Scarica Orazio epistole e più Dispense in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! Orazio Epistole LIBRO PRIMO 1, a Mecenate Avviata e dovendo terminare col tuo nome l'opera mia, mi chiedi, Mecenate, di rimettermi come un tempo in gara, dopo che troppo ho dato spettacolo di me e ricevuto ormai la bacchetta del congedo. Ma non è piú quell'età, quello spirito. Appese le armi nel tempio di Ercole, Veianio si è rifugiato in campagna per non dovere al popolo implorare la grazia dai bordi dell'arena. Spesso sento una voce risuonare nelle mie orecchie all'erta: 'Stacca per tempo il cavallo che invecchia, se hai buon senso, prima che sfiancato stramazzi e desti il riso sul traguardo'. Cosí con gli altri futili piaceri lascio la poesia. Ora m'interrogo solo su cosa sia la verità, la convenienza, e medito su questo; raccolgo e ordino tutto ciò che mi potrà poi servire. E non mi domandare a che maestro, a quale scuola chieda sicurezza: non mi sono venduto a nessun credo e cosí dove il corso mi trascina arrivo come un ospite. A volte mi prende la furia e m'immergo nelle lotte civili, custode della verità ideale, suo inflessibile seguace; poi, senza rendermene conto, scivolo nelle norme di Aristippo e tento di dominare le cose, non di esserne dominato. Come lunga sembra la notte se l'amata t'inganna, lungo il giorno per chi lavora al soldo e lento l'anno per i ragazzi oppressi che insegui da insensato? Un campione di villaggio o di strada rinuncerebbe forse alla gloria di una corona olimpica, se avesse la speranza, la possibilità di aggiudicarsi la vittoria ambita senza alcuna fatica? Piú vile dell'oro è l'argento e piú l'oro della virtú. 'Oh cittadini, cittadini, bisogna far fortuna innanzi tutto: dopo il denaro verrà la virtú.' Questa la massima che si proclama da un capo all'altro sotto il voltone della Borsa: e tutti, con borse e taccuini sotto il braccio, giovani e vecchi, ripetono in coro la lezione. Hai animo, carattere, eloquenza e onestà? ma se ai quattrocentomila sesterzi te ne mancano sei o settemila, addio, sei plebeo. Certo, giocando cantano i bambini: 're sarai, se bene farai'. Questa sia la tua barriera di bronzo: non aver nulla da rimproverarsi, non dovere per colpa impallidire. Ma dimmi, dimmi, è migliore la legge Roscia o quella cantilena di bambini che offre al giusto un regno e anche ai tempi virili s'intonava di Curio e di Camillo? Avanti, ti consiglia meglio chi ingiunge: 'arraffa, arraffa, onestamente se puoi, se no come ti riesce, ma arraffa', solo per vedere un po' piú da presso i drammi strappalacrime di Pupio; o chi, stretto al tuo fianco, t'esorta a fronteggiare, libero, a testa alta, e te ne dà la forza, l'arroganza della fortuna? Se il popolo romano mi chiedesse perché piú che le opinioni ci accomunano i portici, e come mai non segua i suoi amori o non rifugga le sue avversioni, risponderei come la volpe accorta rispose nella favola al leone ammalato: 'Mi atterriscono le orme; guardano tutte verso te, nessuna indietro'. Sei un mostro dalle mille teste. Quali opinioni, quali uomini dovrei seguire? Smania una parte per gli appalti pubblici; altri con bocconcini e frutta accalappiano vedove insaziabili o irretiscono vecchi per tenerli in riserva; e molti di nascosto si arricchiscono con l'usura. Passi pure, ognuno ha le sue passioni, ma sapesse perseverare almeno un'ora in ciò che si è scelto. Se un ricco esclama: 'Baia, che meraviglia, nessuna insenatura al mondo è piú incantevole di quella', subito lago e mare soffrono l'entusiasmo dei signori; ma se tien luogo degli auspici un morboso capriccio: 'a Teano, domani, portino i muratori i loro attrezzi'. Se non hai altro a cui pensare, ti dirò il perché di questa opinione. Quel racconto, la lunga guerra che combatté la Grecia contro i barbari per l'amore di Paride, contiene tutte le passioni di re insensati e dei popoli loro. Antenore propone di rimuovere la causa della guerra; ma Paride? no, non si può costringerlo a regnare fuor di ventura e vivere felice. Nestore si affanna a comporre la lite fra Agamennone e Achille, l'uno contro l'altro infiammati d'odio e il primo anche d'amore. Impazziti i re, soffrono gli achei. Sedizioni frodi delitti, dissolutezze e ira, le ignominie che si commettono e dentro e fuori le mura troiane. Di contro si propone Ulisse, esempio e simbolo di ciò che possono virtú e saggezza, Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti, e che sull'ampia distesa del mare, in cerca del ritorno per sé e per i suoi, subí travagli d'ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai marosi dell'avversa fortuna. Tu ricordi il canto delle Sirene e gli infusi di Circe: se mai, insieme ai suoi compagni, avesse ceduto alla voglia folle di berli, sfigurato e incosciente, sarebbe caduto in balia della volontà di una meretrice e avrebbe passato la vita come un cane randagio o un porco che sguazza nel fango. Noi non siamo che numero, nati per vivere da bruti, siamo noi i pretendenti di Penelope, quei fannulloni, noi la gioventú alla corte di Alcinoo, tutta occupata a curarsi la pelle, per cui è bene dormire sino a mezzogiorno e assopire gli affanni al suono della cetra. Per uccidere un uomo di notte si alzano i banditi: e tu, per salvare te stesso, non hai coraggio di svegliarti? Eppure se non vuoi correre sano, dovrai correre idropico per forza; e se prima dell'alba non chiedi un libro e la lucerna, e con l'animo tuo non t'impegni a meditare per agire bene, senza poter prendere sonno, sarai tormentato da odio e amore. Perché ti affretti a togliere quel granello che offende l'occhio, e per ciò che ti rode l'animo rimandi la cura di anno in anno? Chi bene incomincia è a metà dell'opera. Coraggio, cerca di essere saggio: incomincia. Chi rimanda l'ora della saggezza è il contadino in attesa che il fiume defluisca: ma il fiume scorre e scorrerà veloce per la notte dei tempi. Si cerca argento, e per i figli che verranno una moglie ricca di dote; col nostro aratro si dissodano le macchie incolte. Ma