Scarica Parte Generale del programma del corso di letteratura greca e più Appunti in PDF di Letteratura Greca solo su Docsity! Poesia epica: caratteri generali Si raccontano le imprese degli eroi antichi e leggendari che vantavano una discendenza divina. I poemi erano recitati accompagnati dalla phorminx nel megaron, sala principale dei palazzi micenei. Nell’Odissea è descritto infatti il palazzo di Alcinoo, re dei Feaci, Omero è cantore. L’epica entrò poi all’interno degli agoni che si svolgevano per le festività. Il racconto epico ha una forte funzione referenziale che fa da modello sia per gli aristocratici che presso il popolo convincendolo della sua eccellenza. È presente anche la funzione metalinguistica e poetica che si manifesta nell’alta formalizzazione della lingua letteraria e nell’esametro. Omero. Questione omerica. Contenuto dell’Iliade e dell’Odissea. Uomini e dei in Omero I primi testi della letteratura greca sono l’Iliade e l’Odissea datati VIII secolo a.C. risultato però di una gestazione poetica di tradizione orale. Omero è quindi primo autore di un’opera letteraria ma simboleggia piuttosto l’attività letteraria di un’intera cultura tanto che si è dubitato dell’esistenza di Omero ed interpretarlo come un personaggio convenzionale. Numerose città greche si sono contese i natali del poeta, si diceva inoltre che fosse cieco in omaggio al valore antropologico di tale condizione che lo avrebbe visto come un veggente “colui che vede con l’occhio interiore” ὁ μὴ ὁρῶν "colui che non vede”. I due poemi furono strutturati in 24 libri ciascuno da filologi alessandrini (III-I sec a.C.). L’Iliade non racconta tutta la decennale guerra di Troia bensì gli ultimi 50 giorni. La prima parola del poema è l’IRA di Achille centro del poema e motore della vicenda. La guerra scaturisce dall’offesa fatta da Paride, figlio del re Troiano Priamo, a Menelao re di Sparta a seguito del rapimento di Elena, sorella di Clitennestra, moglie di Agamennone. Insieme le due sorelle sono le Tindaridi figlie di figlie di Zeus/Tindaro e Leda, sorelle di Castore e Polluce. Sono narrati concili degli dei, dei capi militari, aristeiai ecc. Il poema si apre con la peste portata da Apollo sul campo troiano dalla quale i greci si salvarono perché Agamennone restituì la schiava Criseide al padre sacerdote. Ma Agamennone volle Briseide schiava di Achille re dei Mirmidoni figlio di Peleo e Teti (mito del pomo della discordia al matrimonio). Achille cede ma abbandona la guerra. Paride viene rimproverato da Ettore e decide di affrontare Menelao che mentre sta per morire è salvato da Afrodite. Agamennone offre ad Achille Breseide affinché torni in guerra ma egli comunque rifiuta e i greci sono costretti alla ritirata. I troiani avanzano così Patroclo decide di affrontare Ettore e viene ucciso. Achille vuole vendicare Patroclo e uccide Ettore. Priamo sotto la guida di Hermes chiede la restituzione del figlio per il funerale. L’Odissea sfrutta la tecnica narrativa del flashback e fa parte dei nostoi e dura circa dieci anni. Itaca è patria e regno di Odisseo ivi si trovano i proci che aspirano a sposare Penelope. La dea Atena va da Telemaco e gli dice di andare a cercare il padre da Nestore a Pilo, Menelao a Sparta. Odisseo è da calipso che finalmente lo lascia partire egli naufraga sull’isola dei feaci. Incontra nausicaa, figlia di Alcino e Arete. Iniziano gli APOLOGOI: Ciconi, Lotofagi, Polifemo, Eolo, Lestigoni, Circe, NEKUIA, Sirene, Scilla e Cariddi, i buoi del Sole, Calipso. Ad Itaca incontro tra odisseo e Telemaco, della nutrice Euriclea tramite cicatrice, con Penelope. Gara con l’arco, uccisione dei pretendenti, riconoscimento. Seconda NEKUIA e visita a Laerte. La descrizione dei personaggi è sintetica e stereotipata, legata al comportamento eroico tramite epiteti, l’attenzione è rivolta all’influsso degli dei sui personaggi, si sottolinea l’irruenza delle azioni e l’effetto che esse hanno a livello sociale/politico. La questione omerica si delinea verso la fine del seicento e il ‘700. Gian Battista Vico affermò che la composizione e la trasmissione erano orali e che Omero fosse il simbolo della facoltà storico-narrativa di un popolo. CRITICA ANALITICA< Hermann: i poemi si sarebbero sviluppati a partire da un nucleo originario ripresi e rielaborati. Wilamovitz: tradizioni orali rielaborate secondo una tematica univoca e poi aggiunta di inserzioni. CRITICA UNITARIA< Omero autore unico. TEORIA ORALISTICA< Perry: i poemi epici non sono il prodotto di 1 solo ma derivano da una lunga tradizione orale, scritte successivamente da 1 o più personalità che abbiano realizzato e riscritto (non una mera trascrizione). La prima forma scritta sarebbe datata VIII secolo a.C., rielaborata in epoca di Pisistrato anche tenendo conto degli studi più antichi dei grammatici alessandrini. Esiodo. Teogonia. Erga. Esiodo è un poeta epico, realmente esistito tanto che dalle sue stesse opere se ne deduce la vita. Ciò che narra di sé è però spesso funzionale alla narrazione e al messaggio poetico tale da portare insegnamenti utili alla comunità. Il padre proveniva da Cuma, nel tentativo di sfuggire alla miseria era emigrato in Beozia. La sua vita si data agli inizi del VII secolo a.C. Ebbe una contesa col fratello Perse per la spartizione dell’eredità. Ci è giunta per intero la Teogonia 1022 esametri e le Opere e i Giorni 822 esametri. Della sua produzione facevano parte anche il catalogo delle donne e lo scudo di Eracle. La teogonia è un poema di argomento religioso, il titolo significa “generazione degli dei” e giustifica il loro potere sul mondo. Si apre con l’inno alle 9 Muse del monte Elicona (Clio, Eurepe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urana, Calliope). Sono descritte le genealogie degli dei, i loro patrimoni territoriali e le sfere di competenza. Il poeta è investito dalle muse dell’onere della narrazione e sottolinea la verità portata. Dopo il proemio con l’inno alle muse, l’investitura poetica e il tema dell’opera la narrazione inizia da Chaos, Uranos e Kronos. Gea, Eros, Notte e Erebo, Rea. Troviamo poi Zeus (digressione sulle astuzie di Prometeo) e la lotta con i Titani e la generazione Olimpica. Le opere e i giorni trattano due macro argomenti: la giustizia e il lavoro. Nel proemio sono indicate le muse della Pieria e nell’intero poema riferimenti al mito che serve ad illustrare il messaggio dell’opera. Ivi è narrato il mito di Pandora affinché gli uomini espiassero la colpa di Prometeo, ladro del fuoco, con le pene contenute nel vado della donna-punizione. Vi è un’importante sezione sull’agricoltura con precisi tecnicismi, riferimenti alle stagioni e descrizioni di eventi naturali. Dopo l’invocazione breve alle muse abbiamo l’inizio della narrazione con le 2 CONTESE buona che spinge al lavoro e cattiva che spinge ai mali. Troviamo poi il mito di Prometeo e Pandora e quello delle stirpi dell’età dell’oro e degli eroi. Quasi 100 versi sono dedicati alle esortazioni di Perse con la contrapposizione tra DIKE e UBRIS e l’esortazione al lavoro nei campi e i giorni in cui si favoriscono determinate attività. Il poema è quindi di etica generale in cui ricorrono numerosissime sentenze (GNOMAI) con funzione didascalica. Il destinatario dell’opera è Perse. Lirica arcaica e tardo arcaica. Caratteristiche della lirica: elegia, giambica, monodica e corale. La lirica arcaica non è manifestazione soggettiva e personale dell’io lirico bensì espressione dei valori condivisi della comunità. Veniva eseguita con l’accompagnamento della lira e si divide in vari sottogeneri: Il giambo, in metro giambico L’elegia, in distici elegiaci La melica che si suddivide a sua volta in Monodica e Corale (cantata da uno solo o da un coro) in occasione delle cerimonie. La lotta tra fazioni all’interno della polis comporta la scesa al potere dei tiranni che si circondavano di aristocratici costituendo UN’ ETERIA con il rito del bere comune: simposio. I temi trattati erano la lotta Politica, lo scherno degli avversari, la guerra, l’etica civile, l’amore, il simposio. Nacque un forte senso di identità collettiva e la poesia diventa strumento di lotta e portatrice di valori condivisi. Per quanto riguarda la lirica corale, le occasioni erano pubbliche ed avevano un committente spesso lodato all’interno dei Carmina. L’io lirico diventa noi e il poeta parla attraverso una maschera cioè il contenuto espresso non corrisponde all’autore bensì si tratta di una poesia di ruoli. La resa avveniva in tre modi: Il parlato cioè la recitazione semplice Il recitativo, cantilena con strumento a corda Il canto spiegato. La partitura ritmica è data dalla successione di sillabe lunghe e brevi. L’elegia è una sequenza di distici esametro + pentametro accompagnata dall’Aulos il dialetto è ionico attico in occasione di riti funebri. Erodoto nacque nel 485 a.C. ad Alicarnasso, colonia dorica della Caria, in Asia minore. Al tempo delle guerre persiane la città era alleata della Persia (499-479 a.C.). Erodoto abbandonò la città, fece un viaggio in Egitto, Mesopotamia, Atene e conobbe Sofocle. Partecipò alla fondazione di Turi e conobbe Protagora. Morì poco dopo l’inizio della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.). Sotto il suo nome ci è giunta un’opera: LE STORIE divisa in 9 libri, contrassegnati col nome delle Muse. L’opera è divisibile in due blocchi, i LOGOI libri I-IV contenenti sezioni narrative autonome con informazioni di carattere storico, geografico, etnografico, sociale, religioso con i popoli vicini ai persiani con digressioni sulla storia greca e le singole polis e sono: 1. I LIDI 2. GLI EGIZI 3. GLI SCIITI 4. I LIBICI Il secondo blocco prende i libri V-IX ed ha carattere storico e ricostruisce la genesi e gli sviluppi della rivolta ionica organizzata da Aristagora di Mileto (V), la prima guerra persiana (VI), la seconda (VII-IX). Gli episodi salienti sono: la battaglia di Maratona (VI), la morte di Leonida e dei 300 spartani alle Termopili (VII), la battaglia di Salamina (VIII), Platea e Micale (IX). L’organizzazione del testo non è di tipo cronologico bensì tematico, tale connotazione si riscontra anche in incontri anacronistici ma significativi per l’illustrazione di concetti chiave come l’etica e la moderazione e il pessimismo esistenziale riscontrati nel