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Satira nell'Età Imperiale: Persio e Giovenale, Dispense di Latino

Una dettagliata analisi della satira nell'età imperiale, con un particolare focus sui due autori principali, persio e giovenale. La vita e le opere di entrambi gli autori, le loro scelte poetiche e le finalità dell'opera, le loro influenze e i modelli a cui guardano. Inoltre, viene analizzata la struttura e la poetica delle loro opere, con particolare attenzione alla sintassi, ai registri linguistici e alle espressioni sintetiche utilizzate.

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 23/02/2024

giusy-catanzariti
giusy-catanzariti 🇮🇹

5 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Satira nell'Età Imperiale: Persio e Giovenale e più Dispense in PDF di Latino solo su Docsity! La satira nell’età imperiale Nell’età imperiale la satira vive un periodo di riscoperta, si trattava di un’epoca di oggettiva corruzione, in cui la voce dell’autore satirico è più alta e severa, abbandonando la solita sorridente e benevola comprensione dei vizi umani (tipica, ad esempio, di Orazio) per criticare aspramente il degrado dei costumi. I due principali autori di satire del periodo furono Persio e Giovenale, mossi dal disgusto e dall’indignazione, che non intendono instaurare un dialogo alla ricerca di una vita moderata e percorribile con i lettori, ma vogliono essere giudici spietati della propria epoca, denunciandone i difetti. Vi era stato un allontanamento profondo tra la figura dell’intellettuale e la società, ai dialoghi con i lettori, dunque, subentrano i monologhi aspri e risentiti, con numerose predicazioni enfatiche. Il genere satirico non era più quindi un’ironia usata per far ridere dei difetti comuni, ma poggiava su un moralismo intransigente, che esclude il comico e lo sostituisce con il grottesco o con una visione molto cupa e tragica della realtà. Strutturalmente le satire di Persio e Giovenale riprendono una serie di luoghi comuni della tradizione come gli esametri, l’impostazione dialogica/epistolare, ma anziché utilizzare una forma colloquiale “media” vi è una mescolanza di registri linguistici, in quanto il poeta satirico non avverte più come prioritaria l’esigenza di essere compreso. PERSIO Aulo Persio Flacco nacque a Volterra nel 34 d.C. da una famiglia agiata di rango equestre, egli studiò retorica a Roma, dove conobbe anche il filosofo stoico Anneo Cornuto, che gli ispirerà uno stile di vita sobrio e austero, adatto ad un giovane deciso a mantenere le distanze dalla corruzione del tempo. Persio trascorse una vita ritirata e schiva, dedita agli studi e alla scrittura delle sue satire; egli si legò agli ambienti stoici ostili al principato di Nerone, conoscendo intellettuali come Seneca e Lucano, ma soprattutto il poeta Cesio Basso, il quale curerà l’edizione postuma della sua opera. Persio morì nel 62 a soli ventotto anni per una malattia allo stomaco, senza che avesse mai pubblicato alcuna opera. L’unica opera di Persio conservata è la raccolta delle satire (Saturae), rivista e corretta da Anneo Cornuto e edita nel 62 dall’amico Cesio Basso. L’opera comprende: - Un breve testo in coliambri, (tipico metro dell’invettiva, forma poetica di violento attacco personale) esso svolgeva probabilmente la funzione di prologo programmatico. - 6 satire in esametri, riguardanti per lo più tematiche morali; nei singoli componimenti Persio non sviluppa le proprie argomentazioni in modo lineare e organico, apparendo come un susseguirsi di singoli quadri narrativi alternati da dialoghi e scene di vita quotidiana. Complessivamente l’opera delle Saturae risulta come un colorito ritratto della società del tempo. L’opera di Persio fa parte del genere della poesia satirica, egli persegue una poet ica realistica che ha come oggetto il “verum”; Persio si contrappone polemicamente al formalismo dei letterati suoi contemporanei, che prediligono una raffinatezza stilistica allo