Scarica Paniere domande a risposta aperta Diritto del Lavoro prof. Mormile Paolo Ecampus e più Panieri in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! Domande a risposta aperta 1) Partizioni della materia. La materia del diritto del lavoro è suscettibile di varie e innumerevoli partizioni, ma la più comune tra queste suole suddividerla in: diritto sindacale, diritto del rapporto di lavoro, diritto alla previdenza sociale e diritto processuale del lavoro. Per quanto concerne il diritto sindacale, è stato istituito con l’intento di tutelare gli interessi delle categorie dei lavoratori e dei datori di lavoro. Esso si occupa, in particolare, della struttura e del funzionamento delle organizzazioni sindacali nazionali e locali, dei lavoratori e degli imprenditori, nonché dell’efficacia oggettiva e soggettiva della contrattazione collettiva corporativa e di diritto comune; studia i vari mezzi di lotta sindacale, come lo sciopero e la serrata, analizzando in maniera particolare il titolo III dello Statuto dei lavoratori in materia della cosiddetta legislazione di sostegno all’interno dei luoghi di lavoro in favore delle RSA ed RSU, insieme alla repressione della condotta antisindacale. Alla luce di ciò, si può ormai considerare il diritto sindacale come una materia autonoma dal diritto del lavoro. La seconda branca di partizione si occupa del diritto del rapporto di lavoro, il quale contiene la descrizione del quadro normativo della costituzione, dello svolgimento e dell’estinzione del rapporto di lavoro. La previdenza sociale è quel ramo del diritto del lavoro che si occupa della contribuzione previdenziale e dell’erogazione dei trattamenti pensionistici in tutti i vari regimi: lavoratori dipendenti: regime pensionistico a ripartizione e a capitalizzazione, contributivo e retributivo, pensione di vecchiaia, di anzianità, indiretta, di reversibilità, ai superstiti, di invalidità e di inabilità, automaticità delle prestazioni previdenziali, contribuzione figurativa; lavoratori autonomi: gestione separata coltivatori diretti, artigiani e commercianti; lavoratori parasubordinati: gestione separata co.co.co. ed ENASARCO per gli agenti di commercio; liberi professionisti: la cassa previdenziale di avvocati (Cassa Forense), notai (Cassa del Notariato), dei consulenti del lavoro (ENPACL), dei medici (EMPAM), ingegneri e architetti (INARCASSA). Infine, si ha come ultima partizione della materia il diritto processuale di lavoro, introdotto nel nostro ordinamento dalla L. 533/1973. L’intento del legislatore, infatti, era quello di predisporre un procedimento speciale a cognizione piena, che aiutasse a velocizzare la tutela dei diritti del lavoratore, ed è caratterizzato da tre aspetti fondamentali: oralità, immediatezza e, infine, concentrazione degli atti e ampiezza dei poteri istruttori. 2) Le fonti del diritto del lavoro. Il sistema delle fonti del diritto del lavoro si può dividere in tre grandi segmenti: fonti interne, fonti comunitarie e fonti internazionali. Tra le fonti interne, spiccano per la particolare importanza le fonti costituzionali, in quanto la nostra Carta costituzionale riconosce al diritto del lavoro un ruolo predominante all’interno delle fonti del diritto. Infatti, l’art 36 Cost. riconosce e tutela il diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa; l’art. 38 Cost. riconosce il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale ai cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi per poter vivere. Per finire, l’art.39 Cost. riconosce e tutela il diritto alla libertà sindacale e l’art. 40 il diritto di sciopero, da esercitarsi nell’ambito delle leggi che lo regolano. Per quanto concerne invece le fonti comunitarie, costituite da regolamenti e direttive, nelle quali gli accordi di Maastricht, di Nizza e di Lisbona hanno profondamente innovato la materia di diritto del lavoro, così come la CEDU, recepita tra le fonti europee dal TFUE, la quale all’art.6 vieta e sanziona con la nullità ogni forma di discriminazione diretta e indiretta sul lavoro. Notevole importanza hanno le numerose raccomandazioni emanate dall’OIL, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, segnalando in particolare quella del 2012 sulla rappresentatività sindacale e quella del 2003 sulla durata massima della prestazione lavorativa dalla quale è scaturito il decreto legislativo del medesimo anno, con una nuova disciplina sull’orario di lavoro, di ferie, riposi e festività. Infine, si annoverano tra le fonti di diritto del lavoro le fonti internazionali, riconducibili alla comunità internazionale extraeuropee, costituite da consuetudini e trattati. Per quanto concerne le consuetudini, sono fonti dirette del diritto del lavoro per effetto dell’art. 10 Cost, il quale stabilisce che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Diversamente dalle consuetudini, i trattati sono definiti come norme internazionali di natura pattizia, aventi valore di fonti indirette, in quanto, per poter entrare in vigore all’interno dell’ordinamento giuridico interno, devono essere ratificati dallo Stato firmatario; una volta data loro esecuzione, divengono vincolanti per i destinatari. 3) Evoluzione storica del diritto sindacale italiano. Le tappe fondamentali del sindacalismo italiano si sono sviluppate di pari passo all’evolversi del nostro sistema statuale. La prima carta costituzionale del Regno di Sardegna, lo Statuto Albertino, del 1848, poneva le sue basi su un modello monarchico con poteri legislativi temperati dal Parlamento bicamerale, con senatori di nomina regia, e deputati eletti in base al censo. Fu così che la Monarchia costituzionale divenne la forma di governo dello Stato italiano unitario a partire dal 1889. Si trattata di un modello liberale, con il fine di tutelare l’ordine pubblico interno e internazionale, e di amministrare il potere giudiziario civile, penale e amministrativo. In quel contesto, il fenomeno sindacale non veniva neppure preso in considerazione dalle istituzioni, tant’è che si possono segnalare solo alcune sporadiche manifestazioni di rivolta popolare da parte dei contadini e degli operai dell’industria, le quali venivano per lo più soffocate nel sangue dall’esercito del Re. All’origine, infatti, i rapporti collettivi in Italia sono stati caratterizzati da forti conflitti e interventi repressivi dello Stato nei confronti dell’organizzazione sindacale e dello sciopero. Il Codice penale, infatti, classificava come reato ogni forma di coalizione tra datori di lavoro e operai per indurre ingiustamente ed abusivamente gli operai ad una diminuzione del salario e sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole scusa. Nella fase successiva, lo Stato provvide a rimuovere i divieti penali al conflitto e all’organizzazione sindacale, sancendo così la libertà di coalizione. Il Codice penale inaugurò un periodo di relativa tolleranza legale verso il fenomeno sindacale, destinato a perdurare fino al fascismo. Durante tale periodo, lo sciopero e la serrata non venivano più puniti dal Codice penale, ma solo le violenze e le minacce lesive della libertà di lavoro eventualmente commesse in occasione di conflitto. Negli anni ’20 del XX secolo, si ha la nascita della prima organizzazione dei lavoratori, tuttora esistente, denominata CGIL, e nel medesimo periodo, viene approvata la legge che poneva dei limiti all’orario di lavoro per fanciulli e adolescenti. Una profonda modificazione storica si verifica con l’avvento del Fascismo in Italia, sia per quanto riguarda l’assetto istituzionale dei poteri, sia per quanto concerne l’ambito sindacale: vengono istituiti, infatti, i sindacati corporativi in qualità di enti di diritto pubblico, dotati di personalità giuridica, preposti alla sottoscrizione di contratti 6) La struttura del sindacato. L’art.39 Cost. co. 1 stabilisce che l’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione preso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. Mentre tale norma sulla libertà sindacale ha trovato applicazione immediata, i tre commi seguenti del medesimo articolo non sono mai stati attuati. A causa di tale mancata attuazione, le associazioni sindacali devono essere giuridicamente inquadrate come associazioni non riconosciute, di conseguenza sono enti privi di personalità giuridica e quindi insuscettibili di iscrizioni in albi o elenchi, e, inoltre, sono regolate da norme del Codice civile applicabili alle associazioni non riconosciute. Il sindacato trae origine dal suo atto costitutivo, mentre lo statuto disciplina l’associazione che si è costituita. Si applicano dunque, gli artt. 36, 37, 38 del Codice civile. Durante il periodo corporativo, i sindacati, che erano unici per ciascun settore, erano enti pubblici, persone giuridiche di diritto pubblico e i contratti collettivi che stipulavano avevano forza di legge, vincolanti per tutti coloro che facevano parte della medesima categoria. Nel corso degli anni 60-70 sono state presenti forme di sindacalismo spontaneo non associativo costituito da delegati di reparto, consiglio dei delegati e soprattutto il noto consiglio di fabbrica. Nel 1972 nacque la Federazione Unitaria CIGL-CISL-UIL, come patto federativo di unità di azione, per rafforzare la vincolatività erga omnes dei contratti collettivi stipulati. Nel nostro Paese, esistono sindacati con struttura non associativa, cosiddetti di mestiere, i quali, a differenza delle organizzazioni sindacali tradizionali, raggruppano e rappresentano i lavoratori in base al mestiere esercitato dagli stessi, anziché sulla base del comparto produttivo di appartenenza. La struttura dei sindacati si articola su due livelli: orizzontale e verticale. Per quanto riguarda il livello orizzontale, il sindacato è composto da tutti coloro che appartengono a diversi settori merceologici, di conseguenza si possono trovare più di una sigla sindacale nella stessa azienda; l’organizzazione verticale, invece, è il criterio maggiormente diffuso nel nostro Paese e si caratterizza per il raggruppamento nello stesso sindacato di tutti i lavoratori che prestano la loro opera presso imprese del medesimo settore produttivo. 7) L’attività sindacale in generale. L’attività delle organizzazioni sindacali ha come obiettivo principale il perseguimento dell’interesse collettivo. L’organizzazione sindacale svolge attività di contrattazione collettiva di livello nazionale (CCNL), locale o aziendale per disciplinare lo svolgimento del rapporto di lavoro, così integrando la normativa di legge. Il sindacato svolge altresì manifestazioni di lotta sindacale, come lo sciopero in tutte le sue forme ed articolazioni e partecipa alla c.d. funzione pubblica con la presenza necessaria di propri rappresentanti istituzionali all’interno del CNEL, INPS, INAIL, etc. Le Attività Sindacali sono regolate dal Titolo III dello Statuto dei Lavoratori rubricato proprio "Dell'attività sindacale". Il legislatore, in questo titolo, decide di aggiungere degli ulteriori diritti al Sindacato che vadano oltre la semplice libertà sindacale. Questa possibilità ulteriore concessa al fenomeno sindacale è attivabile solo al soddisfacimento di determinati requisiti. In base all'articolo 35, infatti, gli articolo 19 a 27 del Titolo II, eccetto il primo comma dell'articolo 27, sono applicabili solo nel caso in cui l'attività sindacale sia svolta in un’impresa commerciale o industriale o meglio unità produttiva aventi più di quindici dipendenti (cinque se agricola). L'attività d'impresa deve essere per forza imprenditoriale: ai non imprenditori, infatti non si attua il Titolo III. 8) L’attività sindacale nei luoghi di lavoro. Il sindacato ha fatto il suo ingresso istituzionale nei luoghi di lavoro solo con la L. 300/1970 che ha consentito l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori. Detta norma ha istituito le rappresentanze sindacali aziendali, ossia un tipo di organizzazioni costituite ad iniziativa dei lavoratori, attraverso cui il sindacato è presente in azienda: prima, invece, esistevano delle aggregazioni spontanee di lavoratori quali i consigli di fabbrica e le commissioni interne. Le RSA possono essere costituite nelle aziende con più di 15 dipendenti, nell’ambito delle organizzazioni sindacali che: abbiano sottoscritto un contratto collettivo applicato