198 del 2006 intitolato codice delle pari opportunità tra uomo e donna. L'art. 30 co. 3 concerne gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia le maggiorazioni delle pensioni, tutte prestazioni di natura previdenziale a favore dei lavoratori con familiari a carico. Possono essere corrisposti, in alternativa, alla donna lavoratrice o pensionata alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il lavoratore o pensionato. Nel caso di richiesta di entrambi genitori devono essere corrisposti al genitore con il quale il figlio convive. Prima: La situazione precedente all’entrata in vigore della norma, era regolata dall’abrogato decreto 797 del 55 , in forza del quale: solo chi era considerato capofamiglia aveva diritto alla corresponsione delle prestazioni suddette. Capofamiglia Tale qualifica spettava normalmente al padre e solo eccezionalmente la madre in ipotesi tassative ed insuscettibili di applicazione analogica. Questa anomalia portava situazione di evidente svantaggio nei rapporti tra coniugi e verso i figli. Ne conseguiva nei confronti della prole la mancanza di assistenza sanitaria, dato che quest’ultima veniva assicurata solamente per coloro a favore dei quali erano erogati gli assegni. Inoltre, nell’ipotesi che il marito fosse libero professionista o artigiano commerciante, cioè il lavoratore autonomo, egli non aveva diritto di assegno di famiglia , e neppure la moglie lavoratrice dipendente in quanto non era capofamiglia. Oggi la lavoratrice subordinata moglie di un lavoratore autonomo può percepire gli assegni familiari, e così pure la lavoratrice dipendente moglie di un lavoratore dipendente: in questo caso l’assegno potrà essere percepito solo da uno dei coniugi e precisamente da colui che li percepisce in misura maggiore. Co. 4 e 5: Si occupano dei trattamenti ai superstiti parificando , per tutti i regimi, la condizione del beneficiario, indipendentemente dal suo sesso. Prima: la pensione di reversibilità veniva riconosciuta alla moglie, in caso di morte del marito, senza limiti, mentre nel caso di premorienza della moglie al marito quest’ultimo poteva percepirla solo in quanto invalido in misura superiore al 66%, ossia con una capacità di guadagno ridotta a meno di 1/3. Oggi questa disparità di trattamento stata eliminata in riferimento a qualunque istituto previdenziale. Co.6: prestazioni ai superstiti determinate da infortuni sul lavoro : sono estese alle stesse condizioni stabilite per la moglie del lavoratore al marito della lavoratrice. Co.1: età di accesso alla pensione, in vari regimi stato spesso fissata in maniera differenziata, così da essere inferiore per le donne, rispetto agli uomini. Oggi si sancisce espressamente che le donne lavoratrici hanno diritto di proseguire il rapporto di lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini. Già con la sentenza 137 del 1986, la corte costituzionale aveva dichiarato illegittima la disposizione della legge sui licenziamenti nella parte in cui questa consentiva il licenziamento della donna lavoratrice al compimento dell’età utile per il conseguimento della pensione di vecchiaia e quindi in anticipo rispetto agli uomini. Era così intervenuta la legge 903/77 che all’articolo 4 aveva stabilito che la donna ha facoltà di optare per la prosecuzione dell’attività lavorativa fino all’età pensionabile stabilita per gli uomini, dandone preventiva comunicazione al datore di lavoro, 3 mesi prima della data di scadenza, pena la perdita da parte della stessa della tutela contro i licenziamenti ingiustificati. Anche questa previsione è stata dichiarata illegittima, in riferimento agli articoli 3 e 37 della costituzione nella parte in cui subordinava il diritto delle lavoratrici all’esercizio di un’opzione, da comunicare al datore di lavoro non oltre la data di maturazione dei predetti requisiti, in quanto si riteneva che un simile onere procedurale non fosse giustificato da alcune legittime ragioni, e finiva quindi per configurare un requisito discriminatorio. Oggi l’articolo 30 del codice prevede semplicemente il diritto della lavoratrice di proseguire il rapporto, dopo il suo primo comma che è stato modificato a seguito del decreto 5 del 2010 , cosicché la minore età pensionabile delle donne, destinata comunque ad essere del tutto eliminata dal 1 gennaio 2021, vale solo come attribuzione di una facoltà di opzione, sulla quale il datore di lavoro non ha alcuna possibilità di interferire. È da considerare quindi discriminatorio il licenziamento della donna che ancora non abbia raggiunto l’età massima pensionabile prevista per l’uomo. Questa impostazione è stata soggetta ad una ulteriore modifica a seguito di una sentenza della corte di giustizia che ha dichiarato illegittima per violazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne, la diverse età pensionabile vigente nel settore del lavoro pubblico. Per adeguarsi alla sentenza, il legislatore italiano, con l’art. 22 ter del decreto del 2009, aveva provveduto ad un progressivo innalzamento dell’età pensionabile delle donne nel settore del pubblico impiego. Tale regime provvisorio però è stato valutato come insufficiente, in modo che, con il decreto 6 dicembre del 2011 numero 201 si sono adottati tempi di adeguamento più brevi. Le ragioni di una così aperta differenziazione in base al genere non sono mai state chiarite. Dietro l’esclusione delle donne dal mondo del lavoro attraverso un pensionamento precoce, sembra esserci una ben precisa preoccupazione nella quale si rispecchiano le caratteristiche della società italiana. Infatti, dato che molti dei ruoli di responsabilità si raggiungono spesso solo ad età avanzata, la possibilità di un’uscita di scena anticipata finisce per mettere fuori gioco dalla contesa per i vertici proprio le donne. Una particolare ipotesi di discriminazione veniva messa in forza dell’art. 30 bis decreto 198 del 2006, in relazione ai regimi di previdenza complementare privata: co. 2 ammetteva che si potesse far luogo a differenti requisiti per l’accesso alla pensione, ove questi fossero conseguenza il calcolo atturiale . Infatti dato che la vita media delle donne è maggiore rispetto a quella degli individui maschi, si riteneva legittimo un accesso posticipato al pensionamento, in quanto in tal modo si sarebbe garantita una invarianza atturiale. L’articolo 30 bis è stato dichiarato invalido dalla corte di giustizia. 2. Divieto di discriminazione per età La costituzione prevede già un divieto di discriminazione per età, rivolto di evitare che ai minori vengano applicate condizioni sfavorevoli per la retribuzione. Si sono ritenute illegittime le previsioni di salari d’ingresso, se nel caso dei contratti con finalità formative che garantiscono al giovane un trattamento formativo, utile ai fini della determinazione del complessivo trattamento retributivo. Si può aggiungere che la disciplina del contratto di apprendistato che prevede robusti sgravi a beneficio del datore, non danneggia il giovane, che si vede comunque riconosciuta una integrazione contributiva a carico della gestione Inps degli interventi assistenziali e di sostegno. La questione della discriminazione dell’età è venuta in rilievo in relazione al collocamento a riposo di coloro che hanno raggiunto l’età pensionabile. Come conferma la giurisprudenza della corte europea di 89 trasformate in fondi integrativi dell’assicurazione generale obbligatoria al fine di garantire le prestazioni di miglior favore previste in precedenza. I rapporti assicurativi facenti capo ai diversi enti, così estinti, hanno però mantenuto autonomia economico patrimoniale e gestionale, pur nell’ambito dello stesso ente unico. La recente soppressione dell’Inpdap è avvenuta secondo le stesse modalità, dando vita ad un’apposita gestione nell’ambito del patrimonio dell’Inps. L’Istituto nazionale della previdenza sociale rappresenta quindi oggi il principale ente collettore di soggetti assicurativi. Il decreto 479 del 94, che ne ha disciplinato l’organizzazione, mira a rispecchiare l’apporto fornito dei lavoratori dalle imprese, istituendo, accanto a un presidente di nomina governativa a cui spetta di attuare le linee di indirizzo strategico dell’istituto, il consiglio di indirizzo e vigilanza, formato da rappresentanti di tutte le forze sociali che prendono parte al finanziamento della previdenza ed è chiamato a definire i programmi e ad individuare le linee di indirizzo dell’ente e ad approvare i bilanci. La concentrazione in capo all'Inps di tutte le gestioni, non sempre ha fatto venir meno la disciplina specifica che si applicava ai singoli gruppi. Al fine di completare il quadro si deve tenere conto che oltre alle forme obbligatorie di previdenza esaminate, sussistono dei fondi integrativi che, normalmente istituiti per la particolare gravosità del tipo di lavoro del settore considerato, si aggiungono ma non sostituiscono le prime. In tali casi i contributi, obbligatori normalmente posti a carico dei datori di lavoro dei dipendenti, si sommano a tutti gli altri contributi normalmente dovuti. All’istituto sono state anche attribuite competenze di tipo assistenziale relativamente all’area dell’invalidità civile e all’attribuzione dei trattamenti sociali, con la legittimazione passiva nel contenzioso giudiziario riguardanti medesimi procedimenti, mentre al fine di facilitarne il finanziamento, si è creata una società ad hoc partecipata dalla agenzia delle entrate, che subentrata ai concessionari dell’attività di riscossione dei crediti dell’istituto. Capitolo 3 LE PRESTAZIONI parte 1: il sistema delle pensioni linee generali di evoluzione del sistema in origine il sistema pensionistico era limitato ai soli lavoratori che non potevano contare sul risparmio individuale per il loro sostentamento, per il momento in cui sarebbe cessata la loro attività lavorativa. il sistema prevedeva una modesta partecipazione dello Stato nell'accumulo dei contributi, e fissava per tutti il pensionamento a 65 anni. Già il decreto 636/1939 ridusse l’età di accesso alla pensione, differenziandola per sesso, e prevedendo un’anzianità contributiva di soli 15 anni. Anche l'esclusione dei lavoratori con alto reddito venne modificata, prevedendo fondi integralmente privati. Dopo la promulgazione della Costituzione la tutela venne espansa ulteriormente, non solo alla categoria dei soggetti interessati; si ebbe anche un miglioramento delle prestazioni per i lavoratori subordinati. L. 153 del 1969 riordino del sistema pensionistico per il settore privato. Ha consacrato il sistema della pensione retributiva, consentendo inoltre ai lavoratori subordinati un'uscita fortemente anticipata, rispetto all’età della pensione della vecchiaia, a fronte del versamento di 35 anni di contribuzione effettiva, dando vita al trattamento di anzianità. Da quel momento le esigenze di pareggio del bilancio statale divennero così pressanti, da imporre ripetute revisioni dei trattamenti pensionistici di vecchiaia e di anzianità, determinando in molti casi una reazione popolare talmente marcata da indurre il parlamento a revocare la fiducia ai governi. L’elemento che più di ogni altro ha determinato la necessità di una modifica dei trattamenti, lo si ritrova nei crescenti costi della sistema previdenziale dovuti all’innalzamento dell’età media nazionali e al progressivo slittamento in avanti dell'ingresso nel mondo del lavoro. Subito dopo la riforma previdenziale del 1969 , l’andamento demografico italiano ha segnato un costante rallentamento. Il risultato negli anni più recenti è stato quello di un complessivo invecchiamento della popolazione per il forte calo di natalità, e all’incremento della speranza di vita degli italiani . Questi due fenomeni hanno prodotto una profonda modifica della struttura demografica della popolazione italiana, che rischia di rendere precario l’equilibrio fra il flusso dei contributi riscossi e l’ammontare delle prestazioni erogate, a fronte del fatto che il sistema pensionistico rimane fondato su un finanziamento a ripartizione. In assenza di un rilevante incremento della manodopera femminile e di più costanti politiche di standardizzazione dell’immigrazione, è nata l’esigenza di modificare il rapporto fra popolazione attiva e pensionati. Bisogna ricordare che il prolungamento della vita lavorativa attiva è determinato non solo dal dato biologico, ma anche dal fatto che i lavoratori iniziano a versare i primi utili in età assai avanzata a causa del prolungamento dei cicli di istruzione e a causa della disoccupazione giovanile. L’innalzamento dell’età pensionabile consegue anche dalla necessità di poter maturare un’anzianità contributiva sufficiente a garantire un significativo tasso di sostituzione e quindi un reddito non troppo ridotto nell’età della pensione, rispetto a quello che si ricavava dall’attività lavorativa secondo la precisa indicazione costituzionale. Dal 1995 ad oggi, si è provveduto quindi non solo ad innalzare l’età minima di accesso alla pensione ma anche ad incrementare gli anni necessari per un’uscita anticipata, tanto che prima ancora delle ultime riforme, un lavoratore che avesse maturato 35 anni di contributi si sarebbe visto corrispondere il primo rateo di pensione solo alla raggiungimento dell’età di 62 anni. Nella disciplina attuale derivante dalla riforma del dicembre 2011, il pensionamento anticipato viene ora consentito, per gli uomini solo dopo aver effettivamente lavorato per 42 anni e 10 mesi, mentre l’età necessaria per ottenere la pensione di vecchiaia è ormai fissata, a oltre 67 anni . L’evoluzione del sistema assegna almeno cinque importanti tappe: A. legge delega 412 del 92 correzione del bilancio B. legge 8 agosto 1995 n° 335 ha mantenuto in vigore la precedente disciplina risultante dalla riforma del 92 per coloro che avessero maturato già una certa anzianità contributiva , dando luogo alla coesistenza di diversi regimi. C. Legge 23 agosto 2003 n° 243 legge Maroni ha posticipato l’entrata in vigore della gran parte delle sue disposizioni limitandosi così a preannunciare una riforma , venendo poi in gran parte disapplicata dal successivo intervento del 2007 . D. Dal 2008 al 2010 ci sono state una serie di misure E. art. 24 del decreto 6 dicembre 2011 n° 201 riforma Fornero Monti ha determinato nell’ambito di un rinnovato disegno di contenimento della spesa pubblica, un notevole acceleramento delle dinamiche già declinate nelle precedenti revisione del sistema pensionistico, dettando quindi la disciplina vigente. La riforma del 1992: la messa a punto del sistema retributivo. Fino al 1992 il diritto alla pensione di vecchiaia spettava a coloro che rispondevano ai seguenti requisiti: 89 A. Assicurazione di durata pari ad almeno 15 anni; l’assicurazione prende data dal primo contributo versato e non coincide necessariamente con il periodo di contribuzione. B. Contribuzione per un minimo di 15 anni, anche se non continuativa, pari a 780 contributi settimanali; C. Un’età minima di 60 anni se uomini, dicendoci 55 se donne. I requisiti di età sono necessari ai fini della maturazione del diritto, ma non comportano l’obbligo di andare in pensione : ancora oggi nell’ambito del lavoro privato, le parti sono libere di obbligarsi a dare vita o mantenere un rapporto di lavoro subordinato anche oltre il limite previsto per la pensione . Gli articoli 1 e 2 del decreto 503 del 1992 hanno gradualmente innalzato limiti da suddetti, portando a 20 anni di assicurazione e contribuzione necessari, e a 65 o 60 anni rispettivamente per gli uomini e le donne, l’età richiesta per avere accesso alla pensione di vecchiaia. Il calcolo delle prestazioni pensionistiche avveniva prendendo come base non i contributi in precedenza versati dall’assicurato, ma la retribuzione guadagnata dal lavoratore al termine della sua carriera. Art. 21 legge 11 marzo 1988 n° 67: disponeva che l’importo da prendere come base per il calcolo della pensione coincidesse con la media annuale delle retribuzioni percepite nelle ultime 260 settimane di contribuzione. Per i dipendenti pubblici veniva invece presa come base all’ultima retribuzione percepita dall’atto della cessazione del servizio, solitamente la più alta lungo tutto l’arco della carriera. Con la riforma del 92, il legislatore ha voluto elevare il periodo temporale al quale fare riferimento per il calcolo della retribuzione media pensionabile, articolandolo in relazione all'anzianità raggiunta, senza distinzione alcuna tra iscritti all’Inps o a forme di previdenza esclusive e sostitutive. La riforma del 95 prevedeva che coloro che avevano instaurato il rapporto assicurativo per la prima volta oltre la data di entrata in vigore di questa riforma, avrebbero visto calcolata la loro retribuzione media pensionabile, lungo tutto l’arco della loro vita lavorativa. Nel sistema retributivo, la pensione era pari ad una certa quota della retribuzione pensionabile. In altri termini, sulla retribuzione pensionabile, doveva applicarsi una percentuale in modo che, fino alla recente riforma del 2011, la prestazione pensionistica Inps poteva al massimo essere pari all’80% della retribuzione pensionabile . Ne discendeva che gli anni di retribuzione di contribuzione ulteriori rispetto alla soglia appena detta, risultavano ininfluenti rispetto al calcolo della pensione. Al fine del calcolo si doveva tener conto che l’importo della pensione era limitato da un massimale che riduceva i trattamenti pensionistici dei lavoratori con retribuzioni più elevate, privando di effetti sul piano dell’ammontare della pensione la contribuzione effettuata su quella parte della retribuzione che superasse il tetto pensionistico. Questa conseguenza appariva però ingiusta a coloro che potevano vantare retribuzioni prelevate del massimale appena detto. Legge 67 del 1988 articolo 21: viene modificato il sistema di calcolo delle pensioni, consentendo di prendere in considerazione anche la parte di retribuzione eccedente il limite massimo di retribuzione annua pensionabile. A tal fine la retribuzione pensionabile è stata ripartita in quattro fasce, determinando, in corrispondenza di ognuna di queste, un’aliquota percentuale, di importo decrescente, che andrà moltiplicata per gli anni di contribuzione e sarà applicata alle sole quote di reddito rientranti nella fascia. La pensione viene quindi calcolata per quegli anni per i quali trova ancora applicazione sistema retributivo, su tutta la retribuzione in ipotesi anche più alto del massimale. In sintesi il calcolo della pensione del sistema retributivo deve tenere conto di tre variabili: A. la retribuzione media pensionabile, un tempo calcolata sull’arco degli ultimi 5 anni lavorativi e poi tendenzialmente lungo tutta la vita lavorativa dell’assicurato; B. l’anzianità contributiva, che viene in considerazione per non oltre 40 anni; C. la cifra percentuale da moltiplicare per gli anni di anzianità contributiva, un tempo unica e pari al 2% e poi suddivisa a seconda delle fasce di reddito in cui si scompone la retribuzione pensionabile. ordinamento trova integrale applicazione solo nei confronti dei lavoratori neo assunti in una data successiva al 1 gennaio 1996! Per coloro che a tale data potevano riunire un’anzianità contributiva, occorreva distinguere a seconda che tale anzianità fosse eguale o superiore a 18 anni o meno. Nel primo caso le prestazioni continuavano ad essere integralmente calcolate con i primi preveggente sistema retributivo, basato sulla media delle ultime annualità di retribuzione e rimasto sostanzialmente invariato. Chi invece avesse maturato un’anzianità contributiva inferiore al limite detto, vedeva calcolata la propria pensione con il metodo secondo il sistema retributivo per i trattamenti maturati fino al 31 dicembre 1995 , è con il nuovo sistema contributivo per la quota maturata successivamente a partire dal 1 gennaio 1996. Si prevedeva a favore degli assicurati che potevano vantare un’anzianità contributiva di almeno 15 anni, di cui 5 maturati nell’ambito del sistema contributivo, la possibilità di optare per l’integrale applicazione di quest’ultimo regime. Le successive modifiche hanno sempre rispettato tale impostazione, che è dunque ancora in vigore, sebbene dal 1 gennaio 2012 il sistema della pensione contributiva è stato esteso a tutti lavoratori e quindi anche a coloro che avevano in conservato il diritto vedersi applicato il sistema retributivo. Le evoluzioni successive: riforme del 2004 e del 2007. La riforma del 95 ha garantito quasi un decennio di sostanziale inattività del legislatore . L’obiettivo di cancellare la pensione di anzianità, legata esclusivamente alla requisito contributivo a prescindere dall’età dell’assicurato, era stato raggiunto. Il diritto al trattamento di anzianità rimaneva invece a favore di coloro che fossero stati già assicurati alla data di entrata in vigore della riforma, nei confronti dei quali alcune norme di diritto transitorio individuavano un lungo periodo, dal 96 al 2008, nel corso del quale era possibile maturare il diritto di trattamento anticipato sulla base di un doppio requisito: anagrafico e contributivo. Era poi prevista una fattispecie alternativa, in forza della quale il diritto alla prestazione si acquistava, indipendentemente dall’età anagrafica, sulla base del solo requisito contributivo, elevato in misura crescente. A fronte delle sollecitazioni che derivavano dal nuovo peggioramento della finanza pubblica, con legge 23 agosto 2004 n° 243 cosiddetta legge Maroni, invece che prendere atto dell’imminente entrata in vigore della riforma, si preferì procedere ad una ulteriore modifica delle condizioni di accesso ai trattamenti di anzianità e di vecchiaia. La legge di riforma numero 243 del 2004 modificava le condizioni di accesso alla pensione di anzianità prevedendo che dal 2008 l’innalzamento del requisito anagrafico a 57 sessant’anni di età, rimanendo invariato il requisito contributivo di 35 anni di anzianità, nonché la possibilità di accedere al trattamento anticipato in caso di un’anzianità contributiva pari a 40 anni, a prescindere dall’età. Reintroduceva una distinzione in base al sesso consentendo alle lavoratrici di accedere alla pensione anche dopo il 2008, con i requisiti previsti dalla normativa dell’epoca di 35 anni di anzianità contributiva e 57 di età anagrafica, ma alla condizione che la pensione fosse interamente calcolata con il sistema contributivo. La riforma non entrò mai in vigore: con la legge 24 dicembre 2007 n° 247 provvedete a determinare un sistema che sommava i due requisiti dell’anzianità contributiva dell’età anagrafica, dando vita al sistema delle quote, così realizzando in maniera più graduale quella transazione alla soglia dei 60 di età pensionabile, che la legge 2004 attuava in un solo momento . Il pensionamento era consentito dal 1 luglio al 31 dicembre 2009 al raggiungimento di quota 95, con l’età anagrafica di almeno 59 anni ; negli anni 2011 2012 la quota saliva di una unità con un’età minima di 60 anni, per giungere a regime, dal 2013 in poi a quota 97, con un’età minima di 61 anni. Tale disciplina non valeva a determinare l’innalzamento dell’età minima pensionabile, dato che si ammetteva in ogni caso, il diritto a pensione al raggiungimento del 40º anno di anzianità contributiva. Per coloro, assunti immediatamente dopo l’obbligo scolastico, che avessero avuto continuità di occupazione , era possibile del dicembre 2011 arrivare al pensionamento accora ancora in età non avanzata. Facendo un bilancio delle contrapposte riforme degli anni 2004 e 2007, non si può notare come le linee della legge del 95 apparissero abbandonate, dato che, invece che rafforzare i meccanismi di coerenza atturiale, si procedeva ad introdurre nuove diversificazioni del tutto irragionevoli. Solo apparentemente il sistema stava 89 evolvendo verso un innalzamento dell’età della pensione. Mentre nel 1969 il beneficio della pensione di anzianità si giustificava a fronte delle condizioni di lavoro insalubri, il sistema delle quote finisce ancora una volta per privilegiare i soggetti con elevata anzianità contributiva e con continuità di carriera , ipotizzando un loro ritiro anticipato dalla vita di attività. Il legislatore quindi, invece di prendere in considerazione la discontinuità lavorativa dei più giovani e delle crisi degli ultimi anni, favorisce coloro che rappresentano la figura degli iscritti al sindacato, assicurando loro una comoda uscita dal mondo dell’occupazione. In conclusione, quando la crisi finanziaria ebbe a manifestarsi in tutta la sua gravità, il sistema previdenziale italiano non solo non aveva completato la sua transazione verso un modello più razionale, ma anzi sembrava avviarsi verso una nuova segmentazione delle tutele, così da rendere necessaria una messa a punto complessiva, che riconducesse ad una logica unitaria le possibili opzioni. Gli interventi tampone dal 2010 e la riforma del 2011. Non bisogna dimenticare che la crisi del credito, scoppiata nell’estate del 2008, non determinò inizialmente messo alcuna modifica della legislazione. Lo scenario cambia drammaticamente quando il differenziale fra i tassi di rendimento dei titoli di Stato italiani tedeschi segnalo la crisi di fiducia dei mercati internazionali in ordine al debito pubblico. Il sopraggiungere della crisi dello spread determinò una serie di provvedimenti, tutti orientati