dialogo tra Creso e Solone. Le fonti utilizzate per l’opera sono di tipo primario (epigrafi, documenti, ufficiali, testimonianze orali e il ricorso ad opere letterarie). I capisaldi del suo metodo storiografico sono: la visione diretta, il ragionamento e la ricerca. Nonostante le inesattezze cronologiche Erodoto è abbastanza attendibile. Non aderì mai alla politica imperialistica di Pericle. Scrive in dialetto ionico prediligendo la paratassi creando una prosa fluida e varia, ricercata nel linguaggio, coinvolgente nei discorsi diretti, nelle digressioni, nelle novelle e nei dialoghi. TUCIDIDE Nasce ad Atene ante 455 a.C., fu stratega durante le operazioni belliche in Tracia 424/5 a.C. a causa di insuccessi fu esiliato per circa 20 anni. Dato certo è che visse almeno fino al 404 a.C. Fu autore della Guerra del Peloponneso, l’opera è dunque monografica e relativa all’intera Grecia. I primi 23 capitoli del libro I costituiscono il proemio: enunciazione dell’argomento + sintesi critica della storia greca precedente + polemica contro i logografi (i suoi predecessori che si erano dedicati alla trattazione di eventi storici, con fine più edonistico che didattico) + dichiarazioni programmatiche. La guerra è analizzata dal punto di vista politico-militare con riguardi al tema della potenza mettendo a nudo i meccanismi dell’agire umano con inserimento di discorsi liberamente ricostruiti ma comunque fondati spesso ordinati per coppie contrapposte. Al centro del dibattito il giusto e l’utile. Tali discorsi servirebbero anche come manuale di retorica. Contenuto in breve: I Libro: si apre con una sintesi della storia della Grecia a partire dai primi abitanti fino all'età di Tucidide. Segue una premessa metodologica utile per comprendere l'opera, in quanto l'autore chiarisce il fine che si è proposto e il metodo di indagine utilizzato. Si passa poi agli antefatti che portarono all'ostilità tra Atene e Sparta. II Libro: descrive i primi tre anni di guerra peloponnesiaca (431-429 a.C.). Qui si narra di Pericle e, di notevole importanza è l'orazione funebre tenuta dal medesimo, per commemorare i caduti del primo anno di guerra. III Libro: copre il periodo dal 428 al 426 a.C., durante il quale gli spartani invasero per la terza volta l'Attica e rasero al suolo Platea, dopo aver massacrato la popolazione locale. Importanti sono anche i fatti di Corcira che spinsero Tucidide a riflettere sul sovvertimento di tutti i valori umani a causa della guerra. IV Libro: protagonista è il triennio 425-423 a.C., l'Attica viene invasa nuovamente dagli spartani, la guerra in Sicilia viene momentaneamente conclusa, e gli Ateniesi ottengono alcuni successi. V Libro: esso si spinge fino al 416 a.C. La tregua tra Sparta e Atene durò meno di sette anni, violata da provocazioni da parte di entrambe. Fatto peculiare di questo libro è che esso dà l'impressione di essere stato solamente abbozzato. VI-VII Libro: sono dedicati alla narrazione dell'impresa in Sicilia con una breve introduzione sulla storia dell'isola. VIII Libro: l'ultimo libro narra degli avvenimenti compresi tra il 413-411 a.C. La narrazione si sofferma inoltre sul colpo di Stato dei Quattrocento che rovesciò la democrazia Ateniese e impose l'oligarchia. Il suo metodo storiografico presenta punti di contatto con l’analisi medica, anche la terminologia del metodo è quella tipicamente ippocratica: l’osservazione dei sintomi, fatti e dati significativi, la diagnosi, ricostruzione della situazione e la prognosi. L’autopsia cioè l’osservazione diretta è fondamentale per Tucidide tuttavia la produzione tucididea si rivolge a un pubblico più ristretto rispetto alla cerchia erodotea e non ha tanto l’obiettivo di dilettare quanto di indurre alla riflessione. Il suo stile è elevato e severo in grado di esprimere pathos, ricco di termini tecnici ed uso dell’inconcinnitas (si basa soprattutto sulla variatio, questa consiste, come si è già visto, in un cambiamento di costrutti sintattici, che pur si riferiscono a concetti della stessa natura). Tucidide non approva alcun modello politico, prova però ammirazione per Pericle. SENOFONTE Nasce ad Atene intorno al 430 a.C. da una famiglia di cavalieri. Partecipò alla spedizione in Asia Minore dove conobbe Agesilao, re di Sparta; combatté contro Atene da cui era stato esiliato. Vide l’egemonia tebana e morì intorno al 355 a.C. Le sue opere sono divise in tre gruppi; il suo linguaggio utilizza il dialetto attico puro, chiaro e semplice nello stile: Etico- politiche a cui fanno riferimento i) Anabasi: presentazione di Senofonte come comandante esemplare (autobiografia) ii) Elleniche: presentazione di eventi storici come paradigma della crisi (storiografia) iii) Agesilao: presentazione del re come modello di sovrano e comandante esemplare (encomio) iv) Ciropedia: riflessione sulla forma migliore di governo + forma migliore di paideia + Ciro sovrano esemplare (storiografia + encomio + dialogo filosofico) v) Costituzione degli Spartani: sull’educazione degli spartani come modello di Paideia vi) Ierone: riflessione sulla forma migliore di governo (dialogo) vii) Poroi: trattato di economia ateniese Tecnico-didattiche i) Ipparchio: suggerimenti per il buon comandante/manuale ii) Sull’equitazione: suggerimenti per il buon cavaliere/manuale iii) Cinegetico: esaltazione della caccia come forma di educazione/ manuale Socratiche i) Memorabili: Socrate come modello esemplare ii) Simposio iii) Encomio iv) Apologia di Socrate LA TRAGEDIA - Il termine significa “canto del capro” Manifestazione più riuscita della cultura greca basata sull’idea di classicità ed è espressione dello spirito greco e del suo articolato legame con la polis. Ha comportato una profonda revisione dei valori tradizionali che si infranse nel momento in cui Atene fu soggiogata da Sparta. Si rappresentava solitamente una vicenda mitica e più raramente la storia sempre attualizzati e scelti nella prospettiva politico-economica della città di Atene ricavandone valori etico-religiosi nei rapporti tra uomini, uomo-divinità, ragioni etiche, colpe morali, responsabilità individuali e collettive sulle quali regolare l’agire umano. Le vicende riportate erano ben note al pubblico si valutava infatti la creatività nella struttura e nell’interpretazione etica dell’episodio con orientamento educativo nei confronti dello spettatore. Gli agoni drammatici sono organizzati dal governo e prevedevano 3 sfidanti che presentavano una tetralogia e cinque giudici condizionati dall’umore del pubblico. Nascono come opere d’occasione poi riutilizzate e corrotte nel corso del tempo. Il numero degli attori passò da uno a due (Eschilo), a tre (Sofocle). Gli uomini svolgevano anche ruoli femminili indossando maschere anche per amplificare la voce; vi era poi il coro. L’edificio teatrale era costituito da tre parti: l’orchestra, la scena e la cavea; anche i drammi avevano struttura tripartita in prologo, episodi ed esodo. IL SENSO DEL TRAGICO NASCE DAL CONFLITTO TRA LIBERO ARBITRIO E PREDESTINAZIONE UMANA. ESCHILO Nacque ad Eleusi, da nobile famiglia, nel 490 a.C. partecipò alla battaglia di Maratona, Salamina e Platea (480-79 a.C.). Partecipò agli agoni tragici solo a partire dal 500 a.C. (ne vinse 13 o 28). Fece due viaggi in Sicilia dove morì nel 455 a.C. Il teatro di Eschilo è un teatro di idee più che di personaggi che incarnano la cultura arcaica. Le forze invisibili ostacolano l’uomo sono per lo più demoni e energie maligne [si noti il tipico sistema di interventi “esterni”, i sentimento non sono ancora interni ai personaggi], quali la ὒβρις , la prevaricazione di chi perché ricco, potente o fortunato, si ritiene superiori ai limiti stabiliti dagli dei per gli uomini; e l'ἄτη, l’accecamento, mancanza di razionalità, la colpa prodotta da un oscuramento del pensiero [l’uomo non riesce a distinguere il proprio destino] e che lo porta a scelte criminose. Intorno al colpevole si muovono delle divinità “sotterranee” terribili come l’αλάστωρ, il demone personificazione arcaica degli impulsi distruttivi che conducono una persona a scelte rovinose [talvolta è strumento di punizione divina, Ag.]. Un esempio sono le Erinni, che rendono gli uomini folli. Al di sopra del piano umano e di quello sotterraneo stanno gli dei, garanti della giustizia e dell’ordine. Su di un asse verticale i piani sono 3: Cielo [o Spazio Celeste], Terra e Mondo sotterraneo, strettamente connessi tra di loro grazie alle vicende che riguardano la figura dell’uomo. La Giustizia [δική] opera nelle vicende umane ma non come forza che regola i rapporti tra gli uomini nella società, ma come legge imposta dagli Dei al mondo e che spiega la casualità degli avvenimenti, apparentemente inesplicabile, regolando colpe e punizioni. Il progetto divino porta, nelle varie vicende, al prevalere della giustizia, al progredire della società e alla civilizzazione del mondo: si nota quindi il tema del Passaggio da Caos a Ordine. Le tematiche sono lontane dalla sfera individuale e legate a quella della società e della cultura: si parla di vendetta [conflitto tra diritto della famiglia e quello della polis], le leggi del “clan familiare”, l’idea arcaica della contaminazione [il “μιάσμα”]. Lo stile è solenne e arcaico e l’azione è lenta spesso a causa dalle lunghe parti corali, ricche di densità espressiva da cui deriva la forte tensione stilistica. Viene considerato “Inventore del Linguaggio Tragico”, straniato, lontano dalla quotidianità per sintassi e lessico. Usa neologismi, metafore ardite, epiteti composti. Si lega allo stile arcaico con la “Ring Composition” o l’organizzazione del discorso per parole e metafore-chiave). I Persiani: Data 472 a.C.; il più antico dramma occidentale. Stile Corale. Temi Unico Dramma Storico, Storia-Mito, Ubris e Ate. Trilogia Persiani, Fineo, Glauco; dr. sat. Prometeo accenditore del fuoco. Trame non legate. Trama: Ambientato alla corte di Susa, nell’impero persiano. Entra il coro di vecchi, unici rimasti in quanto la gioventù è in guerra in Grecia con Serse. Sopraggiunge Atossa, madre di Serse e vedova di Dario. Un messaggero [punto culminante della storia; momento di grande intensità: è un esempio di ρῆσις] riferisce che la flotta persiana è stata annientata dagli Ateniesi a Salamina, narrando dell’inganno teso dai Greci che comunicarono al