scopo morale, egli, invece, predilige una poesia forse sgradevole ma utile, che si sforza di guidare la società alla correzione dei propri costumi. Egli rivolge una sprezzante condanna alla corruzione morale del suo tempo e osserva la società con sdegnoso distacco. Proprio per questo la sua satira non presenta bonaria ironia né alcuna forma di indulgenza (come facevano quelle di Orazio), ma assume le forme dell’invettiva violenta e sarcastica. Assecondando il gusto per l’eccesso dell’età neroniana, Persio indugia nella minuziosa descrizione degli effetti concreti dei vizi, dipingendo quadri raccapriccianti che intendono provocare il disgusto nel lettore, spingendolo ad allontanarsene. I modelli a cui Persio guarda sono i padri fondatori della satira latina: Lucilio e Orazio. Persio adotta uno stile arduo e complesso, ricco di espressioni sintetiche e talvolta oscure, la sintassi è ricca di costrutti involuti e accostamenti insoliti, affiancando termini distanti e appartenenti a registri linguistici antitetici. È frequente il ricorso a metafore potenti e audaci. GIOVENALE Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquino tra il 50 ed il 60 da una famiglia di rango equestre. Studiò retorica a Roma e per qualche tempo si dedicò all’esercizio dell’avvocatura, che però abbandonò presto per dedicarsi alle declamazioni retoriche. Alle satire probabilmente si dedicò solo dopo la morte di Domiziano nel 96 e continuò a comporre versi anche sotto il regno di Adriano. Non conosciamo l’anno esatto della sua morte, ma sappiamo che si colloca dopo il 127. L’unica opera di Giovenale è costituita da una raccolta di 16 satire in esametri raccolte in 5 libri pubblicati tra il 100 e il 127. Nella prima satira sono indicate le scelte di poetica dell’autore e le finalità dell’opera. Egli si ricollega al modello satirico di Lucilio e Orazio per esprimere la necessità morale di esprimere in versi la propria indignazione nei confronti di una società corrotta. Anche nell’opera di Giovenale manca la bonarietà oraziana, ma manca anche lo scopo didascalico di Persio, egli infatti non denuncia vizi e corruzione per cercare di redimere i cittadini di Roma, ma con il solo scopo di denunciare i fatti, in quanto non vi è più alcun rimedio. Giovenale smaschera l’ipocrisia di chi elogia la povertà dall’alto di una comoda ricchezza sottolineando i disagi concreti della miseria, andando così contro alla diatriba stoico-cinica, in cui i ceti aristocratici svalutavano beni materiali quali la ricchezza e il successo. Nelle sue osservazioni Giovenale dimostra lo squilibrio nella società denunciandolo con veemenza. I primi ad essere colpiti dalle satire sono gli aristocratici (coloro che più spacciano i vizi per virtù); ai nobili decaduti e ai liberti arricchiti vengono contrapposti i diseredati, spesso costretti (come Giovenale) al clientelismo, proprio per questa sua esperienza egli considera estremamente grave che debbano essere proprio gli intellettuali e gli artisti, a causa di una totale decadenza della cultura, a dover assecondare i gusti dei loro protettori. Alla violenza della denuncia non si accompagna una proposta di mutamento, la sua mancanza di una conoscenza delle dinamiche di classe impedisce che la protesta si trasformi in una rivolta sociale. L’unico punto di riferimento positivo per l’autore è l’idealizzazione del passato e dei valori del mos maiorum, in una sorta di utopia regressiva che lo isola ancora di più dai suoi contemporanei (richiama spesso un – inesistente – tempo di moralità e onestà). Talvolta, al rimpianto si affianca l’idealizzazione della vita semplice della provincia italica al di fuori dell’atmosfera cittadina corrotta. Per la sua ottica tradizionalista e conservatrice Giovenale ha un atteggiamento sprezzante verso tutte le culture straniere, considerate causa dell’allontanamento dalla semplicità degli antichi costumi. Verso giudei e greci il disprezzo di Giovenale sfiora il razzismo, presentandoli