a posticipare il momento del pensionamento, nella prospettiva di imporre risparmi di spesa immediati e senza alcuna preoccupazione di tipo sistematico. Con decreto 78 del 31 maggio 2010, si introduceva all’art. 12 il posticipo di un anno alla pensione per tutti lavoratori, attraverso la previsione di una finestra mobile, cioè l’intervallo fra il momento della maturazione del diritto e l’effettivo pagamento della prima mensilità del trattamento pensionistico. Il comma 12 bis della stessa disposizione interveniva poi sul meccanismo di adeguamento automatico dei requisiti di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della speranza di vita, già previsto dall’articolo 22 ter del decreto del 2009 , stabilendo che questo avvenisse con una cadenza triennale. Questa misura è stata mantenuta in vigore dall’ultima riforma e continua ancora oggi a produrre effetti posticipando di alcuni mesi rispetto a tutti i limiti di legge l’effettivo momento di pensionamento. Nell’ambito del decreto 6 luglio 2011 n° 98 all’art. 18 commi 22 ter e quater, si disponeva un ulteriore breve posticipo del momento di accesso alla pensione, con disposizione poi ripresa dal decreto 138 del 2011. Una ulteriore disposizione contenuta nell’art. 5 della L. 12 novembre 2011 n° 183 legge di stabilità, preannunciava un futuro accesso al pensionamento a 67 anni di età anagrafica. A metà novembre del 2011, immediatamente dopo l’approvazione della legge di bilancio per l’anno successivo, sopraggiunse, dopo nemmeno un mese, il decreto-legge 6 dicembre 2011 n° 201 , cosiddetto salva Italia, emanato dall’esecutivo tecnico allora insediato, e convertito con qualche modifica nella legge 22 dicembre 2011 n° 214 . La riforma Fornero Monti racchiusa interamente nell’art. 24 del decreto, si giovava del clima di coatta convergenza politica, che faceva seguito a settimane drammatiche per portare a compimento le linee della riforma di cui alla legge n° 335 del 1995. La legge affronta sia il tema dell’unificazione dei trattamenti per punto di vista del metodo di calcolo della pensione, sia quello dell’innalzamento dell’età di accesso effettivo alla pensione, rinnovando profondamente la disciplina per la pensione di vecchiaia e mantenendo in vita il trattamento di anzianità, ora definito come pensione anticipata reso più rigoroso che nel passato. La pensione di vecchiaia Il sistema previdenziale della L. 335 del 95 ha profondamente modificato l’assetto delle prestazioni pensionistiche, nell’ambito della quale viene erogata un’unica prestazione che sostituisce trattamenti di vecchiaia e anzianità previsti nel preveggente regime. La riforma del 95 lasciava invece in vita la pensione retributiva per coloro che avessero maturato almeno 18 anni di contribuzione prima dell’entrata in vigore della legge. La riforma del 2011 lascia in piedi le previsioni più antiche, ma stabilisce ora che sistema contributivo venga sempre applicato dalla data del 1 gennaio 2012.: Così anche coloro che avevano mantenuto il diritto a vedere calcolata la propria pensione con il sistema retributivo, si vedranno applicato per tutti i periodi successivi all’entrata in vigore della legge 214 del 2011, il sistema contributivo. La norma non necessariamente produceva un danno per i lavoratori più anziani. Nel sistema attuale, ormai unificato sulla base del metodo contributivo, il diritto alla pensione di vecchiaia sorge sul presupposto che l’assicurato, previa risoluzione del rapporto di lavoro, possa vantare almeno 20 anni di contribuzione effettiva ed un’età minima di 66 anni e 65 per le donne. Quest’ultimo requisito anagrafico viene meno qualora il soggetto abbia maturato un’anzianità contributiva non inferiore a 41 anni e 10 mesi per le donne; requisiti diversi valgono per gli uomini. Ulteriore requisito negativo è che l’ammontare della pensione risultante non sia inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale, a meno che l’assicurato abbia compiuto 70 anni. In tale ultimo caso bastano 5 anni di contribuzione effettiva e la pensione verrà liquidata dell’importo comunque raggiunto. La riforma sembra imporre a coloro che arrivano in età avanzata senza un montante sufficiente a garantire loro la pensione, di prolungare la loro vita lavorativa fino a ben oltre la soglia della vecchiaia. La previsione non sembra determinare comunque una lesione del principio costituzionale di adeguatezza, a fronte della possibilità lasciata al lavoratore, i cui contributi sono insufficienti a garantire il raggiungimento del trattamento minimo, di fare ricorso all’assegno sociale. Per il resto rimane invariato il sistema di determinazione della pensione. Per quanto concerne il calcolo delle prestazioni, occorre dividere dai contributi, che vengono annualmente versati agli istituti assicuratori che sono calcolati in misura percentuale sulla retribuzione imponibile. Tali contributi sono di anno in anno rivalutati su base composta, ossia tenendo conto anche delle precedenti rivalutazioni. Il quantum della rivalutazione dei contributi diviene una variabile dipendente dalla situazione economica generale del paese, in modo che nel caso di decrescita del Pil verrà a diminuire anche l’importo delle pensioni. La somma dei contributi annualmente versati e rivalutati viene denominata montante contributivo. Al momento del pensionamento il montante viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione che cresce con l’età del lavoratore. Il coefficiente aumenta col progredire dell’età perché sembra ingiusto, a parità di montante contributivo, attribuire la stessa pensione ad esempio a chi ha 66 anni rispetto a 62. La legge del 2011 tuttavia volendo incentivare la permanenza al lavoro oltre l’età del pensionamento, stabilisce coefficienti anche per le classi di età pari o superiore 66 anni, giungendo fino a 70 anni. Il coefficiente di trasformazione è quindi un valore non più fissato dalla legge, ma suscettibile di essere modificato periodicamente per effetto di un semplice atto amministrativo. La riforma del 2011 adottata, ha determinato un notevole irrigidimento delle condizioni di pensionamento. La legge provvede ad innalzare l’età di accesso alla pensione, attraverso una sequenza che si articola su un periodo transitorio di 9 anni per coloro che abbiano comunque il primo contributo utile accreditato prima del 31 dicembre 1995. Viene così previsto per gli scritti di sesso maschile sistema Inps e per tutti dipendenti pubblici, l’età di accesso alla pensione pari a 66 anni di età anagrafica, per divenire pari a regime a 67 anni. Anche per le donne assicurate presso il regime Inps la soglia sarà la stessa che per gli uomini, seppure al termine del periodo transitorio, mentre la riforma fissa, con effetto dal 1 gennaio 2012 , in 62 anni l’età del pensionamento determinando poi altri due altri tre scalini per raggiungere progressivamente la piena parità con gli uomini. Dal 1 gennaio 2016 l’età di accesso è pari a 65 anni per le lavoratrici subordinate del settore privato, oltre sette mesi per società di persone. Termini più elevati di un anno valgono poi per le lavoratrici autonome iscritti alle gestioni dell’Inps. Al fine di rendere questo posticipo socialmente più accettabile, è stata prorogata con il comma 281, della legge di stabilità per il 2016 la facoltà di cui all’articolo uno comma nove della legge Maroni riconoscendo le sole lavoratrici cala data del 31 dicembre 2015 abbiano maturato un’anzianità anagrafica di 57 anni e tre mesi e 35 anni di contributi il diritto a una pensione anticipata da calcolarsi con il metodo contributivo. La pensione anticipata e la vecchiaia attiva La riforma Fornero non procede all’abolizione della pensione di anzianità, che rimane in vita per il con il nome di pensione anticipata, per il caso in cui si siano comunque maturati dal 1 gennaio 2016, 42 anni e 10 mesi di contribuzione per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. 89 La successiva evoluzione legislativa ha ulteriormente modificato la disciplina dei soggetti iscritti a questa gestione speciale, disponendo progressivi innalzamenti delle percentuali di contribuzione, estendendo ai parasubordinati alcune delle tutele del lavoro subordinato. Attraverso le previsioni del decreto 276 del 2003 si è poi registrato un tentativo di riordinare la materia creando una nuova fattispecie sostanziale, cioè il lavoro a progetto, che ha affiancato quella delle collaborazioni. La riforma del 2015 ha però disposto l’abrogazione del contratto di lavoro a progetto dell’associazione in partecipazione con apporto in prestazione lavorativa, senza però dare indicazioni in ordine al futuro delle centinaia di migliaia di rapporti in atto alla data di entrata in vigore della legge. Il moltiplicarsi delle tipologie nell’ambito delle quali può essere fornita la prestazione lavorativa ha reso necessaria la riscrittura delle norme che presiedono alla totalizzazione dei contributi, per consentire che i numerosi lavoratori che avessero avuto un percorso di carriera assegnato da differenti impieghi atipici, potessero raggiungere adeguati accantonamenti contributivi, versati alle diverse gestioni. Nell’ambito dell’Istituto nazionale della previdenza sociale sono state costituite tre gestioni speciali per l’assicurazione di invalidità, vecchiaia e per i superstiti, per lavoratori che effettuano la loro prestazione al di fuori di un vincolo di subordinazione. A queste gestioni se ne usa recentemente aggiunta una quarta , a carattere residuale nella quale confluiscono figure professionali che non trovano diversa collocazione. Lavoratori agricoli, commercianti, artigiani. L. 26 ottobre 1957 n°1047 ha istituito la gestione speciale, alla quale sono oggi iscritti in coltivatori diretti, coloni e i mezzadri, e gli imprenditori agricoli professionali. Attività agricola= è diretta non solo alla coltivazione del fondo, ma anche alla silvicoltura, allevamento del bestiame, pesca, acquacoltura, e altre attività connesse. (2135 cc) L.4 luglio 1959 n° 463 ha istituito un'ulteriore gestione a cui possono iscriversi, oltre gli artigiani, anche i familiari coadiuvanti che nell’impresa artigiana svolgono attività in modo abituale e prevalente. L. 22 luglio 1966 n°613 ha istituito la gestione per gli esercenti attività commerciale che esercitano un’attività commerciale, turistica o un’altra delle attività del settore terziario, oltre ai familiari coadiutori. La riforma del 95 ha modificato il sistema di assicurazione introducendo anche per tali lavoratori il metodo contributivo, per la definizione dell’ammontare delle pensioni dei soggetti iscritti per la prima volta ad una delle gestioni speciali dopo l’entrata in vigore della legge. A seguito della riforma la pensione di vecchiaia viene liquidata raggiungimento dell’età pensionabile : • 66 anni e 7 mesi per gli uomini • 66 anni e un mese per le donne • dal 1 gennaio 2019, 66 a e 7 mesi per tutti in presenza di un’anzianità contributiva di 20 anni. La pensione di anzianità spetta nell’ipotesi di un’anzianità contributiva di: • 42 anni e 3 mesi per gli uomini • 41 e 3 mesi per le donne. Vengono anche erogati trattamenti di maternità e trattamenti di famiglia. I liberi professionisti Il codice civile, nel definire il contratto d’opera intellettuale all’articolo 2230, delineava uno status speciale per le professioni intellettuali, stabilendo che per l’esercizio di esse fosse necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi prefigurando indirettamente una speciale tutela previdenziale per tali soggetti. Il decreto 509 del 30 giugno 1994 ha dotato ogni singola cassa di autonomia contabile ed organizzativa se pur riconoscendo la sussistenza di un potere ministeriale di controllo. L’articolo 14 del decreto 98 del 2011 ha assoggettato tali casse al controllo ispettivo della commissione di vigilanza per i fondi pensione, in ordine agli investimenti delle risorse finanziarie, sia alla composizione del patrimonio. La legge numero 92 del 2012 ha elevato cinquant’anni la durata del bilancio tecnico di previsione. I lavoratori iscritti alla “quarta gestione” L’art. 2 co. 26 e seguenti della L. 335 del 1995 ha previsto l’istituzione di un’apposita gestione separata presso l’Inps per: A. Coloro che svolgono per professione abituale, ancorché non esclusiva attività di lavoro autonomo senza aver titolo per l’iscrizione ad alcuna delle casse istituite per i liberi professionisti; B. Per i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e per gli incaricati alla vendita a domicilio. L’assicurazione, si presenta come una forma di tutela per l’invalidità, la vecchiaia e a favore dei superstiti, regolata da un sistema esclusivamente contributivo. L’aliquota di finanziamento, originariamente fissata nel 10% del reddito, è stata progressivamente incrementata da numerosi successivi provvedimenti, tanto che essa dovrebbe essere equiparata a decorrere dall’anno 2018, a quella dei lavoratori subordinati. Dal 1 gennaio 2004, in base alle previsioni della L. 326 del 2003, anche coloro che, concludendo contratti di assicurazione in partecipazione, si impegnano per l’apporto di solo lavoro devono iscriversi ad un’apposita gestione separata istituita presso l’Inps. L’obbligo non riguarda gli associati già iscritti ad albi professionali. Il legislatore ha previsto che coloro che svolgono attività di lavoro autonomo siano obbligati all’iscrizione alla gestione separata, ogni volta che reddito annuo derivante da tale attività sia superiore a € 5000, oppure nel caso in cui, pur rimanendo il reddito al di sotto di tale limite, l’impegno complessivo di ogni soggetto superi le 30 giornate lavorative l’anno. In origine per queste prestazioni la normativa previdenziale prevedeva l’esclusione dall’obbligo contributivo . L’occasionalità non determinava il sorgere dell’obbligo contributivo perché era presumibile l’insussistenza di uno stato di bisogno. In un sistema dove la pensione veniva calcolata su base retributiva, l’ingresso nel sistema previdenziale anche di soggetti che solo saltuariamente producevano reddito avrebbe finito per determinare il riconoscimento di un diritto alla pensione a condizioni estremamente più vantaggiose rispetto a quelle di coloro che stabilmente provvedevano al versamento dei contributi. Nella legislazione più recente, ogni attività non occasionale di lavoro resa assoggettata all’obbligo contributivo, indipendentemente dalla cornice giuridica entro la quale la prestazione fornita , in modo che sono esclusi dal sistema previdenziale solo quei redditi che siano espressione di un’attività di impresa , o che siano conseguenza dello sfruttamento delle opere dell’ingegno o del diritto d’autore, o che derivino dall’apporto di capitali nell’ambito di contratti di cui all’articolo 2549. Disposizioni per il lavoro subordinato flessibile Alcune disposizioni speciali regolano i trattamenti pensionistici a favore di lavoratori subordinati il cui contratto si distacca dallo standard del lavoro a tempo pieno e indeterminato. Riguardo al lavoro determinato: la contribuzione verrà effettuata in misura analoga a quella dovuta per il lavoro a tempo ordinario. Articolo 25 del decreto 81 del 2015 dispone l’applicazione di un principio di non discriminazione per ogni trattamento in atto nell’impresa, e dunque con previsioni che si applica anche per gli aspetti previdenziali. Per quanto riguarda il lavoro a tempo parziale, alcuni speciali disposizioni hanno regolato la misura della contribuzione, imponendo il rispetto degli importi giornalieri minimali; una speciale regolamentazione 89 parimenti si applica in relazione criteri di calcolo per la determinazione dell’importo della pensione del sistema retributivo. È nata l’esigenza di un proporzionamento del periodo di riferimento retributivo all’orario di lavoro effettivamente svolto attraverso un sistema che riconduce le ore di prestazione ad una durata conforme al rapporto di lavoro standard. Fra il contratti speciali di lavoro devono essere menzionati i contratti di lavoro CC DD a contenuto formativo, come l’apprendistato. Si tratta di un rapporto speciale, già regolato dal codice civile all’articolo 2130 e dal decreto 81 del 2015, che sia avvantaggia di un finanziamento ad aliquota contributiva ridotta, in particolare per le imprese che abbiano non più di nove dipendenti. Nello stesso senso andava la disciplina del contratto di formazione e lavoro che stabiliva un’articolata serie di sgravi contributivi, al fine di incoraggiare l’assunzione di giovani specialmente nelle aree di maggiore disoccupazione. Queste ultime previsioni sono state però censurate dalla corte di giustizia europea che ha condannato lo Stato italiano, ritenendo contrarie alle disposizioni del trattato comunitario in materia di libertà di concorrenza, quelle disposizioni di legge che distribuivano sgravi contributivi a favore dei contratti di formazione e lavoro senza una verifica circa i soggetti beneficiari. La riforma attuata ha conseguentemente sancito l’eliminazione del contratto di formazione lavoro. Ne consegue per i contratti di formazione lavoro stipulati negli scorsi anni : dato che le agevolazioni contributive gestite distribuite sono illegittime, per violazione del divieto comunitario, gli imprenditori che hanno goduto di tali illeciti vantaggi saranno costretti a restituirli. I lavoratori dipendenti da pubbliche amministrazioni. Il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici è stato lungamente disciplinato dalla normativa diversa rispetto quella applicata ai lavoratori del settore privato, sia per quanto attiene gli aspetti previdenziali sia per quanto riguarda le posizioni soggettive delle parti nella fase di esecuzione del rapporto. Esempio: l’applicazione la qualificazione data in giurisprudenza alla pensione dei dipendenti pubblici quale retribuzione differita e la natura previdenziale attribuita all’indennità di buonuscita. La riforma ha però condotto alla progressiva omogeneizzazione delle regole in vigore nei due settori sia per quanto riguarda il rapporto, sia per quanto riguarda la disciplina degli aspetti previdenziali . Intera normativa pensionistica è stata profondamente rimaneggiata dal decreto del 1992 e nel 1995. Nessuna modifica ha subito invece la giurisdizione cosicché, a differenza di quanto attiene alla disciplina del rapporto, la cognizione in tema di pensioni pubbliche rimane ancora oggi affidata alla corte dei conti. La precedente normativa rispetto alle riforme del 92 e 95: la pensione normale, assimilabile alla pensione di vecchiaia erogata dall’Inps, spettava al dipendente che avesse raggiunto il limite di età per il collocamento a riposo Pari 65 anni e potesse vantare almeno 15 anni di servizio effettivo. Negli altri casi di cessazione dal servizio il dipendente aveva diritto a pensione indipendentemente dall’età, purché vantasse almeno vent’anni di servizio effettivo. Per quel che riguarda la prestazione erogata indipendentemente dall’età e di relazione esclusiva con gli anni di servizio, l’articolo otto della riforma del 92 prevede un’anzianità contributiva pari a 35 anni analogamente al regime assicurativo relativo ai dipendenti del settore privato. Una parificazione dei requisiti previsti per il settore privato e pubblico è stata quanto mai necessaria per evidenti ragioni di equità. Al dipendente erano sufficienti 19 anni, sei mesi e un giorno di servizio effettivo per poter accedere al trattamento pensionistico. Il legislatore inizialmente ha definito un correttivo in sede di calcolo della prestazione concretamente erogabile, escludendo anche parzialmente dalla base di calcolo della pensione l’indennità integrativa speciale. Bisogna attendere la riforma del 95 per conseguire una maggiore armonizzazione fra i vari regimi pensionistici, in forza delle previsioni contenute nell’articolo due di quella legge. Accanto all’istituzione, a partire dal 1 gennaio 1996, una gestione separata all’interno dell’Inpdap per i trattamenti pensionistici dei dipendenti dello Stato, si prevede che il trattamento di fine servizio fosse regolato in base a quanto previsto dall’articolo 2120 cc, affidando alla contrattazione collettiva il compito di disporre la progressiva omogeneizzazione dei due istituti. Il comma 9 ha definito la base contributiva e pensionabile per i dipendenti pubblici, allineandola a quanto previsto dall’articolo 12 legge 143 del 1969 del si dice tale per il fatto che il grado di incapacità viene raggiunto in epoca anteriore al sorgere del rapporto assicurativo. La giurisprudenza costituzionale e di cassazione distingueva nel caso del rischio precostituito, che di per sé non determina il sorgere del diritto, dall’aggravamento del rischio stesso, avvenuto in costanza degli ulteriori requisiti richiesti . In quest’ultimo caso si aveva diritto alla prestazione, e tale soluzione è stata recepita dalla legge di riforma del 1984. Co.3 Opera un rimando ai fini del calcolo dell’ammontare dell’assegno di invalidità, alle norme in vigore per la pensione di vecchiaia, con l’avvertenza che nel caso in cui l’assegno risulti inferiore al trattamento minimo garantito dalle singole gestioni viene integrato, fino al suddetto limite, un importo pari a quello della pensione sociale a carico delle relativo fondo. Il diritto all’integrazione non sorge nel caso di assicurati che siano titolari di redditi imponibili ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche di importo superiore a due volte l’ammontare annuo della pensione sociale e, nel caso in cui l’assicurato sia coniugato e non legalmente separato, di importo superiore a tre volte l’ammontare suddetto. Co.4 dispone che, ai fini della disposizione precedente, l'assicurato è tenuto a presentare all'Inps copia della propria dichiarazione dei redditi. Co.6 l'assegno, diversamente dalla pensione d'inabilita, non è reversibile aie superstiti. Co.7 una delle peculiarità della prestazione in esame è la temporaneità. Infatti l'assegno viene riconosciuto per un periodo di 3 anni, decorsi i quali è onere dell'assicurato chiederne conferma e sottoporsi a una visita medica che accerti il permanere delle condizioni che hanno permesso il sorgere. Del diritto all'assegno. Co.8 Dopo 3 riconoscimenti consecutivi, l’invalidità si considera permanente e l'assegno è automaticamente confermato. Co.9 sancisce la possibilità, in costanza di percepimento dell'assegno, di una contribuzione che potrà rilevare ai fini della liquidazione di supplementi; in altri termini, questi requisiti permettono di ricalcolare l'importo della prestazione. Co.10 al raggiungimento dell’età richiesta per il diritto alla pensione di vecchiaia l'assegno in esame si trasforma, in presenza dei requisiti di assicurazione e contribuzione, in pensione di vecchiaia. A tal fine, i periodi di godimento dell'assegno in corrispondenza dei quali non vi sia stata attività lavorativa, vengono considerati utili ai fini della maturazione del diritto alla pensione, ma non per il suo ammontare. La pensione ordinaria di inabilità Viene regolata dalla stessa normativa dell'assegno di invalidità e postula gli stessi requisiti contributivi e assicurativi. Per l'aspetto dell'incapacità, il co.1 art.2 richiede invece che l’assicurato o il titolare dell'assegno di invalidità, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovi nell'assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa. La riforma della prestazione in esame (1984) ha comportato che il numero delle pensioni in esame sa relativamente basso, a differenza degli assegni di invalidità. La concessione della pensione è ulteriormente subordinata ai requisiti restrittivi: • l’assicurato deve cancellarsi dall’elenco dei lavoratori agricoli o dai nominativi dei lavoratori autonomi o dagli albi professionali. • deve rinunciare ai trattamenti contro la disoccupazione così come ad ogni altro trattamento sostitutivo integrativo della retribuzione. • Deve rinunciare ad ogni compenso per attività di lavoro autonomo o subordinato svolto in Italia o all’estero in epoca successiva alla concessione della pensione. Nel caso in cui l’inabilità derivi da infortunio sul lavoro o da malattia professionale il soggetto non ha diritto alla pensione e dalla rendita erogata dall’Inail, ma solo ad una maggiorazione di quest’ultima. Art.3 l’assegno di invalidità e la pensione di inabilità non possono essere liquidati agli assicurati che presentino domanda in data successiva al compimento dell’età pensionabile. È intervenuta la corte 89 costituzionale, disponendo che l’assicurato che si è infortunato in età pensionabile ha diritto alle prestazioni in esame in mancanza dei requisiti contributivi per le altre pensioni. Art.5 l’assegno di accompagnamento: è un assegno mensile integrativo della prestazione pensionistica, rilasciato ai fini dell’assistenza personale e contributiva ai pensionati, e la cui ratio consiste nell’incentivazione dell’assistenza domiciliare in luogo del ricovero ospedaliero, ben più oneroso e fonte di emarginazione sociale dell’assistito. Artt.10 e seguenti Si occupano di riformulare i requisiti di assicurazione e di contribuzione in precedenza vigenti ed eliminano il riferimento alla situazione socio economica della provincia ai fini dell’erogazione delle prestazioni suddette. La riforma del 95 ha comportato che la pensione di inabilità non può essere cumulata con una rendita Inail dovuta ad infortunio sul lavoro o malattia professionale, che sia eventualmente riconosciuta per la stessa causa. Le pensioni con decorrenza anteriore al 1 settembre 95 continuano ad essere pagate integralmente ma adesso non vengono applicati i successivi aumenti fino al riassorbimento del maggior importo. Per quanto riguarda l’assegno di invalidità, la legge 335 del 95 dispone l’articolo 1. 