all’azienda; ovvero abbiano partecipato attivamente alle trattative che hanno condotto alla stipula dei contratti collettivi applicati all’azienda, anche se poi abbiano ritenuto di non sottoscriverli. Negli anni 80 il processo di unità sindacale, che era stato avviato nel decennio precedente, comincia ad entrare in crisi. Infatti, la sintesi che era stata raggiunta per l’individuazione dei rappresentanti sindacali, attraverso l’elezione dei rappresentanti dei Consigli di fabbrica e la presenza garantita delle varie sigle presenti nei luoghi di lavoro, comincia ad andare in affanno. Questa situazione, così complicata, trova una soluzione con l’Accordo Interconfederale del 1993, firmato dal governo, Confindustria insieme a CGIL, CISL e UIL, che porta alla nascita delle Rappresentanze sindacali unitarie, conosciute come RSU. Si tratta di organismi rappresentativi di tutti i lavoratori che sono occupati in una stessa unità produttiva e possono essere costituite o su iniziativa degli stessi lavoratori dell’azienda, oppure su iniziativa delle organizzazioni sindacali. All’interno dello Statuto dei Lavoratori sono previste delle tutele fondamentali che garantiscono ai rappresentanti sindacali di svolgere il loro ruolo senza ricevere ritorsioni dal datore di lavoro, ad esempio, nel caso in cui un sindacalista fosse licenziato illegittimamente dal proprio datore di lavoro è prevista una procedura di reintegrazione immediata nel posto di lavoro ex art. 18 SL. 9) Rappresentanza e rappresentatività sindacale. Il termine rappresentanza sindacale designa attitudine del sindacato svolgere l’attività di tutela degli interessi professionali. La rappresentanza volontaria degli iscritti costituisce il supporto tecnico sul quale la dottrina quale pre-corporativa costruì la figura, ignorata dal diritto statuale, del contratto collettivo, allo stesso modo in cui la rappresentanza legale della categoria professionale costituì il supporto teorico sul quale il legislatore corporativo costruì tanto l’efficacia erga omnes a che l’inderogabilità del contratto collettivo. Tale nozione sembra ormai inadeguata; il sindacato, quando stipula contratto collettivo, esercita un potere che gli è originariamente proprio e quindi è un potere diverso da quello dei singoli lavoratori iscritti gli avrebbero potuto conferire. Si riconosce natura ed efficacia di contratto collettivo anche ai contratti o agli accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali di tipo istituzionale e da parte dei singoli lavoratori. A livello aziendale, uno dei canali di legittimazione è stato costituito dal requisito della “maggiore rappresentatività”. Lo stesso fenomeno si riscontra a livello nazionale. La rappresentanza sindacale ha esaurito la sua funzione storica non solo sul piano tecnico. Il nostro sistema sindacale sembra ruotare e far perno sulla nozione di rappresentatività, la quale costituisce spesso il titolo per l’attribuzione per l’esercizio dei poteri sindacali e dei poteri di autonomia collettiva. L’accertamento della maggiore rappresentatività era demandato alla giurisprudenza che escludeva la necessità di una comparazione tra sindacati e generalizzando i dati dell’esperienza storia, considerava indici della maggiore rappresentatività: la consistenza numerica, un ampio arco di settori produttivi, l’effettiva partecipazione alla contrattazione collettiva. 10) Le tipologie dei contratti collettivi. Il diritto del lavoro è privo della definizione giuridica di contratto collettivo nazionale del lavoro. Questo infatti viene definito, tramite un’interpretazione della dottrina, come lo strumento utilizzato dal legislatore per regolamentare gli accordi che vengono raggiunti tra le organizzazioni sindacali che rappresentano i lavoratori subordinati ed i datori di lavoro. Mediante il contratto collettivo del lavoro, le parti sociali concordano le singole voci contrattuali che caratterizzano il rapporto di lavoro, ossia: viene determinata la retribuzione spettante al lavoratore, assieme alle altre condizioni della prestazione lavorativa; viene regolamentato l’espletamento dell’attività sindacale e l’utilizzo di tutte le tutela sindacali. I contratti collettivi hanno la funzione di stabilire le condizioni che sono alla base degli accordi stipulati tra organizzazioni sindacali dei lavoratori e datori di lavoro di una determinata categoria. Le condizioni che vengono inserite in questi accordi sono omogenee, ossia sono uguali per tutti i soggetti cui sono destinate, e sono anche obbligatorie. Lo scopo dell’omogeneità e dell’obbligatorietà per tutti i destinatari risiede nella volontà del legislatore di evitare una concorrenza dannosa, sicuramente, per i lavoratori e, potenzialmente, anche per i datori di lavoro. 11) Il contratto collettivo di diritto comune. A seguito della mancata attuazione dei 3 commi successivi al primo dell’art.39 Cost., il contratto collettivo, nel nostro ordinamento, non ha efficacia erga omnes, e, di conseguenza, l’unico tipo di contratto collettivo realizzabile è quello di diritto comune. Si tratta, infatti, di un contratto costruito su base civilistica, considerato quasi all’unanimità dagli interpreti del diritto come un contratto atipico sulla base dell’art. 1322 Cod. civ., vincolante solo per gli iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, secondo le regole sul mandato collettivo ex artt. 1722 e 1723 C.c. L'obiettivo cardine del Contratto Collettivo è di ottenere in esso condizioni più favorevoli di quelle previste dalla legge o dai contratti di lavoro dei singoli lavoratori, sfruttando la forza dovuta alla massa di lavoratori rappresentanti dai sindacati firmatari. 12) Legge e contratto collettivo. Il contratto di lavoro collettivo viene regolamentato sulla base del criterio di gerarchia tra le fonti, perciò viene individuata la disciplina applicabile seguendo le fonti di diritto in base al loro valore gerarchico: fonti comunitarie, Costituzione, leggi, contratti collettivi e contratti individuali di lavoro e, infine, consuetudini. Secondo tale criterio, la fonte di diritto di ordine superiore prevale su quella di ordine inferiore, quindi, a rigor di logica, le norme sovranazionali, quelle costituzionali e le leggi ordinarie prevalgono sulle norme che compongono il contratto collettivo. Le norme del contratto collettivo e del contratto di lavoro individuale, invece, essendo un’emanazione dell’autonomia negoziale tra privati, sono in una posizione formalmente paritaria tra di loro. Vi è, tuttavia, una deroga a tale principio, enunciata dall’art. 2077 co. 2 del Cod. civ., secondo cui, nonostante sia chiaro il riferimento alle vecchie corporazioni ormai non più vigenti, grazie al principio del favor prestatoris, in caso di concorso-conflitto fra contratti di diverso livello, sono sostituite di diritto le clausole che introducono un trattamento in malam partem sfavorevole del Pertanto, l’unica conseguenza per il lavoratore, dovuta all’esercizio del diritto di sciopero, consiste nella sospensione della retribuzione nelle ore o nei giorni di astensione del lavoro, senza incidere sugli altri diritti che derivano dal contratto di lavoro. In questa fase il lavoratore è tutelato da una serie di garanzie, ad esempio quello secondo cui, durante lo sciopero, il lavoratore non può essere licenziato, in caso contrario il licenziamento verrebbe dichiarato nullo. 16) Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. La L. 146 del 1990 definisce servizi essenziali quei servizi finalizzati a garantire i diritti della persona costituzionalmente garantiti. L’articolo 1 della l. 146/90 elenca espressamente i diritti della persona tutelati dalla costituzione, ossia diritto alla vita, salute, libertà, sicurezza, libertà di circolazione, assistenza e previdenza sociale ed alla libertà di comunicazione. Anzitutto, la richiesta di indizione dello sciopero deve essere preceduta da un preavviso non minore di 30 gg. affinché ne possa essere valutata la compatibilità con le esigenze di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo nei settori tipizzati dalla legge: trasporti, scuola, pensioni, servizi socio-sanitari, amministrazione della giustizia, ospedali, etc. La comunicazione del preavviso deve essere predisposta in forma scritta, indicando la durata, motivi e le modalità attuative dello sciopero. In una prima fase, la Commissione di Garanzia, convocate le parti, tenta un raffreddamento delle loro rispettive posizioni rivendicative e, in caso di esito positivo, esperisce un’attività di vera e propria conciliazione sindacale, dove i contendenti, tramite concessioni reciproche, recedono in tutto o in parte dallo sciopero. Ove la fase preliminare non dovesse andare in porto compete alla Commissione fissare modi, tempi e luoghi di espletamento dello sciopero, individuando, in un proprio decreto motivato, a contenuto precettivo, comunque il coefficiente di personale necessario all’espletamento del servizio essenziale. La violazione totale o parziale del decreto comporta l’irrogazione di sanzioni amministrative nei confronti delle OOSS coinvolte nella trattativa e verso i singoli lavoratori che non hanno ottemperato al loro obbligo di far parte del contingente a disposizione per i servizi essenziali. Resta, in ogni caso, impregiudicato il potere- dovere di “precettazione” con ordinanza prefettizia, la cui inosservanza comporta la configurazione del reato di interruzione di pubblico servizio procedibile d’ufficio. 17) Le forme di lotta sindacali diverse dallo sciopero. Lo sciopero è solo una delle tante espressioni del concetto di lotta sindacale; esistono, però, tipologie di lotta che costituiscono vero e proprio sciopero, anche se discusse per determinati loro aspetti, ad esempio lo sciopero bianco, attuato senza un contestuale abbandono del posto o comunque del luogo di lavoro; esiste poi lo sciopero cosiddetto dello straordinario, cioè eseguito come rifiuto collettivo di prestare lo straordinario richiesto dal datore di lavoro ai sensi di contratto collettivo. È opportuno, ora, considerare una varia tipologia costituita non da un’astensione dal lavoro, semplice o articolata, ma da una prestazione quantitativamente o qualitativamente diversa da quella pretesa dal datore di lavoro etichettata come non collaborazione o ostruzionismo, vale a dire un’attività lavorativa rallentata, con riduzione dei ritmi od introduzione di pause maggiori o nuove, oppure modificata, con inosservanza dei criteri direttivi prefissati, o ancora ristretta, con esecuzione di alcune mansioni primarie, ma non di altre sussidiarie. Il picchettaggio consiste nel raggruppamento più o meno folto di lavoratori, dipendenti dell’azienda in sciopero o provenienti da altra azienda, che stazionano vicino o di fronte ai cancelli od agli ingressi per dissuadere, disturbare, bloccare gli eventuali crumiri; ovviamente i problemi non emergono in caso di p. pacifico, che può essere considerato alla luce dell’art. 21 Cost., ma nello sfortunato caso di picchettaggio violento, variante da una resistenza passiva ad una vera e propria attività violenta. 18) La serrata. La serrata consiste nell’intenzionale chiusura dei locali aziendali, messa in atto dall’imprenditore, a fini cautelari di propri interessi economico-normativi. A differenza dello sciopero, costituzionalmente garantito dall’art. 40 Cost., la serrata è del tutto priva di copertura normativo-costituzionale, ponendosi, pertanto, non come un diritto vero e proprio bensì solo come una libertà, la cui attuazione determina comunque un inadempimento contrattuale del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti i quali conservano comunque il diritto alla retribuzione nei giorni e nelle ore di chiusura dei locali dell’impresa, applicandosi i principi sulla mora accipiendi o mora del creditore di cui all’art. 1206 c.c. Possono esservi casi di serrata non ritorsiva, bensì connessa ad uno stato necessità, affinché uno sciopero od altra manifestazione di lotta sindacale possa essere di pregiudizio per gli impianti (danno alla produttività) e non solo alla produzione. Proprio in questi casi, la giurisprudenza ha elaborato la categoria della cosiddetta messa in libertà, che consente al datore di lavoro la legittima chiusura dei locali aziendali onde evitare un danneggiamento irreversibile degli impianti stessa. 