chi ha avuto in sorte quanto basta, 3, a Giulio Floro Vorrei proprio sapere, Giulio Floro, dove diavolo è finito l'esercito di Claudio, il figliastro di Augusto. Cosa vi trattiene? la Tracia, l'Ebro stretto in una morsa di ghiacci, le correnti tra i due fari d'Ellesponto? o le pianure fertili dell'Asia, le sue colline? Che opere ha in cantiere il nostro 'gruppo' di studiosi? Questo, vedi, mi preoccupa: chi si assume il compito di narrare le imprese di Augusto? di tramandarne nei secoli i fatti di guerra e di pace? E Tizio, ormai sulla bocca di tutti qui a Roma, Tizio che non ebbe timore di bere alla fonte di Pindaro disdegnando laghi e ruscelli aperti a tutti, Tizio come sta? si ricorda di noi? Si sforza ancora, con l'aiuto delle Muse, di rendere in poesia latina i ritmi di Tebe o come una furia gonfia la tragedia di parole? E il mio Celso che fa? L'ho ammonito, ma dovrò farlo ancora, perché attinga ai propri beni senza metter le mani sugli scritti raccolti nel tempio di Apollo al Palatino: se uno stormo di uccelli tornasse a reclamare le sue penne, susciterebbe il riso, come un stupida cornacchia spogliata d'ogni colore rubato. E tu, tu in cosa ti cimenti? su quali fiori si posa il tuo volo leggero? Non hai certo ingegno mediocre, privo di cultura o rozzo da far senso: che tu affili la lingua in tribunale, interpreti questioni giuridiche o scriva liriche preziose, otterrai in premio l'edera dei vincitori. Ma se potessi rinunciare al brivido eccitante del lavoro, andresti dove la sapienza divina conduce. Umili e potenti tutti dovremmo dedicarci a questa prassi, a questo studio, se vogliamo giovare alla patria, giovare a noi stessi. Ma prima devi scrivermi se Munazio ti sta a cuore quanto dovrebbe, o se l'amicizia mal ricucita stenta a rimarginarsi lacerandosi continuamente e l'inesperienza, il sangue caldo vi tormentano come puledri che mordono il freno. Dovunque vi troviate non spezzate l'affetto che vi lega: per il vostro ritorno allevo una giovenca in voto. 4, ad Albio Tibullo Albio, Albio, critico sereno delle mie satire, che fai a Pedio? Lasciami pensare: scrivi forse poesie da far dimenticare Cassio Parmense, o vai per boschi a ritemprarti silenzioso come uno smemorato che si perda a considerare voglio cominciare a bere, a spargere fiori, anche col rischio d'essere considerato un incosciente. Oh il vino, il vino: svela segreti, avvera desideri, spinge i vili a combattere, cancella il peso dell'angoscia, ispira le arti. Dimmi chi non rende loquace un bicchiere di vino, chi non libera dalla stretta del bisogno. Io, per quanto mi riguarda, m'impegno d'evitare ad ogni costo che la coperta del divano sia indecente, i tovaglioli sporchi da farti arricciare il naso, che bicchieri e piatti non ti facciano specchiare; e ancora che non ci sia fra amici veri chi riporti i nostri discorsi, e che ognuno abbia il compagno congeniale. Inviterò per te Butra e Setticio e, se un precedente invito o meglio una ragazza non lo trattiene, anche Sabino: vi sarebbe posto, è vero, per qualcun altro, ma quando si è troppo stretti l'afrore dei corpi rovina la compagnia. Allora tu fammi sapere in quanti sarete; poi lascia gli affari e alla faccia dei clienti in attesa fuggi dal retro. 6, a Numicio Non meravigliarsi di niente: questo è forse, Numicio, il solo, unico principio che possa rendere felici. C'è chi guarda il sole, le stelle e l'avvicendarsi delle stagioni, secondo i ritmi stabiliti, senza che timore alcuno lo turbi; che pensi? come guardarli i doni della terra (con che cuore, con quali gesti) e quelli del mare che fanno ricchi gl'indi e gli arabi ai confini del mondo, o il futile gioco di applausi e premi concessi dal favore popolare? Chi teme disgrazie da questi beni e chi al contrario li desidera, hanno lo stesso turbamento in cuore. Se un evento inatteso li colpisce in entrambi è il fastidio del terrore. Piacere e dolore, voglia e timore che valgono se, meglio o peggio della tua speranza, guardi ogni cosa con occhi sbarrati, impietrito nell'anima e nel corpo? Pazzo diremmo il saggio, iniquo il giusto, se varcassero il limite concesso, fosse pure della virtú. Ma guàrdati, guàrdati pure con occhi ammirati gli argenti, i marmi antichi, i bronzi e le opere d'arte, o le gemme e le porpore di Tiro; gioisci pure se mille occhi ti guardano quando tu parli; in realtà sollecito scendi al foro di buon mattino e torni a casa solo a sera, perché Muto non raccolga piú grano di te dai campi avuti in dote (una vergogna, visto che è nato da genitori oscuri), e perché vuoi essere tu oggetto della sua invidia, a garantirci la fortuna, compriamoci uno schiavo che ci ricordi i nomi e ci punga il fianco sinistro, quando è il caso di porgere la mano anche perdendo l'equilibrio: 'Questo è un notabile della tribú Velina e quello della Fabia; quest'altro darà i fasci a chi gli piace, e strapperà senza riguardi a chi vuole il seggio curule'. Ma non dimenticare gli appellativi di 'fratello' e 'padre': secondo l'età adotta per ognuno quello giusto. Se invece vive bene solo chi mangia bene, appena albeggia vattene dove ti porta la gola: a pesca, a caccia, come un tempo Gargilio, che al mattino attraversava il foro gremito di gente, con reti, spiedi e schiavi, perché la folla a sera lo vedesse tornare con uno dei suoi muli carico di un cinghiale comperato. E andiamocene al bagno prima di digerire, con lo stomaco gonfio, senza curarci delle convenienze, degni di figurare sulle tavolette di Cere, come i compagni corrotti di Ulisse, che ad Itaca, la propria patria, anteposero un piacere interdetto. Se infine, come ritiene Mimnermo, non c'è felicità senza le gioie dell'amore, abbandònati a queste. Stattene bene. Se hai idee migliori, sii sincero e fammene parte; diversamente goditi queste mie. 7, a Mecenate Ti avevo promesso di rimanere quattro o cinque giorni in campagna e, bugiardo che sono, è ormai tutto l'agosto che mi faccio desiderare. Eppure se tu, Mecenate, mi vuoi in forze e in buona salute, mi devi concedere venia, come quando sono ammalato, ora che io temo di diventarlo; finché almeno è il tempo dei fichi maturi, e l'afa aduna intorno ai cortei funebri i neri littori dell'impresario, finché i genitori in ansia palpitano per i loro ragazzi e lo zelo nel sbrigare i doveri e gli affari del foro recano febbri e fanno aprire testamenti. Quando l'inverno stenderà la neve sui colli albani, il tuo poeta scenderà al mare, starà in riguardo rannicchiato a leggere; solo coi primi zefiri e le rondini, se lo permetterai, verrà a trovarti, dolce amico mio. Tu molto mi hai donato, ma non come quell'ospite pugliese, che t'invita a mangiare pere. 