14, che nel caso di liquidazione secondo il sistema contributivo, esso venga determinato nel suo ammontare assumendo il coefficiente di trasformazione relativo all’età di 57 anni se l’assicurato al momento della liquidazione sia di età inferiore. Per quanto riguarda il calcolo della pensione di inabilità secondo il sistema contributivo, l’articolo 1. 15 della legge di riforma del 1995 prevede che le eventuali maggiorazioni siano computate, ai fini dell’attribuzione dell’anzianità contributiva non superiore a 40 anni, aggiungendo al montante individuale, sussistente all’atto di ammissione al trattamento, un’ulteriore quota di contribuzione riferita al periodo mancante al raggiungimento del 61º anno di età dell’assicurato , computata in relazione alla media delle basi annue pensionabili possedute negli ultimi 5 anni e rivalutate ai sensi della legge del 92. L’articolo 6 della legge 222 del 1984 prevede il diritto all’assegno di invalidità e dalla pensione di inabilità anche in mancanza dei requisiti di assicurazione e contribuzione, quando l’invalidità o l’inabilità risultino in rapporto causale diretto con finalità di servizio e dall’evento non derivi il diritto alla rendita a carico dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. La pensione ai superstiti. Pensione ai superstiti: consiste nell’erogazione di una prestazione ai familiari a carico dell'assicurato, nel caso di decesso di quest’ultimo. Il presupposto è che l’assicurato al momento della morte, fosse già titolare di un trattamento pensionistico, ed in questo caso la pensione spettante ai superstiti è detta di reversibilità, ovvero che fosse già in possesso dei requisiti costitutivi al momento del decesso, pur non essendo ancora titolare, Pensione indiretta. Rileva quindi un periodo contributivo ed assicurativo minimo di 5 anni, come per le persone pensione di inabilità o per quella prevista nel regime contributivo. L. 335\1995: ha reso omogenei i trattamenti previsti dai vari regimi previdenziali estendendo la disciplina in vigore per il regime dell’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti a tutte le forme previdenziali esclusive e sostitutive. I familiari con diritto alla pensione del sistema dell’assicurazione generale obbligatoria sono i seguenti: 1. Il coniuge superstite matura, nel caso in cui non ci sia prole e per tutto il tempo in cui perduti lo stato di vedovanza, un diritto ad un trattamento pari al 60% della pensione, che spetta all’assicurato. Il trattamento di reversibilità è complessivamente pari all’80% del trattamento pensionistico dell’assicurato in presenza di un figlio al 100% in caso di più figli. Le disposizioni precedenti garantivano la prestazione quando il matrimonio fosse stato contratto dopo il compimento dei 72 anni di età da parte dell’assicurato, solo alla condizione che lo stesso si fosse protratto per almeno 2 anni. Quest’ultimo limite è stato rimosso dalla corte costituzionale e poi recentemente reintrodotto, in relazione alla sola misura della prestazione. Eguale diritto spetta nel caso di separazione al coniuge cui sia stata addebitata la stessa, sempre che gli sia stato riconosciuto il diritto agli alimenti a carico del coniuge deceduto. In caso di divorzio, il diritto a pensione sussiste solo se: il coniuge divorziato beneficiario del trattamento di reversibilità, sia titolare dell’assegno alimentare e non risulti passato nuove nozze. Nel caso in cui l’assicurato sia passato a nuove nozze e vi sia anche un coniuge superstite, la giurisprudenza in presenza delle condizioni prima dette, ha riconosciuto al coniuge divorziato un autonomo diritto ad ottenere una quota della pensione di reversibilità, dividendo così fra i due superstiti il trattamento di reversibilità in base alla durata legale dei rispettivi matrimoni. Il passaggio a nuove nozze comporta per il coniuge divorziato il venir meno di tale quota senza diritto alle due annualità di pensione spettanti invece il coniuge separato. 2. Figli minorenni quando siano studenti di età compresa fra il 21 anni, elevata 26 se universitari, a carico e senza attività lavorativa alla data del decesso ed infine a qualunque età se inabili ai sensi della legge 222 del 1984. Il figlio ha diritto ad una quota pari a 70% quando sia il solo superstite. Se i figli superstiti sono due la quota individuale pari al 40%. Se i figli sono tre o più il trattamento di reversibilità è pari all’esatto ammontare della pensione dell’assicurato e la quota individuale deriva dal riparto egualitario fra tutti superstiti. 3. Nipoti superstiti, purché minori e conviventi con l’assicurato. Il trattamento di reversibilità viene riconosciuto anche in assenza di un provvedimento di formale affidamento all’ascendente, purché sia dimostrata una situazione di non autosufficienza economica del minore, nonché nell’ipotesi in cui sia in vita uno o entrambi i genitori, quando questi ultimi non siano in grado di provvedere al mantenimento della prole e l’ascendente provvede abitualmente al mantenimento di questa. 4. In mancanza delle persone suddette, del trattamento beneficiano i genitori dell’assicurato deceduto, che abbiano compiuto i 65 anni di età e non godano di trattamenti pensionistici, e, in mancanza anche di questi ultimi, i fratelli celibi e le sorelle nobili, sempre che inabili e a carico dell’assicurato. L. 335/1995 stabilisce che, nel caso in cui il trattamento debba essere liquidato esclusivamente secondo il sistema contributivo, qualora non sussistano i requisiti per la pensione ai superstiti in caso di morte dell’assicurato, cioè almeno 5 anni di anzianità contributiva, ai medesimi superstiti che non abbiano diritto a rendite per infortunio sul lavoro o malattia professionale in conseguenza del predetto evento e che si trovino in particolari condizioni di reddito, compete un’indennità una tantum proporzionata al periodo di contribuzione accreditata a favore dell’assicurato deceduto. L’indennità una tantum deve essere ripartita in base ai crediti operanti per la pensione ai superstiti prima esposti. La riforma del 95 ha anche disposto dei limiti all’importo del trattamento di reversibilità, in relazione al reddito del superstite che ne benefici. Gli importi dei trattamenti pensionistici ai superstiti sono cumulabili con i redditi del beneficiario solo entro certi limiti. La pensione viene ridotta nelle seguenti misure: A. 25% del trattamento di reversibilità se il reddito del beneficiario è superiore a tre volte il trattamento minimo annuo del fondo pensioni lavoratori dipendenti, calcolato in misura pari a 13 volte l’importo in vigore al 1 gennaio. B. 40% del trattamento se il reddito superiore a quattro volte il trattamento minimo. C. 50% se il reddito è superiore a cinque volte. È escluso che attraverso questo meccanismo si possa ridurre il reddito del titolare al di sotto del livello della fascia inferiore. Le riduzioni non si applicano quando nel nucleo familiare siano presenti anche figli minori, studenti o inabili. Vengono fatti salvi i trattamenti più favorevoli, in godimento alla data di entrata in vigore della legge di riforma con riassorbimento sui futuri miglioramenti. La perequazione automatica delle pensioni Perequazione automatica: con questo Istituto il legislatore ha voluto far fronte alla diminuzione del reale potere d’acquisto delle pensioni. Fino alla L. 28 febbraio 1986 n° 41, l’aumento veniva secondo il criterio del punto unico di contingenza: tutte le pensioni a prescindere dal loro ammontare, venivano aumentate di una cifra fissa uguale per tutti in relazione ad ogni punto di contingenza. La perequazione automatica 89 Per quanto riguarda la prestazione pensionistica concretamente erogata, il problema consiste nel ripartire equamente tra i diversi Stati l’onere economico della stessa. Si opera una ripartizione tra i vari istituti assicuratori europei in base al criterio pro rata temporis, ossia in proporzione ai periodi di contribuzione nei vari Stati. L'INPS calcolerà l’importo teorico della prestazione alla quale l’interessato avrebbe diritto se tutti i periodi di contribuzione compiuti sotto diversi Stati fossero stati compiuti in Italia: quindi si calcoleranno 22 anni di contribuzione, dividendo poi risultato ottenuto per il numero complessivo di anni di contribuzione suddetto, e moltiplicando per gli anni di contribuzione effettuati all’interno del singolo Stato. Non è necessario che l’assicurato inoltri la sua domanda a tutti gli istituti previdenziali presso i quali vi sono stati versamenti contributivi. Sarà sufficiente una sola domanda con indicazione dei vari anni di contribuzione nei diversi Stati. Spetterà agli istituti previdenziali dei diversi Stati presso cui vi è stata contribuzione, erogare l’importo della pensione, cioè ciascuno per la quota di sua pertinenza, direttamente all’assicurato. Un problema particolare si pone quando il lavoratore, pur avendo raggiunto l’età pensionabile in Italia non l’abbia invece conseguita nel sistema pensionistico di altri paesi presso i quali risultino versati contributi. In questo caso l’istituto previdenziale italiano erogherà immediatamente la sua quota, mentre quello straniero vi provvederà solo al compimento da parte dell’assicurato dell’età minima richiesta per la maturazione del diritto. Il regolamento consente che nel caso in cui un lavoratore sia temporaneamente inviato dal proprio datore in un diverso paese dell’unione per svolgervi un lavoro per suo conto, il rapporto rimane soggetto la legislazione dello Stato in cui ha sede l’impresa distaccante, purché la durata prevedibile di tale lavoro non superi 24 mesi e purché la persona non sia inviata in sostituzione di altro lavoratore. La tutela previdenziale nei paesi convenzionati La tutela previdenziale del lavoratore italiano nei paesi extracomunitari può essere regolata da apposite convenzioni bilaterali. Tali convenzioni sono state stipulate con vari paesi e valgono ovviamente nei soli confronti dei paesi aderenti e si applicano esclusivamente nel loro territorio. La regola emergente è che l’obbligo di contribuzione permane a favore degli enti previdenziali italiani quando il lavoratore rimanda all’estero entro un periodo massimo determinato di solo un anno o al massimo due, mentre in caso di permanenza per periodi superiori sorge l’obbligo di contribuzione presso istituti previdenziali esteri. Una disciplina particolare è prevista per gli accordi fra Italia e Stati Uniti, che lascia al lavoratore una scelta fra i due sistemi previdenziali secondo le convenienze individuali. La tutela previdenziale in mancanza di accordi internazionali. La possibilità di stipulare convenzioni è sovente ostacolata dalla mancanza o dall’arretratezza delle strutture previdenziali esistenti nel luogo di svolgimento delle prestazioni lavorative. Il lavoratore italiano che doveva recarsi all’estero per motivi di lavoro si trovava sprovvisto di tutela assicurativa. Al riguardo era prevista la semplice possibilità per il datore di lavoro di assicurare i sui dipendenti prestando apposita domanda al ministero del lavoro e della previdenza sociale. Il pagamento dei contributi sarebbe poi avvenuto sulla base non della retribuzione effettiva, solitamente di elevato importo, ma su un minor importo, e ciò all’evidente fine di incentivare il datore ad assicurare i propri dipendenti. Nella prassi tale sistema non diede luogo ad un’effettiva tutela del lavoratore. Il principio da eliminare era quello della territorialità, per il quale le norme previdenziali, essendo di natura pubblica, trovano applicazione solo all’interno del territorio nazionale e non sarebbero pertanto riferibili a prestazioni che si svolgono in territorio estero. L’articolo 4 del trattato unico n ° 1124 del 1965, in ordine ai soggetti assicurati, è stato giudicato incostituzionale nella parte in cui non prevede l’assicurazione obbligatoria a favore del lavoratore italiano operante all’estero alle dipendenze di un’impresa italiana a causa del contrasto con l’ultimo comma dell’articolo 35 della costituzione per il quale la Repubblica tutela il lavoro italiano all’estero. L.398/1987: non deroga al principio di territorialità, ma contribuisce ad attenuarne l’efficacia. Occorre notare come il trattamento previdenziale ivi contemplato non sia, a fronte dell’evidente natura di compromesso della legge, del tutto uguale a quello garantito al lavoratore che presta attività in Italia, anzitutto per il fatto che la contribuzione dovuta non viene calcolata sulla base di quanto effettivamente percepito dal lavoratore, ma su un importo convenzionale, determinato ogni anno con decreto ministeriale, in relazione alla qualifica posseduta e al settore di attività dei lavoratori distaccati. Articolo 1 co. 1 della legge stabilisce a quali forme assicurative debba venire iscritto il lavoratore italiano all’estero, in paesi extracomunitari con i quali non vi siano accordi di sicurezza sociale: assicurazione per invalidità, vecchiaia e superstiti, contro la tubercolosi, contro la disoccupazione involontaria e per la maternità, tutte di competenza dell’Inps ma oggetto di separata ed autonoma gestione ; il lavoratore è anche assicurato contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali presso l’Inail e contro le malattie. I l diritto all’assicurazione sorge a favore del cittadino italiano assunto in Italia oppure in paesi extracomunitari, ma l’obbligo dell’opposto non grava su tutti i datori di lavoro, sicché il principio di territorialità non ha cessato completamente di operare. Sono obbligati ad assicurare il lavoratore: 1. I datori di lavoro residenti, domiciliati o eventi aventi la propria sede nel territorio nazionale, 2. le società costituite all’estero ma con partecipazione italiana di controllo, 3. le società costituite all’estero in cui persone fisiche e giuridiche di nazionalità italiana partecipano in misura superiore ad 1/5 del capitale sociale 4. datori di lavoro stranieri. Occorre notare che la normativa non prevede forme di controllo sull’adempimento degli obblighi assicurativi. LE PRESTAZIONI: INTERVENTI DI SOSTEGNO AL REDDITO E A TUTELA DEL LAVORO Controllo della spesa pensionistica e tutela del lavoratore sul mercato del lavoro. Immediatamente dopo la L. 335 del 1995 emerse chiaramente il profondo legame che univa tale intervento normativo alla regolamentazione della disciplina del lavoro subordinato. L’invecchiamento della popolazione e il contestuale ridotto tasso di natalità fanno sì che sistema di previdenza si mantenga sempre sull’orlo di un pericoloso criminale: l'Inps a differenza dei fondi di previdenza complementare, non gode di accantonamenti patrimoniali , in modo che il pagamento delle pensioni avviate avviene utilizzando le somme che l’istituto ritrae mensilmente dal pagamento dei contributi. L’equilibrio economico del sistema pensionistico rimane quindi molto fragile. Il legislatore ha quindi mirato a rendere più stabile sistema pensionistico attraverso provvedimenti che si sono indirizzati verso l’obiettivo di un ampliamento della popolazione attiva ed un incremento del gettito contributivo. Nella stessa direzione si è mossa anche l’Unione Europea, che ha imposto a tutti sui Stati membri un’azione di contrasto alla disoccupazione, lungo le direttrici identificate nella strategia europea dell’occupazione: adattabilità, occupabilità, pari opportunità e imprenditorialità. I risultati raggiunti sono modesti. Il principale obiettivo perseguito dal legislatore negli anni successivi alla riforma del 95 è consistito nel fare in modo che al finanziamento del sistema previdenziale partecipasse una base quanto più ampia possibile di lavoratori, incrementando il tasso di popolazione attiva. Si è cercato quindi di favorire l’emersione del lavoro nero attraverso programmi di regolamentazione graduale, presto però abbandonati per l’insussistenza di un meccanismo coercitivo che spingesse le imprese a mettersi effettivamente in regola. Si ha provato ad attirare le donne sul mercato del lavoro: nel nostro paese le funzioni di cura vengono ancora stabilmente svolte dal sesso femminile. Si è tentato dunque di sviluppare maggiore attenzione a tali funzioni, promuovendo misure specifiche di conciliazione o la individuazione di orari più compatibili con le esigenze familiari. Si è poi ipotizzato di realizzare un ampliamento della base contributiva con un più attento governo dei flussi di lavoratori extracomunitari: ogni azione diretta a contrastare la tendenza alla riduzione delle nascite, potrà 89 avere effetti sul sistema di finanziamento della previdenza solo quando i nuovi nati entreranno sul mercato del lavoro. La tendenza ulteriore che si è sviluppata è stata quella di promuovere nell’ambito del lavoro subordinato, forme contrattuali che sappiano rispondere alle esigenze imprevedibili della produzione industriale o del commercio, intercettando la domanda di lavoro temporaneo o discontinuo. Si è provato allo stesso tempo ad abbassare l’età dell’ingresso nel mondo del lavoro attraverso una rinnovata attenzione verso l’apprendistato. Il proliferare di fattispecie contrattuali e il frammentarsi del rapporto di lavoro subordinato in una pluralità di articolazioni tipologiche ha determinato una concorrenza fra forme di lavoro più e meno garantite, che, piuttosto che incrementare il tasso complessivo degli occupati, sembra aver finito per generare una profonda contrapposizione all’interno del mondo del lavoro in ordine al livello delle tutte le individuali , con un’evidente contraddizione per quanto riguarda i principi di uguaglianza e solidarietà che riguardano l’intero tessuto normativo della costituzione. Si è quindi prospettato una riforma profonda del sistema delle indennità di disoccupazione, ammortizzatori sociali, nel senso di estendere i mezzi di protezione del reddito in caso di disoccupazione anche alle numerose categorie di lavoratori che non ricevevano alcuna tutela. Si è sottolineato soprattutto lo squilibrio che per decenni ha caratterizzato l’ordinamento italiano, nel quale le risorse finanziarie sono state prevalentemente concentrate verso i lavoratori licenziati dalle imprese industriali di dimensioni medio grandi, grazie all’intervento della cassa integrazione guadagni, che ha finito per rappresentare per lunghi anni il solo reale trattamento per l’ipotesi della disoccupazione, lasciando i tanti che perdevano il lavoro una tutela più modesta e dunque insufficiente. --> È nata l’aspirazione alla definizione di un nuovo sistema di welfare, più attento alla situazione di bisogno determinata dalle modifiche della struttura sociale e del mercato del lavoro, a coronamento del quale viene concordemente posto un ulteriore intervento di riforma che merita di essere qui ricordato. Si intende alludere al sistema dei servizi per l’impiego, oggetto di plurimi interventi di riforma dell’ultimo quidicennio, in un primo momento, al fine di trasferire la gran parte delle competenze statali alle regioni, e da qui alle province, in un’ottica rivolta privilegiare non più le politiche passive di erogazione di sussidi, ma quelle attive, mirate a creare occupazione attraverso azioni specifiche in tema di formazione professionale, il potenziamento dell’intero sistema dell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro. Gli sviluppi più recenti (2012 e 2015) la riforma dei trattamenti di disoccupazione. Si è provveduto al riordino degli ammortizzatori più volte prospettato messo da parte ha ragione dell’emergere di una nuova forma di intervento di integrazione salariale, denominato cassa in deroga, attraverso la quale, già dal 2008 si sono finanziati a livello regionale una pluralità di interventi diretti ad estendere l’intervento di integrazione salariale o oltre i limiti del tempo altrimenti stabiliti o oltre al novero dei soggetti previsti dalla legge 223 del 91. Il disegno di riforma dei servizi pubblici per l’impiego, già rigorosamente intrapresa in precedenza, ha dovuto registrare un arresto a seguito della riforma delle province, nell’attesa che tale livello istituzionale venga definitivamente espunto dalla carta costituzionale. La L. 28 giugno 2012 n° 92, riforma Fornero del mercato del lavoro, che dichiara di mirare alla creazione di un sistema ispirato al principio di eguaglianza, nel quale trattamenti di disoccupazione vengono ad essere indirizzati al fine di garantire parità di condizioni a tutti i lavoratori, così da incrementare la protezione per coloro che, pur nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, fossero comunque esclusi dalle forme più protettive di tutela contro la disoccupazione. L’obiettivo viene perseguito attraverso la riforma dell’indennità di disoccupazione ridenominate assicurazione sociale per l’impiego ASpI e per un altro mediante la futura istituzione di fondi bilaterali di solidarietà, destinati a operare per il settore non coperti dalla normativa in materia di integrazione salariale , con la finalità di assicurare ai lavoratori una tutela in costanza di rapporto di lavoro nei casi di riduzione proprio o sospensione dell’attività lavorativa per cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale ordinaria o straordinaria. Attraverso il recente decreto 22 del 2015, in attuazione del Jobs act, si intende portare a compimento la riforma di tre anni prima, attraverso l’ampliamento dei soggetti protetti e il contestuale assorbimento in essa Si prevede innanzitutto che il godimento della prestazione NASpI sia compatibile con l’instaurazione da parte del beneficiario di un rapporto di lavoro subordinato, purché la retribuzione percepita non sia superiore al limite annualmente previsto per l’esenzione dell’imposizione fiscale, salva l’ipotesi che la prestazione non superi 6 mesi di durata. In quest’ultimo caso, l’indennità resta sospesa per la durata del rapporto di lavoro. Il lavoratore che non superi i livelli di reddito conserva la prestazione purché abbia comunicato all’Inps il reddito annuo che ritiene di poter guadagnare, ma vedrà ridotta l’indennità di un importo pari all’80% del reddito previsto, rapportata al periodo di tempo che intercorre fra la data di inizio dell’attività lavorativa e la fine del periodo di godimento. Al fine del mantenimento del diritto alla prestazione, il rapporto di lavoro deve instaurarsi con soggetti diversi e non collegati al precedente datore. L’importo della prestazione può essere liquidato anticipatamente in un’unica soluzione quando il beneficiario intende avviare un’attività di impresa o di lavoro autonomo nonché nel caso in cui sottoscriva una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio. DIS-COLL Art.15 del dec.22/2015: in via sperimentale, prevede una prestazione di disoccupazione per i collaboratori coordinati e continuativi, anche già impegnati nella forma del lavoro a progetto, iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps e privi di partita Iva e non pensionati, che possono vantare 3 mesi di contribuzione nel periodo tra la cessazione del rapporto di lavoro e il 1 gennaio dell’anno solare precedente la stessa, e 1 mese di contribuzione nell’anno solare in cui si verifica la disoccupazione. È necessario che tali soggetti siano immediatamente disponibili allo svolgimento e alla ricerca di un’attività lavorativa. L’importo della prestazione è pari a quello riconosciuto per l’accesso alla NASpI e conosce una riduzione del 3% al mese dal quarto mese di fruizione. La prestazione viene riconosciuta per una durata massima di 6 mesi, rapportata alla contribuzione dell’anno precedente ed è condizionata alla regolare partecipazione a percorsi di riqualificazione professionale o di attivazione per la ricerca di lavoro. La prestazione è compatibile con un’altra lavorativa autonoma, solo se il reddito è inferiore al limite utile ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione con riduzione dell’importo. L’articolo 15 del decreto 22 stabilisce che in caso di contratto di lavoro subordinato di durata superiore a 5 giorni il beneficiario decadde dal diritto alla prestazione di DIS-COLL. La legge delega N° 183 del 2014, lasciava intendere che tale misura sarebbe stata stabilizzata con la semplice inclusione dei lavoratori parasubordinati fra i destinatari del trattamento dell'ASpI, al prezzo però di un incremento del costo del lavoro in termini di contribuzione, vedendosi così abbandonare l’incentivo una tantum, finalizzato alla fiscalità generale. ASDI Art. 16 del decreto 22 introduce in via sperimentale un assegno di disoccupazione per i percettori di NASpI che abbiano esaurito il periodo di sostegno senza trovare occupazione e siano in stato di bisogno. La Disposizione rinvia ad un decreto ministeriale la concreta attuazione della misura, stabilendo solamente che l’assegno avrà durata massima pari a 6 mesi e che sull’importo sarà pari a 75% dell’ultima indennità NASpI. Al decreto spetterà di individuare le situazioni di bisogno che danno diritto all'ASDI specificando gli obblighi che gravano sul percettore nella prospettiva dell’attivazione per la ricerca di lavoro nonché i criteri di priorità per l’ipotesi che le domande siano superiori alle risorse messe a disposizione. Si dovrà anche determinare l’incremento da riconoscere ai soggetti con figli minorenni o vicini alla pensione e controlli da porre in essere per evitare abusi. Nell’ambito dell’agricoltura il trattamento di disoccupazione viene disciplinato dal decreto 1049 del 1970 , il quale dispone che hanno diritto all’indennità i lavoratori agricoli subordinati, iscritti negli elenchi nominativi, che possono vantare un requisito assicurativo di 2 anni e almeno 102 contributi giornalieri nel biennio suddetto. L’indennità è pari al 30% del salario medio convenzionale provinciale ed è corrisposta per un numero di giorni pari alla differenza tra il numero fisso di 270 ed il numero di giornate di lavoro compiute nell’anno per il quale si è presentata domanda, fino ad un massimo di 180 giornate annue. La tutela in caso di sospensione dell’attività: la cassa integrazione guadagni: 89 Origini, finalità e disciplina generale In passato al trattamento di disoccupazione veniva a sostituirsi quello di integrazione salariale, erogato dalla cassa integrazione guadagni. Tale protezione finiva spesso per avere una durata del tutto superiore a quella formalmente prevista dalla legge generale. Per i lavoratori che fossero stati espulsi dal processo produttivo delle imprese di maggiori dimensioni , era prevista un’indennità speciale di mobilità. Questa profonda differenziazione fra i trattamenti di sostegno al reddito, che ha caratterizzato la forza lavoro occupata in Italia nel corso degli ultimi quarant’anni, veniva a costituire una scarsa tutela per coloro che perdevano il lavoro dopo aver lavorato nelle imprese di minori dimensioni o in quelle del terziario. Tutti gli interventi legislativi dell’ultimo decennio hanno mirato alla riduzione del divario, sia incrementando i trattamenti di disoccupazione, sia rendendo la cassa più aderente alla funzione di sostegno temporaneo a imprese sostanzialmente sane, così da evitare eccessi evidenti di assistenza. Tre modifiche a questo proposito vanno segnalate: 1. si è notevolmente incrementato il costo a carico delle imprese in caso di ricorso alla cassa, attraverso la previsione di controlli addizionali in caso di ammissione all’integrazione e mediante la promozione del contratto di solidarietà. 