19) La repressione della condotta antisindacale. La condotta antisindacale è quella tenuta dal datore di lavoro o dai soggetti che in suo nome hanno agito per l’esercizio dell’impresa; il comportamento è illegittimo in quanto idoneo a ledere beni protetti ed è plurioffensivo in quanto gli interessi lesi possono essere anche individuali e non solo del sindacato. Se il datore di lavoro adotta comportamenti che impediscono o limitano l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale o del diritto di sciopero, gli organismi locali delle organizzazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, possono presentare ricorso davanti al tribunale monocratico. Nei due giorni successivi, il giudice del lavoro, convocate le parti e acquisite le informazioni necessarie, se dovesse accertare tale violazione, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato e immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Contro il decreto, il datore di lavoro può, entro 15 giorni dalla comunicazione, proporre opposizione davanti al tribunale monocratico che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Il datore di lavoro che non osserva il decreto o la sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione, è punito dall’art. 650 c.p., secondo cui chiunque non osserva un provvedimento emesso da una pubblica autorità è punito con l’arresto fino a tre mesi o con un’ammenda fino ad euro 206. 20) Il diritto sindacale nel pubblico impiego. Con la c.d. privatizzazione o contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, inaugurato a partire dalla legge quadro n. 93 del 1983, si è sottratto il rapporto di lavoro pubblico dall’area del diritto amministrativo, riconducendolo alla normativa del Codice civile e alle altre leggi che regolano il rapporto di lavoro di diritto privato. L’attuale Testo Unico sul pubblico impiego è attualmente costituito dal d.lgs. n. 165/2001, più volte modificato nel corso degli anni, in particolare dalla c.d. riforma Brunetta e da quella c.d. Madia e successivi decreti attuativi. In ogni caso, l’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 fa comunque salve le disposizioni specifiche contenute nel presente decreto rispetto alle leggi in materia di rapporto subordinato privato. Molto rilevante è la previsione, ivi contenuta, secondo la quale le relative disposizioni costituiscono norme imperative dotate di efficacia sostitutiva ai sensi degli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c. L'aspetto più importante della Riforma del 1993 è sicuramente l'ingresso nella scena del Diritto del Lavoro Pubblico della Contrattazione Collettiva che prima era esclusa. Ad ammettere la Contrattazione Collettiva è il d. lgs. n.165/2001 che deve essere in coerenza con il Sistema Privatistico. 21) La privatizzazione del pubblico impiego. Il pubblico impiego rappresenta il rapporto di lavoro che intercorre tra lo Stato, o un ente pubblico non economico, ed un soggetto privato. Il rapporto di lavoro pubblico origina dalla natura pubblica del datore di lavoro e dall’interesse generale perseguito dalla pubblica amministrazione nell’esercizio della propria attività. A fronte dell’imponente fenomeno della contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è stato affrontato e progressivamente risolto dal legislatore il problema relativo alla tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti pubblici nei confronti della PA. A fronte dell’imponente fenomeno della contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il legislatore ha affrontato e progressivamente risolto il problema relativo alla tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche soggettive dei dipendenti pubblici nei confronti della PA. Prima della recente riforma, la giurisdizione di tutta la competenza in materia di pubblico impiego era riservata in via esclusiva al giudice amministrativo, tutelando sia diritti soggettivi che interessi legittimi del personale della PA. In base ai criteri di ripartizione di giurisdizione, al Giudice amministrativo spetta solo la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi nei confronti della PA, mentre al GO (Giudice Ordinario) compete quella generale sui diritti soggettivi tra privati. Con la riforma del 1998, il legislatore ha completamente ridisegnato i confini tra la giurisdizione del GA e del GO in materia di controversie di lavoro pubblico. 22) L’attività e l’organizzazione sindacale nel lavoro pubblico. Il ruolo ricoperto dall’associazionismo sindacale nel settore pubblico è senz’altro maggiore di quello ricoperto nel settore privato già nella determinazione storica e fattuale dello stesso “diritto sindacale” nei comparti delle amministrazioni pubbliche. Si può quindi dire che lo stesso fenomeno della contrattualizzazione del rapporto di lavoro nelle diverse fasi che lo hanno caratterizzato sia stato influenzato geneticamente dall’influenza esercitata sul legislatore dall’associazionismo sindacale di livello confederale. L’esperienza negoziale e di rappresentanza in questo settore nasce già coi caratteri della istituzionalizzazione delle regole e dei rapporti. Infatti, fino alla metà degli anni ’70 del Novecento il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti era regolato esclusivamente da norme legislative o comunque pubblicistiche. La natura della fonte aveva quindi influenzato quella delle relazioni, e la rappresentanza dei lavoratori si era espressa fino a quel momento attraverso il ruolo di lobby che le associazioni sindacali riuscivano ad Non a caso i lavoratori dipendenti sono tenuti, nei confronti del proprio datore di lavoro, ai doveri di diligenza, di obbedienza e di fedeltà di cui agli artt. 2104-2106 c.c. 29) Inquadramento del lavoratore: categorie, qualifiche e mansioni. Al momento dell’assunzione del lavoratore il datore deve comunicargli ufficialmente il proprio inquadramento contrattuale: categoria, qualifica e mansione. La nozione di categoria è di fonte legale nel senso che l’art. 2095 c.c. contiene una elencazione delle categorie di prestatori di lavoro subordinato id est: operai, impiegati, quadri intermedi e dirigenti. Per quanto attiene alla qualifica, si rammenta che una dottrina autorevole la considerava solo come una variazione semantica delle mansioni perché la qualifica di carpentiere, tornitore, contabile, etc., non fa altro che indicare in modo sintetico le mansioni che il dipendente svolge. Le mansioni del lavoratore possono definirsi come i compiti concreti affidati al lavoratore, rientranti nel livello e nella qualifica di inquadramento. 30) Il potere disciplinare del datore di lavoro e controlli a distanza sui lavoratori. Il potere disciplinare costituisce un istituto di carattere “eccezionale”, disciplinato analiticamente dall’art. 2106 c.c. e 7 SL che consente all’imprenditore, come capo dell’impresa di accertare e sanzionare inadempimenti contrattuali e manchevolezze commesse dal proprio personale, senza bisogno di ricorrere alla risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c., ben più farraginosa e frustrante per ripristinare il quieto vivere in ambito aziendale. Il predetto “codice”, tipico e tassativo, viene estrapolato dalla parte normativa del CCNL di settore, le cui pagine devono essere materialmente affisse nella bacheca aziendale affinché possa essere assolto l’onere di pubblicità corollario del principio del nullum crimen nulla poena sine lege. L’art. 7 S L, ha dato luogo ad un contenzioso giudiziario inenarrabile, avendo procedimentalizzato la fase che precede l’irrogazione della sanzione: anzitutto la norma citata richiede che il datore affigga, in luoghi accessibili, il c.d. codice disciplinare, consistente nella elencazione nominativa delle varie infrazioni con le corrispondenti sanzioni, nonché del procedimento da seguire nell’irrogazione delle stesse; avvenuta l’affissione, il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 7 SL, deve contestargli per iscritto l’addebito con immediatezza. Con l’espressione contestazione dell’addebito si intende la comunicazione formale con la quale il datore di lavoro rende noto al proprio dipendente dell’avvenuta commissione, da parte sua, di una condotta suscettibile di dare luogo all’applicazione di una sanzione disciplinare conservativa o espulsiva. Il lavoratore incolpato ha facoltà (e non l’obbligo) di difendersi e, parimenti, il datore di lavoro può accogliere, in tutto o in parte, le giustificazioni del lavoratore (oppure soprassedere), ed in caso negativo comunicando le modalità di applicazione della sanzione prescelta al dipendente. Tutte le sanzioni disciplinari conservative ed espulsive sono comunque impugnabili davanti al Giudice del Lavoro. Inoltre, lo Statuto dei Lavoratore predispone una serie di strumenti posti a tutela di esigenze organizzative e soprattutto del patrimonio aziendale onde evitare che il proprio personale, dolosamente o colposamente, possa attentare ai beni dell’imprenditore, in ragione dei pericoli derivanti dalla comunanza di vita lavorativa. Tuttavia, la tutela della proprietà aziendale deve trovare un bilanciamento costituzionale nella salvaguardia della libertà e della dignità del lavoratore. Cosicché, le norme statutarie che vengono in considerazione perseguono egregiamente questa esigenza di bilanciamento tra opposti valori costituzionali. 31) Il lavoro agile e il telelavoro. Tra le previsioni normative di nuovo conio da parte dell’odierno legislatore, si deve segnalare l’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento, del c.d. lavoro agile, detto anche smart working avente, come precipua finalità, espressamente dichiarata dalla stessa legge istitutiva, quella di conciliare i tempi di vita-lavoro, senza nulla togliere alla utilità marginale della prestazione, a beneficio del datore di lavoro, con il vantaggio di ampliare notevolmente i cosiddetti margini di manovra di spazio – tempo del lavoratore, il quale, così facendo, non sarà più costretto a recarsi quotidianamente sul luogo di lavoro. Tale obbligo persiste ma solo in giorni e orari prestabiliti nel contratto di lavoro; nel tempo restante, il lavoratore è libero di gestire sia la tempistica, sia la location della sua prestazione. Il telelavoro è una modalità di svolgimento dell’attività lavorativa nella quale il lavoratore esegue le prestazioni da un luogo esterno all’azienda avvalendosi di un pc o di altro dispositivo mobile collegato con il sistema informatico aziendale. Nell’ambito del lavoro privato non sussiste una disciplina legale del telelavoro mentre nella pubblica amministrazione la legge n. 191/1998 prevede che le PA possano avvalersi di forme di lavoro a distanza. 32) La retribuzione: art.36 Costituzione e art.2099 Codice civile. La peculiare natura sinallagmatica del contratto di lavoro subordinato comporta che a fronte dell’obbligo di esecuzione della prestazione lavorativa sussista quello di erogazione del corrispettivo denominato retribuzione. La forma tradizionale di erogazione della stessa ex art. 2099 c.c. è detta “a tempo” ossia con un coefficiente proporzionale all’orario di lavoro osservato, come normale di 40 ore settimanali, o massimo di 48 ore settimanali comprensive degli straordinari. La determinazione della misura della retribuzione-base è affidata alla contrattazione collettiva che opera sulla base del diverso inquadramento in livelli progressivi dei prestatori di lavoro. Il combinato disposto dell’art. 36 Cost. e 2099 c.c. costituisce forse il più importante strumento giurisprudenziale di estensione erga omnes della parte economico-normativa dei contratti collettivi di diritto comune. Si procede sostanzialmente ad una identificazione tra la nozione di retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art. 36 Cost. (norma immediatamente precettiva) e gli istituti retributivi diretti e indiretti previsti dai CCNL. Consegue, pertanto, che tutti le clausole degli accordi coi quali il datore ed il prestatore di lavoro pattuiscono retribuzioni più o meno inferiori a quelle collettive, in ogni settore merceologico, sono nulle ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c. per contrasto con l’art. 36 Cost. e sostituite di diritto ex art. 1339 c.c. da quelle del CCNL di miglior favore, qualificate, tra l’altro, disposizioni inderogabili di contratto collettivo ai sensi dell’art. 2113 c.c., ai fini della disciplina delle rinunce e transazioni. Tra l’altro, l’art. 2099, ultimo comma, c.c. afferma che in caso di mancata pattuizione della retribuzione fra le parti (caso piuttosto inusuale) questa è determinata dal giudice facendo ricorso agli usi o all’equità. 