re di essere in procinto Creonte la condanna a morte malgrado il figlio Emone ne sia innamorato; Antigone viene segregata e piange il suo destino. Creonte, turbato dagli ammonimenti di Tiresia recede l’editto ma è ormai troppo tardi Antigone ed Emone si sono suicidati e lo stesso fa Euridice, sua moglie. Ghenos vs stato. TRACHINIE: Donne di Trachis, città della Tessaglia in cui è ambientato il dramma, rappresentate dal coro. Da 15 mesi Deianira non ha notizie di Eracle suo sposo. Un oracolo aveva predetto che al 15esimo mese si sarebbe compiuto il suo destino. Eracle torna con alcune prigioniere tra cui Iole di cui si era innamorato. Deianira è gelosa decide allora di portare ad Eracle un chitone bagnato del sangue del centauro Nesso che le avrebbe assicurato l’amore dello sposo. In realtà il sangue è mortale. Eracle muore e Deianira si suicida. Eracle scoperto l’inganno di Nesso si lascia morire e ordina al figlio di inumarlo sul monte Eeta e di sposare Iole. ELETTRA: Oreste torna con Pilade e il suo pedagogo a Micene per vendicare l’uccisione del padre Agamennone. Era stato salvato ancora bambino dalla sorella Elettra, che lo aveva affidato ad un amico focese. Ora Elettra vive maltrattata da Clitennestra ed Egisto, assassini del padre, contro i quali cova un feroce odio. Accanto a lei c’è la sorella Crisotemi, pronta ad ogni compromesso pur di sopravvivere. Oreste dunque torna a Micene all’insaputa di tutti e organizza un tranello: diffonde la falsa notizia della propria morte, che gli permette di constatare la gioia (e quindi la malvagità) della madre Clitennestra. Elettra, al contrario, è disperata (dimostrando quindi il suo immutato affetto per il fratello), ma si fa coraggio e decide che sarà lei a vendicare il padre. Ottenuta la prova della fedeltà della sorella, Oreste le rivela la propria identità ed insieme i due organizzano un piano per attuare la loro vendetta. Oreste penetra nel palazzo e uccide senza pietà la madre supplicante, poi incontra Egisto. Lo trascina fuori scena per ucciderlo, dove già era stato ucciso Agamennone, e proprio su questa immagine si chiude la tragedia. FILOTTETE: Filottete è stato abbandonato, già da dieci anni, dai suoi compagni in viaggio per la guerra contro Troia, sull'isola di Lemno, a causa di una ferita infetta e maleodorante provocatagli da una vipera. Un oracolo, però, solo ora svela ai Greci che senza l'arco di Filottete Troia non cadrà mai. Questi incaricano allora Odisseo e Neottolemo di andare sull'isola e recuperare ad ogni costo l'arco di Filottete. Odisseo, che in questa tragedia è presentato come un eroe meschino e crudele, ha un piano diabolico: Neottolemo dovrà fingere di avere litigato con i capi greci e cercare di accattivarsi la fiducia di Filottete, facendosi consegnare l'arco, che altrimenti sarebbe stato preso con la forza da lui. L'inganno riesce, grazie anche alla comparsa di un marinaio greco che si finge mercante e annuncia l'arrivo di Odisseo, e Filottete consegna all'amico Neottolemo il suo arco, che a sua volta lo consegna ad Odisseo. All'ultimo momento, però, Neottolemo si pente e riprende l'arco ad Odisseo e lo riconsegna a Filottete. Odisseo si infuria e solo l'intervento di Eracle ex machina, che promette una cura per la sua ferita, appiana i dissapori e convince Filottete ad imbarcarsi per Troia. EDIPO RE: Edipo regna a Tebe dopo aver risolto l’enigma della Sfinge ed essersi sposato con Giocasta, la madre. A Tebe scoppia un’epidemia e per porre fine a questa strage viene consultato l’oracolo di Apollo a Delfi che comunica che il male cesserà solo qualora venga trovato l’assassino di Laio [appunto Edipo]. Edipo indaga sull’omicidio: maledice il colpevole e lo condanna all’esilio. L’indovino Tiresia viene convocato per la ricerca: dapprima si rifiuta di parlare e poi rivela che é proprio Edipo il responsabile del delitto. Giocasta invita Edipo a non credere agli oracoli ricordando che nonostante l’antico vaticinio dicesse che Laio sarebbe morto per mano del figlio, questo figlio era stato esposto dopo la nascita e il re ucciso lontano da casa ad un trivio. Edipo comincia però a temere ricordandosi di aver ucciso a un trivio ma è ancora convinto di essere figlio di Polibio e Merope, regnanti di Corinto, da dove era scappato in seguito al vaticinio che prevedeva il matrimonio con la madre e l’uccisione del padre. Poco dopo viene comunicata la morte di Polibio e Edipo viene a sapere di essere il figlio adottivo: quello stesso messaggero aveva avuto in consegna sul Citerone da un pastore Edipo bambino e lo aveva affidato a Polibio. Giocasta comprende e al contempo viene convocato un vecchio pastore, unico testimone sopravvissuto dall’omicidio di Laio, che rivela di aver portato Edipo un tempo in fasce sul Citerone. Edipo, distrutto, si precipita nella reggia da dove poi uscirà un nunzio che riferisce l’impiccagione di Giocasta e l’accecamento di Edipo. Edipo rientra ceco mentre balbetta cose sconnesse: arriva Creonte, nuovo reggente di Tebe, che fa riportare Edipo nella reggia in attesa di deciderne la sorte. EDIPO A COLONO: Edipo, esiliato da Tebe, ormai mendico e cieco, nel suo vagabondare insieme alla figlia Antigone, arriva a Colono, un sobborgo nei pressi di Atene, in obbedienza ad un'antica profezia che diceva che lì sarebbero terminati i suoi giorni. Gli abitanti del luogo, conosciuta la sua identità, vorrebbero allontanarlo, ma il re di Atene, Teseo, gli accorda ospitalità e protezione. L’altra figlia Ismene li raggiunge, portando la notizia dello scontro fra i fratelli Eteocle e Polinice, anch'essi figli di Edipo. Secondo un oracolo, la vittoria sarebbe arrivata a quello dei fratelli che fosse riuscito ad assicurarsi l’appoggio paterno. Arriva anche Creonte, re di Tebe, per convincere Edipo a tornare in patria, ma, visto il rifiuto di quest’ultimo, Creonte prende in ostaggio le figlie, che vengono però messe in salvo da Teseo. Giunge poi Polinice, nel tentativo di ingraziarsi le simpatie del padre, ma viene scacciato da Edipo. Infine si manifestano una serie di prodigi divini, che fanno capire ad Edipo che la sua fine è vicina. Egli viene accompagnato da Teseo in un boschetto sacro alle Eumenidi, e lì sparisce per volontà degli dei, dopo aver predetto al re di Atene lunga prosperità per la sua città. EURIPIDE Nacque intorno al 480 a.C. a Salamina, il padre era un ricco proprietario terriero e la madre era nobile. All’interno della sua produzione egli li rese un bottegaio ed un’erbivendola. Fu accusato di misogenismo e ateismo e non partecipò mai attivamente alla vita politica ateniese. Morì intorno al 405 a.C. Di lui ci sono giunte 17 TRAGEDIE SICURE, 1 incerta e 1 dramma satiresco [Il Ciclope]. Euripide é un intellettuale che soffre nella società in cui vive, lo deduciamo da una serie di elementi: Il VIVERE APPARTATO, il non essere collegato all'ambiente politico; I contemporanei comici ne parlano in termini molto dispregiativi: per Aristofane é stato il "distruttore della tragedia" [Nietzche] passando ad un genere nuovo, lo accusa di aver introdotto sulla scena i cosiddetti "EROI PEZZENTI", eroi tratti dal mito ma raffigurati in forma mediocre, come personaggi di basso tono, un condensato di vizi e mediocrità tipici dell'uomo comune. Sarebbe quindi passato ad un teatro meramente popolare. Quest’aspetto per alcuni corrisponderebbe ad una CRITICA corrosiva AI VALORI TRADIZIONALI che vedevano nel mito il modello di riferimento. I personaggi, come Medea ad esempio, sono animati da una forte capacità razionale insidiata da pulsioni interiori indomabili e invincibili. La ragione viene vinta. • Il Prologo cambia: compare un personaggio, come anche una divinità, che dà le coordinate fondamentali per la comprensione e poi non si vede più. Il Personaggio passa spesso dal recitato alla monodia [il canto], in particolar modo nei momenti di maggior pathos. Il Deus ex machina: l’intreccio è divenuto talmente ingestibile, perché incentrato sull’interiorità dei personaggi, che le azioni sono diventate complicate perché in secondo piano. La tragedia si conclude con l’elemento esterno e posticcio del deus ex machina. 1)ALCESTI (438 a.C.) È una Tragicommedia. Admeto, re di Fero, dovrebbe morire ma in base ad un dono che gli è stato fatto da Apollo può non morire se trova qualcuno disposto a dare in cambio la sua vita. Nessuno, tranne la moglie Alcesti, è disposto a farlo. Al palazzo arriva Eracle che chiede ospitalità e che non sa nulla del lutto. Admeto, per non aligere l’ospite, dice che c’è un lutto ma che è quello di una serva. Solo dopo le esequie della regina e lo scontro con il padre che lo accusa di vigliaccheria, Eracle viene a sapere la verità. Talmente colpito dalla nobiltà di Admeto e dalla storia straziante, Eracle decide di affrontare Thanatos nell’Ade per riportare in vita la donna e sottopone ad una prova d’amore Admeto. Porta a palazzo una sposa velata che vorrebbe sposarsi con lui: Admeto, conscio di aver promesso ad Alcesti che non sarebbe stato con nessun’ altra, rifiuta. La sposa si toglie il velo: è Alcesti. 2)IPPOLITO (428 a.C.) È una tragedia incentrata tutta sulla figura femminile. A Trezene, Ippolito, figlio di Teseo re di Atene, è dedito alla caccia e al culto di Artemide, divinità estranea ad amore e passione. Afrodite la quale non sopporta il disprezzo di Ippolito per l'amore e le donne dovuto al culto di Artemide decide di vendicarsi. Con i suoi poteri divini fa cadere la moglie di Teseo, Fedra, nella passione per Ippolito. In principio essa non rivela i propri sentimenti al figliastro ma con il tempo Fedra non riesce piu' a tenere nascosta la passione per il figliastro e si confida con la sua nutrice premurandosi che non la riveli ad Ippolito. La serva tuttavia la tradisce rivelando i suoi sentimenti ad Ippolito, che indignato fugge dalla città. Questo provoca il suicidio di Fedra che prima di uccidersi lascia una lettera a Teseo nella quale narra di essere stata violentata da Ippolito. Teseo così chiede vendetta a Poseidone e sulla strada il giovane Ippolito viene attaccato da un mostro marino che lo fa cadere dal cavallo, ferendolo a morte. Solo al termine della tragedia Artemide irrompe nella scena in qualità di deus ex machina, rivelando infine a Teseo la verità gettandolo nello sconforto ma riabilitando il nome di Ippolito. 