2. Si è proceduto ad eliminare ogni tutela speciale per le imprese che procedevano licenziamenti mediante, sia l’abolizione dell’indennità di mobilità, sia per il venir meno del diritto all’integrazione salariale in caso di crisi aziendale che comporti l’accesso alle procedure concorsuali. 3. Si è definito un nuovo sistema di tutela per i settori esclusi dalla cassa, attraverso la previsione di fondi finanziati dalle stesse imprese ed ai lavoratori. La cassa integrazione guadagni, trova origine nel contratto collettivo 13 giugno 1941 stipulato dalle confederazione degli industriali e dei lavoratori dell’industria , avente efficacia erga omnes riferito esclusivamente gli operai del settore industriale. Per gli impiegati era già prevista un’apposita forma di tutela sull’impiego privato, in forza del quale, nel caso di interruzione o sospensione del lavoro, questi avrebbero avuto comunque diritto alla retribuzione. Le previsioni del contratto collettivo del 41 e dei successivi interventi legislativi andavano a favore del datore di lavoro. L. 223/1991: ha mirato ad una razionalizzazione della materia, disciplinando per la prima volta anche i licenziamenti collettivi. L. Fornero L.92/2012: ha messo in ordine la materia, ampliando definitivamente il campo di applicazione della misura ad ulteriori tipologie di imprese, che erano state provvisoriamente inserite nel novero dei beneficiari, ed eliminando alcune ipotesi fra quelle suscettibili di integrazioni salariali. L’originaria normativa restringeva l’area di operatività soggettiva dell’intervento di integrazione salariale ai soli operai dipendenti da imprese industriali. La legge 223 del 1991 ha esteso il trattamento ordinario anche agli impiegati e ai quadri, lasciandone esclusi soli dirigenti e i lavoratori a domicilio, posto che la recente riforma del decreto 81/ 2015 ha compreso fra i beneficiari anche i giovani assunti con contratto di apprendistato professionalizzante. Anche l’originaria limitazione al settore industriale è stato ormai quasi del tutto cancellata sulla base di provvedimenti di legge che, a determinare condizioni, vengono in rilievo anche i dipendenti del commercio dell’agricoltura, in quanto si tratta di attività connesse o accessorie ad attività industriali e da queste dipendenti, ovvero in considerazione delle dimensioni dell’impresa coinvolta. L’integrazione salariale è sempre dovuta nella misura dell’80% della retribuzione globale che sarebbe spettata ai dipendenti per le ore di lavoro non prestate. Nei periodi di cassa integrazione il lavoratore ha diritto alla contribuzione figurativa per tutto il periodo di integrazione salariale, calcolata sulla base della retribuzione globale cui è riferita l’integrazione salariale. Invece, sulla retribuzione erogata per le ore di lavoro prestate nel caso di integrazione ad orario ridotto occorre pagare i relativi contributi effettivi. Sorgeva al riguardo in passato il problema della disparità di trattamento tra lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore settimanali, rispetto ai quali l’Inps accreditava i contributi figurativi, e dipendenti dello stesso datore che lavoravano per numero sia pure ridotto di ore alla settimana. Questi ultimi si vedevano accreditare una contribuzione effettiva proporzionale alla retribuzione percepita, quindi molto bassa, in misura inferiore all’ammontare della contribuzione figurativa di cui era posto a zero ore lavorative. In passato l’intervento di integrazione della cassa veniva spesso prolungato attraverso varie richieste che coinvolgevano la formazione ordinaria sia straordinaria. Al fine di evitare un ricorso indebito alle integrazioni il decreto 148 del 2015 stabilisce ora all’art.4 una durata massima complessiva di ricorso alla cassa, che ne impedisce la concessione quando siano stati già finanziati 24 mesi nel periodo di 5 anni antecedenti alla data di presentazione della domanda. Art.8: Prova a determinare un più stretto vincolo fra le politiche del lavoro e la concessione della cassa considerando come disoccupati lavoratori per i quali è programmata una sospensione o riduzione superiore al 50% dell’orario di lavoro, calcolato in un periodo di 12 mesi. Art.5: stabilisce per le imprese che presentano domanda di integrazione salariale un contributo addizionale, il cui importo è stato notevolmente incrementato rispetto al passato, dato che questo viene ora calcolato sulla base della retribuzione globale che sarebbe spettata ai lavoratori collocati in cassa per le ore di lavoro non prestate, secondo una misura crescente in relazione al periodo di concessione. L’intervento ordinario e straordinario di integrazione salariale: ambito, causali e durata L’intervento di integrazione salariale può rivestire carattere ordinario o straordinario, secondo presupposti distinti e con una durata diversa. In relazione al tipo di intervento mutano anche le imprese ammesse al beneficio e correlativi oneri contributivi. La distinzione si coglie anzitutto in relazione al campo d’azione, che ricomprende nel caso dell’intervento ordinario oramai non solo l’industria e settore edilizio, ma anche un’ampia serie di attività. La CIGS invece ha un campo di applicazione più ristretto, in quanto limitata alle imprese con più di 15 dipendenti, attive nel settore dell’industria e dell’edilizia. L.155/1981: Il trattamento è stato esteso ai dipendenti di imprese appaltatrici di servizi di mensa o ristorazione la cui attività risenta della contrazione o sospensione dell’attività dell’impresa presso la quale svolgono tali servizi. Beneficiano dell’intervento di integrazione salariale anche imprese di commercializzazione del prodotto delle imprese industriali, nonché quelle del cosiddetto indotto, secondo le previsioni della legge del 1991, che estende i benefici alle imprese artigiane che sospendono l’attività per contrazione o sospensione dell’attività dell’impresa committente quando la somma dei corrispettivi da questa ricevuti abbia superato nel biennio precedente il 50% del fatturato dell’impresa artigiana. La CGIS è ancora prevista per le imprese ausiliare del settore ferroviario e per le cooperative e consorzi di trasformazione di prodotti agricoli. Ulteriori disposizioni hanno previsto nel tempo l’estensione della cassa anche ad ulteriori imprese come nel caso delle imprese commerciali, o della logistica, che occupino più di 50 dipendenti o come le agenzie di viaggio che superino i medesimi limiti dimensionali. Per quanto riguarda i presupposti, alle origini dell’Istituto trovava applicazione a fronte di situazioni temporanee e non imputabili al datore di lavoro ed occorreva anche che l’impresa non avesse operai in soprannumero. La L. 164 del 1975 ha disposto profonde innovazioni per quanto riguarda l’ipotesi di intervento della cassa, pur lasciando formalmente immutati requisiti suddetti. L’aspetto della temporalità viene riferito all’evento che causa la sospensione, senza più alcun accenno ai tempi della riammissione. Anche la non imputabilità dell’evento viene riletta non più alla luce degli articoli 1218 e 1256 cc, in forza dei quali il creditore è responsabile dell’inadempimento fino al limite dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile, ma occorre solamente che l’imprenditore abbia operato secondo i canoni dell’ordinaria diligenza. --> Si è ammesso quindi l’intervento della cassa integrazione anche nelle ipotesi di crisi di mercato che dal punto di vista del diritto civile non possono considerarsi caso fortuito, forza maggiore o factum principis, ma solo un’ipotesi di mera difficultas prestandi. 89 Entro tre giorni dalla comunicazione iniziale alle rappresentanze sindacali, le parti possono richiedere che l’esame congiunto della situazione aziendale si svolga in sede amministrativa. Qualora l’intervento richiesto riguardi unità produttive ubicate in più regioni, l’esame si svolgerà presso il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, diviso nelle regioni sul cui territorio sono collocate le unità produttive interessate all’intervento di riduzione. L’esame congiunto ha per oggetto il programma che l’impresa intende attuare e delle ragioni che rendono impraticabili forme alternative di riduzione di orario, nonché delle misure previste per la gestione delle eventuali eccedenze di personale. L’esame congiunto ha inoltre riguardo ai criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, che devono essere coerenti con le ragioni per le quali è richiesto l’intervento. Al momento della presentazione della domanda di concessione di trattamento straordinario di integrazione salariale, l’impresa deve trasmettere l’elenco nominativo dei lavoratori interessati dalle sospensioni o riduzioni di orario, affinché l’Inps possa inoltrare in via informatica tali informazioni alle strutture regionali competenti per i necessari controlli e per attivare nei confronti dei lavoratori, eventuali misure di formazione o per la ricerca di nuova attività. L’art. 25 co. 2, prevede che la sospensione o la riduzione dell’orario decorre non prima del 30º giorno successivo alla data di presentazione della domanda di cui al co.1: la norma vale ad imporre l’eventuale smaltimento di ferie arretrate prima di avere accesso all’intervento di integrazione. La concessione della cassa avviene con decreto del Ministero del Lavoro, da adottarsi entro 90 giorni dalla presentazione della domanda da parte dell’impresa. La domanda deve essere presentata contestualmente al Ministero del Lavoro e alle direzioni territoriali del lavoro (DTL) competenti per territorio, così da consentire da parte di queste, le necessarie verifiche finalizzate al rispetto degli impegni aziendali. L’impresa, in seguito a nuova consultazione sindacale, può chiedere una modifica del programma nel corso del suo svolgimento. Per quanto riguarda il provvedimento di concessione, la giurisprudenza ritiene che esso abbia natura amministrativa, in modo che eventuali ricorsi contro la mancata concessione dell’integrazione, sia di tipo ordinario che di tipo straordinario, possono essere proposti davanti alla magistratura amministrativa. In caso di rigetto della domanda di CIGO è possibile un ricorso amministrativo al comitato paritetico provinciale. Il finanziamento dell’intervento ordinario grava sul solo imprenditore, mentre la copertura dell’intervento straordinario provvede anche la contribuzione dei lavoratori . Vi è, in primo luogo un contributo ordinario a carico di tutte le imprese beneficiarie; via poi un robusto contributo addizionale a carico delle sole imprese che beneficiano degli interventi, da calcolarsi sulla base della retribuzione globale che sarebbe spettata ai lavoratori in assenza di sospensioni. Esso è raddoppiato in caso di mancato rispetto dei meccanismi di rotazione. Sono sorti problemi per quanto riguarda l’applicazione della cassa: ci si è innanzitutto chiesti se il lavoratore posto in cassa integrazione a zero ore abbia diritto ad entrare ugualmente in azienda. Il potere del datore al riguardo, deve ritenersi limitato al diritto del dei lavoratori che ricoprono cariche sindacali a svolgere l’attività sindacale stessa oppure a svolgere attività sindacale riconosciuta a tutti lavoratori, come nel caso di referendum o assemblee. Altra questione riguarda il diritto del lavoratore in cassa integrazione a zero ore all’indennità sostitutiva delle ferie; l’obbligo di collaborazione che caratterizza il rapporto di lavoro si traduce nel mantenersi sempre a disposizione, a fronte di un eventuale chiamata da parte del datore di lavoro. La cassazione ha negato il diritto del lavoratore cassintegrato all’indennità sostitutiva. Un’altra questione consisteva nel dubbio circa la sussistenza di un obbligo da parte del datore di lavoro, di anticipare ai lavoratori delle somme corrisposte poi all’Inps. La giurisprudenza ha negato l’obbligo di anticipazione. Il problema principale consisteva nella scelta dei lavoratori da mettere in cassa integrazione. Si è fatto ricorso ai criteri dettati dall’accordo Interconfederale per i licenziamenti per la riduzione del personale del 20 dicembre 1950 che richiamava i criteri: • delle esigenze tecniche e amministrative, • dell’anzianità del lavoratore, • dei carichi di famiglia, • della situazione economica del nucleo familiare del dipendente. La scelta del personale fu allora rimessa successivamente agli accordi intervenuti a livello aziendale tra il datore e le rappresentanze dei lavoratori. gli accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali potevano trovare efficacia solo per gli aderenti alle stesse, e non per i lavoratori iscritti ad organismi indipendenti e non affiliati ad alcuna organizzazione. nell'attesa di un intervento legislativo, la soluzione più equilibrata consisteva nel riconoscere la discrezionalità del potere di scelta del datore in materia, con i limiti delle regole di correttezza e di buona fede oggettiva, oltre alla congruità fra le ragioni collocate alla base della richiesta di intervento e la posizione occupata dai lavoratori nell’ambito dell’organizzazione dell'impresa. Il problema della definizione dei criteri di scelta trovò risoluzione normativa nella L. 223 del 1991 che, per questa ipotesi recepisce i criteri previsti dagli accordi interconfederali prima richiamati, consentendo tuttavia alla contrattazione collettiva di derogare ai criteri di legge. La corte costituzionale rinvenne il fondamento dell’efficacia gli accordi, nella limitazione che questi imponevano alle prerogative di scelta del datore, altrimenti libere, ritenendo quindi insussistente il denunciato profilo di violazione del principio di libertà dell’organizzazione sindacale. Per quanto riguarda gli interventi di integrazione salariale straordinaria, la legge del 91 ha disposto che i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere devono formare oggetto delle comunicazioni dell’esame congiunto, così privilegiando il criterio della rotazione in forza del quale tutti lavoratori a turno devono sottostare a periodi di cassa integrazione. Viene comunque lasciato alla contrattazione collettiva la possibilità di adottare un diverso criterio. I contratti di solidarietà Il contratto di solidarietà difensivo, è diretto ad evitare il licenziamento di una parte del personale di un’impresa attraverso una riduzione dell’orario individuale, in modo da ridistribuire fra tutti lavoratori gli effetti conseguiti alla contrazione della produzione industriale, grazie anche all’intervento pubblico di integrazione del reddito perduto in conseguenza della riduzione di orario. Nella sua originale formulazione normativa, questo contratto si è dimostrato praticabile solo per le imprese e per quelle categorie per le quali non era previsto l’intervento di integrazione salariale, i dirigenti. La riforma del 2015 assorbe il contratto di solidarietà nell’ambito della CIGS, parificando così l'ambito di applicazione, soggetti destinatari del beneficio e importi. Art.21 co.5: afferma che il contratto di solidarietà, stipulato dall’impresa e dalle rappresentanze aziendali delle associazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o delle RSU, prevede una riduzione dell’ordine lavoro al fine di evitare, in tutto o in parte, la riduzione o la dichiarazione di esubero del personale anche attraverso un suo più razionale impiego. La norma stabilisce che riduzione media oraria non può essere superiore al 60% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile dei lavoratori interessati al contratto di solidarietà e che per ciascun lavoratore, la percentuale di riduzione complessiva dell’orario di lavoro non può essere superiore al 70% nell’arco dell’intero periodo per il quale il contratto di solidarietà e stipulato. Si dispone che il trattamento retributivo perso vada determinato inizialmente non tenendo conto degli aumenti retributivi previsti da contratti collettivi aziendali nel periodo di 6 mesi antecedenti la stipula del contratto di solidarietà. Il legislatore ha stabilito che il contratto di integrazione salariale è ridotto in corrispondenza di eventuali successivi aumenti retributivi intervenuti in sede di contrattazione aziendale. Il legislatore stabilisce che le quote di accantonamento del TFR relative alla retribuzione persa a seguito della riduzione dell’orario di lavoro, restano a carico della gestione dell’istituto previdenziale, purché i lavoratori ammessi al beneficio non vengano successivamente licenziati per un motivo oggettivo nei 90 giorni successivi alla fine della fruizione del trattamento di integrazione salariale, ovvero entro 90 giorni dal termine del periodo di fruizione 89 di un ulteriore trattamento straordinario di integrazione salariale concessi entro 120 giorni dal termine del trattamento precedente. l'art. 40 disciplina gli accordi di solidarietà espansiva in quanto rivolti all’incremento del numero dei lavoratori attivi: si tratta di una misura già regolato dal legislatore in passato è pochissimo praticata in concreto. Le misure speciali abrogate: mobilità e prepensionamenti Con la legge del 1991, il trattamento straordinario di cassa si presentava quasi nella forma di una misura di accompagnamento alla pensione o ad un’altra attività lavorativa. Quando l’impresa ammessa alla CIGS che reputasse di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti lavoratori sospesi al termine del periodo di integrazione salariale, aveva la facoltà di avviare la procedura per la dichiarazione di mobilità, al fine di favorire il reimpiego dei lavoratori , mediante l’iscrizione in appositi liste di collocamento e l’attribuzione di un diritto di precedenza per le assunzioni effettuate dalla stessa impresa nei 6 mesi successivi alla data di licenziamento. I lavoratori collocati in mobilità avevano diritto anche un’indennità per un periodo massimo di 12 mesi elevabile a 24. Nella prassi l’indennità di mobilità ha finito per assumere il ruolo di un indebito prolungamento della situazione di crisi, così da facilitare il rinvio di decisioni in ordine alla sorte dell’impresa che invece richiederebbe tempestività. La legge n° 92 del 2012 pur lasciando in vigore la disciplina generale della collocazione in mobilità sopra illustrata, ha così previsto che l’indennità venga meno dalla data del 1 gennaio 2017, riducendosi progressivamente la durata , per essere sostituita dall’indennità ordinaria. La disciplina più recente in tema di NASpI prende spunto dalla legge del 91 che consente che ai lavoratori che ne facciano richiesta per intraprendere un’attività di lavoro autonomo, o anche a carattere cooperativo, l’indennità di mobilità possa essere corrisposta anticipatamente in un’unica soluzione. Una misura alternativa alla mobilità, è stata a lungo rappresentata dal prepensionamento, che al pari dei trattamenti di pensione anticipata, ha svolto la funzione di invogliare i lavoratori ormai prossimi al pensionamento, ad anticiparlo nel tempo, al fine di evitare o quanto meno di stemperare le tensioni sociali derivanti dalle crisi industriali. Il suo presupposto era costituito dalla risoluzione del rapporto di lavoro e la sua utilità si rinveniva nella possibilità di negoziare un’uscita morbida, che veniva fornita alle organizzazioni sindacali, al momento della definizione dei criteri di scelta. L’articolo 19 L. 223 del 91, disponeva la possibilità di prepensionamento senza limitazioni temporali a favore degli assicurati che vantino un’anzianità contributiva non inferiore a 15 anni ed un’età inferiore di non più di 60 mesi (5anni) rispetto a quella prevista per la pensione di vecchiaia, allorquando si trattasse di lavoratori dipendenti da imprese che beneficino da più di 24 mesi del trattamento di integrazione salariale straordinario e che abbiano stipulato con i sindacati dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale, contratti collettivi che prevedano ricorso al lavoro tempo parziale. La legislazione ha gradualmente aumentato il costo a carico del datore, riducendo tuttavia sempre di più le ipotesi previste nella legislazione di settore, fino a determinare la scomparsa di ogni costo a carico dell’erario in tali evenienze con la creazione di appositi fondi bilaterali destinati a traghettare i lavoratori verso la pensione. I fondi bilaterali per il sostegno al reddito Un certo numero di imprese rimane fuori dall’orbita di applicazione della cassa, per l’attività esercitata, le dimensioni o in relazione alla categoria legale di inquadramento. La funzione di sostegno ai lavoratori operai ed impiegati, esclusi dalle tradizionali forme di ammortizzatori sociali è stata affidata ad una misura incapienza dell’attivo, nonché affrontando i costi e i tempi collegati alla definizione dell’esecuzione concorsuale. Prestazioni a tutela della famiglia. L’assegno unico per il nucleo familiare L’esigenza di corrispondere un più elevato trattamento economico agli assicurati con familiari a carico, tramite prestazioni di carattere previdenziale, costituisce il fondamento dell’assegno in esame. La riforma muove dalla considerazione che la famiglia non è dal punto di vista economico un aggregato di singoli componenti non soggetto unitario. I parametri di determinazione della misura dell’assegno tengono conto di due variabili: il numero dei componenti e l’ammontare del reddito complessivo del nucleo familiare stesso. L’assegno per il nucleo familiare viene erogato dal datore di lavoro stesso per conto dell’Inps, cui spetta la relativa gestione a favore dei lavoratori dipendenti. L’onere contributivo grava in misura esclusiva sul datore di lavoro, in percentuale sull’ammontare delle retribuzioni corrisposte ai lavoratori, ancorché privi di familiari a carico: diversamente, il datore sarebbe portato ad assumere solo lavoratori liberi da responsabilità familiari. Nel nucleo familiare del lavoratore sono ricompresi: a. il coniuge e figli legittimi ed equiparati di età inferiore a 18 anni compiuti. b. Possono essere ricompresi anche i figli legittimi ed equiparati maggiorenni che si trovino, a causa di infermità o difetto fisico mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi un proficuo lavoro. c. Possono essere ricompresi genitori e soggetti ad essi equiparati e gli altri ascendenti linea retta. L’assegno viene ora corrisposto anche ai lavoratori dipendenti da amministrazioni pubbliche. Non hanno invece titolo per la corresponsione dell’assegno: a. i lavoratori subordinati che prestano la loro attività presso due distinti datori, nel caso che l’erogazione avvenga già da parte di uno dei due. b. I coniugi e figli del datore di lavoro, essendo nei loro confronti il datore già tenuto all’obbligo degli alimenti. c. Coloro che fanno parte della impresa familiare . d. I lavoratori autonomi e pensionati da lavoro autonomo. L’assegno viene erogato in costanza di retribuzione a prescindere dall’effettivo espletamento di attività lavorativa. Spetta anche: nei periodi di cassa integrazione guadagni a zero ore lavorative; durante i periodi di assenza dal lavoro per malattia; nel caso di percezione dell’indennità sostitutiva del preavviso di licenziamento per il periodo corrispondente. La tutela della maternità e della paternità La maternità si configura come un'evenienza che sospende l'esecuzione del lavoro, facendo venir meno la retribuzione. La disciplina è contenuta nel decreto 151/2001 ed è recentemente modificata dal decreto 80/2015, e prevede il diritto del lavoratore di astenersi dalla prestazione in relazione a tre ipotesi: 1. Congedo di maternità = viene riconosciuto alla lavoratrice nei 2 mesi antecedenti la data presunta del parto e nei 3 mesi successivi la nascita, con ulteriore prolungamento in caso di parto prematuro. Un congedo analogo viene riconosciuto al padre, in via alternativa rispetto a quello di maternità, nelle ipotesi in cui la madre sia impossibilitata a fruirne per i primi 3 mesi di vita del bambino. Nel caso di congedo per maternità o paternità compete alla lavoratrice madre o padre un’indennità giornaliera pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera, percepita nel periodo di paga 89 quadri settimanale o mensile scaduto in epoca immediatamente precedente a quello nel corso della quale ha avuto inizio l’astensione obbligatoria dal lavoro. 