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Parafrasi e Analisi sonetto XXV Canzoniere Petrarca, Sbobinature di Letteratura Italiana

parafrasi e analisi verso per verso del sonetto XXXV, appunti presi durante le lezioni.

Tipologia: Sbobinature

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Scarica Parafrasi e Analisi sonetto XXV Canzoniere Petrarca e più Sbobinature in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Lezione 14 Marzo: Sonetto xxxv; seconda quartina Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d’alegrezza spenti di fuor si legge com’io dentro avampi: Non trovo altro riparo il quale mi eviti il fatto che la gente all’evidenza mi conosca in piena certezza quale io sono, possa leggere nella mia espressione la verità della mia condizione interiore perché negli atti privi di ogni letizia, si sporge all’esterno (si rende visibile) quell’incendio che è dentro di me. Avampi: espressione immagine che basta a capire la natura amorosa della pena, del tormento del soggetto; Trattandosi di lessico lirico specializzato, usato già prima di Petrarca nella lirica amorosa duecentesca e anche dantesca della Commedia. Cosicché (ossia) in conseguenza del mio vagabondare io ormai so che la natura (paesaggio) che mi circonda sappia (appreso chiaramente) di che qualità (o tenore) sia la mia vita che agli altri sarebbe nascosta dalla mia segregazione. sì ch’io mi credo omai che monti et piagge et fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch’è celata altrui Figura retorica caratteristica della lirica petrarchesca e radicata nella lirica trobadorica: l’enumerazione in questo caso di oggetti naturali, realtà naturali che tuttavia non danno ruolo ad una descrizione di tipo realistico, interessa soltanto la loro indicazione di carattere generico quasi simbolico più che descrittivo. Il paesaggio è l’interlocutore, il destinatario che riceve l’espressione della pena del soggetto ma si conclude con un’avversativa: Eppure per quanto mi sforzi io non riesco a trovare vie così aspre e così selvagge che amore non venga sempre discorrendo con me e io con lui. Ma pur sì aspre vie né sì selvagge cercar non so ch’Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co·llui. Quindi il rovello e i pensieri non si interrompe mai, l’autentico silenzio pare irraggiungibile. La solitudine non è un rimedio della pena amorosa. Questa costatazione si trova in chiave diversa, quasi comica, in Ovidio nei Rimedia Amoris in cui sul piano del ricettario galante si raccomanda all’innamorato deluso di non cercare la solitudine bensì la compagnia. Canzone 23: Formalmente una canzone, in realtà ha la dimensione di un poemetto di emulazione ovidiana (riferimento alle metamorfosi) ha per oggetto il duro scempio (v10) che Amore infligge a Petrarca (protagonista) per mezzo di una Laura molto simile nei tratti alla donna Pietra delle canzoni dantesche (in cui si sottolinea la crudeltà ossia l’insensibilità alle offerte amorose del poeta). Solo alla stanza sesta questa ispirazione cede spazio ad una Laura in fattezze più simili a quella Beatrice del XXX canto del Purgatoria, ossia una Beatrice che rimprovera aspramente per il bene di Dante, al fine di condurlo sulla retta via. Questa canzone, come tale, funziona come manifesto della poesia petrarchesca in una sua prima fase. Segue come filo conduttore la narrazione di una serie di trasformazioni subite dal poeta a causa della sua passione amorosa e del disegno di Laura. Una serie di trasformazioni: la prima in Alloro che è spiritualmente irreversibile per gli effetti interiori, così a rappresentare un’identificazione dell’amante nell’amata, si fa incorporare dall’idea dell’amata. Le successive metamorfosi sono punizioni temporanee per la sequenza di peccati di desiderio. Ragioni che poi rientrano a causa del desiderio. La castità di Laurea si presenta come l’atto di una donna Pietra, al desiderio non vengono riconosciuti valori positivi, etici in nessun senso. Questo testo ha 4 postille nel vat.lat. 3196. La più antica porta la data 1350 aprilis tre mane. (la mattina del tre aprile) riprende questo testo dopo molti anni (post multos annos). “Dopo molti e molti anni nel 1350, la mattina del 3 aprile, perché nei giorni scorsi insistetti nel dare ultima mano a queste poesie volgari, ho creduto bene trascrivere a suo ruolo anche questa ma prima scriverla qui, ricavata da altri papiri”. Sta dicendo che il testo è stato trascritto entro il 1350 in