Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

previdenza sociale ferrante, Dispense di Diritto della Previdenza Sociale

dispensa per esame con prof Ferrante

Tipologia: Dispense

2015/2016
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 11/01/2016

giulius76
giulius76 🇮🇹

4

(4)

6 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica previdenza sociale ferrante e più Dispense in PDF di Diritto della Previdenza Sociale solo su Docsity! NOZIONI DI DIRITTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE INTRODUZIONE Si tratta di nozioni introduttive; vanno lette bene ma non vengono chieste all’esame (soprattutto non vengono chieste quelle che riguardano il diritto del lavoro, come la differenza tra autonomia e subordinazione, la somministrazione ecc.) Domande possibili: - Che tutela previdenziale è prevista per i lavoratori italiani all’estero? - Che differenza c’è tra il lavoro prestato nei paesi comunitari e in quelli extracomunitari? - Qual è il regime per i paesi convenzionati? Il diritto della previdenza sociale ha per oggetto lo studio dei rapporti che intercorrono tra assicurante ed istituto assicuratore per quanto concerne l’aspetto contributivo, e tra l’assicurato e l’istituto medesimo per l’aspetto delle prestazioni. Alla luce del 3.2 Cost., la funzione del diritto della previdenza sociale è la liberazione da situazioni di bisogno che ostacolano il pieno svolgimento della personalità umana. In tale ottica, vengono in rilievo due considerazioni: la prima è la constatazione che la previdenza sociale non sembra più tutelare in via esclusiva i soli soggetti lavoratori subordinati, ma anche altri soggetti che versino in situazioni di bisogno; ulteriormente, occorre considerare che la sfera d’efficacia della tutela previdenziale è il frutto di decisioni direttamente esposte al clima politico ed alla disponibilità delle risorse finanziarie pubbliche disponibili nel momento della loro adozione. L’origine della materia è relativamente recente: fu il cancelliere tedesco Otto Eduard Leopold von Bismarck ad introdurre le prime norme in tema di assicurazione obbligatoria per gli infortuni, le malattie e la vecchiaia sul finire del XIX secolo; ma ciò venne fatto per combattere il pericolo del “bubbone socialdemocratico” e salvaguardare la salute dei lavoratori più giovani in vista di un loro impiego bellico. Si trattava in definitiva di un motivo di ordine pubblico. Vi è oggi una pluralità di disposizioni di vario tenore e di difficile coordinazione. 1 – I SOGGETTI 1. L’assicurante e l’avviamento al lavoro Assicurante è il soggetto che per legge è tenuto a versare i contributi previdenziali a favore del soggetto c.d. assicurato. PAGE \* MERGEFORMAT 1 In questo senso è tale non solo il soggetto imprenditore (2082: Imprenditore), che si avvale normalmente di ausiliari subordinati, ma più genericamente ogni soggetto datore di lavoro. Tuttavia anche i lavoratori medesimi sono tenuti al pagamento dei contributi. Ordinario presupposto dell’obbligo contributivo è la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. In passato in linea di massima i datori di lavoro erano tenuti ad assumere i lavoratori facendone richiesta agli organi territorialmente competenti dell’ufficio di collocamento. La richiesta dal 1991 poteva essere nominativa, tramite indicazione specifica della persona iscritta nelle liste del collocamento con la quale si intende contrarre, anziché limitarsi ad indicare il numero dei lavoratori richiesti (c.d. richiesta numerica, la sola contemplata in origine). Con la l. 608/1996 si è attribuita infine la facoltà ai datori di concludere direttamente il contratto di lavoro coi lavoratori, senza necessità di dovere ottenere in via preventiva l’apposita autorizzazione o nulla osta dagli uffici di collocamento. Il contesto di liberalizzazione del mercato del lavoro ha determinato un sostanziale arretramento della tutela di quei soggetti che presentano maggiori, presumibili difficoltà di inserimento. In passato infatti il datore che avesse occupato oltre dieci dipendenti doveva riservare una certa percentuale delle assunzioni a determinate categorie di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli. Attualmente invece il legislatore ha devoluto alle Regioni la possibilità di prevedere quote variabili di assunzione per così dire riservate, senza fissare percentuali vincolanti. La l. 68/1999 ha inteso rendere effettivo il “diritto al lavoro dei disabili” prevedendo la promozione dell’inserimento e dell’integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato. La condizione di disabile viene accertata da apposite commissioni presso le aziende sanitarie locali, mentre in caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale risulta certificata dall’INAIL. I disabili intenzionati ad un’occupazione conforme alle loro capacità devono iscriversi in un apposito elenco, tenuto dai c.d. centri per l’impiego. L’obbligo di assunzione grava attualmente sui datori, pubblici e privati, con 15 o più dipendenti, in misura differenziata a seconda delle dimensioni aziendali. L’obbligo di assunzione non opera poi in relazione a datori operanti in alcuni settori (per es. nel settore del trasporto aereo, marittimo e terrestre limitatamente al personale viaggiante) e rimane sospeso nei confronti delle imprese ammesse alla cassa integrazione guadagni o che abbiano in corso una procedura di mobilità. Al fine di rendere effettivo il diritto all’inserimento nel mondo del lavoro, i datori di lavoro devono inviare periodicamente un prospetto informativo sulla situazione del loro organico, e nel caso di mancato rispetto della quota d’obbligo scatta immediatamente una richiesta di avviamento di altri disabili. Al di fuori di qualunque obbligo di assunzione si pone infine il sistema delle c.d. assunzioni agevolate, integrato da una serie di sgravi contributivi ed incentivi economici e fiscali. 2. Mancanza di assicurante in senso stretto e imprese cooperative La fattispecie del lavoro subordinato presuppone un soggetto assicurante giuridicamente distinto dal soggetto assicurato; occorre tuttavia rilevare come in ambito previdenziale vi siano situazioni nelle quali questa distinzione soggettiva non ricorre. PAGE \* MERGEFORMAT 1 La subordinazione di cui al 2094 non va confusa con la subordinazione di cui si parla in relazione ad altri contratti (per es. appalto, trasporto di cose, agenzia: artt. 1661, 1685, 1746): in questi ultimi viene in rilievo una subordinazione c.d. tecnica, mentre nel nostro caso parliamo di una più penetrante subordinazione personale, intesa come potere del datore di organizzare a proprio piacimento la prestazione del lavoratore non solo in relazione al risultato, ma anche con riguardo alle modalità di raggiungimento dello stesso, sì da eliminare ogni aspetto di discrezionalità del debitore nell’attuazione del rapporto). La prestazione subordinata è stata definita da Luigi Mengoni come quell’attività lavorativa destinata ad essere inserita in un’organizzazione sulla quale il lavoratore non ha alcun potere giuridico di controllo e ad essere utilizzata secondo le direttive del datore per uno scopo in ordine al cui conseguimento il lavoratore non ha alcun interesse giuridicamente tutelato. La giurisprudenza nel concreto dell’operazione di qualificazione contrattuale perviene ad identificare il rapporto di lavoro come subordinato in base ad una serie di indici. 4. L’appalto e la somministrazione di manodopera L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. Ove manchino le suddette caratteristiche perché l’appaltatore si limita ad interporsi tra committente e lavoratori, evitando l’assunzione di questi ultimi da parte del primo, verrà in rilievo una mera somministrazione di manodopera; quest’ultima darà luogo alla possibilità in capo al lavoratore di costituire un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato le prestazioni. La somministrazione di manodopera consiste in un rapporto fra tre soggetti, in base al quale una c.d. agenzia di somministrazione (o somministratore), in possesso di autorizzazione a tal fine, fornisce uno o più lavoratori alle imprese (c.d. utilizzatrici) che ne facciano richiesta, fermo restando che i lavoratori sono in rapporto di lavoro subordinato col somministratore. A differenza dell’appalto di manodopera, l’agenzia di somministrazione non assume l’obbligo di un opus, bensì la fornitura di mere prestazioni lavorative. È precluso all’autonomia contrattuale delle parti un appalto consistente nel mero affidamento di prestazioni lavorative mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario; in questi casi su azione alla quale è legittimato il lavoratore il rapporto si converte ex tunc in un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore. Si discute se la legittimazione espressa del lavoratore sia esclusiva, o se la stessa competa anche all’INPS in quanto titolare ex lege del credito alla contribuzione previdenziale. In entrambe le fattispecie il lavoratore è assicurato presso l’INPS quale lavoratore subordinato. Sono tenuti al pagamento dei contributi tanto il committente quanto l’appaltatore, in solido tra di loro. L’istituto previdenziale può agire contro l’utilizzatore solo dopo l’inadempimento del somministratore. Nel caso di somministrazione di lavoro il somministratore, nel caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato, è tenuto per tutto il periodo di mancata assegnazione del lavoratore al pagamento di una c.d. indennità di disponibilità, sulla quale la PAGE \* MERGEFORMAT 1 contribuzione è dovuta nella misura effettiva, senza quindi tener conto del c.d. minimale contributivo. 