'Mangia, ti prego.' 'Mi basta.' 'Ma prendine quante ne vuoi.' 'Grazie, no, grazie.' e non vi cresce molta erba; ti lascerò i tuoi doni, figlio di Atreo: sono piú adatti a te'. Il piccolo si addice ai piccoli; non fa per me la tua splendida Roma, ma la tranquilla Tivoli, la dolcissima Taranto. Si dice che Filippo, uomo energico e valoroso, avvocato di grido, un giorno che nel primo pomeriggio tornava dalle sue udienze, si lamentasse che troppo lontane dal foro, per la sua tarda età, si trovassero le Carene; quando nell'antro vuoto di un barbiere vide un tale che già rasato si puliva pigramente le unghie con un suo coltellino. 'Demetrio', dice allo schiavetto che capisce a volo i suoi ordini, 'va', chiedi e riferiscimi il casato di quell'uomo, il suo nome, la condizione, il nome di suo padre o del patrono.' Demetrio va, torna e racconta: nome Volteio Mena, banditore; condizione modesta; incensurato; conosciuto come uno che sa guadagnare e godere, affrettarsi e smettere a tempo debito; felice in fondo, con amici alla buona, una casa propria, i divertimenti, e, sbrigati gli affari, il Campo Marzio. 'Mi piacerebbe saperle da lui queste notizie: digli che venga a pranzo.' In verità Mena non ci vuol credere, si meraviglia, tace. Basta. Alla fine: 'Mi spiace', risponde. 'Come? mi dice no?' 'Te lo dice, e senza riguardi: o non ti considera o si vergogna.' Il mattino seguente Filippo sorprende Volteio che vendeva a dei poveracci in tunica stracci vecchi, e lo saluta per primo. Quello si scusa per non avergli reso omaggio a casa quel mattino, incolpando la stanchezza, gli impegni del mestiere, e in piú di non averlo visto subito. 'Considerati perdonato solo se oggi pranzerai da me.' 'Come ti piace.' 'Dunque verrai dopo le tre. Ora va', forza, vedi di arricchirti.' Viene l'ora di pranzo e quello parla di lecito e illecito, finché lo si congeda per la siesta. Ormai cliente di mattino e commensale fisso, come un pesce che corre all'amo occulto, un giorno, alle feste latine, Filippo l'invita ad accompagnarlo in una sua campagna fuori porta. Adagiato in carrozza, non smette di elogiare il paesaggio e il cielo di Sabina. Filippo lo guarda e sorride; e poiché era uomo che traeva svago e fonte di riso da ogni cosa, gli regala settemila sesterzi e altrettanti glieli promette a prestito, convincendolo a comprarsi un podere. L'acquista. E per non trattenerti con eccessivi giri di parole, da cittadino tutto lindo si muta in contadino, non chiacchiera che di solchi e vigneti, sistema filari di olmi, a Roma desidero Tivoli, a Tivoli Roma. Ma chiedigli come sta, come se la cava col lavoro, la vita, se va d'accordo col giovane Nerone e il suo seguito. Nel caso ti risponda 'bene', rallégrati con lui, ma sussurragli in un orecchio questo avvertimento: 'Attento alla fortuna, Celso, io mi comporterò con te come tu con lei'. 9, a Tiberio Claudio Nerone Evidentemente, Claudio mio, Settimio intuisce meglio di chiunque quanto tu mi stimi, se con tanta insistenza mi chiede di fare le sue lodi e naturalmente di raccomandarlo a te, Nerone, come persona degna della tua casa, dello scrupolo che hai per l'onestà; e se pensa che io possa riuscirvi per forza d'amicizia, valuta il mio potere meglio di me stesso. Ho cercato in tutti i modi, è vero, una scusa per cavarmela, ma poi temendo di passare per un falso ingenuo che sminuisce a suo esclusivo vantaggio il peso della propria condizione, mi sono ridotto, per evitare la vergogna d'una colpa piú grave, a questo ruolo di sfrontato. Ora se tu consenti che si abbandoni ogni ritegno per l'insistenza di un amico, accoglilo fra i tuoi: credimi, è uomo d'onore. 10, ad Aristio Fusco Tu che adori la città abbiti un abbraccio, Fusco, da chi adora la campagna; diversissimi solo in questo, siamo per il resto quasi anime gemelle: no è no per entrambi, il sí un cenno a due, vecchi colombacci in amore. Resta pure nel tuo nido, mentre io lodo l'incanto della mia campagna coi suoi ruscelli, i boschi e le rocce velate di muschio. Che vuoi, vivo come un re appena lascio le cose che con lodi sperticate voi portate alle stelle; e come uno schiavo, che fugge dal proprio sacerdote, rifiuto le focacce, mi accontento del pane, che ora preferisco anche a una torta di miele. Ma se ritieni giusto vivere secondo natura e se per costruirsi una casa è necessario anzitutto scegliersi il terreno, conosci forse un luogo, per la felicità che procura, piú adatto della campagna? Dove, dimmi dove l'inverno è piú dolce e brezza piú gradevole mitiga la rabbia della canicola, l'incombere del Leone, quando avvampa di furore per l'assillo del sole? Dove meno l'invidia turba il tuo sonno? troppo stretta ti piaga. Vivi da saggio, Aristio mio, lieto della tua sorte, e non lesinarmi rimproveri se credi che io accumuli, senza riposo, piú del necessario. Il troppo denaro è servo e padrone: dovrebbe seguire le redini, non impugnarle. Ti ho scritto questa lettera dietro il tempio cadente di Vacuna, lieto di tutto, se togli di non averti con me. 11, a Bullazio Allora, Bullazio, che ne pensi di Chio, della tanto decantata Lesbo, dell'eleganza di Samo, della reggia di Creso a Sardi, e di Colofone, di Smirne? meglio o peggio della loro fama? Nessuna, proprio, che valga Tevere e Campo Marzio? o t'ha rapito il cuore una città di Attalo, e ti entusiasmi di Lèbedo nauseato di viaggi e crociere? Sai Lèbedo com'è: un villaggio piú deserto di Gabi e Fidene; ma io lí vorrei vivere, dimenticando i miei, dimenticato da loro, e da riva guardare lontano il mare in burrasca. Certo nessuno si propone, fradicio di pioggia e fango da Capua verso Roma, di passare la vita in una bettola; nessuno, intirizzito dal freddo, ritiene il calore delle terme il culmine della felicità terrena; neppure tu, se la violenza del vento t'avesse travolto in mezzo al mare, venderesti la nave, raggiunta la riva. Sano e salvo, la bellezza di Rodi e di Mitilene ti serve come d'estate un mantello o un perizoma quando tira aria di neve, un bagno nel Tevere d'inverno o un braciere nel mese d'agosto. Finché è possibile e la fortuna ti sorride, Samo, Chio e Rodi è bene lodarle da lontano, a Roma. Qualunque ora lieta ti concedano gli dei prendila con riconoscenza, non rimandarne di anno in anno le gioie, e si possa dire che in ogni situazione sei vissuto volentieri. Se la logica della saggezza, e non i luoghi che dominano la distesa del mare, allontana gli affanni, chi solca il mare muta cielo, non natura. Un'inquietudine impotente ci tormenta e andiamo per acque e terre inseguendo la felicità. Ma ciò che insegui è qui, a Úlubre, se non ti manca la ragione. 12, a Iccio Se con giudizio sai goderti, Iccio, i frutti delle rendite di Agrippa che amministri in Sicilia, non esiste ricchezza maggiore che possa donarti Giove. Smettila dunque coi lamenti: povero non è chi ha a sufficienza per vivere. Se respiri, digerisci e cammini bene non c'è tesoro al mondo che possa darti di piú. Se poi, senza toccare i cibi che hai davanti, vivi d'erbe e di ortiche, continueresti a vivere cosí come una malabestia dove sei incaricato di portarle: il cognome della tua gente, Asina, susciterebbe il riso esponendoti alla berlina. Usa dunque le tue forze per valicare colline, fiumi e paludi e quando, superata l'impresa, giungerai alla meta, cerca di non portare sotto l'ascella il pacchetto di libri che custodisci, come il contadino porta l'agnello, quell'ubriacona di Pirria il gomitolo di lana rubato, o come un poveraccio a cena i sandali e il berretto. E non spiattellare a tutti d'aver sudato come un dannato per portare poesie che potrebbero fermare l'attenzione di Cesare. Ora dopo tutte queste preghiere continua pure il tuo cammino. Va' e stattene bene; ma attenzione: non incespicare mandando in mille pezzi ciò che t'ho affidato. 14, al fattore Discutiamo, fattore del mio bosco e del mio campo, che mi restituiscono a me stesso e tu detesti, perché vi sono pochi focolari e solo qualche padre di famiglia che scende a Varia per mercato; discutiamo se piú bravo sei tu a togliere queste spine dai campi o io dal cuore, e se piú vale Orazio o i suoi averi. A Roma, vedi, mi trattengono l'inquietudine e l'affetto per Lamia, che piange suo fratello, il fratello, che disperatamente lamenta ormai perduto; ma la mente e l'animo mio corrono continuamente lassú e vorrebbero rompere le sbarre che ne impediscono la vista. Beato chi vive in campagna, dico io, e tu, chi vive in città: se di altri preferisci la sorte è chiaro che odi la tua. Ma abbiamo torto entrambi attribuendo ingiuste colpe al luogo, che non ne ha: nella mente è l'errore, che mai sfugge a sé stessa. Quand'eri garzone in città in segreto aspiravi alla campagna, ora che sei fattore t'incanta la città, i suoi divertimenti, le sue terme; io sono, come sai, piú coerente e quando maledetti affari mi trascinano a Roma, me ne vado da lí con gran tristezza. Apprezziamo cose diverse: fra me e te questa è la differenza; quella che credi una landa deserta e inospitale, chi pensa come me la chiama amena, e invece odia tutte quelle cose che belle tu ritieni. Vedo bene cosa ti manca della città: casini e taverne fumose; il fatto è che quel mio angolo di terra produrrà prima pepe e incenso dell'uva, e lí vicino non vi è bettola che mesca vino (vedi, Antonio Musa ritiene che per me Baia sia inefficace, e me la sta inimicando, ora che faccio bagni gelidi nel cuore dell'inverno. Non a torto quel borgo si lamenta che siano disertati i suoi mirteti e trascurate le sue acque, che per le qualità sulfuree hanno fama di estirpare dai muscoli i reumi piú ostinati, e guarda storto gli ammalati che s'arrischiano a sottoporre capo e stomaco alle fonti di Chiusi o vanno a Gabi nelle sue gelide campagne. Devo cambiare meta e spingere il cavallo ben oltre le locande abituali. 'Dove diavolo vai? né a Cuma, né a Baia sono diretto', dirà irritato il cavaliere, tirando a sinistra le redini: sai, nel morso è l'orecchio del cavallo); dove c'è piú abbondanza di frumento, se vi si beve acqua di cisterna o acqua sorgiva di fonti perenni (per il vino della riviera lascia che scelga io: in campagna, da me, posso sopportare qualsiasi vino con un po' di rassegnazione, ma quando sono al mare esigo quello generoso, amabile, che mi liberi dai pensieri, mi scorra nelle vene e nel cuore ricolmo di speranze, che mi sciolga la lingua e come un giovane mi conceda alle grazie di qualche amichetta lucana); di quei luoghi quale è piú ricco di lepri e quale di cinghiali, quale tratto di mare nasconde piú pesci e piú ricci, perché io possa tornarmene a casa bello grasso come un feace: questo, tutto questo dovresti scrivermi, io, stai certo, ti crederò. Quando da 'valoroso' ebbe scialate le sostanze di entrambi i genitori, Menio iniziò la sua carriera di impudente giullare, un vagabondo senza greppia fissa che non sa distinguere a pancia vuota l'amico dal nemico, spietato nel lanciare accuse a tutti; rovina, flagello e voragine d'ogni mercato, dava al suo ventre senza fondo tutto ciò che raggranellava. E se poco o niente scroccava agli entusiasti o ai timorosi della sua malizia, costui si mangiava piatti di trippa o di castrato a buon mercato, che avrebbero saziato anche tre orsi; forse per poter dire, rispolverando Bestio, che si dovrebbero marchiare a fuoco tutte le pance dei gaudenti. Ma se s'imbatteva in preda piú grassa, dopo averla ridotta in polvere: 'Diavolo, capisco', diceva, 'chi si fa fuori tutti i suoi averi: niente è meglio di un tordo ben nutrito, niente piú bello di una vulva di pregio'. E anch'io son fatto cosí: quando mi mancano i quattrini lodo la vita modesta e tranquilla, con il coraggio sufficiente per sopportare l'indigenza; ma quando sono in grado Se parlando di guerre combattute da te per terra e mare, ti carezzassero le orecchie attente queste parole: 'Non permetta mai Giove, protettore tuo e della città, che si sappia se piú preziosa è la vita del tuo popolo per te o per il popolo la tua', tu riconosceresti subito l'apologia di Augusto; ma quando lasci che ti chiamino saggio e senza difetti, dimmi la verità, non pensi forse che si parli di te? 