3)LE TROIANE (415 a.C.; si sta progetto la spedizione in Sicilia) Il mito della guerra di Troia é utile per vedere la concezione che ha Euripide della guerra: non è vista in termini eroici, ma é negativa e disumana, crudele e disumanizzante. La guerra é la manifestazione della natura più atroce che si annida nell’uomo: la guerra di Troia non é guerra di eroi ma di carnefici e vittime. La città di Troia, dopo una lunga guerra, è infine caduta. Gli uomini troiani sono stati uccisi, mentre le donne devono essere assegnate come schiave ai vincitori. Cassandra viene data ad Agamennone, Andromaca a Neottolemo ed Ecuba ad Odisseo. Cassandra predice le disgrazie che attenderanno lei stessa e il suo nuovo padrone una volta tornati in Grecia,[1] ed il lungo viaggio che Odisseo dovrà subire prima di rivedere Itaca. Andromaca subisce una sorte terribile, poiché i greci decidono di far precipitare dalle mura di Troia Astianatte, il figlio che la donna aveva avuto da Ettore, per evitare che un giorno il bambino possa vendicare il padre e per porre fine alla stirpe troiana. Successivamente Ecuba ed Elena si sfidano in una sorta di agone giudiziario, per stabilire le responsabilità dello scoppio della guerra. Elena si difende ricordando il giudizio di Paride e l’intervento di Afrodite, ma Ecuba svela infine la colpevole responsabilità della donna, fuggita con Paride perché attratta dal lusso e dall’adulterio. Alla fine, il corpicino di Astianatte viene riconsegnato ad Andromaca per il rito funebre, Troia viene data alle fiamme, e le prigioniere vengono portate via mentre salutano per l’ultima volta la loro città. 4)ELENA Fa parte delle tragedie tarde, in cui l’intreccio diviene prevalente rispetto alla psicologia del personaggio: ci sono colpi di scena frequenti, riconoscimenti improvvisi, e la presenza del destino ceco che si introduce nella vicenda eliminando tutte le aspettative. Alcune di queste tragedie non sono ambientate in Grecia: questo elemento é particolarissimo in quanto l’ambientazione esotica mostra un mondo completamente altro da quello greco (es. Elena in Egitto). Ricalca le versioni di Stesicoro ed Erodono in cui si affermava che Elena non sia fuggita a Troia con Paride, dove invece è andato un simulacro, bensì sia stata trasportata in Egitto contro la sua volontà e l’attendesse, più casta di una vestale romana, l’arrivo del suo sposo. Euripide afferma che la Grecia è stata ingannata circa la storia di questa povera donna. Menelao di ritorno dalla guerra di Troia naufraga in Egitto, ritrova Elena e, vedendo che era pesantemente insidiata dal re Teoclimeno si finge un messaggero giunto proprio per annunciare la sua scomparsa. Elena allora finge di accondiscendere a concedersi al re di Egitto se questi gli avesse permesso di pregare in nave sopra il luogo del naufragio del marito. Teoclimeno accetta, Menelao ed Elena fuggono e per placare il re di Egitto occorrono addirittura due dei ex machina: i Dioscuri. 5)BACCANTI Fanno parte dell’ultimo periodo dell’autore, quando si é ritirato in Macedonia. Fu rappresentata postuma ad Atene e, dal punto di vista dell’intreccio, non é intricata ma sono importanti i temi e la psicologia dei personaggi (la sperimentazione é ridotta). Secondo alcuni é perché, componendo in Macedonia, il suo pubblico non é come quello ateniese, abituatto alle sperimentazioni di Euripide, ma va in qualche modo indirizzato. Il dio Dioniso, figlio di Zeus e di Semele, giunge in forma umana a Tebe, patria della madre, per punire, travolgendone le menti, le donne tebane che hanno dubitato della sua nascita divina. Solo il re Penteo è deciso ad opporsi alla follia ispirata dal dio. Il padre di Semele, Cadmo, e l'indovino Tiresia celebrano anch'essi la potenza di Dioniso. Quando le donne si recano sul monte Citerone per celebrare i misteri bacchici, Penteo si lascia convincere dal dio a seguirlo, travestito da donna, sul monte. La madre di Penteo, Agave, sorella di Semele, e le baccanti in preda al delirio dionisiaco lo scambiano per un leone e lo sbranano. Quando Agave torna alla coscienza, riconosce con orrore il capo del figlio in quella che credeva la testa del leone e portava come trofeo. La vendetta del dio è compiuta. A Cadmo che piange la morte di Penteo appare Dioniso: le sventure accadute derivano dal non aver onorato la sua potenza. Cadmo soffrirà ancora finché, mutato in drago, sposerà Armonia e troverà pace. Agave fugge lontano. Si tratta di un Mito Sanguinoso che viene trattato in modo particolare. Donne alle Tesmoforie (Θεσμοριάζουσαι) Euripide, temendo che le donne, riunite in occasione della festa, stiano tramando una vendetta contro di lui, colpevole di averle messe in cattiva luce nelle sue tragedie, pensa di correre ai ripari. Chiederà al poeta Agatone di prendere le sue difese presenziando, travestito da donna, all'assemblea delle Tesmoforie. I due tentano di convincere l'effeminato poeta ma Agatone, temendo di essere smascherato e condannato, rifiuta l'incarico. Giunge in soccorso la disponibilità di Mnesiloco che, vestito con abiti femminili prestati da Agatone, prenderà parte alla vivace assemblea delle donne. Di fronte alle accuse,Mnesiloco si lancia nella difesa del poeta, sostenendo che i suoi strali erano intesi a colpire le sole eroine del mito. Sarà poi l'intervento delatorio dell’effeminato Clistene a portare allo smascheramento del maldestro difensore. A questo punto Mnesiloco, messo alle strette, sottrae una bambina alle mani di una donna pensando di farne ostaggio per sfuggire alla cattura,ma quella che sembrava una bimba si rivela essere una brocca di vino, avvolta in fasce puerili allo scopo essere occultamente introdotta nell’assemblea. Per salvarsi dalla folla inferocita, Mnesiloco decide di berne il contenuto, fingendo di aver voluto solo inscenare un sacrificio rituale, un espediente che genera ulteriore disgusto e che non vale a salvare l'impostore dalla cattura. Arriva allora Euripide che, tenta di salvare il parente. Travestito da Menelao, sostiene che Mnesiloco sarebbe nientemeno che la bella Elena. Fallito il primo tentativo, Euripide ci riprova nei panni di Perseo, con Mnesicolo che si cala nel ruolo di Andromeda. Mnesiloco finisce incatenato, proprio come l'eroina da lui interpretata; Euripide però riesce nell'intento di liberare Mnesiloco/Andromeda. Rane (Βάτραχοι) Aristofane immagina che Dioniso, il dio della tragedia, sia rimasto così addolorato dalla scomparsa del prediletto Euripide da concepire il progetto di scendere addirittura nel regno dei morti (Ade) per riportarlo sulla terra. Così scende nell’Averno insieme al servo Xantia. Indossa una pelle di leone e impugna una clava per atterrire coloro che potrà eventualmente incontrare. Giunto dapprima presso Eracle per interrogarlo sul suo viaggio, che egli aveva appunto fatto per riportare sulla terra il cane Cerbero, e su certi particolari riguardanti i tragici, dopo aver discusso con lui, si accinge all’impresa propostasi. Giunge così presso la palude Acherontea, ma Xantia, che non ha partecipato alla battaglia presso le Arginuse e non può venire traghettato da Caronte, è costretto a fare a piedi il periplo della palude, mentre Dioniso si diverte durante il tragitto, unendo le sue risate al gracidio delle rane. Dopo di ciò, compiute alcune cose nell’Ade, si vedono gli Iniziati che danzano ed invocano Iacco a guisa di coro, e Dionisio, insieme con il servo si unisce con loro allo stesso scopo. E scambiandosi le parti ora di Eracle ora di Dioniso, per via dell’errore indotto dall’abbigliamento vanno incontro a scene piacevoli. In seguito è introdotto Euripide in gara con Eschilo circa la tragedia, avendo dapprima Eschilo ottenuto il premio nell’Ade, mentre Euripide, ora, pretende per sé tale onore. Avendo stabilito Plutone che Dioniso sia loro arbitro, entrambi recitano molti e vari passi poetici, e alla fine ognuno sottopone ad esame la poesia dell’altro e dice ogni vituperio. Avendo poi Dioniso assegnato la vittoria ad Eschilo, se ne ritornano tra i vivi. Uccelli (Ὄρνιθες) Si trovano sulla scena due personaggi che si autopresentano grazie ad una rapida serie di scherzose battute. Si tratta dei due protagonisti, Pistetero ed Evelpide, due Ateniesi stanchi di vivere nella propria città, opprimente per via di un’infinita serie di processi giudiziari. Essi, seguendo i consigli di due gracchi che portano con sé, hanno deciso di insediarsi nel mondo degli uccelli, l’unico lontano da noie e dispiaceri. I volatili, come è logico, aborriscono gli umani, che riescono però a farsi accettare grazie alla mediazione dell’Upupa, che, secondo il mito, era in origine un uomo (il re di Tracia Tereo), trasformato poi in un uccello. Questo “mondo alternativo” - che corrisponde al topos della commedia della “evasione totale” - inizia presto ad andare nuovamente stretto ai due protagonisti: perché accontentarsi di pace e di riposo, quando si potrebbe ottenere il dominio del mondo intero? Donne all’assemblea (Ὲκκλησιάζουσαι) La commedia narra di un gruppo di donne, con a capo Prassagora, che decidono di tentare di convincere gli uomini a dar loro il controllo di Atene, perché in grado di governare meglio di loro, che stanno invece portando la città alla rovina. Le donne, camuffate da uomini, si insinuano nell’assemblea e votano il provvedimento, convincendo alcuni uomini a votare a favore, poiché era l’unica cosa che non fosse ancora stata provata. Una volta al potere, le donne deliberano che tutti i possedimenti e il denaro vengano messi in comune per essere amministrati saggiamente dalle donne. Questo vale anche per i rapporti sessuali: le donne potranno andare a letto e fare figli con chiunque loro vogliano. Tuttavia, siccome questo potrebbe favorire le persone fisicamente belle, si decide anche che ogni uomo, prima di andare con una donna bella, sia tenuto ad andare con quelle brutte, e viceversa. Queste delibere però creano una situazione assurda e paradossale: verso la fine della commedia, un giovane confuso e spaventato si ritrova conteso fra tre ripugnanti megere che litigano per assicurarsi i suoi favori. La commedia si chiude infine con un grande banchetto cui partecipa tutta la cittadinanza. Lisistrata(Λυσιστράτη) La storia è ambientata nella città di Atene, dove le donne chiedono