come inferiori e rozzi. Nella stessa ottica fa un’invettiva contro le donne, considerate immorali e piene di vizi, dedicandogli addirittura l’intera satira sesta, uno dei testi più noti della misoginia antica. Le donne vengono considerate una rovina per mariti e figli, dedite al lusso e schiave dei piaceri carnali. Nella parte finale dell’opera la violenza delle satire sembra calmarsi, negli ultimi due libri i toni sono placati e meno astiosi, analizzando con ironico distacco i difetti umani (forse il cambiamento fu dovuto dalle speranze in seguito alla salita al trono di Adriano). Spesso ricorrono termini deformati e grotteschi, portando importanti innovazioni stilistiche, la forma espressiva è elevata e enfatica, simile all’epica e alla tragedia. Il registro linguistico è basso e colloquiale (proprio della satira) mescolato a vocaboli ricercati e arcaici. Il tono è enfatico e ricco di pathos. STAZIO Publio Papino Stazio nacque a Napoli tra il 40 e il 50 d.C., suo padre era un maestro di retorica e letteratura greca e si occupò personalmente della sua formazione culturale, avviandolo alla poesia. Attorno all’80 Stazio vinse il premio degli Augustalia, le gare quinquennali che si svolgevano a Napoli, e dopo il suo trasferimento a Roma vinse anche quello dei Laudi Albani. A Roma sposò Claudia e compose poesie su commissione, alcune poi confluire nelle Silvae. Per 12 anni si dedicò anche alla stesura della sua opera maggiore, la Tebaide. Nel 95 tornò a Napoli, dove iniziò a comporre l’Achilleide, rimasta incompiuta a causa della sua morte attorno al 96. Tebaide La Tebaide è un poema in 12 libri dedicato alla guerra fratricida tra Eteocle e Polinice (figli di Edipo) per il trono di Tebe. Le informazioni sono prese dalla tragedia di Eschilo Sette contro Tebe e dalle opere di Sofocle (Edipo re, Edipo a Colono) e Euripide (Fenicie, Supplici), e forse anche la Tebaide di Antimaco di Colofone, che però è andata perduta. L’Achilleide è incentrata sulla figura di un unico eroe. L’intenzione era quella di narrare l’intera epopea di Achille, colmando le lacune lasciate da Omero, ma possediamo solo il racconto di un Achille giovanissimo che viene nascosto dalla madre Teti, in abiti femminili presso Licomede, dalla guerra di Troia. Nell’isola di Sciro egli ha un figlio con Deidamia, una delle figlie del re, ma Ulisse, inviato con Diomede, riesce a smascherarlo; Achille decide allora di partire verso il destino che lo attende. Nell’opera è evidente l’influsso delle Heroides di Ovidio (soprattutto per il tema amoroso). Silvae 5 libri di lirica il cui titolo allude alla varietà tematica dei 32 componimenti, come se si trattasse appunto di diversi tipi di vegetazione boschiva. I primi 4 libri uscirono tra il 92 e il 95 preceduti da una dedica in prosa, che però manca nell’ultimo, probabilmente pubblicato dopo la morte del poeta. Tra i temi spuntano quello encomiastico, celebrativo e consolatorio. Il metro predominante è l’esametro (ma sono presenti anche altri). Si tratta in genere di poesie di occasione come epicedi (per piangere o celebrare la morte di qualcuno), epitalami (canti in onore degli sposi) ed encomi (celebrano azioni valorose), ma anche liriche di contenuto autobiografico. Lo stile di Stazio è elaborato e “barocco”, con abile uso delle tecniche retoriche, spesso è presente una certa artificiosità e tendenza all’erudizione mitologica. PLINIO IL VECCHIO Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto Plinio il Vecchio nacque a Como nel 23/24 da un’agiata famiglia di rango equestre. Studiò a Roma e per dodici anni fu ufficiale di cavalleria in Germania. Quando l’impero andò nelle mani di Nerone egli preferì ritirarsi a vita privata. Dal 70 però, con Vespasiano, iniziò una proficua collaborazione, egli gli affidò l’incarico di procuratore imperiale in Gallia e poi in Africa. Nonostante gli impegni politici egli dedicò il suo tempo anche alla stesura della Naturalis historia, dedicata nel 