'Il fatto è che piace a tutti, a me come a te, esser detti buoni e prudenti.' Ma chi dà oggi, domani, se vuole, può toglierlo, come si tolgono i fasci conferiti ad un indegno. 'Lascia, è roba mia', mi dicono: lascio e mi allontano avvilito. Se poi mi chiamassero ladro e dicessero che non ho pudore, sostenendo che ho impiccato mio padre, dovrei sentirmi offeso da quelle false accuse e impallidire? Solo chi ha troppe colpe ed è da risanare, ama elogi non meritati e teme l'infamia di una menzogna. Un uomo buono? 'Chi rispetta i decreti del senato, le leggi e i diritti civili, chi come giudice compone i nostri continui, grandi dissensi, garante degli averi altrui e testimone nelle nostre liti.' Ma tutta la sua gente, tutti i vicini lo vedono bene: ignobile dentro e splendido fuori per la bellezza della pelle. Se uno schiavo mi dice: 'Non ho rubato, non sono fuggito', 'Ne hai il compenso', rispondo, 'non ti bruciano le nerbate'. 'Non ho ucciso...' 'Non sarai crocifisso in pasto ai corvi.' 'Sono buono e frugale...' Da buon sabino io nego e continuo a negare. Cauto come il lupo scansi la fossa, come lo sparviero i lacci sospetti e il pesce rondine l'amo nascosto. I buoni odiano il peccato per amore della virtú; tu per paura della pena ti astieni dai delitti, ma quando speri di evitarla confonderai sacro e profano. Se rubi un solo moggio fra i mille delle fave, certo è piú lieve il danno, ma non la colpa. Quel 'galantuomo' che foro e tribunale ammirano, quando con voce chiara invoca, sacrificando vittime agli dei, il nome di Giano e di Apollo, per non essere udito a fior di labbra mormora: 'Laverna bella, concedimi di farla franca, cosí che giusto mi credano e santo, stendi le tenebre sui miei peccati e la nebbia sulle mie frodi'. Non vedo come possa essere migliore e piú libero di uno schiavo l'avaro che si getta a terra per raccattare un soldo in un incrocio: l'avido è un timoroso e chi vive nel timore, per me, sapesse stare con i re, avrebbe nausea dei legumi.' Dimmi di chi approvi le parole, la condotta o, meglio, ascolta perché, visto che sei piú giovane, è migliore il parere di Aristippo. Lui, dicono che ribattesse al veleno del cinico: 'Tu sei il giullare della gente, io lo sono per me; ed è piú giusto, piú corretto. Io presto i miei servigi per avere un cavallo che mi porti e un re che mi mantenga; tu mendichi elemosine e sei piú vile di chi dà, anche se vai dicendo di non aver bisogno di nessuno'. Ogni stile, condizione e sostanza si addicevano ad Aristippo, che pur mirando a una vita migliore sapeva giostrarsi in quella presente. Mi stupirebbe invece che sapesse mutare vita l'altro, che copre con un saio a doppio giro la propria tolleranza. Il primo non attenderà un mantello di porpora e con qualunque veste addosso passeggerà in centro fra la gente, sostenendo con eleganza la parte di entrambi, ricco o pezzente; l'altro invece eviterà piú di un cane o di una serpe una clanide tessuta a Mileto, e morirà di freddo se non gli rendi il proprio saio. Ridaglielo, ridaglielo e lascialo vivere, questo sciocco. Compiere imprese epiche e mostrare in trionfo ai cittadini i nemici presi in ostaggio, avvicina al trono di Giove e fa toccare il cielo: incontrare il favore dei potenti non è l'ultima delle glorie. 'Non tocca a tutti arrivare a Corinto.' Chi teme l'insuccesso non si muove: lo capisco; ma chi ci arriva non si è forse comportato da uomo? Questo è il problema o non esiste in sé. V'è chi rifugge da un fardello troppo pesante per il coraggio e il suo corpo, cosí meschini; v'è chi l'affronta e lo sopporta. O il valore è parola senza senso o l'uomo che lo persegue a ragione ne chiede ricompensa. Chi davanti al proprio re tace della sua povertà, molto di piú otterrà di chi chiede: non è certo la stessa cosa strappare o prendere con discrezione. Questo è il punto, la ragione di tutto. 'Una sorella senza dote, una madre indigente, un fondo che nessuno vuol comprare e che non basta a sostenermi': è come se implorasse: 'Datemi da mangiare'. 'Anche a me, anche a me', fa eco un altro. E in due sarà divisa la pagnotta. Se il corvo mangiasse in silenzio, avrebbe cibo piú abbondante e meno risse, meno invidie. Cosí chi, invitato in compagnia a Brindisi o alla splendida Sorrento, si lagna dell'asprezza della strada, del freddo penetrante e della pioggia, e piange per la valigia sfondata, per le borse sparite, ripete le solite astuzie della donnina Un'altra vita non sarebbe compenso sufficiente'. Ma sai di che si tratta? se sia di Castore migliore Docile o viceversa, se per andare a Brindisi sia meglio prendere la via Minucia o l'Appia. Se un delirio d'amore, il vortice del gioco ti spogliano di tutto, e la vanità ti spinge a vestirti, a profumarti oltre ciò che puoi, se ti possiede l'avidità sfacciata del denaro e la vergogna o lo spavento della povertà, l'amico ricco, che magari ha ben altri vizi, sente avversione e disgusto di te, e quando non sente disgusto, pretende di redimerti, come madre affettuosa che ti voglia piú saggio e virtuoso di sé, e forse non parla a sproposito: 'Le mie ricchezze (non far paragoni) permettono pazzie; le tue sono modeste: toga stretta si addice a cliente assennato; smettila di misurarti con me'. Eutràpelo, se voleva rovinare qualcuno, gli regalava vestiti preziosi: con le belle tuniche il fortunato avrebbe assunto mentalità nuova, nuove speranze, dormito sino a giorno, trascurato i doveri per l'amante, e si sarebbe riempito di debiti, finendo gladiatore o per condurre a pagamento il cavallo di un ortolano. Vedi di non sondare mai i segreti del tuo signore, e serba per te le sue confidenze, anche se il vino o l'ira ti spingono a parlare; non vantare i tuoi gusti e non biasimare quelli degli altri; e infine non comporre versi quando lui desidera andare a caccia. Cosí si ruppe l'armonia dei due gemelli Anfione e Zeto e tacere dové la lira del poeta, ambigua per il fratello severo. Si arrese dunque Anfione alla volontà del fratello: arrenditi anche tu agli inviti cortesi dell'amico potente, e quando va in campagna con le giumente cariche di reti e la muta dei cani, alzati e lascia la senilità della scontrosa poesia, guadàgnati il pranzo col tuo sudore, come fa lui del resto. La caccia è attività virile, che si addice ai romani, e giova ai muscoli, alla salute e alla tua fama, soprattutto se, come te, si gode dell'energia che basta per correre meglio dei cani, per battersi con i cinghiali. E poi non c'è nessuno che maneggi le armi con destrezza maggiore: tu sai con quali applausi sostieni gli scontri nel Campo Marzio. Hai persino prestato, e difenderlo come lui si attende: quando il dente della calunnia lo rode tutto intorno, come non rendersi conto che in breve anche per te la vita si farà pericolosa? Se brucia il muro di confine, sta' certo, la faccenda ti riguarda: l'incendio trascurato può anche divampare. Il favore di un amico potente lusinga l'inesperto; chi ne ha esperienza lo teme. Se la tua nave corre in alto mare, guàrdati che non muti il vento e ti riporti indietro. La gente triste odia quella allegra, quell'allegra la triste, l'attiva quella calma e quella pigra l'agile e dinamica; i grandi bevitori di falerno, che tracannano sino a tarda notte, non ammettono rifiuti neppure se giuri che i fumi di quel vino in piú rischiano di comprometterti il sonno. E non rannuvolare la tua fronte: a volte la riservatezza può sembrare misantropia e il silenzio scontrosità. Ma nel frattempo, leggi, interroga i sapienti: come tu possa in pace trascorrere la vita; se ti debba sempre agitare, col suo tormento, una passione insanabile o la speranza incredula delle piccole vanità mondane; se la virtú è frutto del sapere o dono di natura; e come alleviare l'angoscia, cosa ti riconcigli con te stesso; quale il germe della serenità: l'onore, i piccoli e piacevoli profitti, o una via misteriosa, un sentiero segreto della vita... E io, quando le fresche acque del Digenza che bagnano Mandela, un villaggio intirizzito dal gelo, mi rimettono in forze, cosa credi che senta, cosa pensi che chieda, amico mio? 'Di avere sempre quello che oggi ho, e anche meno; di vivere per me il tempo che rimane, se vogliono gli dei che un po' me ne rimanga; di avere libri in quantità e provviste di grano per l'annata, perché non debba oscillare sospeso nel dubbio del domani.' Basta pregare Giove per quello che dare e togliere può: la vita e i mezzi della vita; a rendermi sereno l'animo provvederò io stesso. 19, a Mecenate Tu lo conosci, Mecenate: a dargli retta, e sono secoli, nessuna poesia che nasca da una sbornia d'acqua dovrebbe per Cratino aver successo, vivere a lungo. Da quando Bacco a Fauni e Satiri associò quei matti dei poeti, sin dall'alba le Muse con accuse infamanti. E Alceo, prima ignoto alle cadenze della nostra lingua, l'ho divulgato io, io lirico latino. Se pubblichi cose novissime, dovresti essere sfogliato e letto da persone stimabili. Tu vuoi capire allora l'ingratitudine di quel lettore che in casa loda e ama i miei libretti e fuori a collo torto li denigra. Vedi, io non vado a caccia di voti tra quei voltagabbana dei plebei, offrendo qualche pranzo e donando vesti da quattro soldi; né mi agito sulla scena delle varie tribú di letterati e critici, per ascoltare gli scrittori in voga e propinargli poi le cose mie: di qui tutti i distinguo. Se dico 'Non recito i miei versi in pubblico, perché li ritengo senza merito e mi vergogno di dare importanza a cose che non l'hanno', mi si risponde 'Tu scherzi: le cose tue le conservi per le orecchie di Giove, perché nella tua vanità ti lusinghi d'essere il solo a stillare miele di poesia'. A questo punto mi verrebbe voglia di arricciare il naso, ma per timore di essere graffiato dalle unghie taglienti del rivale: 'Questo non è terreno mio', grido e chiedo tregua. Tu lo sai, dal gioco nascono dispute e ira, dall'ira inimicizie orribili e guerra solcata di lutti. 20, al libro Ho l'impressione, libro mio, che tu sia incantato da Vertunno e Giano, s'intende bene per far mostra di te tirato a lucido dai fratelli Sosio. Ormai detesti chiavi e sigilli cosí congeniali alla modestia, ti lamenti d'esser poco conosciuto e ritieni giusto venderti a tutti: non t'avevo educato a questo. Va' pure a sputtanarti dove vuoi, ma una volta fuori, non illuderti di tornare. 'All'inferno quel che ho fatto e preteso', dirai, al trauma della prima offesa, e sappi che finirai in un angolo quando la noia avrà sfinito chi ti ama. Se non sono profeta di sventura per risentimento verso il colpevole, sarai di moda a Roma finché non t'abbandona giovinezza; ma quando, passato di mano in mano, comincerai a gualcirti, queste le probabilità: venir roso stupidamente dalle tarme in un silenzio di tomba, rifugiarti a Útica o in catene esser relegato a Ilerda. E allora riderà chi t'ammoniva senza successo, come il contadino che, persa la testa, spinse nel baratro lui stesso l'asino recalcitrante: nessuno si prende la pena di salvare qualcuno a suo dispetto. Ma non basta: può accadere che la vecchiaia ti colga balbuziente ad insegnare nei sobborghi l'alfabeto ai ragazzini. Quando l'attenuarsi del sole avrà riunito intorno a te un certo numero di ascoltatori, lontano nello spazio e compiuto nel tempo, tutto l'infastidisce e tutto odia; ammira insomma a tal punto