ai propri mariti di interrompere le attività belliche. Personaggio principale attorno a cui ruota l’intera commedia è Lisistrata, che recluta le donne delle città in guerra, stanche e ribelli, per pianificare il raggiungimento della pace, e la strategia proposta è notevolmente paradossale: l’astensione dai rapporti sessuali con i propri mariti. Dopo alcune esitazioni, l’alleanza è accettata. L’acropoli di Atene è occupata. Gli uomini reagiscono superficialmente poiché dubitano delle capacità delle loro mogli, e tentano di convincerle a partecipare alla guerra: indignate e arrabbiate, però, rifiutano di accondiscendere a patti con loro. Tuttavia gli uomini riescono a portarle al cedimento, dimostrando a parole come facile sarà per loro trovare altre mogli e quanto le stesse ingiustizie della guerra siano causate dalle donne stesse. Ecco che le rivoltose perdono forza: anche per loro è difficile fare a meno del piacere sessuale e, dunque, dei loro mariti. Lisistrata, a questo punto, dà loro la forza per resistere. Ed è qui che la loro strategia si rivela vincente: gli uomini finalmente avvertono l’urgenza del sesso insoddisfatto e cedono, realizzando la pace con gli altri paesi. Lo sciopero delle donne è finito, e dopo molto tempo tornano a casa con i loro mariti. Pluto (Πλοῦτος): Cremilo, un vecchio contadino ateniese molto preoccupato per le sorti del figlio, a causa della decadenza che la città sta vivendo in quegli anni, decide di consultare l’oracolo di Febo: il responso gli suggerisce di seguire la prima persona che incontrerà e di invitarla a casa sua. Così mentre passeggia con Nocciola, il suo servo, si imbatte in un vecchio, a cui sottopone una serie di domande; lo sconosciuto inizialmente si rifiuta di rispondere, ma in seguito, costretto, decide di ammettere che è Pluto il dio della ricchezza. Cremilo ragiona sulla ingiusta distribuzione delle ricchezze e capisce che Pluto, essendo stato accecato da Zeus, non può vedere le persone dabbene e quindi distribuisce le ricchezze, a caso, a buoni e malvagi. Decide allora di invitarlo e gli promette di fargli riacquistare la vista. Chiama infatti a sé un gruppo di contadini (che formano il coro), annunciando che i loro raccolti avrebbero fruttato maggiormente, ma mentre questi guidavano Pluto verso il tempio, incontrano Penia (La Povertà). Nella seconda parte della commedia Penia tenta di dissuadere Cremilo, spiegando che se avesse guarito Pluto non ci sarebbero stati più schiavi, perché nessuno avrebbe lavorato… ma non ottiene nessun risultato. Pluto, dopo qualche tentennamento, segue Cremilo al tempio di Ascelpio, dove viene curato dal medico Colionone, e può beneficare di nuovo i buoni. La commedia si conclude con l’apparizione di Ermes che informa Pluto e Cremilo dell’ira degli altri dei poiché questi non ricevono più nessun sacrificio, essendo tutti destinati a Pluto. ERACLITO DI EFESO Visse tra il VI e il V secolo a.C., di nobili natali, scrisse un’opera in prosa INTORNO ALLA NATURA costituita da aforismi e sentenze brevi e taglienti, la cui enigmaticità spiega l’appellativo di Oscuro. Nel suo pensiero egli distingue l’opinione comune che è fonte di errore e la filosofia, unica via praticabile per scorgere la verità e riconoscere il logos del mondo. Questa legge presiede al divenire dell’universo e determina sia la successione, sia l’unità dei contrari che non possono esistere l’uno senza l’altro e pur restando sempre in lotta tra loro si armonizzano senza appiattirsi nella reciproca conciliazione. Il logos è inteso anche come FUOCO elemento mobile e distruttore per eccellenza che ben rappresenta l’ininterrotto fluire delle cose. Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos. (frammento 45) Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi. (frammento 67) Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento si disperde e si raccoglie, viene e va. (frammento 91a) Ho indagato me stesso. (frammento 101) PARMENIDE Nasce e vive a Elea (a cavallo tra i sec. VI-V a.C.); scrive una sola opera, un poema Sulla natura. Introduce e sviluppa il problema dell'essere. Nel suo poema la filosofia è intesa come rivelazione e ricerca razionale: infatti la protagonista del poema è la dea della Verità, che si svela a Parmenide e mostra l'esistenza di due vie: la via della verità e la via della falsità. La via della verità ha per principio: "L'essere è e non può non essere, il non essere non è e non può in alcun modo essere"; la via della falsità nega tale principio. Ma solo la via della verità è percorribile: infatti solo ciò che esiste può essere pensato e detto; la via della falsità, invece, si riferisce alla negazione dell'essere, al non essere delle cose, che di per sé non può né essere pensato né essere detto, pur essendo attestato dai sensi. Allora essere e pensare sono la medesima cosa. Per Parmenide l'essere è "ingenerato"(se si generasse dovrebbe derivare dal non essere, che non c'è), e "incorruttibile"(se si corrompesse andrebbe nel non essere, che non c'è); non ha un passato (che implicherebbe non essere più) né un futuro (che implicherebbe il non essere ancora); non è soggetto ad alcun mutamento ed è immobile (in quanto mutamento e movimento implicano alterità e non essere); è indivisibile (perché ogni divisione implica alterità e non essere) e dunque è assolutamente uguale in ogni sua parte ("simile a una massa di ben rotonda sfera"); è perciò finito (per i greci solo ciò che è finito è perfetto, mentre l'infinito viene percepito come imperfezione).Se la verità coincide con questo essere di assoluta integralità, ne viene di conseguenza che tutte le cose di cui parlano i mortali sono mere apparenze, perché non si riferiscono all'essere in quanto essere ma ammettono il divenire e il mutamento, che implicano il passaggio dall'essere al non essere e viceversa. Di queste realtà, che sono attestate dai sensi, non è possibile avere scienza, ma soltanto opinione<dóxa. Parmenide, nel tentativo di conciliare le caratteristiche dell'essere con la realtà esperita dagli uomini, parla di un'opinione plausibile delle cose, percorribile come terza via, in cui la molteplicità e il divenire, attestati dai sensi, sono ammessi non come puro essere o puro non essere, ma solo come apparenza fenomenica. PROTAGORA Nasce ad Abdera agli inizi del sec. V a.C.; viaggia a lungo, fermandosi soprattutto ad Atene, dove è amico dello statista Pericle e del tragediografo Euripide. La sua attività suscita le antipatie dei conservatori ateniesi e un'accusa di empietà e di ateismo che lo costringe all'esilio. È il fondatore della sofistica e il suo nome è legato al principio del relativismo etico, che egli formula in questi termini: "l'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono". Con questo Protagora intende dire che ogni singolo uomo è il criterio per giudicare le cose e che, pertanto, non esiste alcun principio assoluto e autonomo a cui rapportare la realtà, come avevano creduto tutti filosofi prima di lui. Così al sapiente cioè al sofista non tocca il compito di scoprire i fondamenti stabili delle cose (sui quali non è lecito pronunciarsi), bensì quello di rendere "più forte il discorso più debole", ossia di rendere più vero (o più buono o più bello) ciò che al momento appare meno vero, esattamente come fanno gli avvocati nei processi. Questa arte, di cui Protagora è maestro, è detta "antilogia". Tuttavia, il suo uso non è lasciato al capriccio di chi se ne serve, ma trova sostanzialmente un limite nel fatto che essa ha come fine l'utile, che, in quanto tale, non viene ritenuto relativo, ma è considerato razionalmente e oggettivamente determinabile in modo assoluto in relazione alle circostanze date. In questo senso Protagora non rinuncia al concetto virtù, ma l'intende in una accezione nuova, fondata sull'utile e non sul bene: il sofista è appunto colui che possiede e insegna la virtù dell'accortezza, cioè del saper scegliere ciò che è utile per sé e per la polis in dati momenti. Perciò anche la sapienza cambia di segno perché può essere appresa e insegnata: appartiene a tutti quelli che sanno riconoscere ciò che è utile e ciò che è dannoso nei vari campi, ma in grado sommo essa tocca al sofista, in quanto conosce l'utile di tutti, cioè della polis. Protagora applica il relativismo anche in teologia, esponendo una forma di agnosticismo che non ha precedenti nella filosofia greca: riguardo agli dei, infatti, l'uomo non ha la possibilità di accertare "né che sono né che non sono". GORGIA Nasce a Lentini (Sicilia) nel sec. V a.C. e, inviato ambasciatore ad Atene, fa fortuna come maestro di retorica. Sofista, è considerato il fondatore del nichilismo. In senso generale il suo obiettivo polemico è l'ontologia della scuola di Elea, come dimostrano le tre proposizioni che caratterizzano il suo pensiero: 1. nulla esiste; 2. se anche esistesse non sarebbe conoscibile; 3. e se anche fosse conoscibile non sarebbe esprimibile. Gorgia dimostra che nulla può esistere a partire dalla constatazione che se l'essere, in quanto principio, si manifesta nelle forme antitetiche elaborate dai filosofi precedenti, significa che non esiste. La non conoscibilità dell'essere si prova semplicemente mostrando che si possono pensare cose non esistenti e poi generalizzando questa constatazione a tutti i contenuti di pensiero. La non esprimibilità dell'essere si regge sul fatto che, per Gorgia, la parola non ha la capacità di significare qualcosa che sia altro da sé. Da queste posizioni derivano le seguenti conseguenze:1. non c'è possibilità di fondare un'etica assoluta, e dunque ci si deve accontentare di un'etica della situazione, in cui le norme e i doveri variano secondo le condizioni sociali e cronologiche;2. la parola non è più veicolo di verità (poiché è altro dalla realtà e dal pensiero) ma di suggestione e di persuasione: in tal senso cresce il valore della retorica, che sostituisce in toto la filosofia;3. l'arte acquista una piena autonomia rispetto alla filosofia e persegue finalità proprie (la mozione dei sentimenti). ARISTOTELE è considerato l'inventore della logica, concepita come studio scientifico del pensiero quale si manifesta nel linguaggio (lógos), inteso nei suoi elementi (termini, proposizioni e argomentazioni) e nelle leggi che ne regolano l'uso. Tutti i termini