5. L’associazione in partecipazione Con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto. Anche se la gestione dell’affare o dell’impresa compete all’associante, l’associato se previsto nel contratto può esercitare un controllo, ed ha sempre diritto al rendiconto. Proprio tali circostanze distinguono la fattispecie in esame da un rapporto di lavoro subordinato. Oggi l’associato che apporta la propria opera lavorativa deve essere assicurato non solo contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, ma anche ai fini pensionistici. L’obbligo della relativa contribuzione grava per il 45% a carico dell’associato, e per il residuo sull’associante. 6. Le collaborazioni coordinate e continuative e il lavoro a progetto Il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa si caratterizza per una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale e che, a differenza del lavoro autonomo (si pensi all’attività di un avvocato), può essere richiesta anche da un solo committente in misura tale da divenire assorbente e costituire la fonte di reddito pressoché esclusiva del lavoratore. Rispetto al lavoro subordinato, la fattispecie in esame si caratterizza per la mancanza di un controllo della controparte sull’esecuzione della prestazione lavorativa. Attualmente la contribuzione è pari al 17,80% per i non iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria il cui reddito annuo non sia superiore ad € 37.883,00; sulla quota di reddito eccedente tale limite l’aliquota è del 18,80%. La riforma Biagi (d. lgs. 276/2003) prevede che i rapporti di collaborazione in atto siano ricondotti allo schema del c.d. lavoro a progetto; rapporto contrattuale col quale il lavoratore assume stabilmente l’incarico di eseguire un progetto od un programma di lavoro concordando col committente le modalità di esecuzione, durata e tempi di corresponsione del compenso. La riforma prevede, al contempo, un divieto di stipulare nuovi contratti di collaborazione coordinata e continuativa. In via transitoria, si prevede che i rapporti di collaborazione che non possano essere ricondotti ad un progetto o ad una fase di esso mantengano efficacia fino alla loro scadenza. Dalla disciplina ora illustrata restano escluse varie ipotesi, tra le quali gli agenti ed i rappresentanti di commercio, le professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali, i rapporti instaurati con associazioni e società sportive dilettantistiche, etc. Circa i tratti caratterizzanti il lavoro a progetto, il d. lgs. 276/2003 richiama l’esigenza di inquadramento della prestazione lavorativa all’interno di uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso. 7. Il lavoro non occasionale e il lavoro autonomo Sono altresì assicurati presso un’apposita gestione INPS, nonché tenuti al versamento dei contributi, coloro che svolgono attività lavorativa autonoma puramente occasionale (ed i lavoratori a domicilio) qualora il reddito annuo che derivi dalla loro attività sia PAGE \* MERGEFORMAT 1 superiore ad € 5.000,00, ovvero si tratti di attività che impegnino il soggetto complessivamente oltre 30 giornate lavorative l’anno. In passato si riteneva che chi svolgesse attività di lavoro autonomo in via occasionale dovesse essere esonerato dall’assicurazione e dalla contribuzione: la garanzia di una prestazione previdenziale a favore di tali soggetti li avrebbe posti in una posizione di sostanziale privilegio rispetto a chi invece lavorava e contribuiva in via stabile. Oggi, col passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo, non vi è più quest’ultimo ostacolo. Le fattispecie escluse sono integrate dalle fattispecie definite di c.d. lavoro accessorio, allorquando il guadagno sia inferiore ad € 5.000,00 all’anno o l’impegno sia inferiore alle trenta giornate lavorative. Si tratta di un’attività riservata a determinate tipologie di prestazioni, individuate dalla legge (per es. piccoli lavori domestici a carattere straordinario; insegnamento privato), rese da soggetti a rischio d’esclusione sociale, ovvero non ancora entrati nel mercato del lavoro o in procinto d’uscirne. Anche questi lavoratori sono iscritti nella medesima gestione prevista per i lavoratori non occasionali. Per ricorrere alle prestazioni in oggetto i soggetti interessati devono acquistare presso apposite rivendite autorizzate un carnet di buoni per prestazioni di lavoro accessorio: il prestatore di lavoro riceve poi il proprio compenso presentando i buoni ricevuti dal beneficiario della prestazione. La differenza tra il costo dei buoni e quanto erogato a favore del lavoratore integra la contribuzione spettante all’INPS. Sono infine assicurati i lavoratori autonomi tenuti ad iscriversi ad un apposito albo professionale, nonché gli altri lavoratori autonomi non intellettuali. In mancanza di un’apposita gestione od istituto assicuratore, gli stessi sono assicurati quali lavoratori non occasionali. 8. Il lavoro a orario ridotto, modulato o flessibile Nell’ambito dei rapporti di lavoro vengono in rilievo i contratti di lavoro a tempo parziale, di lavoro intermittente e ripartito. Il principio che regola la tutela di questi assicurati è quello della proporzionalità rispetto al trattamento spettante invece all’assicurato standard, ossia il lavoratore a tempo pieno. La Costituzione impone comunque una tutela minima, integrata ex 38.2 dall’esigenza di un livello minimo di adeguatezza delle prestazioni previdenziali; inoltre ex 3.2 Cost. la minore tutela dell’assicurato in esame è possibile solo se giustificata dalla minore durata della sua attività o anzianità lavorativa rispetto a un lavoratore subordinato a tempo pieno, ovvero per via della sua minore retribuzione. Cominciando dal principio di adeguatezza, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha individuato il livello minimo delle prestazioni pensionistiche in un livello tra il c.d. minimo vitale ed i mezzi idonei a garantire il tenore di vita già raggiunto dal lavoratore. In quest’ottica, la prestazione “riproporzionata” non può essere inferiore al minimo vitale (in ipotesi, quantificabile in una somma corrispondente all’assegno sociale). Dal punto di vista del divieto di ingiustificata disparità di trattamento, vi sono alcune disposizioni irragionevoli relative ai singoli rapporti, che occorre previamente esaminare. Il contratto di lavoro a tempo parziale si caratterizza perché il lavoratore è tenuto ad una prestazione lavorativa temporalmente inferiore alla durata minima prevista dalla legge o dai contratti collettivi in relazione al contratto di lavoro c.d. a tempo pieno. PAGE \* MERGEFORMAT 1 prestano opera manuale abituale nelle rispettive aziende”: in tal modo restava scoperta l’ipotesi che il proprietario fosse la moglie. Si è perciò sostituito il sostantivo “mogli” con il più generico “coniugi”. Altra disparità consisteva in passato nel fatto che la pensione di reversibilità veniva riconosciuta alla moglie, in caso di morte del marito, senza limiti, mentre nel caso di premorienza della moglie al marito quest’ultimo poteva percepirla solo in quanto invalido in misura superiore al 66%: questa disparità nei confronti dell’uomo è stata eliminata in riferimento a qualunque istituto previdenziale. Un analogo principio di parità è introdotto in materia di prestazioni ai superstiti determinate da infortuni sul lavoro, le quali sono estese alle stesse condizioni stabilite per la moglie del lavoratore al marito della lavoratrice; anche questo articolo è stato abrogato dal 57 del d. lgs. 198/2006. 