vista di una stesura suprema del De Rerum Volgari. In altre parole, dopo aver faticato tre giorni per dare l’ultima mano (conferire fisionomia ultima )a queste poesia volgari (fase in cui si sta impegnando) ho creduto bene di trascrivere qui anche questa, dopo averla scritta su questa pagina. Prima l’ha stesa in bella copia e poi l’ho trascritta da un’altra parte. F: 3196, c. 11v: un’altra postilla: “sed nondum correctum est de primis inventionibus nostris scriptum hoc” (= “non ancora corretto, una delle nostre prime opere”) e aggiunge la data del 28 aprile 1351, giovedì notte (“nocte concubia” = “a notte avanzata”). c. 11v: altra postilla latina: 4 novembre 1356, “mentre penso alla fine delle mie nughe”. Interessante la denominazione dei versi volgari come “nugae” cioè bagatelle, cose da poco, marcando una differenza tra la poesia volgare e la grande poesia latina. c. 11r: altra postilla latina, all’inizio della canzone stessa, in alto, scrive: “transcriptum in ordinem post multos et multos annos”, quindi “trascritto in ordine (cioè in un canzoniere) dopo molti anni”, “con ulteriori modifiche nel 1356, il 10 novembre a Milano, al vespro” (Petrarca si trovava spesso a Milano presso i Visconti). Confrontando questa pagina con la successiva (11r e 11v) si nota una differenza di scrittura. Prima pag.: calligrafica corsiva; seconda pag.: corsiva molto frettolosa. Secondo i paleografi, la data del 1350 va riferita solo ai versi trascritti frettolosamente, la parte calligrafica invece risale a parecchi anni prima (1336-1337). Quindi una bella copia degli anni ‘36-‘37 è stata ripresa negli anni ‘50 e sviluppata, come abbiamo visto, fino al 1356. Stanza introduttiva (canzone 23): Differenze tra il ms. 3196 e il 3195 + stampa: “troppo altamente”: nel ms. 3196 “troppo aspramente” è cancellato con una linea e sopra viene scritto “altamente” e tale rimane fino all’edizione definitiva. Nel 3196, “ne sono stanche et già per ogni valle” diventa “ne son già stanche, et quasi in ogni valle”. Petrarca sposta “già” e introduce il “quasi”. Inserendo il “quasi”, crea un’attenuazione, l’espressione diventa meno assertiva, l’attenuazione non è sostanziale ma l’impressione generale che si ricava dal verso è attenuata. Parafrasi e commento: Nel dolce tempo de la prima etade, che nascer vide et anchor quasi in herba la fera voglia che per mio mal crebbe, perché cantando il duol si disacerba, canterò com’io vissi in libertade,5 mentre Amor nel mio albergo a sdegno s’ebbe. Notiamo subito un’alterazione della logica sintattica perché Petrarca ha preferito collocare all’inizio, nel primo verso, un incipit primaverile ma in realtà il vero focus è sul motivo per cui sta scrivendo “perché cantando il duol si disacerba” (v. 4), la vera motivazione della canzone è questa: cantando il dolore si attenua. “Perché cantando il duol si disacerba canterò io” (v. 4) = motivo oraziano: “le nere sofferenze si attenuano grazie al canto” Parafrasi: Poiché cantando si ottiene un’attenuazione del dolore, io canterò come io sono vissuto libero dal giogo della passione fintanto che, dentro di me, amore fu tenuto a sdegno, cioè non considerato, nel dolce tempo della prima età (quindi da giovane). “il dolce tempo della prima etade”: La prima visione di Laura è nel 1327, quando Francesco ha 23 anni, quindi “il dolce tempo della prima etade” si colloca prima di quella data, durante la prima gioventù. Le nomenclature delle età in ma rielaborazione della fonte) l’amore produce nell’amante questa continua oscillazione tra gioia e dolore. “E quei due: la forza congiunta del Dio d’amore e di Laura mi trasformarono in quello che io sono facendomi da quell’uomo vivo che ero un lauro sempre verde”. Elementi essenziali di Apollo e Dafne ma qui avviene una singolare inversione, riferimenti anche al motto platonico secondo il quale ogni amante desidera fondersi con l’amato per ristabilire una originaria identità. Esso è facilmente assunto dalla spiritualità cristiana cioè l’uomo ama Dio e vuole ricongiungersi al Creatore qui però viene trasferito sul piano psicologico cambiando disegno cioè questo desiderio di fusione non ha niente di positivo ma è autodistruttivo poiché è una forma di perdita di sé stesso. Questa trasformazione in lauro nell’ambito della creazione è irreversibile, il protagonista non risolve mai questa dissoluzione nel desiderio amoroso. Metamorfosi descritta nella stanza successiva. Terza stanza Qual mi fec’io quando primer