33) L’indennità di contingenza. L’indennità di contingenza viene introdotta in occasione degli Accordi Interconfederali degli anni 50/60, quando si manifesta l’esigenza di adeguare l’ammontare dei salari e degli stipendi ai mutamenti del costo della vita, in modo tale da lasciarne invariato il potere d’acquisto. Il meccanismo di funzionamento di questo istituto di fondava su “punti” di valore economico variabile da settore a settore che “scattavano” in aumento ogni volta che il costo di un determinato paniere di beni di prima necessità aumentava a causa dell’inflazione galoppante. Venne poi deciso dalle maggiori OS di istituire un punto di contingenza di valore unico per combattere il fenomeno degenerativo delle c.d. scale mobili anomale dove in determinati settori produttivi l’aumento dei salari e degli stipendi avveniva in misura più che proporzionale all’aumento del costo della vita, con un ingiustificato arricchimento da parte dei lavoratori. Con l’entrata in vigore della legge sul processo del lavoro, i crediti retributivi sono stati indicizzati, cioè il loro valore nominale viene ope legis rivalutato, anno per anno, in base all’indice ISTAT relativo alle variazioni del costo dei beni di prima necessità. Per contro, i crediti di lavoro dei dipendenti pubblici (come quelli relativi alle prestazioni pensionistiche assistenziali e previdenziali), sono stati sterilizzati dalla rivalutazione monetaria. Il sistema ha funzionato fino al 1991. 34) Le voci retributive c.d. indirette. In aggiunta alla retribuzione base prevista per ogni livello di inquadramento dal CCNL di categoria, ciascun prestatore di lavoro subordinato ha altresì diritto a voci retributive c.d. indirette. A tal proposito meritano di essere menzionate la 13esima (gratifica natalizia) e la 14esima mensilità (gratifica estiva). Tutti i dipendenti del settore privato e del pubblico impiego hanno diritto alla gratifica natalizia, ossia la 13esima. Per contro, nel settore privato, non tutte le categorie merceologiche godono della 14ma mensilità, che, come tale, è un istituto retributivo di fonte collettiva, la cui previsione dipende dal potere contrattuale delle OOSS di riferimento Inoltre, nel novero delle voci retributive indirette (alla fine del rapporto lavorativo) si possono collocare le seguenti ulteriori figure: l’indennità sostitutiva delle ferie non godute, la quale può essere corrisposta solo per la porzione non relativa all’anno di maturazione e l’indennità sostitutiva dei permessi non goduti, e festività coincidenti con la domenica. 35) Il problema della parità di trattamento retributivo uomo-donna. L’art. 37 Cost., nonché le numerose leggi che si sono succedute in materia di disciplina del lavoro femminile, hanno avallato una sostanziale equiparazione, quanto meno giuridica fra la retribuzione e la progressione in carriera del personale sia maschile che femminile, fermo restando i divieti assoluti di licenziamento discriminatorio per ragioni di sesso, ovvero per causa di matrimonio, infine della lavoratrice gestante, tutte ipotesi di nullità dell’atto di recesso datoriale tutt’ora soggette a reintegrazione nel posto di lavoro, con la ricostituzione retroattiva del rapporto anche nel vigore della disciplina sul c.d. contratto a tutele crescenti. La parità di genere, quale fondamentale principio della legislazione nazionale e sovra-nazionale, non rileva però solo per le aziende private, ma anche, e forse ancor più, per la Pubblica Amministrazione e gli organi politici. Nel forum annuale del 2011 è stata stilata una graduatoria per misurare il grado di uguaglianza di genere nei diversi Paesi del mondo, tenendo conto di quattro fattori: le differenze tra uomini e donne nell’ambito economico; i risultati scolastici maschili e femminili; la salute e la probabilità di sopravvivenza; le cariche ricoperte in ambito politico. Il Parlamento Europeo ha, inoltre, imposto alle imprese entro il 2020 a raggiungere in modo autonomo una rappresentanza del genere pari al 30% nel 2015 ed al 40% nel 2020. 36) Il trattamento di fine rapporto. La disciplina previgente in materia di c.d. “liquidazione”, spettante al lavoratore all’atto della cessazione del rapporto, denominava l’istituto come “indennità di anzianità” ex art. 2120 c.c. vecchio testo, consistendo in un emolumento di fine rapporto calcolato sulla retribuzione globale media percepita dal lavoratore negli ultimi 5 anni di servizio. Ciò comportava un notevole esborso soprattutto nei c.d. appalti interni, che si svolgono all’interno dei locali di altro imprenditore, che i dipendenti dell’appaltatore prendano ordini da quest’ultimo e siano assoggettati al suo potere direttivo e disciplinare come se fossero suoi dipendenti. 41) Il distacco. L’istituto del distacco viene introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento nel 2003. Esso è tipico del pubblico impiego, e differisce da altri istituti similari poiché il distaccatario è un soggetto giuridico distinto e diverso dal datore di lavoro distaccante, potendosi ingenerare anche qui problemi di dissociazione tra datore di lavoro formale e sostanziale. Il distacco è consentito solo se diretto a soddisfare un interesse dell’imprenditore distaccante; inoltre, se il distacco comporta un mutamento di mansioni del lavoratore è richiesto il suo consenso. Se lo spostamento conseguente è superiore a 50 km, sono necessarie comprovate esigenze tecniche, organizzative o produttive. Il rifiuto da parte del lavoratore di eseguire un provvedimento illegittimo di distacco non costituisce insubordinazione grave. Perciò, ove tale condotta gli sia addebitata e posta a fondamento del licenziamento per giusta causa, il lavoratore ha diritto alla reintegrazione per insussistenza del fatto addebitatogli. 42) Il trasferimento del lavoratore. Il trasferimento del lavoratore è introdotto dall’art. 13 S L, che istituisce il potere unilaterale del datore di lavoro di modificare il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa; a rigore, trattandosi di un elemento essenziale del contratto di lavoro, dovrebbe sempre richiedere la concorde volontà delle parti. Tuttavia, in presenza di comprovate esigenze tecniche, organizzative o produttive il datore di lavoro può disporre lo spostamento di un proprio dipendente da una unità produttiva all’altra della stessa impresa (anche a distanza di centinaia di Km.). Lo spostamento del lavoratore deve avvenire da una unità produttiva all’altra dello stesso datore di lavoro, intendendo per tale, ex art. 35 SL, qualsiasi sede, stabilimento, filiale, reparto, dotato di una autonomia organizzativa e funzionale. Il trasferimento ha un carattere di tendenziale definitività, per cui la contrattazione collettiva prevede l’erogazione di una indennità di prima sistemazione ed un rimborso delle spese di trasloco. Laddove il lavoratore trasferito non raggiunga ingiustificatamente la sede di destinazione può essere esposto a provvedimento disciplinare e di regola a licenziamento per giusta causa. 43) La trasferta: profili fiscali e contributivi La trasferta consiste nel mutamento provvisorio e temporaneo del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa connesso ad esigenze di servizio. Questo istituto non ha una vera e propria disciplina giuslavoristica, essendo piuttosto di fonte collettiva che regolamenta soprattutto il trattamento economico denominato indennità di trasferta che può essere in cifra fissa onnicomprensiva oppure suddivisa in una parte erogata a titolo di rimborso spese e un’altra a titolo indennitario-retributivo per compensare il maggior disagio della prestazione lavorativa eseguita in trasferta. La trasferta si distingue dal trasferimento in quanto è caratterizzata dalla temporaneità dell'assegnazione del lavoratore ad una sede diversa da quella abituale, nell'interesse e su disposizione unilaterale del datore di lavoro, essendo irrilevante che egli abbia manifestato la propria disponibilità e che svolga mansioni identiche a quelle espletate presso l'abituale sede di lavoro. 44) La tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore: il mobbing. L’art. 2087 Cod. civ. pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di sicurezza ossia di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei propri dipendenti. Consegue, pertanto che, sullo schema della responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 c.c., detta responsabilità incombe sempre sul datore di lavoro, in presenza di danni o di pregiudizi arrecati all’integrità psico-fisica o alla personalità morale dei lavoratori, a meno che non provi di non aver commesso il fatto generatore, per essersi lo stesso verificato per caso fortuito, forza maggiore o factum principis. Con il termine mobbing, di derivazione inglese si suole designare il complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione, finalizzati all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. La quasi totalità della dottrina e della giurisprudenza considera, quindi, che la responsabilità del datore di lavoro nelle ipotesi di mobbing sia di natura contrattuale ed individua lo strumento giuridico applicabile proprio nella norma di cui all'art. 2087 c.c. Si è giustamente osservato, in proposito, che, riferendosi alla personalità morale, l'art. 2087 c.c. richiama un concetto del tutto diverso da quello dell'integrità psico-fisica, cosicché l'obbligo di rispettare la personalità morale non si esaurisce nel solo evitare che la sua salute ne risulti danneggiata, ma consiste nel proteggere la condizione" esistenziale dell'individuo, consentendo al destinatario della molestia di “reagire anche a fronte di una forma di aggressione che non abbia l'effetto di cagionare un pregiudizio permanente”. Si è ritenuto, così, che l’art. 2087 c.c. consenta di sanzionare comportamenti lesivi della sfera psichica della persona non rispondenti alle consuete tipizzazioni e di ricostruire in prospettiva unitaria comportamenti altrimenti già sanzionati da singole norme. 45) La disciplina dell’orario di lavoro. L’orario di lavoro ha costituito storicamente uno dei profili più cruciali delle lotte operaie e delle rivendicazioni sindacali a partire dalla seconda metà del 1800 con l’avvento dell’industrializzazione su vasta scala nei grandi opifici del nord-Italia. La disciplina attuale è contenuta e regolata nel d.lgs. n. 66/2003 che contiene un espresso riferimento solo all’orario settimanale, a dispetto della riserva di legge contenuta all’art. 36 Cost. che afferma invece “la legge stabilisce la durata massima della giornata lavorativa”, tanto che, inizialmente si erano sollevate delle perplessità costituzionali, in merito alla correttezza della nuova disciplina. Ha poi prevalso un indirizzo più conservatore, cosicché, la nuova disciplina, pur senza fornire la nozione di orario giornaliero, distingue, anzitutto, tra orario normale di 40 ore settimanali ed orario massimo di 48 ore settimanali comprensive degli straordinari. 