11. Circostanze inerenti l’assicurato: l’età Problemi concernenti l’età dell’assicurato si ponevano soprattutto nel campo dell’agricoltura. Il d.P.R. 1124/1965 limitava la tutela assicurativa contro gli infortuni solo dall’età di 12 anni. Opportunamente la l. 457/1972 ha disposto l’abolizione dei limiti d’età suddetti. La stessa Corte costituzionale (262/1976) poi ha sancito l’incostituzionalità dei limiti in questione. In materia di lavoro dei minori è fondamentale la l. 977/1967, secondo la quale occorre distinguere tra gli adolescenti, ossia i ragazzi di età compresa tra i 15 ed i 18 anni, ed i fanciulli, minori di 15 anni e che non hanno pertanto l’età minima per l’ammissione al lavoro, a differenza dei primi. I fanciulli di 14 anni tuttavia possono essere ammessi al lavoro in agricoltura e nei servizi familiari. La l. 977/1967 è stata modificata dal d. lgs. 345/1999, in base al quale l’età minima per l’ammissione al lavoro del minore è stata fissata con riguardo al momento in cui questi ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria, fermo restando che comunque non può essere inferiore a 15 anni. Dal punto di vista previdenziale tuttavia, qualunque sia l’età del minore questi ha sempre diritto alle prestazioni assicurative previste in materia di assicurazioni sociali obbligatorie. Avendo peraltro diritto anche alla retribuzione, ex 2126 (Prestazione di fatto con violazione di legge), si può affermare che la sua tutela è completa sia sotto il versante lavoristico che previdenziale. Gli enti previdenziali per contro possono rivalersi nei confronti del datore per l’importo complessivo delle prestazioni erogate al minore, detratta la somma corrisposta a titolo di contributi omessi. 12. Circostanze inerenti l’assicurato: la nazionalità In materia di previdenza sociale vige il principio della territorialità. Ove la prestazione lavorativa debba svolgersi all’estero, vi è diversità di regime assicurativo a seconda che l’attività sia svolta in paesi aderenti alla Unione europea ovvero in paesi che, pur non appartenenti all’unione europea, abbiano stipulato con l’Italia apposite convenzioni, od infine negli stati che non rientrino in nessuna delle due categorie suddette. 13. La tutela previdenziale nei paesi dell’Unione europea PAGE \* MERGEFORMAT 1 I principi fondamentali in questo ambito sono: α. parità di trattamento tra lavoratori dei paesi comunitari all’interno dell’area comunitaria stessa; β. assoggettamento del lavoratore alla legislazione previdenziale dello Stato in cui lavora; χ. possibilità di cumulare (ma non di sovrapporre) i periodi contributivi, ovunque localizzati all’interno della comunità: si tratta della c.d. totalizzazione. Circa quest’ultimo punto, non possono considerarsi distintamente periodi contributivi temporalmente coincidenti: la doppia contribuzione non rileva ai fini della maturazione del diritto ma, eventualmente, ai fini dell’importo. Si noti che la regola è identica a quanto vige nel nostro ordinamento. Il discorso non cambia nell’ipotesi di contribuzione volontaria: il lavoratore italiano che mentre si trova all’estero versi spontaneamente i contributi agli istituti previdenziali italiani non potrà avvalersene se vi sia contribuzione anche nel luogo ove esercita la sua prestazione. Con riguardo alla prestazione pensionistica concretamente erogata, si opera una ripartizione tra i vari istituti assicuratori europei in base al criterio c.d. pro rata temporis. Non è necessario che l’assicurato inoltri la sua domanda a tutti gli istituti previdenziali presso i quali vi sono stati versamenti contributivi: sarà sufficiente una sola domanda (per es. all’INPS) (la data della domanda è a tutti gli effetti unica nei confronti dei diversi istituti assicuratori. Un problema particolare si pone quando il lavoratore, pur avendo raggiunto l’età pensionabile in Italia non l’abbia invece conseguita rispetto al sistema pensionistico di altri paesi presso i quali risultino versati dei contributi: in questo caso l’istituto previdenziale italiano erogherà immediatamente la sua quota, mentre quello straniero vi provvederà solo al compimento da parte dell’assicurato dell’età minima richiesta per la maturazione del diritto. 14. La tutela previdenziale nei paesi convenzionati La tutela previdenziale del lavoratore italiano nei paesi extracomunitari può essere regolata da apposite convenzioni bilaterali, la cui disciplina di fondo è sostanzialmente analoga a quella prevista per i paesi dell’Unione europea. (Secondo la Cassazione in caso di trattamenti pensionistici liquidati, in virtù di convenzioni internazionali, per effetto del cumulo dei contributi versati in Italia e all’estero, e pagati pro rata, affinché operi il riassorbimento dell’integrazione al minimo delle somme risultanti non più dovute a seguito dell’erogazione della pensione estera è necessario presupposto che entrambe le prestazioni siano state conseguite col cumulo dei periodi assicurativi: sono escluse dal riassorbimento altre prestazioni conseguite all’estero). In linea di principio, la regola emergente è che l’obbligo di contribuzione permane a favore degli enti previdenziali italiani quando il lavoratore rimanga all’estero entro un periodo massimo determinato di solito in un anno, o al massimo due (c.d. distacco), mentre in caso di permanenza per periodi superiori (c.d. trasferimento) sorge l’obbligo di contribuzione presso gli istituti previdenziali esteri. 15. La tutela previdenziale in mancanza di accordi internazionali Il lavoratore italiano che doveva recarsi all’estero per motivi di lavoro si trovava sprovvisto di tutela. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Al riguardo era prevista la semplice possibilità, e non l’obbligo, per il datore di lavoro di assicurare i suoi dipendenti presentando apposita domanda al Ministero del lavoro e della previdenza sociale; il pagamento dei contributi sarebbe poi avvenuto sulla base di un minore importo. Nella prassi tale sistema non diede luogo ad un’effettiva tutela del lavoratore. Il principio da sgretolare era il principio della territorialità, per il quale le norme previdenziali, essendo di natura pubblica, trovano applicazione solo all’interno del territorio nazionale. La Cassazione affermò che il rapporto di lavoro, avendo natura contrattuale, era regolato dall’allora vigente 25 disp. prel., comma I, per il quale Le obbligazioni che nascono da contratto sono regolate dalla legge nazionale dei contraenti, se è comune; altrimenti da quella del luogo nel quale il contratto è stato conchiuso. È salva in ogni caso la diversa volontà delle parti. Ora, l’assicurazione previdenziale non ha fondamento contrattuale ma legale; il rapporto di lavoro purtuttavia, accanto alle prestazioni principali delle parti, consistenti nella prestazione lavorativa del dipendente e in quella retributiva del datore, prevede una serie di obblighi integrativi di origine legale. In questo senso, l’assicurazione presso gli istituti previdenziali pur non essendo la principale prestazione del datore rimane oggetto di un obbligo derivante dal rapporto di lavoro. Dunque il datore ha l’obbligo di assicurare il lavoratore per il solo fatto della retribuzione a seguito della conclusione del contratto di lavoro in Italia, od anche se egli, al pari del lavoratore, è italiano. Il principio di diritto così stabilito non poteva tuttavia trovare applicazione nei casi non contemplati dal 25 suddetto. Il d.P.R. 1124/1965 è stato giudicato incostituzionale nella parte in cui non prevede l’assicurazione obbligatoria a favore del lavoratore italiano operante all’estero alle dipendenze di un’impresa italiana a causa del contrasto col 35.4 Cost. [La Repubblica […] tutela il lavoro italiano all'estero]. La l. 398/1987 non deroga al principio di territorialità, ma contribuisce ad attenuarne l’efficacia, stabilendo che il lavoratore italiano all’estero, in paesi extracomunitari coi quali non vi siano accodi di sicurezza sociale, deve venire iscritto all’assicurazione per l’invalidità, vecchiaia e superstiti, contro la tubercolosi, contro la disoccupazione involontaria e per la maternità, tutte di competenza dell’INPS; il lavoratore è altresì assicurato contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali presso l’INAIL. Risulta esclusa dall’elenco l’assicurazione alla cassa integrazione guadagni, così come per l’ENAOLI. Il diritto all’assicurazione sorge a favore del cittadino italiano assunto in Italia ovvero in paesi extracomunitari, ma l’obbligo all’opposto non grava su tutti i datori di lavoro: sono infatti obbligati ad assicurare il lavoratore i datori di lavoro residenti, domiciliati od aventi la propria sede (anche secondaria) nel territorio nazionale, le società costituite all’estero ma con partecipazione italiana di controllo ai sensi del 2359 c.c., le società costituite all’estero in cui persone fisiche o giuridiche di nazionalità italiana