2. Congedo parentale = riconosciuto ad entrambi i genitori e un tempo definito come periodo di astensione facoltativa, consente l'astensione di uno dei due genitori dal lavoro fino all'8 anno di vita del bambino, per una durata complessiva di 10 mesi, in relazione ad ogni singolo bambino. Al lavoratore che si astiene dalla prestazione spetta un’indennità giornaliera pari al 30% della retribuzione per tutto il periodo di astensione, se tale estensione sia verificata entro i primi 6 anni di vita del bambino. Oltre questo termine l’indennità viene riconosciuta solo se il reddito individuale del genitore interessato è inferiore a due volte e mezzo l'importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria. 3. Permesso per allattamento = la legge prevede per solo i lavoratori subordinati e nel primo anno di vita del neonato due ore di permesso giornaliero che può essere usufruito da uno dei due genitori, anche in assenza di un effettivo allattamento al seno. Tale permesso viene integralmente retribuito dall’imprenditore che poi provvederà a conguagliare l’importo al momento della denuncia contributiva mensile. Nel caso di congedo di maternità viene accreditata una contribuzione figurativa, indipendentemente da ogni requisito di anzianità assicurativa minima. Sono coperti da contribuzione figurativa i periodi di congedo parentale sulla base di una retribuzione convenzionale, pari al doppio del valore massimo dell’assegno sociale. Tale riconoscimento è stato esteso, anche in assenza di un rapporto di lavoro effettivo ai soggetti iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti dell’Inps, ove sussista un’anzianità assicurativa di almeno un quinquennio. La tutela della maternità viene quindi assicurata indipendentemente dalla condizione della madre al momento della nascita, consentendo di riconoscere anche eventi pregressi , purché nel corso dell’intera vita lavorativa, la lavoratrice abbia accumulato almeno 5 anni di contribuzione. Una pluralità di interventi normativi ha esteso i benefici del congedo di maternità anche alle donne che prestino attività lavorativa al di fuori del contratto per prestazioni subordinate. Gli articoli 66 e seguenti del decreto 151 del 2001 prevedono per le lavoratrici autonome, un’indennità calcolata sulla retribuzione minima giornaliera convenzionalmente stabilita dalla legge per la qualifica di impiegato e per le libere professioniste, sul reddito percepito e denunciato secondo anno precedente quello dell’evento; il diritto alla prestazione non è subordinato all’effettiva astensione dall’attività lavorativa. Per le lavoratrici parasubordinati, in caso di insussistenza di un ulteriore rapporto assicurativo nonché per le lavoratrici impiegate in lavori socialmente utili è prevista analoga provvidenza. Una prestazione di maternità è riconosciuta sia ai soggetti che al momento del parto hanno cessato di essere occupate, ma che possono vantare un minimo di copertura previdenziale , sia in via generale a soggetti che si trovano in situazione di bisogno. Articolo 75 TU : per le lavoratrici discontinue si prevede un assegno di maternità erogabile non solo per le nuove nascite, ma anche per i minori di sei anni di età in affidamento preadottivo in adozione. Articolo 74 TU prevede un assegno di maternità per soggetti che si trovano in situazione di bisogno, di importo lievemente ridotto a quante non superino determinate soglie di reddito secondo una logica che prescinde da requisiti assicurativi. La tutela della salute. L’assicurazione per la malattia ordinaria La nozione di malattia, ai fini giuridici appare problematica in quanto più ristretta rispetto a quella propria della scienza medica. In passato la questione relativa alla legittimità della prassi aziendale per la quale si imponeva unilateralmente al lavoratore di differire la fruizione delle cure al periodo feriale. Dopo alcune oscillazioni in giurisprudenza, e uno specifico intervento legislativo, si è affermata la soluzione per cui, a fronte di patologie che richiedono cura idrotermale, il congedo per la malattia può essere riconosciuto al lavoratore, al di fuori dei congedi ordinari e delle ferie annuali, esclusivamente per la terapia o la riabilitazione relative ad affezioni o stati patologici per la cui risoluzione sia giudicato determinante un tempestivo trattamento, motivatamente prescritto da un medico specialista del servizio sanitario nazionale. La tutela previdenziale si concreta nel riconoscimento di un’indennità giornaliera a carico dell’Inps. Tale prestazione viene riconosciuta ai soli operai, dal momento che per gli impiegati è ancora in vigore la previsione che impone al datore di retribuire le assenze per malattia del proprio dipendente, secondo una certa misura percentuale, integrale per i primi periodi di malattia e poi decrescente. Esiste in giurisprudenza un contrasto riguardo al fatto che il datore di lavoro sia tenuto al versamento contributivo per quei lavoratori ai quali, per disposizione di legge o di contratto collettivo, devono comunque corrispondere la retribuzione in caso di assenza per malattia, a motivo dell’insussistenza del rischio specifico. --> La questione è stata risolta in senso positivo dalla giurisprudenza con soluzione da ultimo confermata dal legislatore, facendo leva sul fatto che in caso di disoccupazione o di sospensione del rapporto di lavoro senza accesso al trattamento alla cassa integrazione generale, il trattamento viene a gravare in capo all’Istituto previdenziale. L’indennità giornaliera di malattia spetta solo al termine di un periodo di carenza di durata generalmente pari a 3 giorni, per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare o, per i lavoratori a termine, per un periodo di durata pari all’attività lavorativa prestata nei 12 mesi immediatamente precedenti l’evento morboso. La contrattazione collettiva ha generalmente previsto a carico del datore di lavoro un’integrazione dell’importo dell’indennità giornaliera erogata dall’Inps, sostanzialmente equiparando così la misura del trattamento complessivo degli operai a quella goduta per disposizione di legge dagli impiegati. L’indennità viene di regola anticipata dal datore di lavoro, che provvede poi a trattenere l’importo al momento del versamento dei contributi mensili. Bisogna aggiungere come, nel tentativo di circoscrivere il ricorso particolarmente frequente nel passato ad assistenze di comodo, il legislatore è intervenuto dettando norme specifiche per precisare gli obblighi di certificazione e di reperibilità , gravanti in capo al lavoratore malato. Il lavoratore assente per malattia è così obbligato a comunicare al datore il motivo della sua assenza e la durata presunta della malattia, nonché a provvedere successivamente, entro due giorni dall’inizio dell’assenza, a trasmettere all’Inps copia di un certificato del medico curante. La giurisprudenza ha generalmente inteso in maniera rigida il precetto di reperibilità, limitandola peraltro a due fasce orarie giornaliere per una durata complessiva di 4 ore, ritenendo che gravi sul lavoratore particolare onere di diligenza che lo costringe a provvedere ad assicurare la sua reperibilità per tutti casi in cui questa possa essere in qualche modo compromessa. L’assicurazione contro la tubercolosi . Una particolare forma di previdenza, sorta in passato quando la malattia in esame era fortemente diffusa. Per l’aspetto della sua diffusione, sono assicurati contro la stessa, oltre al lavoratore, anche i suoi familiari a carico. La gestione è di pertinenza dell’Inps , presso la quale sono assicurati anche dipendenti statali. Requisito necessario ai fini della prestazione un periodo assicurativo è contributo di un solo anno. Le prestazioni sono di due tipi, sanatoriali o post-sanatoriali, a seconda che vengano erogati durante il periodo di ricovero. Nel primo caso l’importo è di ammontare inferiore rispetto al secondo. LE PRESTAZIONI: LA TUTELA CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO E LE MALATTIE PROFESSIONALI Gli istituti assicuratori La tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, fa capo all'INAIL, il quale, come l'INPS, gode da tempo di competenza generale, dato che ad esso sono iscritti tutti i lavoratori assoggettati all'assicurazione contro infortuni sul lavoro, fatta eccezione per gli Impiegati e dirigenti delle imprese agricole. La corte di giustizia ha ritenuto che sussiste contrasto tra regime assicurativo degli infortuni sul lavoro e la normativa comunitaria. In particolare, la corte ha rilevato che la gestione dell’Inail è improntata a criteri di solidarietà, tali da negarne il carattere dell’attività economica, come si desume dal fatto che l’ente non ha il potere di determinare in via autonoma gli importi dei contributi e delle prestazioni , nonché dal fatto che la 89 8. I ricoverati di case di cura, ospizi ospedali, istituti di assistenza e beneficenza, quando, per il servizio interno di istituti operatività occupazionale, siano addetti a lavori indicati il numero 1, nonché i loro istruttori e coloro che sovraintendono alle attività stesse. 9. I detenuti in stabilimento o istituto di prevenzione o di pena quando ricorrono le condizioni del precedente numero 8, nonché i loro istruttori sovrintendenti. L’art.4 hai negli ultimi tre commi ricomprende i commessi viaggiatori, i piazzisti e gli agenti delle imposte di consumo che per l’esercizio delle proprie mansioni si avvalgono in via non occasionale di veicoli a motore da essi personalmente guidati; i sacerdoti, i religiosi e religiose svolgono le attività ricomprese nei numero 1 e 2 alle dipendenze di terzi diversi dagli enti ecclesiastici e dalle associazioni religiose elencate nel concordato tra Santa sede e Italia. Per quanto riguarda la navigazione e la pesca, i componenti dell’equipaggio comunque retribuiti, delle navi o galleggianti. È stata estesa poi la tutela contro gli infortuni sul lavoro anche lavoratori dell’area dirigenziale , a quelli parasubordinati adibiti all’attività pericolose , ai lavoratori a progetto, agli sportivi professionisti dipendenti. In ambito agricolo l’assicurazione è estesa in dipendenza dell’attività agricola stessa, e non di singoli tipi di lavorazioni, in base alla posizione dei lavoratori. Nel primo senso, è attività agricola quella diretta alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e attività connesse . Sono considerate agricole le lavorazioni connesse, complementari e accessorie dirette alla trasformazione e all’alienazione dei prodotti agricoli. Sono considerate agricole le lavorazioni alle quali si estende la tutela contro gli infortuni dell’industria quando siano svolte dall’imprenditore agricolo oppure siano svolte per conto e nell’interesse di aziende agricole e forestali. L’oggetto dell’assicurazione: gli infortuni sul lavoro Ex art.2 t.u. : L’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, oppure un’inabilità temporanea assoluta che comporti l’astensione dal lavoro per più di tre giorni. Affinché l’assicurato abbia diritto alle prestazioni dell’Inail in caso di infortunio devono quindi realizzarsi tre presupposti. CAUSA VIOLENTA (1) quando l’evento dalla cui verificazione discendono, anche a distanza di tempo, effetti dannosi, e si verifichi con carattere di evidenza repentinità. In questo senso il requisito in esame vale a differenziare nettamente la fattispecie di infortunio sul lavoro rispetto alla malattia professionale, nella quale la stessa causa della lesione opera impercettibilmente ed in modo diluito nel tempo. IN OCCASIONE DEL LAVORO (2) Quest’ultima circostanza vale a differenziare il rischio specifico che grava sul lavoratore dal rischio generico gravante sulla generalità dei consociati. Il problema si è posto soprattutto con riguardo all’infortunio che colpisce l’assicurato nel corso di spostamenti che trovano motivazione nel rapporto di lavoro. Prima dell’articolo 12 del decreto 38 del 2000 non esisteva una definizione idonea a individuare l’infortunio in itinere . Per affermare l’indennizzabilità dell’evento secondo la prevalente giurisprudenza occorreva riferirsi al concetto dell’aggravamento del rischio generico: infortunio in itinere era indennizzabile nel momento in cui sul verificarsi dell’evento abbiano inciso circostanze connesse con la prestazione del lavoro e, quindi circostanze che consentano di collegare il percorso compiuto con il servizio da rendere . Accanto a questo criterio, un altro criterio era rappresentato dall’individuazione dell’infortunio nell’infortunio dell’elemento della necessità o finalità di lavoro, vale a dire dal fatto che il percorso sia stato imposto dall’una o dall’altra condizione. Secondo tale criterio l’infortunio era indennizzabile quando vi era l’impossibilità, per adempiere gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro , di sottrarsi ad un rischio, anche non collegato causalmente in senso proprio con l’attività lavorativa, ma che risulti peculiare del contesto circostanziale di questa dal punto di vista della densità. In forza dell’art. 12 decreto 38 / 2000 la tutela contro gli infortuni è stata tuttavia estesa a tutti gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro e quello di consumazione abituale dei pasti. La protezione viene stesa anzitutto prescindere dal mezzo di locomozione utilizzato. L’occasione di lavoro deve escludersi quando l’infortunio consegua ad un comportamento doloso del lavoratore medesimo, ossia in causa di autolesionismo . Nel caso di colpa occorre distinguere a seconda che si tratti di un comportamento imprudente, negligente o impedito ma pur sempre connesso all’andamento della prestazione lavorativa, dal caso in cui, rischio elettivo, il comportamento sia del tutto estraneo all’esecuzione del lavoro. EVENTO LESIVO (3) cioè dall’alterazione in peius delle capacità psicofisiche dell’assicurato in modo tale da diminuire o sopprimere radicalmente ogni abitudine a svolgere attività lavorativa. Vengono in considerazione tre fattispecie: la morte dell’assicurato, la sua inabilità permanente in via assoluta o parziale, oppure la sua inabilità temporanea ed assoluta. • Inabilità permanente o temporanea : a seconda che la mancanza di abitudine lavorativa sia protratta apprezzabilmente nel tempo o meno. • Inabilità assoluta e relativa: si determina sulla base di apposite tabelle allegate al testo unico che, quantificando in punti percentuali il grado di inabilità che deriva dall’infortunio, permettono di verificare se il lavoratore abbia subito una lesione superiore al 10%, che costituisce un limite minimo al di sotto del quale non sussiste diritto a prestazioni indennitaria alcuna , fino al limite del 100%, coincidente con l’assoluta inabilità. • Nessuna tutela indennitaria aspetta nel caso di inabilità parziale o temporanea. L’accertamento dell’evento. È lo stesso infortunato a dover denunciare immediatamente l’infortunio all’assicurante , il suo datore di lavoro. Quest’ultimo deve inoltrare la denuncia all’Inail e all’autorità locale di pubblica sicurezza, normalmente entro due giorni da quando ha avuto notizia dell’evento e deve essere corredata da un certificato medico. Nel caso di infortunio mortale, occorre che sia effettuata telegraficamente entro 24 ore dallo stesso. Attualmente la procedura di accertamento non viene più svolta dal pretore, bensì dal servizio ispettivo della direzione territoriale del lavoro. In caso di incidente mortale che provochi una rilevante inabilità al lavoro, con prognosi superiore a 30 giorni, sussiste un obbligo di denuncia in capo al datore di lavoro, in modo che nei successivi 4 giorni il settore ispezione del lavoro della DTL procederà su richiesta del lavoratore infortunato, di un superstite o dell’Inail, allo svolgimento dell’inchiesta. Le prestazioni e i ricorsi dell’assicurato Per quanto riguarda le prestazioni, trova piena applicazione il principio di automaticità delle stesse. L’erogazione delle prestazioni di carattere indennitario, a fronte di inabilità temporanea assoluta, avviene per tutta la durata dell’inabilità, ma solo a partire dal quarto giorno dall'infortunio: se gli effetti di quest’ultimo si esauriscono in non più di tre giorni non sorge alcun diritto nei confronti dell’ente. Il primo giorno di infortunio resta ad integrale carico del datore, tenuto al pagamento della retribuzione, mentre il secondo e il terzo giorno vengono parimenti addossati al datore nella misura del 60%, salvo le migliori condizioni eventualmente contemplate ad opera della contrattazione collettiva. La prestazione pecuniaria a fronte di inabilità temporanea prende il nome di indennità temporanea, ed è corrisposta in misura pari al 60% della retribuzione per i primi 90 giorni, mentre a decorrere dal successivo la percentuale viene elevata al 75%. Rendita permanente: nell’eventualità in cui, cicatrizzatasi la ferita, rimangono dei postumi superiore al 10%. Nel caso di inabilità permanente la prestazione prende infatti il nome di rendita, e la sua misura varia a seconda che sia parziale oppure assoluta. Parziale: quando ha determinato una diminuzione dell’attitudine al lavoro in misura superiore al 10%. la rendita spetta in misura ricompresa tra il 50 e 60% se l’inabilità va dall’11 al 60%, mentre va dal 61 al 79% spetta in misura analoga. In caso di inabilità compresa tra l’80 e il 100% la rendita è pari al 100% della retribuzione. 89 Assoluta: quando toglie completamente e per tutta la vita l’attitudine al lavoro determina l’erogazione di una rendita pari alla retribuzione annua relativa ai 12 mesi precedenti l’infortunio o l’insorgere della malattia, entro un determinato massimale fissato dai l’Inail. Art.66 t.u. Contempla come ulteriori prestazioni, un assegno per l’assistenza personale continuativa, una rendita ai superstiti in caso di morte dell’assicurato e un assegno una tantum per spese funerarie, le cure mediche e chirurgiche, compresi gli accertamenti clinici, le forniture degli apparecchi di protesi. In merito alle lesioni, possono sorgere due tipi di problemi: il primo è l’ipotesi di concause di lesioni, che si realizza quando una lesione normalmente guaribile entro un certo termine guarisce entro un termine maggiore, in considerazione delle particolari condizioni fisiche dell’infortunato. Sorge quindi il problema di verificare se l’Inail debba corrispondere le sue prestazioni per il termine ordinario oppure per il termine di effettiva convalescenza. In questo caso l’Inail deve coprire il periodo più lungo. Un altro problema è costituito dalle concause di inabilità cioè quando un soggetto subisce nel corso del tempo più lesioni la cui somma, determinerebbe un’incapacità in misura superiore al 100% se considerate singolarmente. Per chiarire, interviene la formula Gabrielli, per la quale la perdita percentuale derivante dagli infortuni successivi al primo, non va calcolata in termini assoluti, ma in relazione al grado di attitudine lavorativa sussistente dopo l’ultimo infortunio verificatosi. In relazione al danno biologico, lo stesso indennizzato: • in capitale se pari o superiore al 6% è inferiore al 16%; • in rendita dal 16% in avanti, calcolata parte per il danno biologico e un ulteriore quota aggiuntiva per le conseguenze patrimoniali. Termine di prescrizione: il diritto alle prestazioni si prescrive nel termine di tre anni. Si prescrive invece nel termine ordinario di 10 anni il diritto la liquidazione della rendita per indegnità permanente quando la stessa sia già stata riconosciuta dall’Inail. Il termine comincia a decorrere, nel caso di infortunio dal giorno dello stesso, mentre in caso di malattia professionale la manifestazione della malattia professionale coincide con il primo giorno di astensione completa dal lavoro oppure in caso di mancata astensione di patologia manifestatasi dopo l’abbandono dalla lavorazione causa della malattia, con il giorno in cui è presentata all’Istituto una denuncia con il certificato medico. Corte costituzionale La manifestazione della malattia professionale coincide con l’emersione obiettiva della stessa accertabile mediante valutazione medico-legale o tramite presunzioni semplici ricollegate anche al comportamento dell’assicurato stesso. Cassazione la consapevolezza da parte dell’assicurato dell’emersione della malattia si presume sussistere dalla data della domanda amministrativa di rendita, se non addirittura anteriormente, dai precedenti accertamenti tecnici ai quali il lavoratore si sia sottoposto. Art.83 t.u. Stabilisce che la misura della rendita di inabilità può essere riveduta, su domanda del titolare della rendita o su iniziativa dell’Istituto, in caso di diminuzione o aumento dell’attitudine al lavoro e in generale in seguito alla modifica delle condizioni fisiche del titolare della rivendita. Per quanto riguarda i ricorsi esperibili dall’infortunato, questi si riducono ai casi in cui si contesta o la durata dell’indennità temporanea o la percentuale della rendita assegnata oppure ancora quando si contesta l’importo della rendita. Le malattie professionali L’assicurazione contro gli infortuni si estende anche a quella contro le malattie professionali che, al pari dei primi, sono eventi in grado di incidere negativamente sulla capacità lavorativa dell’assicurato. Si differenziano tuttavia dagli infortuni per il fatto che la loro causa non è violenta, bensì lenta e progressiva. trascurabile sul piano patrimoniale, e dava adito solo al risarcimento del danno biologico, l'Inail, una volta erogato l’indennizzo ed agito in via surrogatoria nei confronti del datore di lavoro, finiva per incamerare l’intero risarcimento dovuto. La corte costituzionale ha quindi precluso all'INAIL di esercitare l’azione surrogatoria nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile con pregiudizio del diritto del danneggiato al risarcimento del danno biologico: pregiudizio derivante dall’incapienza del massimale assicurativo in ordine alla somma pretesa dall’ente assicuratore in via surroga e dall’assicurato danneggiato a titolo di danno biologico. In sostanza la corte ha ammesso che l’assicurato percepiva un risarcimento per due danni distinti, di cui uno rientrante nella disciplina Inail, è un altro, ossia quello biologico, risarcibile tramite l’assicuratore del responsabile civile. In seguito a questo frazionamento teorico del danno biologico la giurisprudenza ha ritenuto che l’assicurato danneggiato non potesse pretendere dal danneggiante l'intero risarcimento del danno biologico, ma solo una frazione dello stesso, individuata talvolta nella misura di 2/3 dello stesso. All’inail era concesso rivalersi nei confronti del danneggiante, nella misura dell’1/3. Al fine di correggere le varie aporie che si erano create in merito a tale sistema, il decreto 38 del 2000 ha anzitutto ricompreso nell’ambito dell’assicurazione Inail il danno biologico, definito dall’articolo 13 come la lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona. Le menomazioni sono valutate, sul piano del danno biologico, in base ad una specifica tabella delle menomazioni. L’indennizzo delle menomazioni di grado pari o superiori al 6% e inferiore al 16% è erogato in capitale una tantum, mentre per gli esiti permanenti superiori al 16% viene erogata rendita, nella misura indicata nell’apposita tabella, che fa riferimento all’età dell’assicurato al momento della guarigione clinica. Si è evitato così in capo all’assicuratore l’onere di rivolgersi al responsabile civile per ottenere il relativo risarcimento impedendogli quindi di ottenere un doppio risarcimento. Permangono comunque i problemi derivanti dal fatto che il risarcimento del danno biologico, in sede di giudizio di responsabilità civile, avviene sulla base di tabelle predisposte in via ufficiosa dai vari tribunali e distretti di corte d’appello, senza aver riguardo alla tabella delle menomazioni di cui invece deve avvalersi l'Inail per quantificare l’indennizzo per il danno biologico. L’indennità erogata dall’Inail è di fatto inferiore al danno biologico risarcibile secondo le ordinarie regole della responsabilità civile. La facoltà dell’assicurato di agire nei confronti del responsabile civile per il risarcimento del danno differenziale è discussa, perché si potrebbe ritenere che sistema indennitario predisposto dal decreto 38 del 2000 ripropone un modello transattivo che deve intendersi come complessivamente soddisfacente per l’assicurato e per il datore di lavoro assicurante. La surroga e il regresso dell’INAIL L’Inail, qualora eroghi delle prestazioni economiche a favore dell’assicurato a seguito di infortunio sul lavoro causato da un terzo, subentra ex articolo 1916 cc. nel diritto al risarcimento del danno dell’assicurato nei confronti del responsabile civile. Il termine di prescrizione già maturato nei confronti dell’assicurato non comincia a decorrere nuovamente una volta che nel credito è subentrato l’ente assicuratore. L’azione di surroga, avendo ad oggetto l’esercizio di un normale credito risarcitorio, è di competenza del giudice ordinario anziché del giudice del lavoro. Tali differenze caratterizzano l’azione in esame rispetto a quella di regresso: quest’ultima compete all’Inail nei confronti del datore di lavoro assicurante nei casi in cui non opera l’esonero dalla responsabilità civile e discende direttamente dal rapporto di assicurazione sociale. Nel caso di surroga, si discute se la successione dell’assicuratore nei diritti dell’assicurato si verifichi in seguito alla comunicazione al terzo responsabile da parte dell’assicuratore della volontà di avvalersi della surrogazione ovvero solo a seguito del pagamento della relativa indennità assicurativa. Per l'Inail è sufficiente la mera comunicazione al terzo responsabile delll’ammissione del danneggiato all’assistenza prevista dalla legge, accompagnata dalla manifestazione della volontà di esercitare il diritto di surroga. L’Inail, una volta esercitato il diritto di surroga, subentra nella medesima situazione sostanziale del danneggiato; il terzo responsabile potrà quindi sollevare eccezioni inerenti a tale rapporto, non invece quelle concernenti rapporto giuridico che lega il danneggiato assicurato all’e-mail stesso. 