46) I riposi e le ferie. La garanzia del riposo settimanale viene tradizionalmente articolata in tre profili fondamentali: la periodicità settimanale, la consecutività delle ore di riposo e la coincidenza con la domenica. A fronte del laconico dettato costituzionale (art. 36, 3^ comma, Cost.), la legge n. 370/1934, nel regolare compiutamente la materia del riposo settimanale "per il personale che presta la sua opera alle dipendenze altrui", dà vita ad un sistema di disciplina nel quale, all'incisività del principio generale del diritto al riposo settimanale e domenicale di 24 ore consecutive, fa da contrappunto l'esistenza di larghe deroghe e di veri e propri regimi speciali di riposo, tali da ridimensionare fortemente la portata garantistica del principio medesimo. L’art. 9 cit., stabilisce che il lavoratore ha diritto ogni 7 giorni ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive. Pertanto, il lavoro nel settimo giorno consecutivo è dunque vietato, salvo alcune eccezioni previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva. La stessa Corte Costituzionale ammette deroghe alla periodicità del riposo settimanale, sempre però nel rispetto della media di 1 giorno di riposo e 6 di lavoro. Nel caso di lavoro 7 giorni su 7, con perdita del riposo, la giurisprudenza ha individuato la sussistenza di un illecito con la spettanza di una ulteriore retribuzione ex art. 2126. c.c. per il lavoro aggiuntivo non dovuto, più un indennizzo per la maggiore penosità di tale lavoro oltre al risarcimento dell’eventuale danno subito dal prestatore. Viceversa, nel caso di lavoro nel settimo giorno, seguito da riposo compensativo, viene riconosciuto al lavoratore dalla giurisprudenza soltanto il diritto ad un indennizzo per la maggiore penosità di tale lavoro, pur ammettendosi che lo stesso indennizzo possa essere ricompreso nella regolamentazione collettiva. Il riposo settimanale deve avvenire di regola in coincidenza con la domenica, ma è ammesso lo spostamento del riposo in altro giorno, sempre nel rispetto della prescritta periodicità, con il diritto del lavoratore ad un compenso che può essere già contenuto nella disciplina collettiva mediante la concessione di riposi aggiuntivi. La legge n. 260/1949 contiene l’elenco delle festività civili e religiose e per alcune di esse è imposto il pagamento della normale retribuzione, anche in assenza di prestazione lavorativa. Il periodo minimo di ferie annuali è di quattro settimane delle quali 2 devono essere godute nell’anno di maturazione e 2 entro il 30 giugno dell’anno successivo. 47) La malattia. Nel rapporto di lavoro, in deroga ai principi di diritto comune sulla impossibilità sopravvenuta non imputabile, l'insorgenza di uno stato morboso impeditivo della prestazione non porta alla risoluzione del rapporto stesso, bensì alla sua sospensione (per il periodo c.d. di comporto), con il diritto del lavoratore alla retribuzione o, in sua vece, ad un equivalente indennitario, e con il computo dei periodi di assenza dal lavoro nell'anzianità di servizio a tutti gli effetti (art. 2110 c.c.). La sospensione del rapporto di lavoro, seguita dal divieto di licenziamento, viene definita periodo di comporto e, al termine di esso, se la malattia non è terminata, risorge il potere dell’imprenditore di esercitare il recesso nei confronti del lavoratore malato. Il nostro ordinamento prevede che in caso di inizio della malattia, il lavoratore trasmetta, entro due giorni, dal relativo rilascio da parte del medico curante, al datore di lavoro, il certificato di prognosi della malattia e all'Inps (o alla struttura pubblica indicata dall'istituto d'intesa con la regione), il certificato di diagnosi della stessa. Gli obblighi del lavoratore durante la malattia: controllo medico del lavoratore in malattia; obbligo di reperibilità nella fascia oraria ex art. 5 L.n. 638/1983. 48) L’infortunio sul lavoro. L’infortunio consiste in un evento traumatico, determinato da una causa violenta, ai danni di un lavoratore, in occasione del lavoro. Tale evento, per poter essere indennizzabile dall’INAIL deve aver prodotto una invalidità permanente pari almeno al 6% di quella totale. In tal caso, il datore di lavoro resta esonerato dalla responsabilità civile ex art. 2087 c.c. nei confronti del proprio dipendente e l’INAIL è onerato di corrispondere una “liquidazione in linea capitale”, in un’unica soluzione, in base all’invalidità permanente accertata e riscontrabile medicalmente. Se invece stato in cui si trovano, ivi compreso il rapporto caratterizzato da un licenziamento intimato dal cedente, con onere, per il lavoratore, di impugnare il recesso nei sessanta giorni per evitare di incorrere nella decadenza. 54) Il trasferimento di azienda. Il trasferimento di azienda, disciplinato dall’art. 2112 c.c., presenta profili complessi: la norma, infatti, ha subito numerose modificazioni nel tempo, col risultato attuale che per aversi trasferimento di azienda occorre un qualsiasi mutamento soggettivo nella titolarità del datore di lavoro e non necessariamente un trapasso, fra cedente e cessionario, di beni e servizi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. La disciplina dell’art. 2112 c.c. introduce una ipotesi di accollo cumulativo esterno ex lege tra cedente e cessionario con la responsabilità solidale di entrambi per i debiti e le obbligazioni pregresse maturate, sempre che i dipendenti dell’imprenditore cedente siano transitati ope legis, senza soluzione di continuità, al cessionario, stante il divieto di licenziamento, individuale o collettivo, motivato dal solo presupposto della sopravvenuta cessione del compendio aziendale. Per tutti i rapporti di lavoro che legittimamente proseguono, il cedente ed il cessionario sono coobbligati in solido per tutte le pregresse pendenze debitorie insoddisfatte nei confronti dei lavoratori. Di contro, per i soli rapporti cessati ante tempus la responsabilità resterà concentrata in capo al cedente. 55) Evoluzione della normativa sull’estinzione del rapporto di lavoro. La disciplina originariamente predisposta dal c.c. artt. 2118 e 2119, dedicata indistintamente al licenziamento e alle dimissioni, prevedeva la regola della c.d. libera recedibilità (salva la giusta causa), in base alla quale il rapporto di lavoro, come contratto di durata, poteva essere risolto ad iniziativa di ciascuna delle parti a prescindere da qualsiasi giustificatezza, col solo obbligo del preavviso. La disciplina successiva, a partire dalla L. n. 604/1966 si è tutta incentrata sulla tutela del lavoratore contro il licenziamento, prevedendo anzitutto, la necessaria giustificatezza dell’atto di recesso datoriale che poteva (e può), essere intimato solo per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, come previsto dalla normativa che precede. La più significativa novità intervenuta in questa materia è stata l’art. 18 SL che ha introdotto l’istituto della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro, con l’effetto della ricostituzione retroattiva del rapporto dalla data del licenziamento fino alla riammissione in servizio ed una somma indennitaria, per questo periodo di tempo, pari a tutte le retribuzioni e contribuzioni maturate e non percepite. La successiva legge n. 108/1990 ha introdotto, da un lato, taluni temperamenti all’art. 18 SL, escludendone l’applicabilità ad es. alle organizzazioni di tendenza politica, sindacale e alle società cooperative e d’altro lato ampliando la portata operativa della norma ad ogni forma di discriminazione per ragioni di sesso, razza, lingua etc. La legislazione successiva ha fatto propria l’esigenza di depotenziare progressivamente la portata eccessivamente invasiva dell’art. 18 SL. Così dapprima la Riforma Fornero e poi il Jobs Act ne hanno limitato l’applicazione alle sole ipotesi più macroscopiche di nullità del licenziamento perché discriminatorio, intimato per causa di matrimonio o alla lavoratrice gestante durante il periodo di interdizione, ovvero per motivo illecito o ritorsivo. 56) Il licenziamento discriminatorio e le altre ipotesi di nullità di licenziamento. Le ipotesi di nullità del licenziamento sono tipiche e tassative e riguardano, anzitutto, il licenziamento discriminatorio intimato per ragioni di sesso, razza, lingua, religione, affiliazione politica, sindacale, sociale, etc. In particolare, per la lavoratrice madre la tutela decorre dall’inizio della gestazione e si estende fino al compimento del primo anno di età del bambino, con un meccanismo di presunzione assoluta di discriminatorietà del recesso iuris et de iure che prescinde persino dalla conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro. La nullità del licenziamento può derivare anche dalla frode alla legge, o dal motivo illecito unico, espresso e determinante. Infine, anche il licenziamento verbale, privo di forma scritta, viene ritenuto nullo ex lege. 57) Il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo. Il licenziamento disciplinare. L’art. 2119 c.c. definisce il recesso per giusta causa come quello determinato da un “fatto tale” da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Il comma 2 del medesimo articolo prevede che nel caso di dimissioni per giusta causa il lavoratore ha diritto all’indennità di mancato preavviso, onde evitare una indebita loclupletazione del datore di lavoro che, al fine di evitare il pagamento del preavviso, metta alle strette il proprio dipendente, costringendolo di fatto a dimettersi. Dal licenziamento per giusta causa (GC) differisce, sul piano quantitativo e qualitativo, il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con preavviso (GMS). La norma parla, a tal proposito, di un notevole inadempimento agli obblighi contrattuali da parte del lavoratore. Pertanto, sul piano quantitativo la condotta dolosa o gravemente colposa del lavoratore deve aver costituito un inadempimento contrattuale di non scarsa importanza (art. 1454 c.c.), ma non talmente grave da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro. Altri autori ritengono, invece, che sussista un ulteriore profilo differenziale tra le due fattispecie (GC e GMS) ossia quello di tipo qualitativo. 58) Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e il licenziamento collettivo per riduzione di personale La legge 604/1966 prevede il licenziamento, con preavviso, per giustificato motivo oggettivo (GMO), originato da ragioni tecniche, organizzative, produttive, per l’organizzazione del lavoro e per il regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro. Questo licenziamento, detto anche “tecnologico”, si caratterizza per la soppressione del posto di lavoro originariamente occupato dal dipendente, a seguito di una scelta organizzativo-gestionale operata dall’imprenditore, insindacabile da parte del giudice. A valle di tale scelta datoriale si determina la superfluità della posizione lavorativa occupata ex ante dal dipendente, che non può essere utilmente rioccupato in ambito aziendale. La giurisprudenza formatasi, anche di recente, sul licenziamento per GMO ha individuato due presupposti indefettibili di legittimità dello stesso. Anzitutto occorre che la scelta datoriale di soppressione del posto di lavoro costituisca una extrema ratio per l’imprenditore ossia che si caratterizzi per la necessarietà ed inevitabilità della stessa. Poi occorre che il datore di lavoro fornisca la prova di aver assolto all’obbligo di repêchage ossia alla verifica della non ulteriore utilizzabilità del dipendente in mansioni comprese nel proprio livello di inquadramento. Tale prova, vertendo su un fatto negativo, non è agevole per il datore di lavoro e si fonda per lo più su elementi presuntivi. Il licenziamento collettivo, invece, ricorre quando per riduzione o trasformazione di attività o di lavoro (elemento qualitativo) il datore di lavoro ponga in essere almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni (elemento quantitativo), in una unità produttive con più di 15 dipendenti. Nel licenziamento collettivo, tuttavia, il recesso plurimo deve essere necessariamente preceduto da una procedura articolata su due fasi: la prima, di tipo sindacale, attivabile a richiesta delle OS territoriali o delle RSA/RSU entro 7 gg. dalla comunicazione di avvio formulata dall’imprenditore finalizzata ad una consultazione sulle possibili alternative al licenziamento collettivo ed in caso di esito infruttuoso della prima, si aprirà una seconda fase amministrativa svolta tra le parti sociali con lo scopo di scongiurare il licenziamento. Decorsi infruttuosamente i complessivi 82 gg. il datore di lavoro potrà intimare, con preavviso, il licenziamento collettivo. 