79 a Tito appena divenuto princeps, fu sempre dedito all’attività di erudito e letterario. Incaricato di comandare la flotta imperiale egli fu testimone e vittima dell’eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano, Pompei e Stabia; spinto dal desiderio di portare aiuto alla popolazione e di osservare da vicino l’eruzione si mise in mare avvicinandosi alla costa e morì per le esalazioni sulfuree. Frutto del suo costante impegno sono un gran numero di opere legate ai più diversi ambiti del sapere, tutte però perdute ad eccezione delle Naturalis historia. Durante gli anni in Germania compose un’opera storica in 20 libri Bella Germaniae e un trattato De iaculatione equestri e due libri di biografia dell’amico Pomponio Secondo. Di storiografia compose anche 31 libri A fine Aufidi Bassi in cui si trattavano gli anni tra il principato di Claudio e il 70. Naturalis historia 37 libri composti tra il 77 e il 78. Si tratta di una vastissima enciclopedia di scienza naturale che tratta dei vari ambiti della scienza e delle loro applicazioni pratiche: 1. Prefazione indice e fonti; 2. Cosmologia e meteorologia; 3-6. geografia ed etnografia; 7. antropologia e psicologia; 8-11. zoologia 12-19. botanica e agricoltura; 20-32. medicina e farmacologia; 33-37. metallurgia e mineralogia. La materia è vastissima e distribuita in modo diseguale, su basi empiriche più che strettamente scientifiche; spesso gli argomenti sono uniti per semplici associazioni logiche o con digressioni (anche di notevole ampiezza); l’opera fornisce anche il più ricco compendio di storia dell’arte dell’antichità. Ciò che conta non è la precisione ma la completezza, Plinio voleva fornire un “inventario del mondo”, dunque i contenuti dell’opera non sono originali né frutto di osservazione diretta, ma derivano da fonti preesistenti, dunque, è stato fatto uno sterminato lavoro di ricerca e catalogazione (egli nella prefazione fa riferimento a 2000 opere di oltre 400 autori diversi, la maggior parte greci). Egli sapeva che l’opera sarebbe stata destinata alla consultazione, e quindi crea un intero volume costituito da un indice ragionato per rendere più facile l’individuazione di passi, con una scrupolosa e onesta registrazione delle proprie fonti. L’atteggiamento dell’autore non è quello di uno scopritore o di uno scienziato, ma di un erudito che vuole tramandare ai posteri un sapere consolidato per fare un servizio all’umanità. L’atteggiamento di Plinio deriva in buona parte dalla dottrina stoica, che invitava alla filantropia e ad un atteggiamento razionale nei confronti della realtà. Emerge l’idea che la natura costituisca un insieme ordinato e finalizzato alla centralità e al benessere dell’uomo. Plinio è estremamente diffidente nei confronti delle innovazioni tecnologiche e del progresso. Egli (in linea con la mentalità conservatrice del mondo romano) ritiene che migliorare le condizioni di vita materiali conduca alla corruzione dei costumi morali, ad un’esistenza dedita al lusso e lontana dai valori del mos maiorum. Le motivazioni di Plinio per questo atteggiamento conservatore sono sia etiche che una sorta di superstizioso timore di superare i limiti umani suscitando l’ira e la vendetta della natura (fa anche degli appelli al rispetto dell’ambiente, tipo di non scavare miniere nella terra). Nella Naturalis historia sono presenti anche gli aspetti più insoliti e curiosi del mondo naturale, forse anche per compiacere gli interessi delle elites della società imperiale che ricercavano uno svago. Nel libro VIII vengono date notizie del tutto fantastiche su animali prodigiosi inesistenti, avvicinandosi ai paradossografi di età imperiale. L’opera risente di una scarsa cura formale e di una certa disomogeneità, talvolta prevale la forma dell’elenco e talvolta una struttura paratattica, ricca di figure retoriche e con frequenti richiami ad espressioni e lessico specifico delle diverse discipline, con abbondanza di grecismi e neologismi.