89 Nel caso di concorso di colpa dell’assicurato nella causazione del danno, si è stabilito il principio generale secondo il quale lo stesso attiene al quantum del risarcimento sul piano dei rapporti con il terzo responsabile. Resta invece fermo il limite esterno del diritto di surrogata, vale a dire l’ammontare delle prestazioni erogate dall’Inail. Se il valore del danno è superiore al valore dell’indennità erogata, permane il diritto dell’Inail di pretendere il pagamento dell’ammontare di quest’ultima nella sua totalità. In altri termini, il concorso di colpa non coincide sulla somma dovuta dall’Inail. Per quanto riguarda l’oggetto della surroga, la corte costituzionale ha precluso all'INAIL di surrogarsi nel danno biologico o nel danno morale spettante all’assicurato, ma la corte ha lasciato adito a dei dubbi ritenendo che parte dell’indennità erogata dall’Inail avvenga a tale ultimo titolo. Il diritto di regresso postula l’ammissione dell’assicurato alle prestazioni erogate dall’Inail e l’esistenza della responsabilità civile del datore di lavoro derivante da un fatto di reato perseguibile d’ufficio commesso dallo stesso datore o da personale dipendente del cui operato egli debba rispondere a norma delle leggi civili. Sono perseguibili d’ufficio i reati di omicidio colposo, lesioni personali colpose gravi o gravissime commesse con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro, e tutte le lesioni che abbiano cagionato una malattia professionale. Il regresso, a differenza della surroga, è un diritto che sorge autonomamente in capo all’Inail per effetto dell’erogazione delle prestazioni economiche da parte dello stesso e nei casi in cui l’assicurante non è esonerato da responsabilità civile. Quindi non si tratta di una successione del diritto al risarcimento dei danni già spettante all’assicurato, ma di un diverso diritto, quanto a genesi e contenuto. Si tratta di un’azione che inerisce per sua natura al sistema previdenziale e quindi esercitabile nelle forme del processo del lavoro, entro un periodo massimo di tre anni. L’Inail, agendo in regresso, scarica sull’assicurante il costo delle prestazioni erogate, ossia dell’indennità per inabilità assoluta o temporanea, il valore capitale della rendita e ratei della stessa che sono già stati versati. LE PRESTAZIONI: MISURE DI CARATTERE ASSISTENZIALE Gli interventi di tipo assistenziale In Italia manca una modalità di intervento generale indirizzata ad assicurare misure di sostegno a soggetti che, pur dotati di una piena capacità lavorativa, si trovino in situazioni di bisogno momentaneo. Si tratta di situazioni di disagio materiale, differenziate e quindi di difficile definizione attraverso il riferimento ad una condizione tipizzabile. Lo stato di povertà non è, insomma, in quanto tale destinatario di uno specifico intervento assistenziale, se non grazie alle iniziative caritatevoli o filantropiche dei singoli o dei gruppi o alla tradizionale assistenza comunale. Un indiretto contributo ad alleviare tale situazione di povertà era derivato nei decenni trascorsi, dalla presenza di una legislazione vincolistica in materia di abitazione, che, attraverso l’imposizione ai singoli proprietari di beni immobili di un canone di locazione equo, finiva per incidere fortemente su una delle principali voci che concorrono alla consumazione del reddito proveniente da attività di lavoro. Un ruolo centrale è stato svolto da specifici enti pubblici che provvedevano alla costruzione di abitazioni, poi assegnate a canone di favore ai richiedenti, secondo graduatorie che tenevano conto dei carichi di famiglia e delle situazioni di disagio. Si trattava di attività che rientrano comunque nella tradizione assistenziale degli enti pubblici territoriali. Una nuova spinta allo sviluppo delle misure universali di coesione sociale è raggiunta dalle istituzioni comunitarie, nell’ambito del metodo di coordinamento aperto = Uno speciale sistema di consultazione periodica fra tutti gli Stati membri inteso ad innescare un processo di emulazione, diretto riavvicinamento nel progresso delle condizioni materiali dei cittadini europei. In questa direzione l’ordinamento ha conosciuto in tempi recenti uno sviluppo dei trattamenti universali, talora su base solo sperimentale, con limitazione cioè a solo alcune porzioni del territorio nazionale: un tipico esempio è costituito dal reddito minimo di inserimento = si trattava di una prestazione economica corrisposta dei comuni ai soggetti, che vantassero residenza da almeno un anno, i cui redditi si collocavano al di sotto di una certa soglia. Modesti sono stati risultati raggiunti in seguito alla legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali che mira ad affidare agli enti locali la materia della lotta alle all’emarginazione sociale. La riforma è stata completata dall’identificazione di speciali indici, intesi a rivelare le reali condizioni economiche di soggetti che intendono accedere a prestazioni assistenziali o a tariffa sociale, sull’evidente presupposto che il regime di tassazione sul reddito sia inidoneo a dare prova della reale situazione patrimoniale dei soggetti. Il disegno del legislatore è rimasto largamente inattuato. Al di là dell’assegno sociale di cui sopra già detto, il prototipo della tutela universale resta il servizio sanitario nazionale, che assicura cure a tutti i cittadini, in forma tendenzialmente gratuita, in modo che, sul piano assistenziale gli interventi di tipo assistenziale più importanti rimangono quelli a favore di soggetti affetti da disabilità fisica o psichica. Il servizio sanitario nazionale In forza dell’articolo 32 della costituzione, la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. In un’ottica costituzionale, occorre sottolineare come la tutela della salute costituisca obbligo dello Stato a fronte di un diritto fondamentale, che deve trovare protezione principalmente nell’interesse della persona: ne dovrebbe conseguire la generalità della stessa, ossia la sua estensione a tutti i cittadini, e non ai soli lavoratori. Il legislatore, con L. 833 del 1978 ha istituito il servizio sanitario nazionale SSN, in un’ottica che abbandonava la logica assicurativa, che aveva fino a quel momento improntato la tutela della salute, per sposare invece un criterio di attribuzione delle tutele di tipo universalistico. Il servizio coinvolge non solo lo Stato, ma anche le regioni che si apre anche alla collaborazione con soggetti privati. Il processo di trasferimento delle competenze e delle funzioni dallo Stato alle regioni, è stato rafforzato dai successivi interventi di riforma legislativa, trovando consacrazione nella nuova formulazione dell’art.117 cost. , che attribuisce ora alla legislazione concorrente di Stato e regioni la materia della tutela della salute. I soggetti protetti dal SSN sono tutti cittadini, compresi lavoratori italiani all’estero. La tutela viene poi estesa agli stranieri residenti in Italia che ne facciano richiesta e, a particolari condizioni ai cittadini stranieri comunque presenti nel territorio italiano. È stato abrogato il fondo nazionale, per essere sostituito da un’imposta di nuova istituzione, l’Irap, che grava sulle imprese e sui lavoratori autonomi. Il sistema è stato modificato ulteriormente dalla L. 2388 del 2000, che abolendo i trasferimenti erariali a favore delle regioni, ha dotato queste ultime di ulteriori nuovi cespiti, prevalentemente destinati al finanziamento della spesa sanitaria. L’evento generatore del bisogno è la malattia. Le prestazioni sanitarie sono erogate anche a favore di chi crede soltanto di essere malato, essendo le prestazioni diagnostiche finalizzate proprio all’accertamento di un oggettivo stato patologico. Le prestazioni di carattere economico, già erogate da apposito ente, vengono ora corrisposta dall’Inps, e sono anticipate dal datore di lavoro. Le prestazioni di carattere sanitario sono erogate per mezzo delle varie aziende sanitarie, Asl disseminate sul territorio nazionale , oppure da medici e strutture convenzionate con le medesime. Prestazioni ulteriori possono essere garantite dalle singole regioni, che se ne assumono la correlativa spesa. Lo stato ha individuato i livelli essenziali di assistenza, come prestazioni minime da assicurare nell’ambito territoriale di Charles ciascuna Asl. Le prestazioni erogate possono raggrupparsi secondo la finalità perseguita: c.1.attività di prevenzione, in relazione a fattori di rischio di carattere epidemiologico e ambientale, nonché alla profilarsi degli eventi morbosi, attraverso l’adozione di misure idonee a prevenire l’insorgenza. 89 In relazione all’obbligazione di pagamento dei contributi previdenziali, il primo problema che si pone è quello delle modalità di calcolo degli stessi. Annualmente vengono rese note dall’Inps a tal fine apposite tabelle, all’interno delle quali si espongono le aliquote vigenti. La vera questione consiste nella base di calcolo alla quale applicarle. Quest’ultima è data dalla retribuzione; cosa dovesse intendersi però per retribuzione non era affatto pacifico. In precedenza, per i dipendenti privati occorreva rifarsi a due testi normativi: decreto 797/1944 e decreto 1124/1965. Entrambe le norme procedevano secondo un modello casistico: vi erano infatti due elenchi, uno con le indennità considerate retribuzione assoggettabili a contribuzione, l’altro con le non assoggettabili. Il sistema era fortemente diseconomico perché, quand’anche l’Istituto assicuratore avesse avuto sentore dell’elusione, avrebbe dovuto comunque intentare causa per ottenere il versamento di contributi. La questione risentiva anche delle concezioni dottrinali in tema di retribuzione: Si consideravano tali solo quelle somme che erogate dal datore, trovavano giustificazione della prestazione lavorativa del dipendente. Fu merito della dottrina giuslavoristica più avanzata avviare un ripensamento sul rapporto di lavoro, inquadrando nell’ambito di un rapporto obbligatorio complesso in cui, accanto agli obblighi rimasti in prestazione , si ponessero ulteriori obblighi integrativi o strumentali, o di protezione. La conseguenza pratica fu quella di rivedere il concetto di retribuzione, ricomprendendovi anche quelle prestazioni non immediatamente connesse all’attività lavorativa del dipendente, ma conseguenti per esempio a periodi di ferie, di malattia, di svolgimento di funzioni pubblico elettive o sindacali. La retribuzione imponibile Il legislatore intervenne sostituendo le normative preveggenti con l’art. 12 L. 153 / 1969. La norma non precisava il concetto di retribuzione in generale , ma cosa si intendeva per tale ai fini previdenziali: Si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in denaro o in natura in dipendenza del rapporto di lavoro. Tale disposizione resta ancora oggi centrale . Tale norma necessita di criteri analitici, per precisare quale valore si deve attribuire agli elementi corrisposti, e per distinguere gli arricchimenti individuali della sfera patrimoniale del lavoratore, dalle somme e dalle prestazioni che invece presentano il carattere di rimborso delle spese. Non mancano norme dirette a prevedere esoneri su aspetti specifici, al fine di favorire l’incremento di produttività del lavoro e la contrattazione collettiva aziendale. Un problema importante erano stabilire se i contributi dovessero calcolarsi sulla somma effettivamente corrisposta al lavoratore o su quella dovutagli per legge o per contratto collettivo. La L. 389 / 1989 dispone che:” la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, oppure da accordi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Non rileva quindi la retribuzione in concreto pagata, ma quella dovuta in forza di contratti collettivi sottoscritto dai singoli. Nonostante la disposizione si riferisca ad un dato effettivo anziché a un diritto, la costante giurisprudenza di legittimità ha stabilito che alla base del calcolo dei contributi previdenziali deve essere posta la retribuzione dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo e non quella di fatto corrisposta, in quanto l’espressione utilizzata dall’art. 12 L. 153 / 1969, per indicare la retribuzione imponibile va intesa nel senso di “tutto ciò che ha diritto di ricevere”. A fronte dell’ampiezza del criterio adottato dalla norma, si è posta fin da subito la questione dell’imponibilità ai fini contributivi di importi che hanno natura risarcitoria o che mirano a tenere indenne il lavoratore da alcune spese. Art. 12 L. 153 / 1969 conteneva al proprio interno un elenco tassativo di voci che dovevano escludersi dal concetto di retribuzione ai fini di previdenziali. Ci si riferisce all’ipotesi dei rimborsi a piedi lista cioè di somme rimborsate per spese di viaggio , vitto e alloggio regolarmente fatturati e giustificate da motivi di lavoro. Allo stesso modo va ricordata l’indennità di cassa, che si è soliti corrispondere nel settore del credito al lavoratore che abbia maneggiato denaro del datore e sia nei suoi confronti personalmente responsabile di eventuali problemi. La norma del 69 appariva animata da spirito pratico ed ha un animo equitativo. Il concetto di retribuzione imponibile ora esaminato era originariamente previsto in riferimento al regime previdenziale dei lavoratori subordinati assicurati presso l’Inps. In passato gli altri regimi previdenziali potevano adeguarsi oppure discostarsene. Art.2 co. 9 e 12 L.335/1995: Hanno generalizzato il medesimo concetto di retribuzione dell’articolo 12 prima citato, estendendone la portata anche ai dipendenti dello Stato e degli enti locali, al personale assicurato presso autonomi gestioni, pur mettenti capo all’Inps. Co.15: sancisce l’esclusione di un ulteriore serie di voci dalla nozione di retribuzione imponibile. La più importante modifica normativa della definizione di retribuzione ai fini previdenziali è data dall’art. 6 decreto 314/1997 , che ha integralmente novellato l’articolo 12 al fine di consentire un’armonizzazione tra normativa fiscale previdenziale. In forza dell’art. 12 co. 1 L. 153/ 1969, nel testo attualmente vigente, si prevede che: “costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi” quelli rilevanti ai fini dell’imposta sui redditi di cui all’articolo 49 decreto 917 del 1986. In base a tale ultima disposizione: sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze sotto la direzione altrui e maturati nel periodo di riferimento. Articolo 12 co. 2: il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale si applicano le disposizioni di cui all’articolo 51 del testo unico delle imposte sui redditi in base al quale costituiscono reddito di lavoro tutte le somme e valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro; co. 3 tali somme devono intendersi al lordo di qualsiasi contributo e trattenuta, salvo quanto specificato nei seguenti commi. Art. 6 decreto 314 / 97, nel novellare l’articolo 12, individua specifiche e tassative ipotesi nelle quali, pur a fronte di una imponibilità fiscale, non sorge l’obbligo del versamento dei contributi: 1. Somme corrisposte a titolo di trattamento di fine rapporto. 2. Somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori , nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l’imponibilità dell’indennità sostitutiva del preavviso. 3. I proventi e le indennità conseguite anche in forma assicurativa a seguito di risarcimento danni. 4. Somme provenienti da gestioni e fondi previdenziali obbligatori, polizze assicurative, compensi erogati per conto di terzi non aventi attinenza con la prestazione lavorativa. 5. Erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali qualora le relative somme siano incerte nella loro corresponsione e ammontare perché legate a incrementi di produttività. 6. Somme a carico del datore di lavoro destinate al finanziamento della previdenza complementare. La relazione tra contrattazione collettiva e base imponibile: la base imponibile è rappresentata dalla retribuzione, così come definita dalla contrattazione collettiva sottoscritta dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, oppure dal contratto individuale di lavoro, ove più favorevole. Si tratta di verificare se la contrattazione collettiva possa intervenire sulla struttura della retribuzione, nel senso di contemplare voci sottratte, entro una certa misura, alla contribuzione previdenziale, in senso non dissimile da quanto avviene per il TFR in ordine al quale si contempla la possibilità che l’autonomia collettiva sottragga alcune voci retributive dalla base di calcolo. In passato una specifica norma di legge disponeva l’esclusione della base imponibile per le erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali o di secondo livello, delle quali fossero incerte la corresponsione. Oggi la norma è stata abrogata e il beneficio stato riformulato nel senso di stabilire un regime di esenzione, più volte prorogato, non più generale mirato alla promozione della qualità del lavoro prestato, ma nel senso 89 di prevedere una riduzione dell’aliquota fiscale per l’ipotesi di prestazione di lavoro straordinario resa da lavoratori a basso reddito. L’art. 3 decreto 318 / 1996 ha sancito che la retribuzione dovuta in base ad accordi collettivi di qualunque livello non può essere individuata in difformità dalle obbligazioni, modalità e tempi di adempimento come definiti negli accorti stessi, e che conservano pieno valore anche i fini previdenziali, le clausole che limitano l’incidenza degli emolumenti diretti su quelli indiretti. Al fine di garantire la corretta applicazione della disposizione ora citata, si prevede che i contratti e accordi collettivi contenenti clausole o disposizioni siano depositati a cura delle parti stipulanti presso la DtL . Per quanto riguarda i lavoratori autonomi ed i professionisti iscritti ad una propria cassa di previdenza la contribuzione viene generalmente calcolata sia sulla base del reddito annuo dichiarato ai fini fiscali , sia sulla base del volume d’affari complessivo fatturato ai fini dell’Iva. Il calcolo dei contributi Chiarito il concetto di retribuzione imponibile, il datore di lavoro è in grado di calcolare l’ammontare del proprio obbligo contributivo. Quest’ultimo, ex articolo 2115 cc. sorge come effetto automatico conseguente al rapporto lavorativo che si è instaurato. Vengono tal fine in rilievo le apposite tabelle già richiamate , indicanti le diverse aliquote contributive, secondo macro settori omogenei che sono cinque: industria, artigianato, agricoltura, terziario, credito assicurazioni e tributi. Non esiste un’aliquota unitaria; pur con riferimento al medesimo settore e categoria produttiva, sussistono diverse percentuali in relazione alle molteplici prestazioni gestite autonomamente sotto l’aspetto contributivo dell’Inps. L’imprenditore operante nel settore dell’industria con più di 50 dipendenti deve pagare contributi in relazione alle retribuzioni erogate agli assicurati, che non rivestono la qualifica di dirigente, per la gestione inerente al fondo pensioni, comprendenti le prestazioni di invalidità, reversibilità e vecchiaia, applicando l’aliquota del 23,81% sull’ammontare della retribuzione. La seconda voce da prendere in considerazione ai fini contributivi è quella dell’assicurazione contro la disoccupazione. Ci sono poi i contributi di mobilità. La quarta voce si riferisce al fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto ma solo per le imprese di minori dimensioni cioè con meno di 50 dipendenti. Vi sono infine i versamenti dovuti alla cassa unica assegni familiari i quali sono dovuti indipendentemente dal fatto che lavoratori alle dipendenze abbiano o meno familiari a carico. Il medesimo datore di lavoro, laddove vengano in rilievo i dipendenti con qualifica di operai è tenuto anche al pagamento di contributi per la cassa integrazione guadagni e per la gestione straordinaria di questa. Con riguardo al settore degli impieghi dell’industria non sussiste l’obbligo di pagamento dei contributi di malattia, a fronte dell’indennità economica di malattia dovuto invece dall’Inps per gli operai. Parte dell’onere contributivo complessivo da pagare ad opera dell’assicurante è a carico dello stesso lavoratore, prevalentemente per quanto concerne la gestione delle prestazioni pensionistiche. Art.2 convenzione 463/1983: Le ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti devono essere comunque versate e non possono essere portate a conguaglio con le somme anticipate, nelle forme e nei termini di legge, dal datore di lavoro ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali ed assistenziali, e regolarmente denunciate alle gestioni stesse , tranne in caso di conguaglio tra gli importi contributivi a carico del datore di lavoro e le somme anticipate risulti un saldo attivo favore del datore di lavoro. Sistema del conguaglio : consente al datore di versare mensilmente all’Inps solo quanto risulta all’esito della compensazione operata fra le diverse partite. Nel caso di contribuzione dovuta a beneficio dei fondi di previdenza integrativa e complementare, l’importo della contribuzione viene determinato dalle fonti istitutive, secondo una misura spesso variabile che lascia singoli l’opzione di quantificare l’importo da versare. La natura dei contributi e il principio di ripartizione 1. i periodi in corrispondenza dei quali erogazione dell’indennità di disoccupazione. 2. Il periodo in cui l’assicurato percepisce trattamento di cassa integrazione guadagni. 