gli antichi da sostenere che le tavole morali sancite dai decemviri, i trattati sottoscritti dai re con i gabi e con gli austeri sabini, i libri dei pontefici o i vetusti rotoli delle profezie furono sul monte Albano dettati dalle Muse. Ora, se è vero che le opere piú antiche degli scrittori greci sono anche le migliori e applicassimo lo stesso criterio per giudicare quelle dei romani, non varrebbe certo la pena di sprecare altre parole; sarebbe come dire: non è la parte dura dell'oliva dentro, né quella della noce fuori; o ancora: siamo giunti all'apice della condizione, si dipinge, suona e si lotta con piú maestria dei greci, lucidi d'olio. Se il tempo, come il vino, migliora la poesia, vorrei sapere quanti anni procurano valore a un'opera. Uno scrittore, defunto cent'anni fa, deve annoverarsi tra gli antichi e perfetti o tra quelli moderni e senza pregio? Un'idea deve pur dirimere la questione. 'Lo scrittore, morto ormai da cent'anni, è certamente antico e collaudato.' Come? e quello a cui manca un mese o un anno dalla morte dove lo collochiamo? fra gli antichi o fra i poeti che il nostro tempo e quello a venire rifiutano? 'Ma fra gli antichi, è naturale, e con onore, si porrà il poeta a cui manca quel mesetto o un intero anno.' E io approfitto della concessione per strappare, diciamo, a quella coda di cavallo prima un crine, poi un altro, finché, col beffardo argomento di un intero che si riduce a zero, stendo il mio interlocutore, che si rifà sempre al passato, misura il merito dagli anni e non ammira che le cose già consacrate dalla morte. Ennio, l'energico e sapiente Ennio, come dicono i critici, il secondo Omero, non si preoccupa certo se avranno séguito le promesse del suo pitagorico sogno. E Nevio non passa forse di mano in mano, non si fissa in mente quasi fosse un moderno? Tanta è la sacralità della poesia antica. Quando poi nascono questioni di priorità, si definiscono Pacuvio 'il gran vecchio erudito', Accio 'il sublime', Afranio 'togato, ma con il gusto di Menandro', Plauto 'estroso come il suo modello, Epicarmo siculo', Cecilio 'il piú profondo', Terenzio 'il piú fine'. Questi i poeti che s'imparano a memoria nella potente Roma, che si applaudono nei suoi teatri colmi di folla. Questi i suoi classici, dal tempo in cui scriveva Livio sino ai giorni nostri. Qualche volta il pubblico vede giusto; ma può anche sbagliare. Quando ammira ed esalta gli antichi poeti sino a preferirli, escludendo ogni confronto, a chiunque altro, ha torto. Quando invece riconosce che in loro si trovano espressioni troppo arcaiche, spessissimo dure, e ammette che molte sono fiacche, mostra buon gusto, s'intende con me e giudica in grazia di Dio. Non che io denigri l'opera di Livio e ritenga che si debba distruggerla (ricordo come, da ragazzo, Orbilio me la dettasse a suon di frusta), ma che la si consideri per la purezza dello stile bella poesia e vicinissima alla perfezione, questo, confesso, mi stupisce. suggerire ai giovani come accrescere gli averi e mitigare il danno delle voglie. Poi d'un tratto i gusti del popolo mutarono e ora non ha altra passione che quella di scrivere: giovani e padri austeri, cinta la fronte d'alloro, a fine pranzo recitano carmi. Io stesso che assicuro di non scrivere piú versi, mostrandomi piú bugiardo dei parti, all'erta già prima che spunti il sole, chiedo carta, penna e scrigno dei manoscritti. Chi non s'intende di navi si guarda dal guidarle, solo chi è esperto ordina l'abròtano al malato, la medicina l'esercita il medico, l'artigianato è in mano all'artigiano; noi tutti invece, senza distinzione, dotati o no, scriviamo poesie. È un'illusione, una follia da poco, ma tu guarda le virtú che possiede: difficilmente il poeta ha l'avidità in cuore; ama i versi e non ha altre passioni; non fa conto di perdite economiche, di schiavi che spariscono, di incendi; non cerca di ingannare il socio o il suo pupillo; vive di legumi e di pane nero; è un soldato pigro, di pochi meriti, ma se acconsenti che le cose piccole giovino alle grandi, è utile alla patria: il poeta modella il labbro tenero ed esitante del fanciullo, e fin dai primi anni ne distoglie l'orecchio dai discorsi osceni, gli educa l'animo con parole amiche, lo sana dall'invidia, dalla durezza e dall'ira, gli suggerisce buone azioni, plasma la sua natura in boccio con esempi famosi; consola il povero e l'afflitto. E da chi mai la fanciulla ignara d'amore e i suoi puri compagni imparerebbero a pregare, se le Muse non ispirassero i poeti? Il loro coro, chiedendo aiuto agli dei, ne avverte la presenza, e con in mente la preghiera implora dolcemente dal cielo la pioggia, allontana le malattie, sconfigge la paura dei pericoli, impetra la pace e l'annata ricca di raccolti: in cielo e fra i morti gli dei si placano col canto. Nell'antichità, forti e felici di niente, i contadini, dopo la raccolta del frumento, riposavano nei giorni di festa il corpo e con questo lo spirito, che nella speranza dell'esito migliore l'aveva sostenuto. Con i compagni di lavoro, con i figli e la sposa fedele offrivano in sacrificio alla Terra il porco, a Silvano il latte e al Nume tutelare, che ci rammenta quanto sia breve la vita, il vino e i fiori. Da queste usanze ebbero origine i licenziosi fescennini, che verso contro verso lanciavano ingiurie sul mondo contadino, e trovando fortuna, di anno in anno la loro libertà divertí col suo garbo, finché lo scherzo, svelando malizia, prese a mutarsi in rabbia velenosa e invase impunemente minaccioso la casa di gente onorata. Mordeva a sangue e gli offesi si lamentarono; ma anche chi non fu colpito si preoccupò di un pericolo che era di tutti. Una legge allora, comminando la pena, vietò che la maldicenza di quella poesia condannasse qualcuno alla berlina. E i fescennini cambiarono tono: per paura del bastone si ridussero a divertire senza offendere. La Grecia conquistata conquistò il suo fiero vincitore introducendo le arti nel Lazio contadino: cosí si estinse il selvaggio ritmo saturnio e l'eleganza bandí la sua fastidiosa rozzezza. Tuttavia tracce rusticane a vedere come l'incrocio inconsueto di pantera e cammello o un elefante bianco attirino gli sguardi della folla; e osserverebbe piú attentamente la gente che la scena, perché lo spettacolo che offre è senza alcun dubbio piú interessante, e penserebbe che gli autori raccontano la favola all'asino sordo. C'è mai voce che possa vincere il frastuono che sale dai nostri teatri? Sembra l'urlo dei boschi del Gargano o del mare Tirreno, tanto è lo strepito con cui si assiste agli spettacoli, alla loro scenografia, allo sfarzo esotico dei costumi, di cui l'attore è paludato quando appare in scena: e scrosciano gli applausi. 