si riconducono a dieci concetti generalissimi, le categorie (predicati), a cui corrispondono i dieci generi supremi degli enti: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, stare, avere, fare, patire. La sostanza indica ciò che è in sé, ossia ciò che sussiste indipendentemente da altro, mentre le altre categorie indicano ciò che è in altro e sono dette anche accidenti. Il sillogismo è l'argomentazione in cui, poste due proposizioni (premesse), se ne deduce una terza (conclusione), diversa da esse e derivante necessariamente da esse. La teoria della scienza riguarda la conoscenza fondata su dimostrazioni: la dimostrazione è un sillogismo le cui premesse sono vere, o perché sono principi evidenti di per se stessi, o perché sono la conclusione di precedenti dimostrazioni. Accanto alla logica Aristotele pone tre gruppi di discipline: 1. le scienze poietiche; 2. le scienze pratiche; 3. le scienze teoretiche, che si suddividono nelle scienze della natura, nella matematica e nella filosofia prima o metafisica. La natura è l'insieme di tutte le realtà mutevoli che hanno in se stesse, o nella loro specie, la causa del proprio mutamento. Ogni mutamento, pertanto, è un passaggio dalla potenza all'atto: la materia, prima di assumere la forma, è in potenza rispetto a essa; la forma invece, quando viene assunta dalla materia, ne costituisce l'atto, cioè la piena realizzazione delle sue possibilità. Ogni mutamento richiede una causa motrice, cioè un agente che lo produca, il quale deve essere già in atto. Si danno quattro tipi di cause, cioè di condizioni del mutamento: la materia, la forma, il fine e la causa motrice. Tutti i mutamenti che si verificano sulla Terra dipendono dai moti degli astri, e questi, a loro volta, dal moto della sfera estrema, quella che reca infisse le stelle e contiene l'intero universo. Aristotele spiega che le realtà viventi hanno come forma e causa del loro movimento un'anima (psyché): un'anima vegetativa nelle piante, principio delle funzioni vegetative (nutrizione e riproduzione); un'anima sensitiva negli animali, principio anche delle funzioni sensitive (percezione, desiderio e movimento locale); un'anima intellettiva negli uomini, principio anche delle funzioni intellettive (pensiero e volontà). La conoscenza umana ha inizio sempre dalla percezione delle forme sensibili: all'interno di queste l'intelletto scopre le forme, cioè le essenze, le strutture intelligibili dei vari enti, mediante un processo complesso di induzione. L'intelletto, a sua volta, prima di apprendere le forme, è in potenza rispetto a esse e chi fa passare l'intelletto umano dalla potenza è un intelletto attivo, da sempre in atto. Esistono due principi logici, cioè delle leggi del pensiero che valgono per tutti gli enti, cioè sono anche leggi dell'essere: il principio di non-contraddizione e quello del terzo escluso. La sostanza sensibile è l'unione inscindibile di materia e forma (sinolo), ma ciò che la fa essere sostanza è la sua forma. I motori delle sfere celesti, per poterle muovere eternamente, devono essere sempre in atto, cioè devono essere puro atto, e quindi immobili, e sono identificati con l'atto del pensiero intuitivo, che è l'unico non implicante movimento. Il primo tra essi è il motore della sfera delle stelle fisse, che pensa anzitutto se stesso, perciò è pensiero di pensiero, e ha diritto al titolo di Dio supremo. L'etica ha come fine la felicità, che consiste nell'esercizio abituale e perfetto della funzione che è propria dell'uomo, ossia della virtù. Ci sono virtù etiche, che riguardano le funzioni della parte non razionale dell'anima e consistono nel giusto mezzo tra due vizi opposti, e virtù dianoetiche, che riguardano le funzioni della parte razionale e sono fondamentalmente la saggezza e la sapienza. La pólis è la società perfetta, cioè autosufficiente, nella quale l'uomo può realizzare la felicità, perchè l'uomo è per natura un animale politico. L'ordine delle funzioni interne alla pólis è stabilito dalla costituzione, che può essere monarchica (governo di uno), oligarchica (governo di pochi meritevoli) o democratica (governo degli uomini liberi). La costituzione migliore è quella intermedia fra aristocrazia e democrazia, detta politéia (cioè costituzione per eccellenza), in cui la maggior parte dei cittadini sono in una situazione media, cioè non sono né troppo ricchi né troppo poveri. La retorica comprende l'arte di ben argomentare (dialettica), la conoscenza delle passioni umane e la rettitudine del carattere dell'oratore, che lo rende più credibile. La poesia è definita come mimesi, cioè imitazione, della vita ed è distinta in vari generi, di cui la tragedia è il supremo. ORATORIA: cinque sono le parti dell’oratoria: l’inventio, la dispositio, l’elocutio, la memoria e l’actio. L’inventio è la ricerca, non l’invenzione, degli argomenti da trattare, e cioè la facoltà di richiamare alla memoria idee già esistenti nella mente, per mezzo di domande che possono riassumersi nell’esametro: quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando? La dispositio è l’organizzazione ordinata degli argomenti, e cioè la scelta conveniente (aptum) e funzionale alla riuscita dell’orazione. L’elocutio è l’espressione linguistica delle idee e costituisce quindi la componente più importante dello stile. Essa riguarda pertanto sia il lessico sia la sintassi ed ha come fondamenti la puritas (purezza), la perspicuitas (chiarezza), l’ornatus (bellezza espressiva) e l’aptum (conveniente). La memoria costituisce la base di ogni conoscenza e pertanto l’orazione trova il suo maggiore sostegno proprio in questa facoltà della mente. Giustamente, come ricorda Quintiliano (XI, 2), la memoria è detta “thesaurus eloquentiae” (forziere dell’eloquenza). L’actio, detta da Quintiliano anche pronuntiatio, consiste nel pronunciare l’orazione accompagnando la voce con i gesti del corpo. Essa è dunque un vero e proprio linguaggio fisico ed è indispensabile per il successo dell’oratore. I generi dell’oratoria sono tre: genus iudiciale, genere giudiziale o forense, in pratica il discorso di un avvocato in tribunale, specialmente nei processi penali; genus deliberativum, genere deliberativo o politico, ovvero il discorso tenuto da un uomo politico in senato o di fronte all’assemblea del popolo; genus demonstrativum (epidittico), genere celebrativo, cioè il discorso tenuto da un oratore in onore di un personaggio. L’orazione giudiziaria comprende: l’exordium, la narratio, la confirmatio, la refutatio e la peroratio. L’exordium (proemio) ha lo scopo di preparare chi ascolta ad accogliere favorevolmente il discorso; la narratio è l’esposizione dei fatti ed è pertanto indispensabile per informare il giudice chiamato ad emettere la sentenza; la confirmatio consiste nel complesso delle prove e delle testimonianze addotte a sostegno della causa; la refutatio è la confutazione dell’avversario; la peroratio è la conclusione o epilogo dell’orazione. LISIA Celebre logografo e abile oratore, visse a cavallo tra il V e il IV sec.; la sua opera, strettamente legata all'ambiente dei processi e al mondo del diritto attico, è forse l'esempio più significativo della prosa dell'età classica. Lisia nacque ad Atene attorno al 459 a.C. Era figlio di Cefalo, un ricchissimo siracusano venuto ad Atene chiamato da Pericle e proprietario di una fiorente fabbrica di scudi. Visse alcuni anni a Turi, in Magna Grecia, ma tornò ad Atene verso il 413: qui la famiglia, per le sue simpatie democratiche oltre che per le ingenti ricchezze, subì la persecuzione del regime oligarchico dei Trenta tiranni (404). Il fratello dell'oratore fu mandato a morte; Lisia riuscì fortunosamente a evitare l'arresto e si rifugiò a Megara. Ritornato ad Atene dopo la restaurazione democratica (403), non riuscì tuttavia a rientrare in possesso dei propri beni e si dedicò quasi sessantenne, con grande fortuna all'attività di logografo. Incerta è la data della sua morte, che potrebbe essere collocata dopo il 380 a.C. Delle 425 orazioni che conoscevano, gli antichi ne consideravano autentiche 323. Ci è pervenuto un corpus di 30 orazioni circa, oltre a una serie di frammenti. Tranne alcune di genere epidittico, quali l'Olimpico e l'Epitafio, tutte le orazioni appartengono al genere giudiziario, cioè sono scritte su incarico di un committente che, secondo la prassi giudiziaria del tempo, doveva poi recitarle di persona in tribunale. Lisia si preoccupava di valorizzare le ragioni del suo committente e di far coincidere lo stile dell'argomentazione con la personalità del cliente, secondo il principio greco dell'etopea (ethopoiìa, rappresentazione del carattere). Le orazioni trattano temi svariati in relazione alla varietà delle cause: peculato, tradimento, corruzione, inadempienza agli obblighi militari, sacrilegio, diffamazione, ecc. La molteplicità di tematiche appare evidente anche dai titoli: Per l'invalido, forse commissionata da un cliente di modesta estrazione sociale; Per l'uccisione di Eratostene, imperniata sulla legittimità dell'omicidio in caso di adulterio; Contro i mercanti di grano, preziosa testimonianza per la ricostruzione della storia economica; Per l'olivo sacro; Per il soldato; Contro Diogitone. All'interno del ricco e composito corpus lisiano, trovano posto solo due orazioni di interesse politico: Contro Eratostene (403), l'unica pronunciata dall'autore, drammatica requisitoria contro il regime dei Trenta tiranni; Contro Agorato, un emissario degli oligarchi, che aveva provocato la morte di alcuni esponenti del partito democratico. Rigore di documentazione e chiarezza di esposizione sono le doti che già la critica antica indicava come caratteristiche delle orazioni di Lisia, che seguivano sempre la seguente struttura: prefazione, esposizione del fatto, presentazione delle testimonianze ed epilogo. La lingua usata da Lisia è un dialetto attico puro e di semplicità esemplare. ISOCRATE maggior esponente del genere epidittico. Nato ad Atene nel 436 a.C. da una famiglia agiata, venne educato dai sofisti e, in particolare, da Gorgia. Fu inizialmente attivo come logografo. Intorno al 390 a.C. aprì una scuola che, in contrapposizione all'Accademia platonica, imperniava il suo progetto educativo sull'esercizio dell'oratoria, considerata, prima ancora che veicolo di