m’accorsi de la trasfigurata mia persona, e i capei vidi far di quella fronde di che sperato avea già lor corona, e i piedi in ch’io mi stetti, et mossi, et corsi, com’ogni membro a l’anima risponde, diventar due radici sovra l’onde non di Peneo, ma d’un piú altero fiume, e n’ duo rami mutarsi ambe le braccia! “che cosa diventai, nel mio cuore che paura sentii quando mi resi conto del fatto che la mia persona stava cambiando la sua immagine e vidi i capelli trasformarsi in quell’alloro di cui avevo sperato di incoronarmi con l’alta poesia in latino diventa invece la mia presenza fisica”. In questo punto il desiderio della gloria poetica viene presentato come anteriore al fatale incontro con Laura. Riferimento intertestuale alle Metamorfosi di Ovidio: In frondem crines, in ramos bracchia crescunt. “dato che ciascuna delle membra richiama la propria forma dalla virtù dell’anima (dato scientifico, razionalizza il fenomeno della metamorfosi stessa: il mutamento investe prima l’anima e poi il corpo) vidi poi i piedi sui quali mi reggevo, potevo muovermi e correre (quindi funzioni naturali poste in una enumerazione ascendente ovvero una climax: stetti, mossi, corsi) diventare radici sopra le onde non di Penèo (padre della ninfa Dafne ed eponimo dell’omonimo fiume -proprio dove si svolgeva la favola di Apollo e Dafne- della Tessaglia, regione storica dell’antica Grecia) ma in un fiume più cospicuo, più importante (il Ròdano) e le braccia diventarono due rami”. Né meno anchor m’agghiaccia l’esser coverto poi di bianche piume allor che folminato et morto giacque il mio sperar che tropp’alto montava: ché perch’io non sapea dove né quando me ’l ritrovasse, solo lagrimando là ’ve tolto mi fu, dí e nocte andava, ricercando dallato, et dentro a l’acque; et già mai poi la mia lingua non tacque mentre poteo del suo cader maligno: ond’io presi col suon color d’un cigno. Qui cambia metamorfosi: prima si trasforma in lauro, cambiamento che simboleggia la perdita di sé stesso. A questa metamorfosi di base ne seguono altre: in cigno, non meno spaventosa della precedente. Gli eventi provocano metamorfosi. Anticipa la metamorfosi in cigno quando dice bianche piume (avviene realmente nella fine di questa stanza). “la mia audace speranza in una corrispondenza da parte di Laura, la mia speranza che evidentemente volava troppo in alto aldilà delle sue forze giacque colpita da un fulmine fino a morirne”. Qui riferimento ad un’altra vicenda mitologica, Fetonte il quale aldilà delle sue forze si innalzò troppo in alto: non riuscendo a governare il carro solare e quindi tenere a bada i cavalli di Apollo, si avvicinò troppo alla Terra asciugandone i fiumi, bruciando le foreste e incendiando il suolo tanto che in Africa divenne deserto. Zeus/Giove sconvolto dalla distruzione, colpì il carro con un fulmine e fece cadere Fetonte nelle acque del fiume Eridano (identificato col Po o con il Rodano). Petrarca coltiva la speranza di essere ricambiato e in ciò diventa idealmente Fetonte, ripete la sua avventura e subisce una metamorfosi che non è come quella di Fetonte. Tuttavia, nella favola ovidiana, essa è connessa con la rovina di Fetonte perché lo zio di quest’ultimo, chiamato Cigno, subì una trasformazione nell’animale omonimo. Secondo il racconto ovidiano Cigno, dopo la rovina di suo nipote, riempie di lamenti le rive del Po (Eridano) mentre cercava il corpo fulimato del nipote tanto che Giove, infastidito dai lamenti, lo trasforma in cigno e i capelli diventano piume. “Ed ancor oggi mi agghiaccia (pensare a) quando fui ricoperto di bianche piume, quando la mia speranza (di un amore corrisposto) che volava troppo alto, che ambiva ad altezze eccessive ed irraggiungibili, cadde fulminata e morta; la quale (speranza), poiché non sapevo come ritrovarla, piangendo andavo cercandola notte e giorno là dove mi fu tolta (nel fiume Rodano, lo scenario in cui si svolge l’amore tra Francesco e Laura, cosi come lo zio di Fetonte pianse suo nipote nell’Eridano); di lì poi la mia lingua non smise mai, finché potè, di lamentare la perdita della speranza, finché non presi la voce e le sembianze (colore) di un cigno”. Vorrebbe parlare, ragionare, controllare la propria condizione interiore, nasconderla prima di tutto a sé stesso, ma può solo cantare. Il cigno può cantare solo prima di morire, questa voce poetica rimasta a Francesco nella metamorfosi è destinata ad anticipare una sconfitta ancora più profonda: fallimento amore nella morte.