partecipano in misura superiore ad 1/5 del capitale sociale, ed infine i datori di lavoro stranieri. Peraltro la normativa non prevede forme di controllo sull’adempimento degli obblighi assicurativi. Il lavoratore disponibile a svolgere attività all’estero ha l’onere di iscriversi in un’apposita lista di collocamento, potendo al tempo stesso mantenere l’iscrizione nelle liste ordinarie. PAGE \* MERGEFORMAT 1 In mancanza di norme di legge, la giurisprudenza sancì l’applicabilità dei minimi retributivi previsti dalla contrattazione collettiva quand’anche il datore di lavoro eccepisse di non essere iscritto ad alcun sindacato. Si argomentò a tal fine del combinato disposto degli artt. 2099.2 c.c. e 36 Cost, il primo dei quali sancisce il potere del giudice di fissare, in mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione del lavoratore, mentre il secondo dispone che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Con l. 741/1959 si stabilì che qualora una delle parti di un accordo economico o contratto collettivo avesse depositato nel termine di un anno presso la segreteria del Ministero del lavoro e della previdenza sociale il testo dello stesso, Il Governo è delegato ad emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, uniformandosi nel contenuto a tutte le clausole di tali contratti, purché stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della legge suddetta. La legge fu sospettata d’incostituzionalità, soprattutto perché un’efficacia erga omnes dei contratti collettivi avrebbe potuto darsi solo a fronte della diversa procedura contemplata dal 39 Cost. La legge in esame diede adito ad un problema: a fronte di una pluralità di contratti depositati e di relativi decreti di attuazione inerenti alla medesima categoria, si poneva la questione di quale regolamentazione applicare nel caso concreto: la Corte costituzionale ha detto che la sfera d’efficacia personale (laddove quella spaziale concerne l'intero territorio nazionale, e quella temporale viene fissata nello stesso contratto) dei contratti in esame è da determinarsi in base alla volontà degli stessi contraenti. Riassumendo abbiamo incontrato diversi concetti di categoria: α. in senso ontologico, ossia in base alle mansioni effettivamente espletate; β. in senso sindacale, propria del sindacato relativo ad un determinato settore produttivo; χ. in senso contrattuale. 2 – LA CONTRIBUZIONE È uno dei capitoli più importanti; soprattutto Ferrante lo chiede spesso. Il paragrafo sulla contribuzione in agricoltura non viene mai chiesto. Domande possibili: - Come si determina la retribuzione imponibile? (fonte, voci escluse ecc..) - Come si calcola l’ammontare dei contributi dovuti? - Può farmi una classificazione dei contributi (volontari, figurativi) - Quali sono i periodi coperti da contribuzione figurativa? - Cosa si intende per massimale e minimale contributivo? - può farmi una classificazione dei fondi previdenziali (esonerativi, sostitutivi …) - Come opera il riscatto? (quali sono le condizioni per poter riscattare il contributi versati) - Come opera la ricongiunzione? (differenze con il riscatto) - Come opera la totalizzazione? PAGE \* MERGEFORMAT 1 1. Il calcolo dei contributi: generalità Il calcolo dei contributi previdenziali (denominati “premi” nell’ambito dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali) avviene sulla base di apposite tabelle contenenti determinate aliquote percentuali, variabili a seconda del settore di appartenenza del datore (per es. industria). L’aliquota vigente per il medesimo settore e categoria non è unica, ma si divide in tante voci a seconda delle diverse gestioni di pertinenza dell’ente (per es. assegni familiari, indennità di disoccupazione, etc.), e viene generalmente indicata nella sua misura totale ed in quella a carico del lavoratore. Il vero problema consiste nella base di calcolo alla quale applicare le aliquote: essa è data dalla retribuzione, ma cosa dovesse intendersi per “retribuzione”, prima della l. 153/1969, non era pacifico. In precedenza per i dipendenti privati due norme procedevano con un’elencazione di tipo casistico: vi erano infatti due elenchi, ricomprendenti l’uno le indennità considerate retribuzione assoggettabili a contribuzione, l’altro quelle non assoggettabili. Il mancato coordinamento delle norme imponeva che determinate voci retributive potessero considerarsi imponibili ai fini INPS e non imponibili ai fini INAIL, e viceversa; inoltre il datore di lavoro avrebbe potuto erogare parte della retribuzione a titolo di indennità non ricomprese negli elenchi, ovvero solo nell’elenco delle voci non assoggettabili a contribuzione. In dottrina si considerava retribuzione solo quelle somme che, erogate dal datore, trovavano giustificazione nella prestazione lavorativa del dipendente. Fu merito della dottrina giuslavoristica più avanzata avviare un ripensamento sul rapporto di lavoro, inquadrandolo nell’ambito di un rapporto obbligatorio complesso in cui, accanto agli obblighi primari di prestazione (attività lavorativa/retribuzione), si ponessero ulteriori obblighi, integrativi, strumentali (per es. fornire al lavoratore l’attrezzatura necessaria per l’espletamento delle mansioni) e di protezione (2087), e la cui conseguenza pratica fu quella di rivedere il concetto di retribuzione, ricomprendendovi anche quelle prestazioni non immediatamente connesse all’attività lavorativa del dipendente ma connesse, per es., a periodi di ferie, di malattia, di svolgimento di funzioni pubblico-elettive o sindacali. 2. La retribuzione imponibile La l. 153/1969 dichiara che Per la determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale, si considera retribuzione tutto ciò che il lavoratore riceve [problema rilevante era lo stabilire se i contributi dovessero calcolarsi sulla somma effettivamente corrisposta al lavoratore o su quella dovutagli per legge o per contratto collettivo: in quest’ultimo senso ha disposto la l. 389/1989] dal datore di lavoro in danaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro. Si noti la portata omnicomprensiva del criterio (tutto ciò che il lavoratore riceve) e la non necessaria giustificazione di quanto percepito dal lavoratore per via di una prestazione ma, più genericamente, in dipendenza del rapporto lavorativo stesso. Devono invece escludersi dal concetto di retribuzione ai fini previdenziali le voci indicate dalla stessa l. 153/1969, aventi carattere tassativo (Cass. 451/1985) ed insuscettibili di applicazione analogica. Precisamente, si tratta di quelle somme corrisposte a titolo: 1. di diaria o d’indennità di trasferta in cifra fissa, limitatamente al 50% del loro ammontare; PAGE \* MERGEFORMAT 1 2. di rimborsi a pie’ di lista che costituiscano rimborsi di spese sostenute dal lavoratore per l’esecuzione o in occasione del lavoro; 3. di indennità di anzianità. Si deve ritenere, sulla base della natura della voce in esame, che non rientrino nella retribuzione imponibile ai fini previdenziali le eventuali anticipazioni del trattamento di fine rapporto; 4. di indennità di cassa; 5. di indennità di panatica per i marittimi a terra, in sostituzione del trattamento di bordo, limitatamente al 60% del suo ammontare; 6. di gratificazione o elargizione concessa una tantum a titolo di liberalità, per eventi eccezionali e non ricorrenti, purché non collegate, anche indirettamente, al rendimento dei lavoratori e all’andamento aziendale. 