persuasione e strumento di confronto, fondamento di ogni formazione morale e civile. Tra i discepoli della scuola, che ebbe grande successo, ci furono uomini politici (Timoteo), storici (Eforo), oratori (Iperide e Licurgo). Isocrate svolse l'attività di maestro di retorica per un cinquantennio; poi, secondo la tradizione, tradito nelle sue aspettative dalla disfatta di Cheronea (che sancì l'egemonia macedone sulla Grecia), ormai in tardissima età si lasciò morire d'inedia (338 a.C.). Rimangono di Isocrate 9 epistole (non tutte autentiche) e 21 discorsi. Di questi, alcuni sono orazioni giudiziarie, altri – come il Busiride e Elena – sono tipiche esercitazioni di scuola. Contro i sofisti (390) e Sullo scambio o Antidosis (353) contengono l'esposizione del programma educativo e scolastico. Da buon maestro, Isocrate riteneva che il fine ultimo della sua attività e dei suoi scritti fosse quello di educare le nuove generazioni trasmettendo loro, attraverso la forza del logos, il sistema di valori dell'Atene democratica. Tra i restanti discorsi epidittici, alcuni riflettono le posizioni politiche dell'autore; i più importanti sono: Panegirico (380); Plataico (ca 373); A Nicocle, Evagora (ca 372-365); Areopagitico (ca 355); Sulla pace (356-354); Filippo (346); Panatenaico (342-339). Nel Panegirico e nel Panatenaico, Isocrate cerca di dimostrare le motivazioni per cui Atene può diventare la guida politica della Grecia: la paidéia, di cui Atene è simbolo, diviene agli occhi di Isocrate lo strumento per superare il particolarismo delle città e attuare l'unità dell'Ellade. Isocrate non fu un politico di professione, ma gli interessi politici ispirarono molti dei suoi discorsi. Fu fautore di una democrazia moderata e, in politica estera, assertore di un panellenismo che superasse i contrasti fra le varie città-stato, nella prosecuzione della lotta contro la Persia. Inizialmente auspicò che l'egemonia sulle città greche fosse esercitata da Atene, per i meriti del suo passato politico oltre che per il suo indiscusso primato spirituale; ma, successivamente, chiamò al ruolo di guida vari personaggi (i signori di Cipro, Dionisio di Siracusa, Archidamo di Sparta) e infine Filippo il Macedone, sperando in una soluzione pacifica dei contrasti che opponevano la monarchia macedone alla Grecia. Lo stile delle orazioni rivela il culto per l'eleganza formale: il periodare è ampio e solenne, scandito in una struttura perfettamente equilibrata. La perfezione stilistica, non priva di un certo compiacimento, rischia talvolta di apparire soltanto un esercizio di bravura in cui l'argomento trattato è del tutto indifferente. DEMOSTENE È il più grande degli oratori greci e, insieme, uomo politico e figura di importanza fondamentale per il mondo greco. La sua vita e la sua opera si intrecciano strettamente con le vicende politiche di Atene, nel momento della caduta sotto la potenza macedone. Nacque ad Atene nel 384 a.C. da una famiglia agiata ma, rimasto orfano di padre giovanissimo e caduto in balia di tutori disonesti, dovette intentare loro causa per recuperare i suoi beni. Di questo processo restano le tre orazioni Contro Afobo e le due Contro Onetore (363-362). Quale che fosse l'esito della controversia, Demostene dovette comunque intraprendere la carriera di logografo (oratore giudiziario per conto di altri). Negli anni intorno alla metà del secolo, debuttò come oratore politico, con una serie di discorsi concernenti sia provvedimenti amministrativi ed economici, sia problemi propriamente politici (Contro Androzione, 355; Contro Leptine, 355; Contro Timocrate, 353; Sulle simmorie, 354-353; Per i Megalopolitani, 353-352; Per la libertà dei Rodii, 351). Nel 351 (o, secondo alcuni, nel 349) pronunciò la I Filippica, vibrante denuncia della politica del re macedone Filippo II, la cui risoluta determinazione è contrapposta appassionatamente all'inerzia degli ateniesi. Negli anni 349-348 compose le tre Olintiache, per sollecitare un rapido ed efficace intervento a difesa della città di Olinto, nella Calcidica, assediata e successivamente soggiogata da Filippo. Di fronte alla politica aggressiva TEOCRITO Nacque attorno al 310 a.C. a Siracusa. Visse tra Alessandria d'Egitto, dove fu ospitato presso la corte dei Tolomei, e l'isola di Cos, in cui esisteva un importante cenacolo poetico attorno a Fileta. A Cos forse morì nel 260 ca a.C. Il corpus teocriteo comprende 30 idilli, componimenti tra cui figurano anche mimi, epilli ed encomi (in parte in autentici); 24 epigrammi, confluiti nell'Antologia Palatina ed un carme figurato, La zampogna. Generalmente, i cosiddetti idilli vengono raggruppati secondo il loro contenuto in carmi d'amore efebico, epilli o poemetti mitologici, mimi e carmi bucolici. Teocrito si può ritenere il creatore della poesia bucolica: gli idilli sono quadri di vita pastorale con al centro la figura del pastore; i componimenti seguono sempre uno schema fisso in cui figurano elementi ricorrenti: l'ambientazione campestre, una natura solitaria e tranquilla che si sogna di raggiungere dopo aver abbandonato le città rumorose e affollate; l'intreccio, giocato sulla sfida canora tra due pastori al termine della quale uno vincerà il premio messo in palio; il canto amebeo (cioè “botta e risposta”) sostenuto dai due contendenti. L'attenzione per la cura formale e per la sperimentazione linguistica mostra l'adesione di Teocrito alla tendenza stilistica dell'Ellenismo, anche se da essa si discosta preferendo uno stile popolare, lontano dall'aristocratica erudizione e dal “labor limae”. I) Tirsi o il Canto: Contiene un’indicazione programmatica ed é considerato il manifesto della poesia bucolica, genere tuttavia già presente nelle opere omeriche. Nella campagna siciliana un pastore, Tirsi, invitato da un capraio, canta la morte misteriosa del poetapastore Dafni, evocata con forte partecipazione emotiva. Prima del canto, un capraio mostra i doni che darà in seguito al cantore, fra i quali spicca una coppa di legno istoriata, descritta secondo il gusto dell’ἔκϕρασις (descrizione ed esposizione elegante). - Amore: la morte di Dafni é legata ad una vicenda d’amore infelice (v. 130 io da Amore vengo ormai trascinato nell’Ade), già cantata da Stesicoro e che viene solo accennata all’inizio dell’idillio perché considerata come presupposta conoscenza del pubblico, colto come da gusto callimacheo. - ἔκϕρασις: la coppa di legno viene descritta estesamente, per 30 versi, dettagliatamente come una pausa all’interno del componimento, una sorta di excursus. VII) Le Talisie: Il nome é legato al verbo θάλλω, germogliare, e fa riferimento alle feste di fertilità in onore di Demetra celebrate a Cos. Si racconta la storia di un incontro casuale tra un uomo cittadino, Simichida, che insieme a due amici si sta recando alle Talisie, e un capraio, Licida. I due si incontrano e cominciano uno scambio di canti pastorali e alla fine Licida dona al cittadino Simichida un bastone pastorale che richiama l’investitura poetica di Esiodo sul monte Elicona. Simichida é niente più che Teocrito stesso: l’autore sta quindi parlando della propria investitura a poeta del genere pastorale, e l’argomento della festa tuttavia rimane sullo sfondo in quanto la vicenda è incentrata sul momento prima di arrivare alla festa. Simichida, in prima persona, fin dai primi versi presenta i due amici Eucrito e Aminta, descrivendo lo scopo del viaggio, ovvero l’arrivo alle Talisie. Più tardi si fa riferimento all’incontro causale con Licida, descritto molto rozzamente e dotato di un bastone ricurvo, quello che infatti alla fine donerà a Simichida. Simichida descrive sè stesso come un poeta, già famoso, ma che non é ancora al livello della fama di Asclepiade di Samo e Filita di Cos. Licida dice che donerà a lui il bastone perché é un poeta nobile, un virgulto di Zeus tutto forgiato sulla verità, dicendo di non amare chi compone poemi epici. Di seguito si ha lo scambio di canti pastorali fino a quando, al verso 126, si ha l’investitura poetica, che riprende Esiodo. XIII. "Ila" (Ylas) Teocrito dedica all'amico Nicia anche l'Idillio XIII, in cui sviluppa il tema della supremazia dell'amore, al quale cedono anche gli Dèi: lo dimostra Eracle, innamorato del giovinetto Ila e colto dalla disperazione quando, durante la saga argonautica (vedi topic su Apollonio Rodio), lo perde, rapito dalle ninfe. Il carme è quindi, oltre che un epillio mitologico, anche un'epistola poetica dedicatoria. Pure in questo caso il mito eroico è umanizzato, con la rappresentazione di un Eracle che, alla ricerca di Ila, abbandona i suoi compagni Argonauti. L'episodio è raccontato, come detto, anche da Apollonio Rodio, perciò è opinione prevalente che Teocrito lo abbia ripreso, riscrivendolo secondo i dettami della nuova poetica. XXII. "I Dioscuri” Questo componimento in particolare, che ha come oggetto i Dioscuri (Castore e Polluce), è costituito da due episodi distinti e giustapposti: il primo fa riferimento alla gara di pugilato tra Polluce e il re dei Bebrici Amico risparmiato alla fine dal vincitore figlio di Zeus. Il secondo riguarda il rapimento delle figlie di Leucippo da parte dei due fratelli e la lotta contro i figli di Afareo, Linceo e Ida, che rivendicavano come loro dovute le nozze con le Leucippidi. Su proposta di Linceo, un duello tra Castore e lo stesso Linceo, affrontato con aste e spade, decide il conflitto che si conclude con la morte del figlio di Afareo. Ida, pronto a vendicare il fratello, cade a sua volta abbattuto dalla folgore di Zeus. XXIV. "Eraclino, Eracle bambino" E' un racconto mitologico, in cui sono narrate le prodezze di Eracle che, a soli dieci mesi di vita, strangola i serpenti inviati a ucciderlo da Era per vendetta contro Zeus, padre del piccolo nato da Alcmena. Il profeta Tiresia, chiamato in causa dalla madre, predice il futuro glorioso dell'eroe sterminatore di mostri. Il poemetto, privo di unità, racconta quindi l'educazione e l'apprendistato di Eracle nella casa di Anfitrione. Le ipotesi in merito all'incompletezza dell'opera sono state confermate nel 1930 dalla pubblicazione del Papiro di Antinoe, che contiene resti assai lacunosi di circa altri trenta versi. Il poemetto si concludeva come un inno, con un'invocazione a Eracle per la vittoria in un agone poetico. APOLLONIO RODIO