'Ha cominciato?' 'Non ancora.' 'E che cosa si applaude?' 'Ma la lana, che con la tintura di Taranto ti rammenta il colore delle viole.' E perché non si creda che troppo sia avaro di lodi per un'arte che al contrario di altri bravissimi, io non pratico, dirò: il poeta, che con i suoi fantasmi sconvolge il mio cuore, lo eccita, lo placa e lo riempie di mitico terrore, mi sembra un funambolo sulla fune tesa e come un mago mi trasporta ora a Tebe, ora ad Atene. Ma tu, se vuoi che si riempia di libri il tempio eretto in onore di Apollo e che i poeti abbiano da te sprone a salire il verde Elicona con piú cuore, accorda un po' d'attenzione anche a quelli che scelgono di affidarsi a un lettore piuttosto che subire i capricci arroganti degli spettatori. Certo i poeti si fanno spesso male con le loro mani (mi taglio da me la mia vigna): ti offriamo un libro quando sei preoccupato o stanco, ci offendiamo se un amico osa censurarci un verso, leggiamo passi già letti senza esserne richiesti; ci lagnamo che le nostre fatiche, il tessuto finissimo dell'opera, non trovino la loro giusta luce; pensiamo, questo è il punto, che non appena tu sappia che componiamo versi, sia quasi tuo dovere invitarci spontaneamente, per impedire che noi si viva in miseria e costringerci a scrivere. Val la pena tuttavia di sapere che sacerdoti debba avere il merito, che ti si riconosce in guerra e in pace e che non può essere affidato a un poeta indegno. Ad Alessandro il Grande piacque un Chèrilo, che per i suoi versi rozzi e incivili fu compensato con filippi d'oro, la moneta del re. Ma come le mani sporche d'inchiostro lasciano segni e macchie, un cattivo scrittore offusca coi suoi versi le grandi imprese. E quello stesso re, disposto a comperare a peso d'oro un poema cosí ridicolo, vietò con un editto a tutti di ritrarlo, escluso Apelle, e di raffigurare nel bronzo il suo volto, fuorché a Lisippo. Gusto certamente fine per le arti visive, ma se gli avessi chiesto di applicarlo alla scrittura, a questo dono delle Muse, lo giureresti nato nell'aria grossolana di Beozia. Ma fanno onore al tuo giudizio su di loro e ai favori di cui godettero con merito del donatore, i poeti che hai amato, Virgilio e Vario; e l'opera del poeta rivela il cuore e il carattere degli uomini illustri non certo meno che le statue in bronzo ne ricordino il volto. era atterrito dalla frusta appesa al muro'. Ora, se non avendo remore, salvo la fuga, tu lo pagassi, quello intascherebbe i soldi al riparo da ogni rivalsa, io credo: i patti erano chiari, conoscevi i difetti di ciò che compravi, e tu non gli faresti certo il torto d'implicarlo in una causa infondata, no? Anch'io ti dissi, il giorno della tua partenza, che sono pigro; ti dissi che sono quasi negato per simili doveri, perché non mi rimproverassi con severità se io non avessi risposto alle tue lettere. A che è servito, se malgrado tutto tu non riconosci il mio buon diritto? E in piú protesti perché, mancando di parola, non ti mando quei versi che attendevi. Un soldato di Lucullo, una notte, mentre russava di stanchezza, perdette, sino all'ultimo centesimo, il gruzzolo raccolto in mezzo a tanti stenti; come un lupo furioso allora, in collera con sé e col nemico insieme, esasperato per i morsi della fame, cacciò, si dice, un presidio del re da un luogo munitissimo e ben fornito di scorte. Reso famoso dall'impresa, venne insignito di ricompense al valore e ricevette in piú ventimila sesterzi. In quel lasso di tempo capitò che il generale, volendo espugnare non so quale fortezza, si mettesse ad esortare il soldato con parole che avrebbero infuso coraggio anche al piú timido: 'Va', o valoroso, ascolta il tuo cuore, va' con buona fortuna per ricevere dei tuoi meriti solenne ricompensa. Che aspetti dunque?' Ma anche se contadino, quello che era scaltro, gli rispose: 'Laggiú dove vuoi tu, laggiú ci andrà chi ha perduto i quattrini'. A Roma volle il caso che fossi educato e imparassi quanto l'ira di Achille fosse stata funesta ai greci. Poi la mia cara Atene mi scaltrí quel tanto in piú perché io avessi la voglia di distinguere la dritta via da quella storpia e di cercare verità nei boschi di Academo. Ma tempi duri mi strapparono da quel paese amato e la furia della guerra civile mi spinse per inesperienza fra le armi che non erano in grado di reggere il braccio di Cesare. Quando poi Filippi mi congedò avvilito, con le ali tarpate, privato del focolare e del podere paterno, l'arma della povertà mi spinse a scrivere versi. Ma oggi che non mi manca da vivere, quanta cicuta occorrerebbe per guarirmi, se ai versi non preferissi un buon sonno? Ogni anno che passa porta via qualcosa; mi hanno rubato l'allegria, l'amore, il gusto della tavola e del gioco; e tentano di strapparmi la poesia: che debbo fare? Non tutti poi amano e stimano le stesse cose: tu godi delle liriche, un altro trova piacere nei giambi, un terzo nel sale pungente che, come in Bione, hanno le satire. Mi sembrate tre convitati dai gusti diversi, che chiedono in disaccordo fra loro le pietanze piú disparate: che cosa servire, che cosa no? ciò che tu rifiuti, lo vuole un altro; e ciò che tu desideri è proprio ciò che è sgradito e indigesto agli altri due. Ma a parte tutto, credi veramente che io possa scrivere versi a Roma in mezzo a tanti pensieri, a tanti disagi?