3. I periodi non lavorati concessi ai donatori di sangue per esigenze fisiche di recupero. Riscatto e ricongiunzione Ai fini della maturazione del diritto alla pensione e dell’incremento del quantum della stessa, l’assicurato può richiedere il versamento a suo carico di contributi effettivi in relazione a determinati periodi di tempo nel corso dei quali non ha svolto attività lavorativa. È infatti possibile riscattare presso l’Inps gli anni del corso legale di laurea, oppure gli anni di lavoro subordinato svolto all’estero. In passato i lavoratori dipendenti con almeno 5 anni di contribuzione effettiva poteva riscattare periodi corrispondenti a quelli di assenza facoltativa dal lavoro per gravidanza e periodi di congedo per motivi familiari concernenti l’assistenza e cura dei disabili, purché si trattasse di periodi non coperti da alcuna forma di assicurazione. La stessa facoltà è prevista ora dell’art. 35 dec. 151/2001 per il congedo parentale. Tale facoltà recentemente è divenuta cumulabile con il riscatto degli anni di laurea che può essere effettuata anche se il diritto si riferisce a prima dell’inizio dell’attività lavorativa. L’incremento di anzianità complessiva giova l’assicurato soprattutto ai fini della misura del montante dei contributi, mentre non appare utile ad assicurare una uscita anzitempo, quando la contribuzione sia iniziata tardivamente o non sia continuativa. Il riscatto è consentito per i periodi di formazione professionale, studio, ricerca e inserimento nel mercato del lavoro privi di copertura assicurativa successivi al 31 dicembre 1996 in favore degli iscritti all'AGO in forme sostitutive ed esclusive. È consentito alle medesime condizioni in favore di coloro che svolgono attività di lavoro dipendente in forma stagionale, temporanea o discontinua, in relazione ai periodi intercorrenti e successivi al 31 dicembre 1996 non coperti da contribuzione obbligatoria figurativa. Analoga facoltà è riconosciuta anche a favore dei lavoratori a tempo parziale. Un’ulteriore ipotesi di riscatto è prevista a favore dei lavoratori discontinui e ai lavoratori parasubordinati. La cresciuta frammentazione dell’attività lavorativa richiede peraltro la previsione di strumenti diretti a consentire il sommarsi dei vari periodi di contribuzione che possono essere registrati presso gestioni diverse. Viene in rilievo anzitutto la ricongiunzione, disciplinata dalla L.29/1979. Prima di tale legge poteva verificarsi il caso di un lavoratore che avendo svolto diverse attività restando conseguentemente assicurato presso diversi istituti previdenziali, non potesse vantare il minimo contributivo necessario al fine del sorgere del diritto alle prestazioni previdenziali presso nessuno degli stessi. I primi tre commi dell’art. 1 della legge citata, prevedono a favore del lavoratore dipendente, pubblico e privato la possibilità su domanda di ricongiungere presso l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti gestita dall’Inps i contributi accreditati presso forme di previdenza esclusive, esonerative o sostitutive. Questa ricongiunzione avviene ai fini del diritto e della misura di un’unica pensione. Può darsi il caso di chi per esempio abbiamo maturato il diritto a pensione sia presso l’Inps sia presso un altro istituto previdenziale. In questo caso occorre valutare la convenienza dell’operazione. Fino al 2010 l’opzione era gratuita; a decorrere dal 1 luglio 2010 la L. 122/2010 ha stabilito che alla ricongiunzione di cui ora si è detto si applichino le disposizioni dell’articolo 2 ponendo quindi a carico dei richiedenti l’onere di sostenere i costi economici dell’operazione. Ai successivi commi viene contemplata l’ipotesi di ricongiunzione presso il regime dell’assicurazione generale obbligatoria INPS a favore dei lavoratori autonomi assicurati presso le gestioni speciali dello stesso Inps. Sono però previste delle limitazioni. È previsto infatti che i lavoratori autonomi che intendono avvalersi della facoltà di ricongiunzione sono tenuti al versamento di una somma aggiuntiva, per il 50% della differenza tra l’ammontare dei contributi trasferiti e l’importo della riserva matematica calcolata in base ai criteri e alle tabelle. Si richiede anche l’ulteriore requisito che all’atto della presentazione della domanda possa farsi valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale 89 obbligatoria per i lavoratori dipendenti, presso l’Inps oppure due o più gestioni previdenziali diverse, pari ad almeno 5 anni. Articolo 2: contempla la facoltà di trasferire i periodi di contribuzione obbligatoria , volontaria e figurativa comunque maturati presso una qualunque gestione diversa dall’assicurazione generale obbligatoria Inps. Questa facoltà si estende a lavoratori autonomi, alla condizione che il richiedente, al momento della domanda si è iscritto alla gestione presso la quale si richiede la ricostituzione della posizione contributiva oppure possa vantarsi almeno 8 anni di contribuzione effettiva. Occorre che, all’atto della presentazione della domanda, l’istante possa far valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti presso l’Inps oppure INDENNITÀ due o più gestioni previdenziali diversi da questa, pari ad almeno 5 anni. Alla fine della ricongiunzione, in questo caso si è tenuti al pagamento di una somma, pari al 50% dell’importo risultante dalla differenza tra la riserva matematica necessaria per la copertura assicurativa del periodo utile considerato, le somme versate dalla gestione assicurativa. Articolo 4: della facoltà di ricongiunzione, il soggetto possa avvalersi solo una volta, salvo che successivamente alla prima possa farsi valere almeno altri 10 anni di contribuzione, di cui 5 a titolo effettivo. Articolo 5: dispone che la gestione presso cui si accentra la posizione contributiva comunichi all’interessato l’ammontare dell’onere a suo carico. Se l’interessato non versa l’ammontare del dovuto, la norma prosegue asserendo che: si intende che interessato abbia rinunciato alle facoltà di cui agli articoli 1 e 2. In realtà non si tratta di vera e propria rinuncia ma più correttamente, l’interessato si preclude, nell’ipotesi di mancato pagamento, di dare ulteriore corso alla procedura di ricongiunzione, che ancora non si è realizzata. Articolo 7: stabilisce che le norme per la determinazione del diritto e della misura della pensione unica derivante dalla ricongiunzione sono quelle in vigore nella gestione presso cui si accentra la posizione assicurativa. Articolo 8: dispone che ove per un qualunque motivo vi sia pluralità di contributi, in relazione ad un medesimo periodo di tempo, sono presi in considerazione quelli effettivi. Articolo 10: la facoltà di ricongiunzione può essere operata anche dai superstiti, ossia degli aventi diritto alla pensione di reversibilità. Importante questione riguarda la possibilità di ricongiunzione contributiva dei liberi professionisti. In passato: non c’era questa possibilità. Il legislatore ha finito per emanare apposite norme in materia di ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti , il cui contenuto non è sostanzialmente dissimile dalla normativa prima enunciata, ma avviene a titolo oneroso. La totalizzazione La corte costituzionale ha sollecitato il legislatore a provvedere affinché l’assicurato che non sia in grado di operare la ricongiunzione a causa della sua eccessiva onerosità possa comunque avvalersi dei diversi periodi contributivi comunque maturati. Viene in rilievo il diverso istituto della totalizzazione: consente al lavoratore di accumulare contributi versati a diversi istituti previdenziali in ragione dei percorsi lavorativi intrapresi . Il legislatore, analogamente al principio vigente nell’ipotesi di assicurato che abbia maturato i contributi previdenziali in diversi presi dell’europea, ha previsto un’identica soluzione operante in ambito nazionale, ancorché nei soli casi tassativamente previsti dalla legge. In quest’ipotesi è consentito all’assicurato previo accumulo, di utilizzare pro rata i propri contributi maturati nelle singole gestioni al fine di perfezionare la fattispecie costitutiva del diritto a pensione di vecchiaia o di inabilità. Ciascun ente presso il quale l’assicurato vanta dei periodi di contribuzione calcolerà quale sarebbe la prestazione che erogherebbe a fronte dell’anzianità contributiva ed assicurativa dell’interessato, in base al proprio regime. La disciplina conserva comunque natura eccezionale. Articolo 1 decreto 42 del 2006 prevede che l’assicurato che non sia già titolare del trattamento pensionistico autonomo presso una gestione previdenziale, ha la possibilità di cumulare i periodi assicurativi non coincidenti, di durata non inferiore a sei anni, al fine del conseguimento di un’unica pensione. La stessa può essere data anche dalla pensione di anzianità. Costituiscono oggetto della totalizzazione i periodi assicurativi non coincidenti: non viene quindi rilievo una contribuzione maturata in due distinte gestioni ma nel medesimo periodo di tempo. Inizialmente si prevedeva che dovesse trattarsi di periodi contributivi aventi una durata di almeno 6 anni. Le ultime modifiche hanno eliminato ogni limite connesso alla sussistenza dell’anzianità contributiva minima consentendo quindi la totalizzazione di ogni possibile periodo. Occorre anche che l’assicurato abbia maturato ulteriore requisito dell’età di 65 anni e che vanti un’anzianità contributiva di almeno vent’anni; in alternativa è sufficiente che l’anzianità contributiva sia pari a 40. Devono sussistere requisiti ulteriori previsti per il conseguimento della pensione di vecchiaia da parte dei rispettivi ordinamenti. La totalizzazione è subordinata al presupposto che l’assicurato non abbia presentato domanda di ricongiunzione e che quest’ultima non sia stata accettata. La domanda deve essere presentata presso l’ultimo ente previdenziale quale l’assicurato risulta o è risultato iscritto. L’onere economico della prestazione tuttavia è ripartito tra ciascuna delle gestioni interessate. Il pagamento degli importi liquidati delle singole gestioni è poi effettuato dall’Inps. La contribuzione in agricoltura La contribuzione previdenziale del settore agricolo è sempre stata organizzata in maniera distinta. L’obbligo contributivo veniva determinato secondo il criterio dell’impiego medio presunto di manodopera, consistente nel determinare l’onere a carico di ogni azienda agricola moltiplicando l’aliquota fissata dal legislatore per il numero di giornate lavorative accertabili per l’annata agraria; questo criterio è stato giudicato illegittimo dalla corte costituzionale. Oggi: il contributo viene determinato sulla base dell’effettivo impiego di manodopera, applicando le aliquote contributive sulle retribuzioni medie giornaliere, annualmente determinate con decreto ministeriale. Per i lavoratori a tempo indeterminato il contributo è invece commisurato sull’effettiva retribuzione. Nel nuovo sistema un ruolo fondamentale è svolto dalle dichiarazioni aziendali che il datore di lavoro ha l’obbligo di presentare periodicamente agli uffici previdenziale dell’Inps, che devono contenere, oltre ai dati relativi al datore di un’azienda, il numero dei lavoratori occupati , e per ognuno di essi il numero di giornate di lavoro prestate, e retribuite nel trimestre precedente e la retribuzione soggetta a contribuzione. Gli uffici provinciali suddetti determinato per ciascuna azienda il carico contributivo e formano gli elenchi matricola, ossia gli elenchi delle imprese debitrici alle quali viene spedito un prospetto dei contributi dovuti. In base alla legge due 852 del 1973, all’accertamento e alla esenzione dei contributi era preposto un apposito ente. Questo ente è stato soppresso e le sue strutture e funzioni sono state trasferite all’Inps e all’Inail, presso un’apposita gestione separata presieduta dalla commissione per l’accertamento e la riscossione dei contributi agricoli unificati. CAP.5 LE OMISSIONI CONTRIBUTIVE L’obbligo contributivo e il suo commento Il pagamento dell’obbligazione contributiva avveniva in passato attraverso l’acquisto da parte dell’assicurante datore di lavoro di marche da bollo. Attualmente il versamento dei contributi avviene mediante accredito bancario o postale, mentre mensilmente vengono denunciati all’Inps in via telematica i dati retributivi e contributivi del personale dipendente a cui si riferisce la contribuzione. Dal mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro può derivare sempre un danno carico del lavoratore . In passato nel sistema retributivo, il danno poteva essere solo eventuale. Non era infrequente che la situazione di omissione contributiva, totale o parziale venisse in rilievo solo nel momento in cui il lavoratore si fosse presentato gli sportelli dell’ente previdenziale, richiedendo la pensione. Si è cercato negli ultimi anni di mettere a punto metodi di riscossione dei contributi più efficienti. 89 Contro l’Inps: agisce in sostanza per attuare il principio di automaticità; a tal fine l’assicurato dovrà dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, l’effettivo pagamento della retribuzione e la mancanza dell’impedimento che deriva dall’intervenuta prescrizione del credito contributivo del rassicurante. In caso di soccombenza, l'INPS agirà in sede di regresso per il recupero dei contributi omessi nei confronti del datore di lavoro inadempiente. In alternativa l’Inps potrà invece chiamare in causa il datore di lavoro per potergli opporre l’eventuale giudicato di condanna al pagamento nei confronti dell’assicurato. Contro il datore di lavoro: l’assicurato agirà per ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi evasi a favore dell’ente previdenziale, ossia per la regolarizzazione della posizione assicurativa. Tale azione è possibile solo limitatamente al pagamento dei contributi non ancora prescritti, indipendentemente dal fatto che tale circostanza sia stata eccepita o meno. La tutela per il periodo prescritto Con riferimento al periodo contributivo prescritto, l’istituto previdenziale non è più titolare del credito contributivo . Permane però in capo all’assicurato il diritto al risarcimento del danno derivante dall’omissione contributiva in esame. In relazione a questi contributi sarà possibile una rinuncia da parte del lavoratore. Il datore e lavoratore non possono certo accordarsi , né al momento della stipulazione del contratto di lavoro, né nel corso di svolgimento del rapporto per non adempiere o comunque eludere gli obblighi contributivi, perché questo accordo sarebbe nullo ex artt. 1418 e 2115 cc. Eppure l’art. 2113, riferendosi a rinunce e transazioni aventi per oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili, ne sancisce l’invalidità, rilevabile a pena di decadenza nel termine di 6 mesi dallo scioglimento del rapporto se avvenute in costanza dello stesso, oppure dalla conclusione dell’accordo stesso se questo è intervenuto successivamente allo scioglimento. l'Articolo 2113 non si riferisce alle transazioni aventi per oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili, ma al diritto al risarcimento che sorge dalla violazione di diritti inderogabili suddetti. L’assicurato può in altri termini, transigere o rinunciare agli obblighi derivanti dall’omissione dei contributi, ma non può rinunciare all’obbligo del versamento degli stessi. Con riferimento al periodo prescritto, viene in rilievo l’articolo 2116, in base al quale l’imprenditore è responsabile del danno che deriva al prestatore di lavoro nei casi in cui istituti previdenziali , per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenuti a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute. Si tratta di un’azione di risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale ; infatti l’obbligo di contribuzione sorge come effetto di natura legale derivante dal contratto di lavoro. Ne consegue che la relativa causa ha natura lavoristica, e non previdenziale, e che non è richiesto l’intervento dell’Inps nel giudizio. Il risarcimento può venire condannando il datore di lavoro assicurante al pagamento di una somma di denaro direttamente nei confronti del lavoratore assicurato , oppure mediante costituzione di una rendita sostitutiva della perdita nel del trattamento per effetto dell’omissione suddetta. Il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria è decennale , ma sorge il problema di determinare il Dies a quo della decorrenza della prescrizione. È stato infine accolto il criterio che fissa il Dies a quo nel momento in cui l’assicurato matura i requisiti di età, contribuzione e assicurazione necessari per il sorgere del diritto . L’azione risarcitoria del danno pensionistico può essere esercitata nel momento in cui si verifica la perdita totale o parziale della prestazione previdenziale, ossia nel momento in cui la stessa avrebbe dovuto essere attivata. Questo criterio è stato ulteriormente corretto facendo riferimento al momento in cui l’Inps o l’ente previdenziale di riferimento, comunica all’assicurato il rifiuto di erogare la prestazione a causa della mancata contribuzione dell’assicurante. Nel periodo che intercorre dalla prescrizione dell’obbligo del datore di lavoro di versare contributi previdenziali al momento di attivazione della prestazione previdenziale, l’assicurato gode anche di una tutela ulteriore , consistente nel diritto nei confronti dell’assicurante alla costituzione di una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o alla quota di pensione che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione contributi omessi, istituita presso lo stesso Inps. In quest’ipotesi, la quantificazione a carico del datore di lavoro viene determinata non sulla base delle retribuzioni corrisposte ma viene predeterminato l’importo della rendita suddetta, e sulla base dell’ammontare di quest’ultima viene calcolato l’importo necessario a costituirla. Quindi, la somma da versare all’Inps, una volta accertato l’importo pensionistico che l’assicurato avrebbe percepito se il datore avesse versato i contributi regolarmente, viene calcolata in base all’età dell’assicurato, capitalizzando quindi le rate della prestazione che sarebbe stata erogata in assenza di omissione. Il lavoratore stesso può versare la relativa somma all’Inps . La rendita integra con effetto immediato la pensione che sia eventualmente già in essere, in caso contrario la somma è calcolata a tutti gli effetti ai fini dell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti. Per esperire il rimedio in esame occorre che ci sia prova dell’esistenza del rapporto di lavoro, della sua durata e della relativa retribuzione. Art.13 L.1338/1962: Consente all’assicurato anche altri due azioni. In alternativa ad un’azione nei confronti del datore di lavoro, affinché sia condannato alla costituzione della rendita, il lavoratore può infatti costituire la rendita presso l’Inps e poi agire per la restituzione o il risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro. Se agisce a titolo restitutorio, il termine di prescrizione decorre dal momento della prescrizione dell’obbligazione contributiva del datore di lavoro. Nel caso in cui agisce invece a titolo risarcitorio la prescrizione decorre dal momento individuato con riferimento all’azione dell’art. 2116. Il lavoratore può agire anche direttamente nei confronti dell’Inps al fine di vedersi riconosciuto il diritto alla costituzione della rendita da parte dell’ente previdenziale in sostituzione del datore di lavoro, ma la giurisprudenza subordina l’esperibilità dell’azione alla prova da parte del lavoratore dell’impossibilità di ottenere la rendita da parte dello stesso datore di lavoro. Un ulteriore tutela compete nel caso in cui l’ente previdenziale, nonostante la denuncia sporta all’assicurato dell’omissione contributiva da parte del datore, abbia lasciato cadere in prescrizione il debito contributivo dell’assicurante. In questi casi l’ente resta obbligato al risarcimento del danno nei confronti dell’assicurato. Le sanzioni civili Le sanzioni civili consistono nel pagamento di una somma aggiuntiva rispetto ai contributi omessi, di importo variabile fino al 40% e al 60% della somma non versata a seconda che ricorra un’ipotesi di omissione in senso stretto oppure di evasione contributiva. Omissione in senso stretto: ricorre nel caso di presenza di tutte le denunce e le registrazioni obbligatorie necessarie e resta soltanto omesso il pagamento. la sanzione è determinata in misura pari al tasso ufficiale di riferimento in vigore al momento previsto per il pagamento dei contributi maggiorato di 5,5 punti percentuali, e non superiore al 40% di contributi non corrisposti alla scadenza di legge. La minore percentuale del 40% è dovuta anche nel caso in cui l’assicurante si renda responsabile di evasione, ma prima della contestazione dell’ente previdenziale ed entro 12 mesi dal momento in cui è sorto l’obbligo di pagamento , denunce spontaneamente inadempimento contributivo . Evasione contributiva: ricorre quando a monte dell’omissione vi è omessa o infedele registrazione. Le somme aggiuntive sono pari ad una percentuale annua del 30% dei contributi evasi fino ad un massimo del 60% dei contributi non corrisposti. Le somme aggiuntive in questione possono essere ridotte fino alla misura degli interessi legali, sulla base di criteri dettati dall’ente impositore . Le sanzioni sono espressamente definite come civili dall’articolo 116. Per quanto riguarda le sanzioni amministrative connesse alle omissioni contributive, sono state sostanzialmente abrogate. Le sanzioni amministrative e le ordinanze ingiunzione 89 In base all’articolo 35 L. 689 / 1981, le sanzioni amministrative permangono sostanzialmente per le violazioni di tale articolo. Si tratta delle violazioni che non consistono in un’invasione contributiva . L’accertamento della violazione avviene tramite i funzionari dell’ispettorato che agiscono in qualità di agenti ufficiali di polizia giudiziaria. Ove risultino inadempimenti la cui violazione determina l’applicazione di una sanzione amministrativa, l’ispettore provvede a diffidare il datore di lavoro a regolarizzare le inosservanze, fissando un termine. La diffida interrompe il termine di contestazione dell’illecito. Se a seguito della diffida interviene la regolarizzazione della situazione, il datore di lavoro può estinguere la violazione contestatagli mediante il pagamento della sanzione amministrativa. A fronte di una violazione non regolarizzata da parte del datore di lavoro viene in rilievo ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria, lo strumento dell’ordinanza ingiunzione. L’ordinanza è suscettibile di opposizione in sede di giurisdizione ordinaria. L’ordinanza ingiunzione costituisce effettivamente un atto amministrativo, ma la determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria è del tutto vincolata al fatto illegittimo così come accertato. L’opposizione si propone nella forma del ricorso che deve contenere determinati elementi ed è suscettibile di presentazione anche tramite servizio postale. Tale ricorso deve essere depositato presso la cancelleria del giudice entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento, oppure dall’esito dei ricorsi amministrativi , davanti al tribunale del luogo in cui è stata commessa la violazione. Almeno 10 giorni prima dell’udienza fissata dal tribunale, l’ispettorato deve depositare una copia completa del rapporto con gli atti relativi all’accertamento della violazione e alla contestazione. Nel corso del procedimento le parti possono stare in giudizio personalmente. Con la sentenza che accoglie l’opposizione, il giudice può annullare in tutto o in parte l’ordinanza o modificarla anche limitatamente all’entità della sanzione dovuta. Il giudizio si struttura come un ordinario procedimento di cognizione sulla fondatezza della pretesa creditoria della pubblica amministrazione: in sostanza un’azione di accertamento negativo della stessa. Sanzioni penali Art.37 L.689/1981: co.1: salvo il fatto costituisca più grave reato, il datore di lavoro che, al fine di non versare in tutto in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie, omette una o più registrazioni o denunce obbligatorie, ovvero esegue uno o più denunce obbligatorie in tutto o in parte non conformi al vero, è punito con la reclusione fino a due anni quando dal fatto deriva l’omesso versamento dei contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie per un importo mensile non inferiore al maggiore importo fra € 2582,28 e i 50% dei contributi complessivamente dovuti. Co.2: Fermo restando l’obbligo dell’organo di vigilanza di riferire al pubblico ministero la notizia di reato, qualora l’avere l’evasione accertata forma oggetto di ricorso amministrativo o giudiziario il procedimento penale è sospeso dal momento dell’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale, fino al momento della decisione dell’organo amministrativo o giudiziario di primo grado. Co.3: La regolarizzazione dell’inadempienza accertata, anche attraverso dilazione, estingue il reato. co.4: Entro 90 giorni l’ente impositore è tenuto a dare comunicazione all’autorità giudiziaria dell’avvenuta regolarizzazione o dell’esito del ricorso amministrativo o giudiziario. La fattispecie, in ordine alle registrazioni, punisce solo l’omissione di tali e non anche la loro falsità . In forza del principio della riserva di legge si deve ritenere che la falsità in registrazioni non sia inquadrabile nella disposizione in esame . Quali sono le denunce o registrazioni rilevanti? Ci sono orientamenti sia a favore della rilevanza delle medesime solo se prevista dalle norme previdenziali, sia a favore della tesi secondo la quale vengono in rilievo anche le registrazioni le scritture previste dalla normativa civilistica fiscale. funzione di giustizia, ossia nell’interesse degli amministrati a vedere riconosciuti i propri interessi nei confronti della pubblica amministrazione. In caso di controversia con l’ente previdenziale , l’esperimento del ricorso in esame si pone come condizione necessaria per accedere alla tutela giurisdizionale. Il diritto alla prestazione previdenziale sorge infatti allorquando a fronte dei requisiti previsti dalla legge l’ente previdenziale ammette assicurato, con proprio atto formale, a beneficiare delle prestazioni in esame. Il difetto della previa domanda amministrativa di erogazione delle prestazioni previdenziali determinerebbe l’assoluta improponibilità della domanda giudiziale di tutela ed è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo. In altri termini i ricorsi amministrativi hanno ad oggetto più che le prestazioni, gli atti con i quali l’Istituto previdenziale nega il diritto alle prestazioni. È necessario che l’ente assicurante si pronunci sulle istanze dell’assicurato: innanzitutto sulla domanda tesa all’ottenimento della prestazione previdenziale, perché altrimenti l’assicurato non potrebbe ottenere una sentenza