Nasce nel 295 a.C. ad Alessandria, dove entra presto alla Corte dei Tolomei, divenendo nel 260 a.C. bibliotecario (προστάτης) ed educatore del principe ereditario Tolomeo III Evergete. Secondo alcune biografie antiche sarebbe stato seguace della poetica di Callimaco, altre fonti parlano invece di una contesa tra i due testimoniata da un epigramma, di dubbia autenticità, di stampo anticallimacheo e dal fatto che Callimaco avrebbe composto contro Apollonio il carme satirico Ibis, ritenendolo uno dei Telchini contro cui polemizza nell'esordio degli Aitia. Quando nel 247 a.C. Tolomeo III sale al trono, Apollonio viene succeduto da Eratostene e si trasferisce a Rodi dove rimaneggiò le sue Argonautiche, già pubblicate precedentemente ma di cui possediamo oggi una seconda redazione, databile attorno all’anno 240 a.C. La sua morte é collegabile attorno al 215 a.C., o a Rodi o ad Alessandria. Scrisse opere erudite, poemetti relativi a fondazioni di città, un poemetto in coliambi, il Canopo, in cui è presente l’elemento del katasterismo, ed altre opere perdute. Le Argonautiche rimangono l’opera più importante, unico poema epico rimasto dopo quelli di Omero. Il poema, in esametri, si sviluppa in quattro libri ed é più breve rispetto ai poemi omerici perché rispetta le regole tramandate nella Poetica da Aristotele sulla composizione di un poema epico, di ampiezza simile a quella di una tetralogia tragica. Le Argonautiche divennero il punto di partenza per una produzione poetica successiva: furono tradotte in latino da Varrone Atacino e influenzano profondamente l’Eneide. Valerio Flacco le riadattò, nel I d.C., in un’opera latina. Il I e II libro descrivono il viaggio degli Argonauti guidati dal principe Giasone, verso la Colchide, sul Mar Nero. Dopo un breve proemio contenente l'invocazione ad Apollo e l'esposizione dell'antefatto (Pelia ha usurpato il regno di Iolco al fratellastro Esone, padre di Giasone; quest'ultimo, per riprendere il comando, deve consegnare all'usurpatore il vello d'oro custodito dal re Eeta nella selvaggia terra dei Colchi), segue un secondo proemio con la tradizionale invocazione alla Musa ed il catalogo degli Argonauti, su imitazione dell'esordio di Omero nell'Iliade. Il gusto per l'aìtion (la “causa”) e la grande abbondanza di notazioni erudite fanno sì che gli episodi narrati assumano vita propria (merita di essere ricordato il rapimento del giovane Ila da parte di una ninfa e il conseguente abbandono della spedizione di Poliremo ed Eracle) ed il racconto si snodi attraverso la successione di una serie di epilli, scene in sé concluse e collegate solo per motivi secondari – per lo più eziologici – alla narrazione principale. Il III libro è interamente incentrato sulla figura di Medea, che per amore, impiega le sue arti di maga e rende possibile la vittoria di Giasone. Si apre con un terzo proemio contenente l'invocazione a Erato, musa della poesia d'amore; subito dopo la dea Afrodite invia il figlio Eros a Medea perché si innamori di Giasone. Così accade: l'eroe, grazie ad un filtro magico procuratogli da Medea, riesce ad aggiogare due tori spiranti fuoco e a sconfiggere i guerrieri nati dai denti di serpente seminati sul campo di battaglia. Nel IV libro è descritto l'episodio della conquista del vello d'oro e del ritorno degli eroi, a cui si aggiunge Medea, lungo un itinerario eccentrico e fantastico che attraverso il Danubio, il Po e il Rodano li riconduce al Mediterraneo. Innovazioni rispetto all’Epica Omerica L’i mpiant o dell’opera è ovviamente tradizionale e si basa sull’Odissea e sulla Pitica IV di Pindaro. Oltre al genere epico si hanno altre influenze, come la tragedia, di cui si riprende la caratterizzazione psicologica dei personaggi e il racconto per episodi,) e la lirica per il tema amoroso e l’io narrante. Si utilizzano simili strumenti espressivi convenzionali a livello formale, come similitudini, lessico e dialetto epico attico . Le formule tipiche del linguaggio epico vengono ancora sfruttate ma per lo più impiegate frammentariamente, quindi utilizzando singole parole, riempite di nuovi valori e sfumature. Le formule ricorrenti vengono largamente variate . Il contenuto dell’opera di Apollonio infatti evidenzia notevoli punti di contatto con i poemi omerici, soprattutto con l'Odissea: si pensi alle tappe comuni tra il viaggio di Giasone e quello di Odisseo (Ulisse), come Circe, Scilla e Cariddi, le Sirene, l'Isola dei Feaci, ma anche a episodi paralleli come il catalogo degli eroi, che rimanda al catalogo delle navi ; l'incontro fra Giasone e Fineo, modellato su quello fra Odisseo e Tiresia; l'episodio di Giasone e Ipsipile, che richiama quello che ha per protagonisti Odisseo e Circe. Apollonio inoltre sceglie in base a una volontà ben preciso di raccontare un mito fondativo della cultura ellenica più o meno coevo all'altro mito-chiave, cioè la saga troiana: si ricorderà infatti che i protagonisti dell'impresa del vello d'oro appartengono tutti alla generazione immediatamente precedente a quella dei protagonisti dell'Iliade. Tuttavia, le Argonautiche sono di ampiezza minore (secondo i principi aristotelici) così da raggiungere anche in quest'ambito gli irrinunciabili ideali poetici di erudizione, creatività, eleganza formale. Da questo punto di vista le "Argonautiche" appaiono davvero come il frutto di un prodigioso lavoro di " miniaturizzazione" : nel poema sono infatti presenti tutti gli elementi che caratterizzano il genere epico come profezie, interventi delle divinità, cataloghi, assemblee, in uno spazio narrativo che è circa un terzo dell'Iliade e metà dell'Odissea; l'ampiezza dell'opera corrisponde press'a poco all'ampiezza di una tetralogia drammatica, secondo il precetto formulato da Aristotele (nella "Poetica). Il pubblico non é più il popolo uditorio ma é quello dei lettori più colti. Il viaggio è concepito in modo molto diverso: Odisseo infatti ha una meta precisa da raggiungere, che è il ritorno in patria; Giasone compie invece un percorso circolare, partendo da Iolco per poi ritornarvi . Per quanto riguarda gli dei la posizione di Apollonio é stata vista come “laicizzante”: di fatto, nel poema gli Dèi si presentano come spettatori e non come protagonisti delle vicende narrate; essi si limitano in buona sostanza ad a ccompagnare un'azione che si sviluppa per cause indipendenti dalla loro volontà. Ma se non è più la volontà degli Dèi a muovere e a giustificare gli eventi, non ci stupisce cogliere un pessimismo di fondo dominante nelle Argonautiche, dovuto all'impossibilità dell'uomo non solo di scegliere il proprio agire, ma persino di comprendere le ragioni; l'eroe si scopre in balia di una Tùke (Fato) oscura e inconoscibile , e in questo suo destino egli offre uno specchio dell'uomo nuovo del mondo ellenistico. L’eroe abdica alla sua tradizionale funzione paradigmatica per assumere una valenza che potremmo definire speculare: non più immagine dell'uomo come deve essere, ma dell'uomo com'è. In questo senso Giasone è un tipico anti-eroe, inadeguato all'impresa, insicuro, debole (anche nelle motivazioni), investito di un ruolo che non vuole e per il quale non si sente tagliato, vittima di una sorta di complesso di inferiorità nei confronti dei più tradizionali modelli rappresentati da Eracle o Peleo, eroi vecchio stampo che si risolvono tutti e interamente nell'azione LA NUOVA COMMEDIA: MENANDRO Tra il IV e il III sec. a.C. le rappresentazioni teatrali – specialmente quelle tragiche – non riscuotono più il successo ottenuto in passato e, principalmente a causa della decadenza della polis, vanno scomparendo. Solo la commedia sopravvive perché capace di adattarsi alle circostanze del momento storico. È Menandro il massimo esponente di questa commedia nuova e, benchè da vivo non ebbe molto successo poiché ottenne solo otto vittorie, pur avendo fatto rappresentare più di 100 commedie, è da considerare un caposaldo nella storia del teatro occidentale. Nato ad Atene nel 342 a.C. da famiglia agiata, fu allievo del filosofo peripatetico Teofrasto e compagno di efebia di Epicuro. Fu anche amico di Demetrio Falereo (il politico che resse Atene, per conto della Macedonia, dal 317 al 307 a.C.), ma non ebbe alcuna parte nelle vicende politiche della città e predilesse una vita silenziosa e appartata, confortata dall'amore per l'etera Glicera. Da Atene non volle mai allontanarsi, benché fosse stato invitato ad Alessandria, il più prestigioso centro culturale dell'epoca, dal re d'Egitto Tolomeo Soter. Morì nel 291 a.C., secondo una tradizione, nuotando nelle acque del Pireo. Gli antichi conoscevano 108 commedie di Menandro, della maggior parte delle quali si possiedono i titoli. Esse andarono completamente perdute tra i sec. VII-VIII d.C. La conoscenza del poeta è affidata a un migliaio di citazioni presenti in autori antichi. Rinvenimenti papiracei della seconda metà dell'Ottocento e poi soprattutto del Novecento hanno restituito sezioni di una ventina di commedie. Si possiede una sola opera intera, Il misantropo (Dúskolos), l'unica di cui si conosce con sicurezza l'anno in cui venne rappresentata: il 317. Le altre commedie di cui si hanno sezioni più o meno estese sono: La ragazza tosata (Perikeirómene) del 314 circa; La donna di Samo (Samía); L'uomo di Sicione (Sikiónos); L'odiato (Misoúmenos); Lo scudo (Aspís) e L'arbitrato o I contendenti (Epitrépontes); di quest'ultima, che appare la più felice tra le opere pervenute, restano all'incirca 800 versi. Rispetto alla commedia antica, Menandro introduce alcune novità nella scansione della rappresentazione teatrale. Innanzitutto fissa l'attenzione sul prologo in cui vuole siano raccontati sia l'antefatto sia la conclusione della commedia per consentire agli spettatori di concentrarsi non sulla trama ma su come questa viene rappresentata. Poi riduce la struttura della commedia alla successione dei cinque episodi o atti intervallati dal Choroù mèros (la “parte del coro”), ossia un semplice intermezzo musicale, completamente scollegato dal dramma inscenato e privo di ogni finalità etico-educativa. Quanto alla trama, per quanto si può dedurre dai testi rimasti, il commediografo predilige intrecci complessi, giocati sulla sorpresa di repentini cambiamenti di situazione, ricchi di meccanismi stereotipi come esposizioni di neonati,