59) Il licenziamento per eccessiva morbilità e scarso rendimento. La pressante problematica relativa al c.d. licenziamento per eccessiva morbilità ha subito negli ultimi anni una considerevole battuta di arresto in ragione del fatto che la gran parte dei CCNL hanno espressamente regolamentato, accanto al c.d. comporto secco, anche il c.d. comporto frazionato o per sommatoria (riferito a più episodi morbosi reiterati e ricorrenti), con la previsione di un arco temporale di riferimento all’interno del quale le più assenze possono sommarsi come se si trattasse di un unico episodio morboso ai fini dell’applicabilità dell’art. 2110 c.c. Sul finire degli anni ’80 del secolo scorso, infatti, la Cassazione ritenne “arbitrariamente” di ricondurre il licenziamento per eccessiva morbilità, non tanto alla malattia, quanto piuttosto al giustificato motivo oggettivo di recesso. Secondo la Cassazione, infatti, l’organizzazione del lavoro, sarebbe stata pregiudicata o messa in pericolo da reiterate e periodiche assenze del lavoratore, tali da rendere imprevedibile la presenza-assenza del lavoratore sul luogo di lavoro, con nocumento per l’attività produttiva. ai danni del datore di lavoro. Anche il c.d. licenziamento per scarso rendimento si fonda naturalisticamente una scarsa o qualitativamente scadente produttività del lavoratore, con la conseguenza che tale istituto può essere ascritto a mancanze di tipo soggettivo oppure oggettivo. 60) Intimazione del licenziamento, termini di impugnazione, vizi formali, e procedurali il licenziamento (come anche le dimissioni) costituisce, sotto il profilo civilistico, un negozio giuridico unilaterale e recettizio, produttivo dei propri effetti allo scadere del periodo di preavviso, salvo la giusta causa, anche se nella pratica, il datore attribuisce sempre al recesso effetto immediato, dispensando il proprio dipendente dal lavoro durante il periodo di preavviso previo pagamento, oltre alle competenze di fine rapporto, della c.d. indennità sostitutiva del preavviso. Sul finire degli anni ’70 la giurisprudenza della Suprema Corte attribuiva “erroneamente” al preavviso una c.d. efficacia reale, riconoscendo al lavoratore il diritto a restare occupato fino all’ultimo giorno del periodo di preavviso e col divieto categorico per il datore di lavoro di monetizzare il preavviso stesso. Successivamente, la giurisprudenza è tornata sui suoi passi. Il licenziamento deve essere intimato in forma scritta, a pena di nullità, e deve contenere la contestuale esposizione dei motivi di recesso. In quanto atto recettizio, esso produce effetti al momento cui entra nella sfera di conoscibilità del destinatario, salvo che costui non provi di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia. Dalla data di ricezione grava sul lavoratore un doppio termine decadenziale: dovrà impugnare il licenziamento nei confronti del datore di lavoro, il ricorso stragiudiziale entro 60 giorni, e poi avrà 180 giorni di tempo per 66) Il lavoro intermittente. Il D. Lgs. 276/2003 disciplinava che in alcuni casi era possibile concludere un contratto di lavoro intermittente. Per lo svolgimento di prestazioni di “carattere discontinuo o intermittente”, a fronte di esigenze individuate dalla contrattazione collettiva a livello nazionale, con particolari categorie di lavoratori: disoccupati di età inferiore a 25 anni; lavoratori di più di 45 anni di età, che sono stati esclusi dal processo ciclo produttivo o siano iscritti alle liste di mobilità e di collocamento. Tuttavia, occorre aggiungere che un successivo intervento legislativo ha individuato ulteriori ipotesi in cui era possibile la stipulazione di contratti di lavoro intermittente, ossia custodi, guardiani diurni e notturni, guardie daziarie, portinai, fattorini (esclusi quelli che svolgono mansioni che richiedono un’applicazione assidua e continuativa) uscieri e inservienti, ecc. 67) Il lavoro a tempo determinato. La disciplina normativa su lavoro a termine (tempo determinato), nel corso degli anni ha subito vicissitudini molto travagliate. Nel Codice civile del 1865 il lavoro a tempo determinato era la regola, nel timore che l’instaurarsi di rapporti a tempo indeterminato potesse dare luogo al lavoro servile nel quale il dipendente diventava una pertinenza del datore di lavoro, come i macchinari e gli attrezzi agricoli. Con la codificazione del 1942 veniva ribaltata questa regola e, all’art. 2097 c.c., poi abrogato, si ammetteva la stipulazione del contratto a tempo determinato solo in presenza della forma scritta oppure di particolari causali elencate in un Decreto ministeriale. Il lavoro a termine nel nostro ordinamento è sottoposto da mezzo secolo ad una disciplina ossessiva che attualmente impone: forma scritta, giustificazione, divieti, limiti quantitativi, durata massima complessiva, intervalli minimi, limiti alla proroga, divieto di prosecuzione di fatto, parità di trattamento con i lavoratori a tempo indeterminato, conversione in contratto a tempo indeterminato in caso di violazione delle regole. Gli effetti dirompenti derivano soprattutto dalla stratificazione normativa con la disciplina dei licenziamenti individuali, che impedisce l’espulsione dall’organizzazione del lavoratore a termine beneficiario della conversione a tempo indeterminato. In questa situazione sono stati effettuati, nell’arco di circa trent’anni, vari interventi riduttivi della rigidità, tuttavia, ne sono state introdotte di nuove, come i divieti, i limiti quantitativi e la durata massima complessiva. 68) Il contratto di apprendistato. Il contratto di tirocinio (art. 2127 c.c.) poi diventato di apprendistato, ha ormai pacificamente natura di contratto a tempo indeterminato, caratterizzato da tre tipologie: per l’acquisizione di una professionalità elementare, coincidente con la fine della scuola dell’obbligo; professionalizzante, per apprendere un’arte o un mestiere nonché la qualificazione professionale; di alta formazione e specializzazione, anche post-universitaria. Diverse sono le novità derivanti dalla riforma del 2015, che si evincono già dalla nozione stessa dell’istituto: infatti, da un lato si conferma che tale tipologia contrattuale è da considerarsi quale “contratto a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione”, mentre, dall’altro, l’articolazione interna delle tre tipologie di apprendistato viene ampiamente modificata. Il c.d. “primo livello” amplia le proprie finalità. Esso, infatti, consente anche di acquisire il certificato di specializzazione tecnica superiore e il diploma di scuola secondaria superiore. All’ampliamento delle finalità dell’apprendistato di primo livello corrisponde un ridimensionamento di quello di terzo tipo. Quest’ultimo si conferma destinato alla formazione universitaria, all’attività di ricerca e, infine, al praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche, perdendo così, ogni aggancio ai titoli d’istruzione secondaria superiore. Poche novità sono state introdotte per quanto concerne il secondo livello. 69) Il lavoro domestico e il lavoro a domicilio. Il lavoro domestico, ha per oggetto l’opera svolta per il funzionamento della vita familiare, anche se lo si ritiene configurabile altresì in riferimento ad altre comunità come ad esempio quelle religiose. Le specialità del rapporto di lavoro domestico, ispirato al contemperamento della tutela del lavoratore con le esigenze di protezione della famiglia (art. 31 Cost.), sono costituite anzitutto dalla facoltà di assunzione diretta, senza alcun obbligo neppure di comunicazione successiva agli uffici per l’impiego, essendo sufficiente la denunzia all’Inps. Salva diversa disciplina dei contratti collettivi, è prevista l’esclusione di un orario di lavoro, con un conveniente riposo giornaliero e non meno di 8 ore consecutive di riposo notturno. È pacificamente ammessa la configurabilità di lavoro straordinario domestico, peraltro soggetto ad un rigoroso onere probatorio in giudizio, tale da non consentire di equivocare tra mera presenza in casa del domestico ed effettivo svolgimento della prestazione. Per quanto concerne invece il lavoro a domicilio, si inserisce nel fenomeno del c.d. decentramento produttivo poiché il personale non esegue la sua normale prestazione nei locali aziendali bensì presso il proprio domicilio in orari confacenti alle proprie esigenze personali, ma a condizione che sia assicurata all’imprenditore committente una determinata quantità settimanale, mensile, etc. di prodotto finito. E’ questa la ragione per la quale la forma di retribuzione utilizzata in questo settore è il cottimo puro cioè correlato essenzialmente al numero dei pezzi prodotti ,a altrimenti non ci sarebbe alcuna possibilità per l’imprenditore di verificare o meno l’apporto lavorativo dei propri dipendenti a domicilio che possono farsi coadiuvare, nella loro prestazione, anche dal coniuge, figli e familiari conviventi. Gli strumenti di lavoro installati nel domicilio dei lavoranti sono forniti in comodato d’uso gratuito dall’imprenditore committente così come i materiali necessari all’esecuzione della prestazione. Per tutto il resto, come ferie, permessi, etc., il lavoro a domicilio ricalca in toto il lavoro subordinato nell’impresa. 70) Il lavoro nello spettacolo e il lavoro giornalistico. Il contratto di scrittura artistica può instaurare un rapporto di lavoro subordinato o autonomo in relazione all’inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa. La subordinazione non è esclusa quando l’artista, restando soggetto alle direttive dell’imprenditore sul piano organizzativo, si sia riservato un potere di controllo sulla sceneggiatura oppure partecipi agli utili. La disciplina lavorativa del lavoro del lavoro del giornalista è strettamente connessa all’esercizio della professione giornalistica, tuttora regolata da una legge del 1963. Dopo un periodo di praticantato presso una testata giornalistica quotidiana, periodica, radiofonica o televisiva si accede all’esame di abilitazione professionale, conseguendo il tesserino di giornalista. Per i giornalisti dipendenti radiofonici e televisivi si pone spesso il problema, onde evitare una duplicazione della contribuzione previdenziale obbligatoria (INPGI – ex ENPALS), di stabilire quale sia la prevalenza fra attività giornalistica e programmi di intrattenimento. 71) Il lavoro nautico. La navigazione marittima ed aerea necessita di contemperare la tutela dei lavoratori con l’interesse pubblico alla sicurezza e regolarità della navigazione stessa. Cosicché, a tale scopo il codice della navigazione contiene una disciplina speciale, come sistema autosufficiente, prevedendo l’applicazione del diritto civile solo ove manchino disposizioni particolari oppure non ve ne siano di applicabili per analogia. In tal senso al comandante della nave o dell’aeromobile sono attribuiti ampi poteri anche pubblicistici, nei confronti dei membri dell’equipaggio, con la previsione di un “ruolo” dei lavoratori iscritti in apposite matricole, avente natura di atto pubblico. Quanto all’applicazione delle tutele di cui allo statuto dei lavoratori al personale navigante, va segnalato che possono distinguersi disposizioni direttamente operanti da tutte le altre la cui attuazione è fatta dipendere dalla contrattazione collettiva del settore. Tuttavia, la Corte costituzionale ha ritenuto applicabile al lavoro nautico sia la tutela contro il licenziamento, sia il procedimento disciplinare, ritenendo tali garanzie imprescindibili e compatibili con lo status dei naviganti. 72) Il lavoro degli autoferrotranvieri. Il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri è disciplinato tuttora dal Regio decreto del 1931 n. 148. Alla fine degli anni ’80 tale categoria di lavoratori è stata ammessa alla materia della contrattazione collettiva. Le controversie di lavoro del personale autoferrotranviario sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario ad eccezione di quelle inerenti il procedimento e, più in generale, la materia disciplinare. Il personale di ruolo deve essere necessariamente assunto per concorso pubblico e, in ogni caso, per un periodo di prova di durata variabile in ragione del mezzo di trasporto cui viene adibito. Esaurito il periodo di prova con esito positivo (idoneità) il lavoratore è assunto in pianta stabile. In caso di inidoneità è disposto l’esonero con diritto all’indennità di fine lavoro. Il licenziamento, chiamato esonero definitivo, può avvenire per inabilità fisica, per imperizia non imputabile a negligenza, per scarso rendimento imputabile e per il venir meno della fiducia. 