7. di emolumenti per carichi di famiglia comunque denominati, erogati, nei casi consentiti dalla legge, direttamente dal datore di lavoro, fino a concorrenza dell’importo degli assegni familiari a carico della Cassa unica assegni familiari. La retribuzione così determinata viene altresì presa a base per il calcolo delle prestazioni; in questo modo si è cercato di evitare accordi tra datore e lavoratore per non pagare i contributi. Il concetto di retribuzione imponibile ora esaminato era originariamente previsto in riferimento al regime previdenziale dei lavoratori subordinati assicurati presso l’INPS. In passato gli altri regimi previdenziali potevano adeguarsi ovvero discostarsene. La l. 335/1995 ha però esteso il medesimo concetto di retribuzione anche per i dipendenti dello Stato e degli enti locali, nonché al personale assicurato presso autonome gestioni pure mettenti capo all’INPS. La l. 402/1996 è poi intervenuta in sede d’interpretazione degli accordi e dei contratti collettivi ai fini della considerazione delle voci dirette ed indirette della retribuzione: accadeva sovente che in sede di contrattazione collettiva venisse prevista la corresponsione di nuove voci retributive espressamente od implicitamente ritenute non rilevanti ai fini del calcolo di voci indirette della retribuzione, e che tali clausole di esclusione venissero ritenute irrilevanti da parte dell’INPS, sul presupposto della omnicomprensività della retribuzione ai fini previdenziali (tutto ciò che il lavoratore riceve). Al fine di contrastare tali prassi, la l. 402/1996 ha sancito che conservano pieno valore anche ai fini previdenziali le clausole che limitano l’incidenza degli emolumenti diretti su quelli indiretti. Si prevede ora che costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi quelli rilevanti ai fini dell’imposta sui redditi di cui al d.P.R. 917/1986; in base ad essa sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri e maturati nel periodo di riferimento. Il secondo comma del novellato 12 sancisce invece che per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale si applicano le disposizioni di cui all’art. 48 del d.P.R. cit. (917/1986) (in base al quale costituiscono reddito da lavoro tutte le somme e valori in genere, a qualunque titolo percepito nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro). Il 48.2 d.P.R. cit. (917/1986) elenca le voci escluse dal calcolo del reddito ai fini fiscali. Secondo una prima tesi, si è sostenuto che la nozione di retribuzione utile ai fini contributivi sia ricavabile in realtà solo dal 48 cit., integralmente considerato (primo e secondo comma). PAGE \* MERGEFORMAT 1 Ancora, si pensi all’assegno sociale, erogato indipendentemente da requisiti contributivi. Tuttavia il carattere aperto del principio in esame non ne legittima un’acritica invocazione. Nell’ipotesi in cui una determinata prestazione previdenziale venga erogata direttamente da parte del datore di lavoro in quanto così stabilito in sede di contrattazione collettiva, il datore è tenuto, in forza del principio di solidarietà, a versare la relativa contribuzione all’ente di previdenza? Il caso si è concretamente posto di recente con riguardo ai contributi di malattia: secondo la Cassazione la l. 138/1943, che esonera l’INPS dal pagamento dell’indennità di malattia quando il relativo trattamento economico venga corrisposto per legge o per contratto collettivo dal datore di lavoro, non vale ad esonerare il datore dall’obbligo di versare la relativa contribuzione, atteso che da un lato, in forza del principio di solidarietà che costituisce il fondamento della previdenza sociale, non esiste un nesso di corrispettività tra prestazioni e contributi, e che inoltre l’obbligazione contributiva partecipa della natura delle obbligazioni pubblicistiche, equiparabile alle obbligazioni tributarie sottratte alla disponibilità di negozi giuridici di diritto privato, quali devono ritenersi i contratti collettivi. Preliminarmente si deve osservare che non pare corretto ritenere che la normativa di riferimento operi solo con riguardo ai contratti collettivi del periodo corporativo e non anche relativamente ai contratti collettivi di diritto comune. Infatti i contratti collettivi corporativi non potevano derogare a norme di legge inderogabili, sicché il richiamo al carattere corporativo del contratto è del tutto inconferente. Ciò significa che la ratio della l. 138/1943, nella parte in cui deroga all’esonero dalla contribuzione, non va cercata nella natura formale del contratto, bensì in considerazioni di carattere sostanziale. Il richiamo diretto al principio di solidarietà non pare pertinente. In primo luogo le applicazioni del principio necessitano di essere sottoposte a bilanciamento con altri valori di rango parimenti costituzionale. Pretendere il contributo in questione nel caso in esame, e non pretenderlo per es. (come previsto per legge) con riguardo agli assicurati che rivestono la categoria di dirigenti ovvero di quadri, appare in contrasto col principio di parità di trattamento (3 Cost.), inoltre l’interpretazione della Cassazione sembra gravare di un onere economico aggiuntivo le imprese che garantiscono in forza di contratto collettivo la prestazione in esame (tenute quindi al pagamento del contributo nei confronti dell’INPS ed all’erogazione delle prestazioni) rispetto a quelle che non la prevedono (tenute solo al pagamento dei contributi), falsando in tale modo il gioco della concorrenza (41 Cost.). Si deve poi considerare che la normativa di legge ordinaria attualmente in vigore non esclude un certo grado di corrispettività tra contribuzione e prestazioni previdenziali. Si è già evidenziato al riguardo che l’obbligo contributivo del datore di lavoro non è fissato in via globale ed unica, ma che esistono all’opposto diverse aliquote contributive a seconda della prestazione di riferimento, e ciò perché ogni gestione deve essere finanziariamente autonoma. Inoltre, all’interno della singola gestione il datore di lavoro non è sempre tenuto al pagamento: per es., con riguardo all’indennità di malattia, la relativa contribuzione non è dovuta dal datore di lavoro del settore dell’industria in relazione ai dipendenti che rivestono la qualifica di impiegati, di quadri e di dirigenti. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Tuttavia questi ultimi, correlativamente, non godono della relativa indennità da parte dell’INPS, il che implica una certa consequenzialità tra versamento dei contributi e beneficio delle prestazioni. Il principio di solidarietà non implica necessariamente un’estensione dell’obbligo contributivo. La solidarietà può avere la forza di giustificare deroghe al principio di corrispettività, e può anche giungere a giustificare modelli previdenziali integralmente retti da una contribuzione generalizzata e gravante indistintamente sulla collettività, come nel caso del Servizio sanitario nazionale. Tuttavia tale principio non pare aver pervaso la legislazione ordinaria. 5. La fiscalizzazione degli oneri sociali e gli sgravi contributivi, i contratti di riallineamento e le c.d. dichiarazioni di emersione L’ammontare degli oneri contributivi di spettanza all’INPS determina un forte aumento del costo della manodopera, il che si traduce tra l’altro in una perdita di competitività dei nostri prodotti all’estero. Per sostenere le esportazioni si è allora fatto ricorso allo strumento della fiscalizzazione degli oneri sociali: lo Stato, tramite risorse del proprio bilancio, si assume parte dell’onere economico gravante sugli imprenditori di settori maggiormente in difficoltà sul versante delle esportazioni, od anche ai fini del rilancio di settori in crisi, o per alleggerire il peso della disoccupazione in aree depresse. Tecnicamente la fattispecie consiste nell’attribuire alle imprese un credito da conguagliare coi contributi previdenziali: credito integrato da una riduzione di questi ultimi in misura fissa od in via percentuale. La distinzione tra fiscalizzazione e sgravi non è sempre agevole: si suggerisce da parte della dottrina di avere riguardo al carattere contingente o meno dell’intervento dello Stato, alla circostanza che il credito riconosciuto al datore di lavoro sia determinato in misura fissa o percentuale, all’area di intervento circoscritta a determinate zone ovvero all’intero territorio nazionale, ritenendo trattarsi di sgravi nel primo caso, di fiscalizzazione nel secondo. Si discute del requisito (richiesto in alcuni casi) che subordina le riduzioni contributive al fatto che l’impresa favorita dia integrale applicazione a favore dei propri dipendenti dei contratti collettivi nazionali di categoria. In questi casi sembrerebbe venire in questione la lesione del diritto di (non) associarsi liberamente alle associazioni sindacali (3, 18 e 39 Cost.), tramite un’indiretta coazione all’adesione alle stesse. Per questo motivo i più recenti interventi subordinano il beneficio non già all’applicazione del contratto collettivo, ma più semplicemente al fatto che siano assicurati ai dipendenti trattamenti economici non inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi: si tratta della c.d. clausola sociale. In relazione a tale ultimo requisito tuttavia accade che l’impresa non abbia garantito nei fatti il suddetto trattamento; si è pertanto prevista la possibilità di stipulare c.d. contratti di riallineamento con le organizzazioni sindacali (ma solo con quelle più rappresentative sul piano nazionale) in base ai quali l’impresa si obbliga ad una graduale applicazione dei suddetti minimi retributivi, mantenendo in cambio i benefici di legge, nonché la sanatoria per quanto concerne l’evasione contributiva. La Corte di giustizia delle comunità europee ha ritenuto contrastante con il principio della libera concorrenza all’interno dell’area comunitaria gli sgravi degli oneri fiscali previsti per i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Con le dichiarazioni di emersione da parte dei datori di lavoro desiderosi di regolarizzare le posizioni contributive dei loro dipendenti, i suddetti si impegnano ad erogare una retribuzione non inferiore a quella prevista nei contratti collettivi nazionali, ottenendo in cambio per il passato la possibilità di un concordato (tributario e) previdenziale, e per il futuro, un regime contributivo attenuato. 