di merito da parte della giurisdizione ordinario , posto che la domanda sarebbe improponibile. Quando l’assicurato presta una domanda di prestazione previdenziale, l’ente ha l’obbligo di provvedere. Al Riguardo, la richiesta all’Istituto assicuratore, si intende respinta a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi 120 giorni dalla data di presentazione, senza che l’istituto si sia pronunciato. La procedura del silenzio rigetto , per la quale il decorso il termine di 120 giorni, l’istanza si intende respinta. A fronte di un provvedimento di carattere negativo espresso o di un silenzio ad esso equiparato, non è ancora possibile per l’assicurato adire immediatamente l’autorità giudiziaria ordinaria . La tutela davanti all’autorità giudiziaria è subordinata all’esperimento di un ricorso amministrativo . Anche nel caso di ricorso è stato previsto che, decorsi termini fissati dalle leggi speciali per la relativa decisione o decorsi 180 giorni dalla data della presentazione, l’azione giudiziaria diviene proponibile ; anche in questo caso si tratta di evitare che l’azione davanti al giudice ordinario sia impedita da un comportamento di fatto dilatorio dell’ente previdenziale. Dal mancato esperimento del rimedio amministrativo discende come conseguenza che la domanda proposta davanti all’autorità giudiziaria non è procedibile. Il giudice deve quindi sospendere il processo. L’improcedibilità deve essere rilevata esclusivamente entro la prima udienza di discussione . Qualora la causa di improcedibilità sia rilevata, il giudice deve fissare un termine perentorio di 60 giorni per la presentazione a carico dell’attore del ricorso in sede amministrativa. Quindi, il ricorso può essere presentato all’Inps anche dopo diverso tempo dalla pronuncia del provvedimento di rigetto, anziché entro il termine generale di 90 giorni . Attualmente la materia di ricorsi amministrativi è regolata dalla L. 88 1989 E dall’articolo 17 del decreto 124 del 2004. Quest’ultima norma prevede la competenza di un apposito comitato presso la sede territoriali dell’ispettorato del lavoro per i ricorsi avverso gli atti di accertamento e le ordinanze-ingiunzioni e avverso i verbali di accertamento degli istituti previdenziali assicurativi che abbiano ad oggetto la sussistenza o la qualificazione dei rapporti di lavoro . Negli altri casi rimane la competenza dell’Inps. Ora il ricorso è definito come la decisione dell’unica autorità adita. In materia di ricorsi in ambito contributivo, la stessa è ripartita tra diversi organi dell’Inps ai sensi della L. 88 / 1989 che dispone: il comitato amministratore del fondo pensioni lavoratori dipendenti decide in unica istanza e ricorsi in materia di contributi dovuti alla gestione suddetta , come pure ricorsi che riguardino altri contributi dovuti alla gestione di cui all'art.24. Quest’ultimo articolo introduce, riferendosi ai lavoratori dipendenti, la nuova gestione prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti. Quindi in ambito previdenziale abbiamo due gestioni per le prestazioni ai lavoratori subordinati, una per le pensioni, e l’altra per tutte le altre prestazioni. Per i coltivatori diretti, mezzadri e coloni, artigiani e commercianti, esistono appositi comitati per la gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali. La tutela davanti all’autorità giudiziaria ordinaria Una volta esperito ricorso di carattere amministrativo, le controversie in materia previdenziale possono sfociare innanzi all’ordinaria giurisdizione civile. In tale sede il giudice valuterà non il provvedimento di 89 rigetto emesso dall’ente previdenziale, ma il diritto dell’assicurato alla prestazione. L’ordinamento prevede una serie di termini a riguardo , entro i quali l’azione civile deve essere iniziata a pena di decadenza. : • Per le prestazioni pensionistiche: 3 anni ; • Per le prestazioni non pensionistiche: 1 anno . • Per le prestazioni in caso di infortunio sul lavoro o malattie professionali : 3 anni. La tutela giurisdizionale è regolata principalmente dalla L. 533 / 1973, la quale ha innovato il preveggente disposto del codice di procedura civile , disponendo l’instaurazione del processo tramite ricorso ed informando l’intero procedimento ai canoni dell’oralità e della rapidità, tramite un uso dei termini precisi procedimentali. Infine la provvisoria esecutività della sentenza del primo grado garantisce ulteriormente la celere soddisfazione dell’assicurato. Le regole del processo del lavoro si applicano in forza del rinvio disposto dall’articolo 442 c.p.c, che si riferisce alle “controversie derivanti dall’applicazione delle norme riguardanti le assicurazioni sociali, infortuni sul lavoro, le malattie professionali, assegni familiari nonché ogni altra forma di previdenza e di assistenza obbligatorie”, così come “per le controversie relative all’inosservanza degli obblighi di assistenza e di previdenza derivanti da contratti e accordi collettivi”. Nell’ambito della norma ricadono quindi le controversie tra l’istituto di previdenza e gli assicurati per quanto concerne le prestazioni , e tra quello e i datori per quanto concerne rapporto contributivo. Non vi rientrano invece le controversie per esempio tra l'Inps i suoi dipendenti per l’aspetto retributivo. Sono ricomprese anche le controversie tra l’Inail e i congiunti dell’assicurato laddove voglia farsi valere il maggior danno subito rispetto a quello liquidato dall’Istituto. L’articolo 443 c.p.c. dispone che la domanda relativa alle controversie suddette non è procedibile se: ▲ non sono esauriti procedimenti speciali per la composizione in sede amministrativa, ▲ quando siano decorsi termini fissati per il compimento dei procedimenti stessi, ▲ quando siano comunque decorsi 180 giorni dalla data in cui è stato proposto ricorso amministrativo. Quando il giudice constata nella prima udienza il mancato esperimento delle procedure amministrative, sospendere l’iter del processo già validamente instaurato, e dispone che l’attore presenti ricorso in sede amministrativa entro un termine perentorio di 60 giorni. La giurisprudenza chiarisce che se il mancato esperimento delle procedure di conciliazione non è rilevato nel corso della prima udienza, il giudice non può rilevarlo successivamente . In ordine al rilievo delle procedure amministrative nel corso del giudizio civile, l’articolo 8 L. 533 / 1973 dispone che nei procedimenti riguardanti le controversie in esame non si tiene conto dei vizi, delle preclusioni e delle decadenze verificatesi. Preclusione = la perdita, l’estensione o la consumazione di una facoltà processuale che si subisce per il fatto di non aver osservato l’ordine assegnato dalla legge al suo esercizio come i termini perentori e la successione legale delle attività e delle eccezioni o di aver compiuto un’attività incompatibile con un’altra o di avere già una volta validamente esercitato la facoltà. Decadenza = perdita di un diritto per il concorso di un certo termine e dell’inattività del soggetto interessato. Vizio = è empiricamente definibile come quell’irregolarità di conseguenze negative per l’avente diritto. La domanda introduttiva del giudizio di cognizione deve essere notificata a pena di nullità presso la struttura territoriale dell’ente pubblico nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati e deve contenere i dati anagrafici dell’interessato, il codice fiscale e il domicilio. Art. 444 c.p.c.: si occupa della competenza di natura inderogabile per territorio, differenziandola a seconda del tipo di controversia. La norma si occupa anche di individuare il tipo di giudice competente. La competenza del giudizio di primo grado è del tribunale, in funzione di giudice del lavoro, in composizione monocratica. Il co. 2 dispone che laddove la controversia riguardi infortuni sul lavoro e malattie professionali di addetti alla navigazione e pesca marittima, è competente il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo in cui ha sede l’ufficio del porto di iscrizione della nave. Co. 3 si riferisce alle questioni concernenti gli obblighi del datore di lavoro . La formula è imprecisa: legislatore intendeva riferirsi più generalmente a tutti i contribuenti ; per tale controversia è competente il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’ente previdenziale. Art. 25 c.p.c. : nelle controversie in cui è parte in causa un’amministrazione dello Stato competente per territorio è il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice competente secondo le norme ordinarie. Art. 445 c.p.c. concerne la nomina del consulente tecnico d’ufficio la cui funzione consiste nel rispondere ai quesiti formulati dal giudice quando siano richieste nozione di carattere tecnico di cui il giudice non è in possesso. Il c.t.u. è un’indagine di tipo medico legale che si svolge nel contraddittorio tra le parti, ed ha per oggetto l’accertamento del quadro clinico dell’assicurato assistito, al fine di offrire al giudice gli elementi necessari per valutare il diritto del ricorrente ad ottenere la richiesta prestazione previdenziale e assistenziale. La nomina del consulente tecnico d’ufficio è necessaria per il giudice di primo grado . In sede d’appello invece tale obbligo non sussiste, posto che la corte d’appello può limitarsi a valutare l’operato del consulente nominato in primo grado; in caso di omessa nomina in primo grado, il giudice deve però nominare un consulente. Il giudice è tenuto a prendere in esame la consulenza tecnica e ad indicare gli specifici motivi in base ai quali ritenga di disattenderla. Art. 446 c.p.c.: dispone che gli istituti di patronato e di assistenza sociale legalmente riconosciuti, possono in ogni grado del giudizio rendere informazioni e osservazioni orali e scritte tramite un loro rappresentante, ed il giudice deve tenerne conto in sede di giudizio. Patronati = enti collettivi legittimati a svolgere attività nei confronti dell’ente previdenziale per conto dell’assistito. Sono chiamati a presentare l’attività di assistenza gratuita nei confronti di tutti coloro che ne facciano richiesta e non solo ai propri iscritti , sono finanziati dallo Stato . Art. 12 statuto dei lavoratori: ammette a determinate condizioni, l’esercizio della loro attività all’interno dell’azienda. Art.447 c.p.c.: dispone che le sentenze emanate nelle controversie di cui all’art.442 c.p.c. sono provvisoriamente esecutive, il che permette al titolare del diritto riconosciuto dalla sentenza di agire per il materiale soddisfacimento dello stesso attraverso le procedure dell’esecuzione forzata. L’immediata esecutività delle sentenze di primo grado è divenuta regola generale del processo civile. La disposizione rinvia all’art. 431 c.p.c., che consente di iniziare l’esecuzione sulla base della sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per depositare la sentenza. Art. 149 delle disposizioni di attuazione c.p.c. : dispone che nelle controversie in materia di invalidità pensionabile deve essere valtato dal giudice anche l’aggravamento della malattia, le infermità comunque incidenti sul complesso invalidante che si siano verificate nel corso del procedimento amministrativo nonché del processo giudiziario. . Art. 151 disp. Att. C.p.c. prevede che nel caso pendano avanti al medesimo tribunale diversi procedimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza, tra di loro connessi anche solo per identità delle questioni della cui soluzione dipende, gli stessi devono essere uniti ai sensi dell’articolo 274 c.p.c., salve le ipotesi in cui la riunione non rende eccessivamente gravoso. Comunque ritardi eccessivamente il processo. Art. 152 disp. Att. C.p.c dispone che il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non è assoggettato al pagamento di spese, competenze ed oneri a favore degli istituti di assistenza e previdenza. La disposizione era stata abolita , ma tale abrogazione è stata ritenuta incostituzionale. Ora si prevede l’esclusione del privilegio dell’esonero dalle spese procedurali di soggetti più abbienti a discrezione del giudice. Ferma restando l’applicazione della disciplina prevista dall’articolo 96 c.p.c. per i casi di lite temeraria, l’esonero delle spese nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali e assistenziali è subordinato alla titolarità, nell’anno precedente la decisione, di un reddito 89 Il dibattito sul ruolo della previdenza complementare ossia sugli ambiti e sui limiti di intervento di forme di previdenza ulteriore rispetto a quelle garantite dalla legge, ha preso oltre vent’anni fa avvio sulla base di una serie di considerazioni: • La struttura del finanziamento del sistema della previdenza sociale a ripartizione, per il quale l’onere delle prestazioni ricade sugli attuali contribuenti, a fronte del decremento demografico verificatosi nell’ultimo ventennio, determina sensibili deficit nel bilancio delle varie gestioni previdenziali; • È contestata la capacità dello Stato di farsi interprete esclusivo dei bisogni socialmente rilevanti suscettibili di soddisfacimento; • La possibilità di dirottare parte dei contributi normalmente versati agli enti di previdenza obbligatorie presso altri soggetti, potrebbe determinare l’aspetto la comparsa di nuovi investitori in grado di immettere sul mercato liquidità con positivi effetti per il sistema economico generale; La questione era agitata a livello giurisprudenziale in relazione al problema della assoggettabilità e contribuzione dei contributi versati dal datore a fondi di previdenza integrativi aziendali. A livello costituzionale l’esigenza di assicurare maggiore rilievo all’autonomia privata in ambito previdenziale moveva poi dall’articolo 38 co.5 Cost. , secondo il quale l’assistenza privata è libera. Il sistema previdenziale ordinamento previdenziale italiano si articolerebbe nel sistema dei tre pilastri: 1. previdenza pubblica ed obbligatoria; 2. fondi pensione ad adesione volontaria; 3. sottoscrizione individuale dei servizi previdenziali di natura propriamente assicurativa. Se è vero che i contratti privatistici d’assicurazione possono assolvere anche ad una funzione previdenziale, è vero anche che in quest’ultimo caso la natura del bisogno assicurato è strettamente individuale. Il legislatore nell’ambito della complessiva riforma del sistema previdenziale di cui la L. 421 / 1992 , è intervenuto con il decreto 124 / 1993 a dettare una prima regolamentazione organica dei fondi di previdenza complementare. Le previsioni sono state successivamente rimaneggiate in più occasioni, prima della legge di riforma del sistema pensionistico 335 / 1995 e poi dal decreto 47 / 2000 . Attraverso la disposizione della legge 243 / 2004 si è provveduto a delegare al governo l’emanazione di una nuova disciplina delle forme pensionistiche complementari: si è abrogato ogni precedente disposizione di legge, arrivando al decreto 252 / 2005. Tale decreto riformula le previsioni precedenti modificandone in qualche punto il disposto e rafforzando in particolar modo i poteri dell’autorità di controllo, costituita per vigilare sull’esercizio dell’attività svolta dei singoli fondi pensioni, anche per garantire una sana e prudente gestione delle forme pensionistiche complementari. Le modifiche erano destinate ad entrare in vigore il 1 gennaio 2008; si è poi anticipata di un anno l’entrata in vigore delle disposizioni del decreto 252 per quelle forme pensionistiche che già avevano ottenuto dalla COVIP l’approvazione ad operare in conformità alla disciplina sopraggiunta. L’esigenza di trasporre la direttiva europea 41 / 2003 , in tema di attività e supervisione degli enti pensionistici aziendali o professionali, determina l’emanazione del decreto 28 / 2007 che ha modificato alcune disposizioni del decreto del 2005. Si trattava in realtà di introdurre alcune modifiche alle norme che disciplinano le condizioni di costituzione e di operatività dei fondi, per assicurare correttamente la libertà di circolazione intracomunitaria dei servizi finanziari con destinazione previdenziale . I destinatari della previdenza complementare decreto 252 del 2005 Articolo 1: dispone che l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio pubblico risponde all’esigenza di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale. Questa finalità può essere condivisa solo a condizione che si mantenga ben stretto il coordinamento con il regime della previdenza pubblica: se quest’ultima garantisse prestazione di importo più elevato, il ruolo della previdenza integrativa ne uscirebbe infatti fortemente ridimensionato. Articolo 2: i destinatari di forme di previdenza complementari possono essere: a. lavoratori dipendenti privati e pubblici l’adesione avviene sulla base dell’appartenenza a alla medesima categoria, o al medesimo comparto o raggruppamento, anche territorialmente delimitato . b. lavoratori autonomi e liberi professionisti aderiscono ai fondi sulla base di raggruppamenti per aree professionali per territorio. c. Soci lavoratori di società cooperative e i soggetti che hanno titolo per iscrivere al fondo di previdenza per persone che svolgono lavori di cura non retribuiti. A favore dei soggetti non contemplati dalle norme appena dette e per i quali, non operano le fonti istitutive contemplate dall’articolo 3, si prevedeva in origine la possibilità di partecipare ad un fondo pensione aperto, direttamente promosso da soggetti abilitati alla gestione del risparmio e da imprese di assicurazione o da società di gestione del risparmio. Tali fondi hanno perso la loro caratteristica residuale, proponendosi nel disegno del legislatore come soggetti alternativi rispetto ai fondi di categoria, nell’ambito di un vero e proprio mercato concorrenziale del risparmio previdenziale. Ai fondi aperti si possono ora fiancate ulteriori forme pensionistiche. Si è realizzata un’alternativa fra le forme pensionistiche individuali e collettive: le prime rappresentate dai fondi aperti e dai contratti di assicurazione sulla vita; le seconde dei fondi chiusi, destinati a raccogliere le adesioni dei soli appartenenti ad un certo ambito, determinato dall’accordo collettivo, aziendale di categoria che ha dato vita al fondo stesso. I fondi pensione decreto 252 del 2005 Le forme pensionistiche collettive sono istituite attraverso fonti negoziali ti varia natura. Può trattarsi di contratti e accordi collettivi oppure di accordi fra gli stessi lavoratori promossi da sindacati firmatari di contratti collettivi di livello nazionale ; oppure ancora regolamenti di enti o aziende i cui rapporti di lavoro non siano regolati da contratti o accordi collettivi. Art.3: Gli accordi, e gli altri atti negoziali diretti alla costituzione dei fondi vengono identificati come fonti istitutive. Per il versante dei lavoratori subordinati, il legislatore ha equiparato ai contratti e accordi collettivi, anche altre forme negoziali poco praticate nella concreta prassi delle relazioni industriali italiana: si è prevista così l’istituzione di forme pensionistiche anche da parte di accordi aziendali con efficacia limitata ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi e di accordi per gli appartenenti alla categoria dei quadri, promossi dalle organizzazioni sindacali rappresentative della categoria, ovvero in forza di regolamenti di enti o aziende i cui rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi anche aziendali. È prevista la possibilità che siano istituiti fondi in forza di leggi regionali. Articolo 4: i fondi pensione costituiti possono rivestire diversa natura giuridica: può infatti trattarsi di associazioni non riconosciute ai sensi dell’articolo 36 c.c., oppure di persone giuridiche di diritto privato il cui riconoscimento avviene ora automaticamente in conseguenza del provvedimento di autorizzazione all’esercizio dell’attività adottato dalla COVIP. I fondi pensione costituiti prima dell’entrata in vigore del decreto 124, possono anche presentarsi nella forma di un patrimonio di destinazione, costituito nell’ambito di una singola società o del singolo ente ; questo è patrimonio separato ed autonomo rispetto quello dell’ente istituente. Articolo 5: la natura di ente collettivo dei fondi pensione emerge da tale articolo il quale prevede forme di partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori negli organi di amministrazione di controllo e responsabilità del fondo pensione, i quali, a prescindere dal carattere unilaterale della contribuzione o bilaterale, devono essere composti dei rappresentanti dei lavoratori o dei datori. Nel caso di contribuzione esclusiva a carico dei lavoratori, la composizione degli organi collettivi risponde al criterio rappresentativo di partecipazione delle 89 categorie e raggruppamenti interessati. In entrambi i casi i rappresentanti dei lavoratori sono individuati con metodo elettivo. La libertà dell’assistenza privata deve coordinarsi con il più grande e generale dettato in materia di iniziativa economica, con l’esigenza di tutela del risparmio, articolo 47 cost. I controlli pubblici a partire dalle stesse istituzione dei fondi , deve essere preventivamente autorizzato dalla COVIP, tra i cui compiti rientra lo svolgimento di attività istruttorie in vista del rilascio dell’autorizzazione, sulla base dei provvedimenti amministrativi generali emanate dalla stessa autorità. Il controllo sui fondi viene poi esercitato in costanza della loro attività sempre ad opera della commissione, che nell’esercizio dei suoi poteri di sorveglianza, deve informare il ministero del lavoro e della previdenza sociale di fatti che possono interessare l’esercizio di poteri di intervento e di alta vigilanza che quest’ultima esercita nel settore. Gli enti gestori decreto 252 del 2005 I fondi pensione non possono gestire direttamente le risorse a loro affidate, ma devono individuare un soggetto dotato di una specifica professionalità nel settore degli investimenti, con il quale stipulare una convenzione per la gestione delle masse finanziarie raccolte. Articolo 6: individua i soggetti con i quali è possibile stipulare tale convenzione fra quelli autorizzati all’esercizio dell’attività di intermediazione finanziaria: si tratta delle società di intermediazione mobiliare, imprese assicurative, società di gestione del risparmio. La gestione del fondo sarà anche possibile nella forma della sottoscrizione o acquisizione di azioni o quote di società immobiliari, nonché di quote di fondi comuni di investimento immobiliare chiusi. Le offerte contrattuali rivolte ai fondi sono formulate per singolo prodotto, in maniera da consentire il rapporto dell’insieme delle condizioni contrattuali con riferimento alle diverse tipologie di servizio offerte. La legge di riforma prevede espressamente che i fondi pensione siano titolari dei valori e delle disponibilità conferite in gestione, sebbene nella convenzione stipulata tra il fondo pensione e gli enti gestori possa essere prevista una diversa soluzione , quando sussiste garanzia di restituzione del capitale. I valori e le disponibilità affidati ai gestori costituiscono in ogni caso il patrimonio separato e autonomo. Il fondo pensione può rivendicare tutti valori conferiti in gestione, ancorché non individualmente determinati o individuati, e anche se depositati presso terzi diversi dal soggetto gestore, a tal fine il fondo può giovarsi di ogni prova documentale compresi i rendiconti redatta il soggetto gestore o da terzi depositari. Al fondo pensione è garantito la facoltà di recesso dal rapporto con l’ente gestore, nella convenzione devono essere infatti previsti termini e le modalità di esercizio della arrivata relativa facoltà, la possibilità di rientrare in possesso del proprio patrimonio attraverso la restituzione delle attività finanziarie nelle quali risultano invece investite le risorse del fondo al momento della comunicazione della volontà di recedere. Le risorse dei fondi affidati in gestione devono essere depositate presso una banca distinta dal gestore, che è tenuta ad eseguire le istruzioni da questo impartite dopo averne preventivamente verificato la non contrarietà alla legge, allo statuto del fondo e ai criteri di investimento stabiliti con decreto del ministero dell’economia. Articolo 15: nel caso di scioglimento del fondo per vicende concernenti i soggetti tenuti alla contribuzione, si prevede che si faccia luogo all’intestazione diretta della copertura assicurativa in essere per coloro che fruiscono di prestazioni in forma pensionistica. Nel caso di cessazione dell’attività del datore di lavoro che abbia costituito un fondo pensione, si procederà allo scioglimento del fondo per mezzo di un commissario straordinario di nomina ministeriale. Nel caso di vicende capaci di incidere sull’equilibrio del fondo medesimo, gli organi e i responsabili del fondo devono comunicare alla commissione stessa i provvedimenti ritenuti necessari per salvaguardarne l’equilibrio. Se quest’ultimo risulta irrimediabilmente compromesso si applicherà la disciplina dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa , con esclusione del fallimento. Nel caso di procedura concorsuale relativa a soggetti che abbiano costituito un fondo nella forma di patrimonio separato, il Ministero del Lavoro, sentita la commissione di vigilanza, nomina un commissario straordinario incaricato dello scioglimento o della liquidazione del fondo.