73) Il lavoro sportivo. Il rapporto di lavoro sportivo riguarda solo gli sportivi professionisti, categoria individuata tra gli atleti, direttori sportivi, preparatori atletici, esercenti attività sportiva a titolo oneroso e con carattere continuativo, nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni e tesserati come professionisti delle federazioni riconosciute dal Coni. Lo sportivo professionista è un lavoratore subordinato allorquando esercita l’attività, essendo vincolato a sedute di allenamento o di preparazione, con prestazione continuativa, svolgendo la propria attività in modo strutturato. A tal proposito, si ricorda che, ai fini dell’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro sportivo, non sarebbe decisivo il requisito dell’onerosità della prestazione, così come precisato da una parte della giurisprudenza che ritiene sussistente il vincolo della subordinazione nel caso in cui il preparatore di una squadra di calcio giovanile, pur non essendo mai stato retribuito, abbia assiduamente svolto la sua attività sotto la direzione dell’allenatore, sia stato inserito nell’organigramma del settore, abbia osservato un orario di lavoro prefissato in relazione alla disponibilità del terreno di gioco e nel periodo in questione non abbia lavorato in favore di soggetti diversi dalla società. Lo sportivo professionista è, invece, un lavoratore autonomo quando rende l’attività in relazione ad un unico evento sportivo ovvero a più “manifestazioni” che rientrano nell’ambito dello stesso evento sportivo non è obbligato a presenziare all’attività di allenamento o di preparazione, svolge la prestazione oggetto del rapporto di lavoro in modo limitato nel tempo Circa la possibilità che in capo alla stessa persona siano riconducibili due rapporti di lavoro sportivo professionistico (uno subordinato e l’altro autonomo), la giurisprudenza si è espressa favorevolmente, chiarendo che non può escludersi la coesistenza di un rapporto di lavoro sfrenata, su vasta scala, di questa tipologia contrattuale, in mansioni assolutamente incompatibili con un qualsivoglia progetto, ha generato un notevolissimo contenzioso giudiziario, con l’effetto perverso della conversione dei relativi rapporti in lavoro subordinato a tempo indeterminato, comportando aggravi notevolissimi di spesa per quegli imprenditori che avevano inopportunamente attribuito al lavoro a progetto una sorta di effetto taumaturgico. Non costituisce indice di subordinazione, che possa far dedurre simulato un contratto di lavoro a progetto, il fatto che il collaboratore a progetto lavorasse abitualmente in ufficio o che dovesse comunque avvertire in caso di assenza, che sono dati equivoci e spiegabili in ragione delle esigenze di coordinamento con la struttura aziendale e della necessità dello stesso ricorrente di utilizzare gli strumenti e l'apparato logistico messo a disposizione del datore di lavoro; né costituisce valida spia del potere gerarchico il fatto che alcune direttive fossero rivolte indifferentemente al collaboratore a progetto e a un dipendente, in mancanza di contenuti di per sé idonei a rivelare un preciso meccanismo di eterodirezione; non appare di per sé significativa di subordinazione neppure la previsione di un "budget" di vendita e di relativi "bonus", che sono elementi non estranei al progetto e quindi al risultato richiesto al collaboratore; perché fosse accertato un lavoro subordinato sarebbe stato necessario allegare e provare un'effettiva ingerenza del committente sugli aspetti organizzativi e di gestione del progetto, come nella specie sulle decisioni quanto ai clienti da contattare, alle modalità per allacciare i rapporti commerciali, alle strategie di marketing poste in essere. 79) Le collaborazioni etero-organizzate dal committente. Si tratta di una nuova disciplina, introdotta nel nostro Paese dalla legge 81/2017. I tratti peculiari di questi rapporti sono costituiti: dal carattere esclusivamente personale della prestazione, dalla continuità della stessa e dall’organizzazione da parte del committente delle modalità di esecuzione, anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Il collaboratore organizzato non può avvalersi a sua volta di altri soggetti nemmeno quando l’apporto degli stessi dovesse risultare di maggiore utilità rispetto allo svolgimento personale del lavoro; in presenza di più collaboratori questo tipo di prestazione non sarebbe più riconducibile alla disciplina del lavoro subordinato come è per legge; inoltre, si richiede una prestazione di lavoro durevole nel tempo e etero- organizzata nel senso che la posizione del committente si esercita nei confronti del lavoratore con una maggiore capacità di penetrazione in ordine al tempo e al quomodo del tradizionale potere direttivo datoriale di cui agli artt. 2094 e 2104 c.c. tipici della subordinazione tradizionale. 80) Il lavoro accessorio e le prestazioni di lavoro occasionale. La Riforma Fornero interviene sul lavoro occasionale c.d. accessorio compensato mediante buoni, ribadendo che deve trattarsi di “attività lavorative di natura meramente occasionale”, ma restringendo il limite massimo del compenso annuale che era di euro 5.000 per ciascun committente, ad euro 5.000 complessivi “con riferimento alla totalità dei committenti”, con conseguente fortissima limitazione all’utilizzo dell’istituto. Viene aggiunta un’ulteriore restrizione secondo la quale, se il committente è un imprenditore commerciale o un professionista, il compenso annuale per singolo committente non può superare euro 2.000. Il lavoro accessorio è stato riformato nel 2008, assumendo una portata molto più ampia, in quanto può trovare applicazione in una serie di attività che prima non erano contemplate. 81) Il lavoro gratuito e il lavoro dei religiosi. Le questioni che si pongono in relazione ad attività lavorative gratuite riguardano sia il regime giuridico del rapporto nel quale, una delle parti, utilizzi l’altrui attività lavorativa senza essere obbligata alla remunerazione, sia i casi in cui, per non essere stata espressa chiaramente la volontà contrattuale, l’obbligo di remunerazione sia dubbio. In ordine alla prima questione, non vi è concordia in dottrina circa l’estensione degli effetti giuridici determinati dall’ordinamento in presenza di un rapporto di lavoro gratuito. Secondo una parte della dottrina l’onerosità della prestazione è un elemento naturale, ma non essenziale del rapporto di lavoro, la cui disciplina, ivi compresi gli aspetti previdenziali, andrebbe applicata anche nel caso di lavoro gratuito. Anzi, l’art. 2094 c.c. porrebbe la retribuzione tra gli elementi del rapporto di lavoro subordinato soltanto a causa della eccezionalità statistica dei casi di lavoro gratuito. A questa dottrina si contrappone la tesi che nega la configurabilità di un tipo negoziale di lavoro subordinato talmente ampio da ricomprendere anche quello senza remunerazione. Occorre, pertanto, stabilire quali disposizioni debbano ritenersi applicabili solo alla figura tipica di cui all’art. 2094 c.c. e quali invece possano riferirsi anche al rapporto gratuito, in via di estensione analogica oppure di applicazione diretta. Il carattere residuale dell’impresa familiare, quale risulta dall’incipit dell’art. 230-bis c.c., mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per le quali non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, con l’effetto di confinare in un’area limitata quella del lavoro familiare gratuito. Di conseguenza, ove un’attività lavorativa sia stata svolta nell’ambito dell’impresa, ed un corrispettivo sia stato erogato dal titolare, il giudice di merito dovrà valutare le risultanze di causa per distinguere tra la fattispecie del lavoro subordinato e quella della compartecipazione all’impresa familiare, escludendo la causa gratuita della prestazione lavorativa per ragioni di solidarietà familiare. Altro ambito tipico del lavoro gratuito è quello delle comunità religiose, al cui interno i singoli componenti svolgono la loro attività anche secolare religionis causa, con esclusione dalla disciplina sostanziale e previdenziale sul rapporto di lavoro subordinato. Se invece il lavoro è prestato a favore di un ente diverso da quello di appartenenza opera la normale presunzione di onerosità. A seguito dell’entrata in vigore della legge recante disposizioni per il sostentamento del clero cattolico, l’art. 30 del Concordato del 1929 deve considerarsi abrogato. Consegue, pertanto, che i sacerdoti che svolgano servizio in favore di una diocesi sono tenuti a comunicare annualmente all’Istituto diocesano competente le retribuzioni ricevute da enti ecclesiastici o da terzi. I sacerdoti che prestano servizio nell’ambito delle strutture ecclesiastiche di una diocesi hanno, quindi, un vero e proprio diritto a percepire, per lo svolgimento del loro ministero, una retribuzione ed eventualmente un’integrazione della stessa. 82) Il lavoro in cooperativa. Il lavoro in forma cooperatistica è particolarmente valorizzato dal nostro sistema giuridico anche di livello costituzionale (art. 45 Cost.) incentrato sullo scopo mutualistico ossia di mutuo soccorso reciproco, tra i vari soci, soprattutto nel settore delle cooperative di produzione e lavoro nelle quali l’apporto fornito dal lavoratore è qualificabile, in linea di principio, come prestazione accessoria, rispetto alla mutualità, che deve sempre caratterizzarla. Questa tipologia lavorativa non si conforma alla subordinazione tradizionale ex art. 2094 c.c., a causa dell’assenza di alienità del risultato produttivo rispetto ai lavoratori stessi che sarebbero altrimenti datori di lavoro si sé stessi. Quindi seguendo questa tesi il lavoro in cooperativa non comporterebbe le conseguenze economico-normative di quelle del lavoro subordinato. Con la legge 142/2001, tuttavia, è stato previsto che nelle cooperative di lavoro possano esserci soci di capitale e soci d’opera addetti a prestazioni lavorative come il facchinaggio, le pulizie, la guardiania, secondo mansioni, tempi, orari e modalità in tutto ricalcate sul lavoro subordinato. 83) Il contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro. Un istituto particolarmente utilizzato in passato, soprattutto per finalità fraudolente, era l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro di cui all’art. 2549 c.c. nella quale l’associante utilizzava le prestazioni lavorative dell’associato, riconoscendo a quest’ultimo il diritto alla partecipazione agli utili sulle opere realizzate, in virtù del suo contributo, sul singolo affare, senza alcun vincolo di subordinazione. Questo istituto si prestava a facili elusioni rispetto al principio d’indisponibilità del tipo lavoro subordinato (art. 2094 c.c.), poiché l’associato finiva per essere stabilmente inserito nell’organizzazione datoriale dell’associante che esercitava su di lui il potere direttivo, disciplinare e di controllo, tipici della etero-determinazione organizzativa subordinata alla stregua del metodo sillogistico-sussuntivo. Al fine di evitare elusioni, il legislatore ha introdotto una presunzione di subordinazione ogni qualvolta nel rapporto manchi una "effettiva partecipazione". La partecipazione, pertanto, che deve essere riconosciuta al lavoratore associato, non può essere confusa con la partecipazione alle scelte imprenditoriali ed alla gestione dell'impresa, che spetta soltanto all'imprenditore associante, a norma dell'art. 2552. 84) La tutela stragiudiziale dei diritti del prestatore di lavoro. Per ridurre il contenzioso giudiziario del lavoro, il legislatore confida sulla conciliazione stragiudiziale e sull’arbitrato. Il tentativo di conciliazione in sede sindacale o innanzi agli appositi collegi e commissioni istituiti presso le Direzioni territoriali del lavoro (ora ITL) o presso gli organismi di certificazione era stato reso obbligatorio a pena di improcedibilità della domanda. Ma un tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale è inutile, poiché le parti, prima di rivolgersi al giudice, conciliano solo le controversie per le quali i loro rappresentanti, siano essi sindacalisti, consulenti del lavoro o avvocati, siano riusciti a raggiungere un accordo. L'unico conciliatore efficace è il giudice o l'arbitro, già nominato tale, poiché solo chi ha il potere di decidere la controversia può fare pressione sulle parti con parole misurate, che, pur non anticipando la decisione, rappresentano a ciascuna parte concretamente e nell'immediato i rischi di tale decisione. Di grande rilievo, se sarà effettivamente applicata, è, invece, la previsione per cui il giudice, alla prima udienza, non si deve limitare a tentare la conciliazione, ma deve anche formulare alle parti una proposta transattiva. Infatti, il potere di convincimento da parte di chi, in caso di rifiuto della propria proposta, deve decidere la lite è molto forte, a differenza della noncuranza con cui vengono e verranno trattate le proposte del mero conciliatore. 