6. Minimale e massimale Gli istituti del minimale e del massimale vengono in rilievo tanto sotto l’aspetto contributivo che sotto quello delle prestazioni. Dal punto di vista contributivo, il minimale è l’importo minimo su cui vengono calcolati i contributi, qualora la retribuzione venga corrisposta in una misura inferiore. La ratio dell’istituto è di ripartire equamente gli oneri economici derivanti dall’erogazione delle prestazioni previdenziali, evitando di addossarli in misura eccessiva sugli istituti assicuratori. La retribuzione sulla quale calcolare i contributi non può comunque essere inferiore a quella prevista dai contratti collettivi stipulati su base nazionale dalle organizzazioni maggiormente rappresentative ovvero dagli accordi individuali se migliorativi. (In caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dall’organizzazione sindacale dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativa nella categoria: c.d. contratto leader). La regola subisce però delle eccezioni: secondo il d. lgs. 276/2003, nel caso di contratto di somministrazione i contributi previdenziali sono versati per il loro effettivo ammontare anche in deroga alla vigente normativa in materia di minimale contributivo; analoga disposizione viene dettata in relazione ai contributi da versare sull’indennità di disponibilità spettante per il lavoro intermittente. (Nel caso di rapporto di lavoro a tempo parziale, opera invece la regola del minimale: la retribuzione minima oraria sulla quale calcolare i contributi si determina rapportando il minimale giornaliero alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale e dividendo l’importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale previsto per i lavoratori a tempo pieno). Rimanendo sempre in ambito contributivo, il massimale consiste invece nella cifra massima su cui vengono calcolati i contributi. Per il servizio sanitario esiste per es. un massimale oltre il quale il contributo non viene calcolato. Per i contributi INPS non esisteva un massimale: qualunque fosse l’ammontare della retribuzione, sulla stessa occorreva calcolare i contributi; in seguito è stato introdotto il massimale sulle contribuzioni. In precedenza, poiché per l’INPS esisteva anche un massimale per le prestazioni pensionistiche, ossia una somma oltre la quale ai fini del calcolo delle prestazioni pensionistiche non venivano prese in considerazione eventuali eccedenze, poteva verificarsi il caso di un datore che pagasse i contributi su retribuzioni di importo superiore a fronte di prestazioni calcolate non oltre il massimale suddetto. Contro questa presunta sproporzione si fece ricorso alla Corte costituzionale, la quale giudicò la questione infondata: si ritenne infatti che il calcolo della pensione non rispondesse più a logiche di tipo assicurativo. Sotto l’aspetto delle prestazioni, accanto ad un massimale esiste, per le prestazioni variabili in relazione all’ammontare della retribuzione, un minimale pari circa all’ammontare dell’assegno sociale. PAGE \* MERGEFORMAT 1 11. Il riscatto Ai fini della maturazione del diritto alla pensione e dell’incremento del quantum della stessa, l’assicurato può richiedere il versamento a suo carico di contributi effettivi in relazione a determinati periodi di tempo nel corso dei quali non ha svolto attività lavorativa. È possibile riscattare presso l’INPS gli anni del corso legale di laurea (i dipendenti pubblici possono riscattarsi gli anni di laurea solo se quest’ultima sia necessaria in relazione alla qualifica del pubblico impiegato), ovvero gli anni di lavoro subordinato svolto all’estero. I lavoratori dipendenti con almeno 5 anni di contribuzione effettiva possono riscattare periodi corrispondenti a quelli di assenza facoltativa dal lavoro per gravidanza e puerperio e periodi di congedo per motivi familiari concernenti l’assistenza e cura di disabili in misura non inferiore all’80%. Detta facoltà, esercitatile in misura non superiore a 5 anni, non è cumulabile col riscatto degli anni di laurea, e può essere effettuata anche se il periodo si riferisce a prima dell’inizio dell’attività lavorativa. Ulteriori ipotesi di riscatto operano nel caso previsto dalla l. 335/1995, in base alla quale la copertura assicurativa senza oneri e a carico dello Stato è consentita nei casi di interruzione del lavoro consentita da apposite disposizioni di legge per la durata massima di tre anni. Il riscatto è altresì consentito per i periodi di formazione professionale, studio, ricerca ed inserimento nel mercato del lavoro privi di copertura assicurativa in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive; è altresì consentito alle medesime condizioni in favore degli iscritti all’AGO o a forme sostitutive ed esclusive che svolgono attività di lavoro dipendente in forma stagionale, temporanea o discontinua, in relazione ai periodi non coperti da contribuzione obbligatoria o figurativa. Il d. lgs. 564/1996 prevede inoltre analoga facoltà anche a favore dei lavoratori a tempo parziale. 12. La ricongiunzione Il lavoratore dipendente, pubblico o privato, può ricongiungere presso l’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti gestita dall’INPS i contributi (effettivi, volontari e figurativi) accreditati presso forme di previdenza esclusive o sostitutive. Questa ricongiunzione, il cui costo è nullo, avviene ai fini del diritto e della misura di un’unica pensione. I contributi sono trasferiti con una maggiorazione pari all’interesse composto annuo del 4,5 % e, nel caso di trasferimento da parte dell’ordinamento dello Stato, i contributi di pertinenza del datore sono calcolati con riferimento alle aliquote vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria dell’INPS. Viene poi contemplata l’ipotesi di ricongiunzione presso il regime dell’assicurazione generale obbligatoria INPS a favore dei lavoratori autonomi assicurati presso le gestioni speciali dello stesso INPS (commercianti, artigiani, coltivatori diretti); in questo caso sono però previste delle limitazioni, perché i lavoratori autonomi sono tenuti al versamento di contributi in misura inferiore rispetto ai lavoratori dipendenti. Di conseguenza l’INPS sarebbe tenuto ad erogare le medesime prestazioni a fronte di un minore ammontare di contributi, con evidente svantaggio economico. PAGE \* MERGEFORMAT 1 La differenza economica resterebbe quindi a carico dell’INPS, se il trasferimento avvenisse a titolo gratuito. Pertanto è previsto che i lavoratori autonomi che intendano avvalersi della facoltà di ricongiunzione sono tenuti al versamento di una somma aggiuntiva, pari al 50% della differenza tra l’ammontare dei contributi trasferiti e l’importo della riserva matematica (la riserva matematica è il valore, alla data della domanda, dei maggiori oneri differiti gravanti sulla gestione per l’incremento della pensione). Si richiede altresì l’ulteriore requisito che all’atto della presentazione della domanda possa farsi valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti pari ad almeno 5 anni. La legge contempla la facoltà di trasferire i periodi di contribuzione obbligatoria, volontaria e figurativa ovunque maturati presso una qualunque gestione diversa dall’assicurazione generale obbligatoria INPS. Questa facoltà si estende ai lavoratori autonomi, alla condizione che colui che richiede la ricongiunzione al momento della domanda sia iscritto alla gestione presso la quale si chiede la ricostituzione della posizione contributiva, ovvero possa vantarvi almeno 8 anni di contribuzione effettiva. Inoltre occorre che all’atto della presentazione della domanda l’istante possa far valere un periodo di contribuzione immediatamente precedente nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti pari ad almeno 5 anni. La legge predispone che della facoltà di ricongiunzione il soggetto possa avvalersene una sola volta, salvo che successivamente alla prima possano farsi valere almeno altri 10 anni di contribuzione, di cui 5 a titolo effettivo: diversamente, può esercitarsi solo all’atto del pensionamento, e solo presso la gestione nella quale era stata precedentemente accentrata la posizione assicurativa. Se l’interessato non versa, in tutto o in parte, l’ammontare da lui dovuto, la legge dice che s’intende che l’interessato abbia rinunciato alla facoltà di