85) La certificazione dei contratti di lavoro. Per meglio comprendere la funzione dell’istituto della certificazione appare opportuno descrivere come avviene in concreto attualmente l’operazione di interpretazione giurisprudenziale della “qualificazione del rapporto di lavoro”. Nell’ambito dei rapporti di lavoro si contrappongono ai fini interpretativi due diverse metodologie qualificatorie individuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza: la sussunzione e il c.d. metodo La decisione, adottata in base ai documenti, può essere di rigetto o di accoglimento, anche parziale, del ricorso ed in questo secondo caso la diffida viene annullata in tutto o in parte. Il datore di lavoro può proporre ricorso amministrativo avverso la diffida dichiarata esecutiva al Comitato regionale per i rapporti di lavoro, composto dal direttore della Direzione regionale del lavoro, dei direttori regionali di INPS e INAIL ed integrato da due rappresentati sindacali, rispettivamente uno dei datori di lavoro e uno dei lavoratori, se nominati tempestivamente (comma 4). Non è previsto un termine per la proposizione del ricorso, ma l'interesse a farlo celermente è del datore di lavoro, poiché il ricorso sospende l'efficacia esecutiva della diffida. In caso di omessa decisione entro novanta giorni, si forma il silenzio rigetto (comma 4). Pertanto, questo controllo amministrativo è solo eventuale. La decisione, adottata in base ai documenti, può essere di rigetto o di accoglimento, anche parziale, del ricorso ed in questo secondo caso la diffida viene annullata in tutto o in parte. 90) Il controllo giurisdizionale. Il legislatore, significativamente nella sua criticabile prospettiva, nulla dice sulle forme della insopprimibile (art. 24 Cost.) tutela giurisdizionale avverso la diffida accertativa. In proposito è sicura la giurisdizione del giudice ordinario del lavoro, poiché la questione riguarda diritti soggettivi e correlati obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. L'azione può essere proposta subito dopo la notifica della diffida, senza necessità di attendere la dichiarazione di esecutività della stessa e di presentare preventivamente il relativo ricorso amministrativo. Si tratta di azione di accertamento negativo, mediante la quale il datore di lavoro chiede che sia accertata l'inesistenza, totale o parziale, del credito del lavoratore affermato in via amministrativa. La legittimazione passiva è del lavoratore titolare del credito in contestazione, con il litisconsorzio solo facoltativo dell'amministrazione che lo ha accertato, ma che non per questo diviene sostituto processuale del lavoratore. L'onere di allegazione e prova dei fatti costitutivi dell'asserito credito grava sul lavoratore e sull'amministrazione convenuti in accertamento negativo, quali attori in senso sostanziale come nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo o a ordinanza ingiunzione. L'accertamento amministrativo fa piena prova fino a querela di falso ex art. 2700 c.c. soltanto per i fatti percepiti direttamente dal verbalizzante, mentre non hanno alcun valore probatorio né l'esposizione nel verbale di quanto appreso da terzi, tenuti a rendere la propria deposizione come testi sotto giuramento innanzi al giudice e nel contraddittorio tra le parti, né le soggettive elaborazioni, ricostruzioni e qualificazioni operate dall'ispettore, che non possono, dunque, neppure invertire l'onere della prova. 91) Forma-contenuto degli atti introduttivi del giudizio e prima udienza di comparizione-trattazione. L'art. 414 c.p.c. nel disciplinare la forma ed il contenuto della domanda dell'attore stabilisce, anzitutto, che la causa va introdotta con ricorso, ossia con un atto che strutturalmente è portato prima a conoscenza del giudice e poi comunicato o meglio notificato al convenuto. La dottrina è unanime nel ritenere che la scelta di tale forma per l'atto introduttivo risponde all'intento di porre il giudice (rectius: ufficio giudiziario) in grado di assicurare l'effettiva trattazione della causa alla prima udienza, evitando che la stessa si riduca ad un mero rinvio con pregiudizio per l'attuazione dei principi di concentrazione e di immediatezza del processo. Consegue che la fissazione della data della udienza di comparizione compete, in via esclusiva, al singolo istruttore designato, essendo solo questo in grado di sapere il proprio carico di lavoro e le proprie esigenze di ruolo. L'adozione della forma del ricorso è stata altresì determinata, almeno inizialmente, dall'intento di imporre all'attore (di regola il lavoratore) il compimento della minor quantità possibile di attività e di incombenti. Ciò avrebbe dovuto realizzarsi con l'imposizione a carico dell'ufficio del compito di notificare al convenuto il ricorso ed il pedissequo decreto di fissazione dell'udienza. La speciale forma dell'atto introduttivo, rispetto alla citazione prevista per il rito ordinario, non implica però differenze sostanziali degli elementi di forma-contenuto del ricorso rispetto a quelli indicati dall'art. 163 nn. da 1 a 5 c.p.c. Infatti, l'art. 414 c.p.c. ricalca fedelmente, salvo qualche differenza secondaria, i requisiti identificativi della domanda giudiziale di cui all'art. 163 c.p.c. ad eccezione di quanto previsto per la vocatio in ius. Oltre all'indicazione del giudice adito, ed a quella relativa alle parti, il ricorso deve contenere "l'oggetto della domanda" (petitum), "i fatti e gli elementi di diritto su cui si fonda la domanda" (causa petendi) nonché "i mezzi di prova e i documenti che si offrono in comunicazione". Al ricorso introduttivo sono ricollegate preclusioni: a) sia in punto di determinazione dell'oggetto della domanda, che in relazione ai mezzi di prova posti a fondamento della domanda stessa. 92) I mezzi di prova, l’attività istruttoria e la decisione della causa (rito Fornero e Tutela cautelare) Con la l.n. 92/2012 è stato introdotto un rito speciale accelerato dall’art. 1 comma 48, legge cit. avente ad oggetto la sola impugnativa dei licenziamenti, previo accertamento delle questioni relative alla qualificazione giuridica del rapporto. La domanda giudiziale si propone con ricorso al giudice del lavoro di primo grado e deve avere ad oggetto in ogni caso, la richiesta di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro precedentemente occupato o in via subordinata la condanna del datore di lavoro al pagamento della penale risarcitoria da n. 12 a n. 24 mensilità di retribuzione globale di fatto computata sull’anzianità di servizio e sulle dimensioni aziendali. Detto ricorso deve essere notificato alla controparte almeno 25 gg prima dell’udienza di prima comparizione che dovrà essere fissata non più tardi di 40 gg dalla data di deposito, cartaceo o telematico del ricorso. Parte convenuta potrà costituirsi in giudizio con le stesse modalità fino a 5 giorni prima dell’udienza. Il Giudice potrà compiere gli atti di istruzione indispensabili all’accertamento della materia del contendere ed in ogni caso, deciderà la causa con ordinanza (a scioglimento della riserva assunta), a sua volta opponibile nei 30 gg. successivi alla comunicazione o notificazione con ricorso da notificarsi con le stesse modalità. La tutela cautelare di cui agli artt. 669 bis e ss. c.p.c. trova applicazione anche alle controversie di lavoro con particolare riferimento all’Istituto del ricorso per provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.; questa norma richiede la sussistenza contestuale di 2 presupposti: il fumus boni iuris ed il periculum in mora. Con il primo termine si suole indicare l’apparenza di fondatezza del diritto che costituirà oggetto del giudizio a cognizione piena, destinato a svolgersi nei 30 gg successivi alla decisione del cautelare; invece, con il secondo termine ci si riferisce alla nozione di pregiudizio imminente ed irreparabile ossia grave e prossimo e non riparabile adeguatamente per equivalente monetario ma soltanto in forma specifica. Con l’ordine del Giudice di ripristino dell’attualità del rapporto. L’utilizzo della tutela cautelare atipica nel rito del lavoro è stato ridimensionato sia dall’introduzione del Rito Fornero e sia dal fatto che il processo lavoristico presenta già le caratteristiche di concentrazione ed immediatezza che lo rendono rapido e veloce e come tale non giustificano una ulteriore tutela acceleratoria. 93) Sistema delle preclusioni e poteri del giudice. Interrogatorio libero delle parti. La prima udienza di trattazione ex art. 420 c.p.c. è destinata ad assolvere un ruolo fondamentale nel modello di processo delineato dalla L. n. 533/1973. In un sistema di rigide preclusioni, per lo più ancorate agli atti introduttivi del giudizio, la prima udienza - alla quale le parti devono intervenire di persona per essere interrogate liberamente dal giudice sui fatti di causa - consente la fissazione tendenzialmente definitiva del thema decidendum (domande ed eccezioni) e del thema probandum (fatti controversi o comunque bisognosi di prova) attraverso una collaborazione effettiva tra giudice e parti consentendo un esercizio ragionevole ed equilibrato dei poteri officiosi discrezionali. La prima attività da svolgere all'udienza di trattazione è l'interrogatorio libero non formale delle parti di cui all'art. 420, 1^ e 2^ co., c.p.c., previsto in via generale dall'art. 117 c.p.c. L'interrogatorio libero delle parti si rivela come strumento indispensabile di temperamento al sistema delle preclusioni che, per la sua eccessiva rigidità, potrebbe finire per comprimere il diritto di difesa delle parti restando come tale destinato alla disapplicazione. In questa sede, infatti è consentita alle parti una seppur limitata possibilità di emendatio (modifica e non mutamento) delle domande ed eccezioni già proposte purché ricorrano "gravi motivi" e "previa autorizzazione del giudice", nonché la possibilità di chiedere l'assunzione di mezzi di prova "che le parti non abbiano potuto proporre prima". Resta tuttavia impregiudicato il potere di disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni di prova anche fuori dai limiti di ammissibilità stabiliti dal Codice civile. 94) Il vecchio processo del lavoro nel pubblico impiego privatizzato. La riforma introdotta dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, evoca numerose problematiche sia sostanziali che processuali, tra le quali emerge, preliminarmente, quella relativa all’efficacia nel tempo della nuova disciplina sul tentativo obbligatorio di conciliazione. Quest’ultima realtà di nuova organizzazione giudiziaria pone, a sua volta, diversi ed ulteriori problemi applicativi, richiedendo la realizzazione di strutture adeguate e complesse, con la soppressione di numerosi uffici tradizionalmente “vicini” all’utente della giustizia, come ad esempio sono state finora le sezioni distaccate delle Preture circondariali (ex lege n. 30/89) che, nel bene e nel male, hanno rappresentato comunque uno snodo fondamentale nella quotidiana gestione del contenzioso civile e del lavoro, rispetto invece alla più complessa struttura dei Tribunali nella loro dimensione di massima complessità. Il disegno di riforma ha il suo punto di massima emersione e di più spiccato interesse, nella devoluzione, salve le categorie soggettive eccettuate ex art. 1, comma 4, D.Lgs. n. 29/93, di tutte le controversie in materia di lavoro pubblico trasferite senza residui, alla cognizione del giudice ordinario che ne conosce attraverso i tradizionali strumenti del processo del lavoro introdotto dalla legge 11 agosto 1973, n. 533. Il primo atteggiamento seguito da parte degli osservatori più attenti, di fronte a questa innovazione epocale, solo parzialmente arginata dalla conservazione della giurisdizione amministrativa per le questioni attinenti al periodo di rapporto anteriore al 30 giugno 1998, è stato di grosso timore per l’enorme contenzioso, destinato a riversarsi sul giudice ordinario.