porre in essere la ricongiunzione, ma ciò è inesatto: l’interessato potrà sempre ripresentare una seconda domanda. Le norme per la determinazione del diritto e della misura della pensione unica derivante dalla ricongiunzione sono quelle in vigore nella gestione presso cui si accentra la posizione assicurativa. Ove per un qualunque motivo vi sia pluralità di contributi (per es. figurativi ed effettivi) in relazione ad un medesimo periodo di tempo, sono presi in considerazione quelli effettivi. In mancanza, resta utile un solo tipo di contribuzione, e precisamente quella di importo più elevato. L’articolo prosegue disponendo che i contributi volontariamente versati sono restituiti agli interessati nel caso di ricongiunzione presso l’INPS, e sono invece calcolati a scomputo della somma dovuta dal richiedente nel caso di ricongiunzione presso diverso istituto. La facoltà di ricongiunzione può essere operata anche dai superstiti, ossia dagli aventi diritto alle pensioni di reversibilità. Diverse questioni si prospettano in materia di ricongiunzione. Prima dell’emanazione della l. 29/1979, l’ordinamento contemplava la possibilità di ricongiunzione dei periodi assicurativi maturati presso l’INPS a favore dell’INPDAI; la fattispecie, che oggi rientrerebbe nel campo d’applicazione della legge in esame, era connotata tuttavia dalla gratuità del passaggio. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Ci si è pertanto chiesti se, a seguito dell’entrata in vigore della l. 29/1979, rimanesse in vigore o meno la regola della gratuità della ricongiunzione in esame. La questione va probabilmente risolta in senso positivo: la l. 29/1979, pur successiva alla legge disciplinante la ricongiunzione dall’INPS all’INPDAI, ha carattere generale e pertanto si considera inidonea ad incidere sulla precedente normativa, avendo quest’ultima carattere particolare. Un’altra questione concerneva la possibilità di ricongiunzione contributiva dei liberi professionisti, quali avvocati, ingegneri, architetti, dottori commercialisti, etc., esercenti la libera professione: in precedenza non vi era questa possibilità, mentre ora essa esiste, a titolo oneroso. 13. La totalizzazione L’assicurato che non sia in grado di operare la ricongiunzione a causa della sua eccessiva onerosità può comunque avvalersi dei diversi periodi contributivi, ovunque maturati. Viene quindi in rilievo il diverso istituto della totalizzazione. È consentito all’assicurato, previo cumulo, di utilizzare pro rata i periodi contributivi (non coincidenti) maturati nelle singole gestioni al (solo) fine di perfezionare la fattispecie costitutiva del diritto a pensione di vecchiaia o di inabilità. Ciascun ente presso il quale l’assicurato vanti dei periodi di contribuzione calcolerà quale sarebbe la prestazione che erogherebbe a fronte dell’anzianità contributiva ed assicurativa dell’interessato in base al proprio regime. Le singole quote sono poi erogate dall’ente tenuto ad effettuare l’esborso maggiore, salvo rivalersi nei confronti degli altri enti. È necessario che tramite la totalizzazione venga raggiunta il requisito contributivo in tutte le gestioni che concorrono alla totalizzazione medesima: se per es. l’assicurato ha maturato 5 anni di contributi presso una cassa di previdenza professionale che richiede 30 anni di contribuzione per il sorgere del diritto a pensione, e per es. altri 20 anni di contribuzione presso altri enti che richiedono una contribuzione meno elevata (per es. 20 anni), il mancato raggiungimento di 30 anni di contribuzione preclude il diritto alla pensione. Oggi, tramite il d. lgs. 42/2006, l’istituto della totalizzazione è stato nuovamente disciplinato. Si prevede che gli assicurati che non siano già titolari di un trattamento pensionistico autonomo presso una gestione previdenziale hanno la possibilità di cumulare i periodi assicurativi non coincidenti, di durata non inferiore a 6 anni, al fine del conseguimento di un’unica pensione. La stessa può essere data ora anche dalla pensione di anzianità. Costituiscono oggetto della totalizzazione periodi assicurativi non coincidenti. Deve inoltre trattarsi di periodi contributivi aventi una durata di almeno 6 anni. Occorre altresì che l’assicurato abbia maturato gli ulteriori requisiti dell’età di 65 anni e che vanti un’anzianità contributiva di almeno 20 anni: in alternativa, quale che sia l’età dell’assicurato, è sufficiente che l’anzianità contributiva sia pari a 40 anni. Devono poi sussistere i requisiti ulteriori previsti per il conseguimento della pensione di vecchiaia da parte dei rispettivi ordinamenti. Non è più prevista la condizione negativa che l’assicurato non abbia maturato il diritto alle prestazioni pensionistiche in alcuna gestione assicurativa. La totalizzazione è altresì subordinata al presupposto che l’assicurato non abbia presentato domanda di ricongiunzione, o che quest’ultima non sia stata accettata. PAGE \* MERGEFORMAT 1 In passato la dottrina aveva richiamato tre istituti per affermare una mutata concezione della previdenza sociale, ma nella cui evoluzione legislativa più recente altra parte della dottrina (ad es. Roberto Pessi) ha ravvisato invece il riaffiorare della più antica impostazione. Occorre anzitutto richiamare l’istituto dei minimali di prestazione, diretto a garantire una pensione d’ammontare minimo a chi avesse comunque versato contributi che, capitalizzati, avrebbero dato diritto ad una pensione di quell’importo. Si prevedeva così l’erogazione di una integrazione al minimo, ad integrale carico dello Stato. La l. 335/1995 ha però disposto il riconoscimento del diritto alla pensione anticipata solo nell’ipotesi in cui l’importo della pensione da liquidarsi fosse pari ad almeno 1,2 volte l’importo dell’assegno stesso. Analoga oscillazione si rinviene nei criteri di calcolo delle pensioni a seguito delle novità introdotte dalla riforma del 1995, che segna un ritorno all’originario sistema di tipo contributivo. Qual è la differenza fra sistema retributivo e contributivo? In origine il quantum della pensione veniva calcolato sull’ammontare dei contributi versai e sulla data dei versamenti, dedotte le spese di gestione dell’istituto previdenziale (sistema contributivo). Successivamente la determinazione dell’importo fu sganciata dai suddetti parametri, poiché la pensione veniva calcolata in via percentuale sulla media delle retribuzioni percepite negli ultimi anni di lavoro. In tale sistema, detto retributivo, la situazione di bisogno veniva quindi determinata in relazione al livello di reddito dell’assicurato, piuttosto che sui contributi. Correlativo a tale modifica è il passaggio da un sistema di finanziamento delle prestazioni previdenziali a capitalizzazione ad uno a ripartizione (patto di solidarietà intergenerazionale). In conclusione l’ordinamento garantisce, di fatto, una tutela che non può ricondursi ad una logica meramente assicurativa, e ciò almeno per un triplice ordine di motivi: α. il ritorno ad un sistema contributivo non significa che si sia tornati ad un sistema di stampo assicurativo: permane la caratteristica del finanziamento del sistema tramite ripartizione; β. ragioni di bilancio possono legittimamente richiedere una maggiore solidarietà; χ. la Costituzione impone un vero e proprio risultato a favore dei lavoratori colpiti da eventi generatori di bisogno, consistente nell’erogazione di prestazioni adeguate. Ciò a prescindere dalle fonti di finanziamento del sistema. La discrezionalità legislativa si può quindi legittimamente esercitare sul quantum delle prestazioni, mai sull’an. Sul punto la Corte costituzionale ha stabilito che il concetto di adeguatezza delle prestazioni impone una fissazione dell’ammontare delle stesse in un punto intermedio tra il c.d. minimo vitale ed i mezzi idonei a garantire il tenore di vita raggiunto dal lavoratore. Anche nell’ottica del principio di solidarietà, il mancato riconoscimento della prestazione previdenziale si può giustificare allorquando, a fronte di un elevato costo sociale necessario per erogare la medesima, il singolo assicurato consegua un’utilità minima: in questo senso l’abrogazione della norma relativa all’integrazione al minimo non si configura come un abbandono della concezione finalizzata alla liberazione dal bisogno: il livello minimo di prestazioni viene infatti comunque assicurato attraverso l’assegno sociale. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Né può lamentarsi lesione del principio anzidetto nella previsione del requisito dell’entità minima della pensione (una volta ed un quinto l’ammontare del minimo), poiché quando dovesse risultare una somma di ammontare irrisorio o comunque inferiore al minimale di prestazione, questa sarà comunque liquidata al raggiungimento del 65° anno di età anagrafica. Dal 38 Cost. traspare una concezione dell’uomo (essenzialmente) come produttore,imprenditore o prestatore di lavoro; chi non assurge a tale ruolo viene conseguentemente “svalutato”. In quest’ottica, devono allora guardarsi con favore istituti quali il Servizio Sanitario Nazionale. 2. Le singole prestazioni: la pensione di vecchiaia 2.1 Evoluzione storica del sistema: la legge del 1969 e la riforma del 1992 In seguito alla riforma del 1969, il diritto alla pensione di vecchiaia spettava (fino al 1992) a coloro che avessero potuto vantare i seguenti requisiti: α. assicurazione di durata pari ad almeno 15 anni; β. contribuzione per un minimo di 15 anni, anche se non continuativa, pari a 780 contributi settimanali; χ. un’età minima di 60 anni se uomini, di 55 se donne. Quanto al primo dei requisiti, l’assicurazione prende data dal primo contributo versato, e non coincide necessariamente con il periodo di contribuzione. Quanto all’età anagrafica, deve precisarsi che i requisiti di età sono necessari ai fini della maturazione del diritto, ma non comportano l’obbligo di andare in pensione. Il d. lgs. 503/1992 ha innalzato i limiti suddetti, portando a 20 anni gli anni di assicurazione e contribuzione richiesti, e a 65 o 60 anni, rispettivamente per gli uomini e le donne, l’età richiesta. Il calcolo delle prestazioni pensionistiche avveniva prendendo a base non i contributi in precedenza versati dallo stesso assicurato, ma la retribuzione pensionabile. La l. 67/1988 disponeva che l’importo da prendere a base per il calcolo della pensione coincideva con la media annuale delle retribuzioni percepite nelle ultime 260 settimane di contribuzione (in pratica gli ultimi 5 anni di lavoro) e che a tale fine queste dovevano essere previamente rivalutate. Per i dipendenti pubblici veniva invece presa a base l’ultima retribuzione percepita all’atto della cessazione dal servizio, solitamente la più alta lungo tutto l’arco della carriera. Con la riforma del 1992 del sistema pensionistico il legislatore ha elevato il periodo temporale al quale fare riferimento per il calcolo della retribuzione media pensionabile: si è prevista così una graduale entrata in vigore della normativa distinguendo a seconda che l’assicurato, al 31 dicembre 1992, avesse già maturato un’anzianità contributiva di almeno 15 anni. In caso positivo, la media retributiva non si sarebbe calcolata prendendo immediatamente a riferimento gli ultimi 10 anni, ma sulla base di un sistema che elevava il periodo di riferimento di un anno ogni due, fino a tutto il 2001, anno oltre il quale la retribuzione pensionabile viene immediatamente calcolata sull’ultimo decennio. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Nei confronti di coloro che alla data del 31 dicembre 1992 non avessero potuto far valere 15 anni di anzianità contributiva, invece, la legge di riforma ha previsto che il periodo di riferimento rimanga fissato a 5 anni, ma che questi fossero incrementati dai periodi contributivi che intercorrono tra la predetta data e quella immediatamente precedente la decorrenza della pensione. Chi per es. al 31 dicembre 1992 avesse maturato 14 anni di contribuzione e andasse in pensione all’1 gennaio 2008 si vedrebbe calcolare la retribuzione media sugli ultimi 20 anni (infatti ai 5 anni dovrà aggiungersi la differenza fra il 31 dicembre 1992 ed il 31 dicembre 2007, pari a 15 anni). Nel sistema retributivo, sulla retribuzione pensionabile deve applicarsi una percentuale, in origine pari al doppio degli anni di contribuzione, fino ad un massimo di 40 anni, di modo che la prestazione pensionistica INPS può al massimo essere pari all’80% (40 • 2%) della retribuzione pensionabile. Ne discende che gli anni di contribuzione ulteriori rispetto alla soglia predetta risultano ininfluenti rispetto al calcolo della pensione (se non limitatamente all’incremento della media di riferimento). Per altro verso, poi, l’importo della pensione era limitato da un massimale. Una simile conseguenza appariva però iniqua a quanti potessero vantare retribuzioni più elevate del massimale predetto, anche alla luce del fatto che in questo modo l’INPS finiva per erogare trattamenti che, al cospetto di altri istituti assicuratori, erano di importo meno elevato, pur a fronte di un onere contributivo più alto: così nel caso dell’INPDAI, il cui regime comportava obblighi contributivi meno onerosi e che applicava una percentuale, da moltiplicare per gli anni di servizio, pari al 2,66%. È stato pertanto modificato il sistema di calcolo delle pensioni, consentendo di prendere in considerazione anche la parte di retribuzione eccedente il limite massimo di retribuzione annua pensionabile. A tale fine la retribuzione pensionabile è stata ripartita in quattro fasce, determinando, in corrispondenza di ogni fascia di reddito, un’aliquota percentuale, di importo decrescente. La pensione viene ora dunque calcolata su tutta la retribuzione, quale che ne sia l’ammontare. Infine il d. lgs. 503/192 ha disposto un peculiare criterio di calcolo della pensione per coloro che risultino già assicurati in data anteriore al 1° gennaio 1993: il criterio, che potrebbe definirsi misto, prevede che l’ammontare della prestazione sia determinato dalla somma di due importi: l’uno calcolato secondo la normativa vigente in precedenza al d. lgs. 503/1992, per l’anzianità contributiva maturata anteriormente al 1° gennaio 1993; l’altro relativo all’anzianità contributiva maturata successivamente, secondo i criteri dettati dalla nuova normativa. In sintesi, il calcolo della pensione nel sistema retributivo deve tener conto di tre variabili: α. la retribuzione media pensionabile (non più soggetta ad un massimale), un tempo calcolata sull’arco degli ultimi 5 anni lavorativi e poi tendenzialmente lungo tutta la vita lavorativa dell’assicurato; β. l’anzianità contributiva, che viene in considerazione per non oltre 40 anni; χ. la cifra percentuale da moltiplicare per gli anni di anzianità contributiva, un tempo unica e pari al 2%, oggi suddivisa a seconda delle fasce di reddito in cui si scompone la retribuzione pensionabile. 2.2 La necessità di una nuova riforma: il nodo delle pensioni d’anzianità PAGE \* MERGEFORMAT 1 α. nella possibilità di riduzione dell’età richiesta per il pensionamento d’anzianità, nella misura di 2 mesi per ogni anno di occupazione in attività usuranti, fino ad una riduzione massima pari a 5 anni; β. nella possibilità di riduzione dell’anzianità contributiva richiesta ai fini pensionistici, nella misura di un anno ogni 10 anni di occupazione usurante fino ad un massimo di 2 anni; χ. a favore di coloro le cui prestazioni siano liquidate esclusivamente col sistema contributivo, nella facoltà di scelta tra l’avvalersi della riduzione indicata sull’età pensionabile, che può essere anticipata fino ad un anno ovvero nell’applicazione di un coefficiente di trasformazione più elevato di quello normalmente previsto. 2.6 La pensione d’anzianità nella riforma del 1995 e nell’intervento del 2003 La pensione di anzianità viene meno nell’ambito del nuovo sistema contributivo, che conosce una prestazione unica. Il diritto al trattamento di anzianità permane pertanto esclusivamente a favore di coloro che siano già assicurati alla data di entrata in vigore della riforma. Nei confronti di questi ultimi, alcune norme di diritto transitorio individuano un periodo dal 1996 al 2008 nel corso del quale è possibile maturare il diritto al trattamento sulla base di un doppio requisito: sono necessari 35 anni di contribuzione, ma è altresì richiesta una certa età anagrafica, 57 anni. È prevista una fattispecie alternativa, per la quale il diritto alla prestazione si acquista indipendentemente dall’età anagrafica sulla base del solo requisito contributivo, elevato in misura crescente. La riforma mantiene in vita il sistema delle “finestre”. La legge di riforma 243/2004 modifica i requisiti di accesso alla pensione di anzianità, prevedendo dal 2008 l’innalzamento del requisito anagrafico da 57 a 60 anni di età (c.d. scalone). La riforma reintroduce una distinzione in base al sesso, consentendo alle lavoratrici di accedere alla pensione, anche dopo il 2008, coi requisiti previsti dalla normativa attualmente in vigore (35 anni di anzianità contributiva più 57 anni di età anagrafica), ma alla condizione che la pensione sia interamente calcolata col sistema contributivo. Si prevede la riduzione a due delle “finestre” a decorrere dal gennaio 2008. Quanto alla pensione liquidata col sistema contributivo, la riforma più recente eleva l’età pensionabile da 57 a 65 anni di età per gli uomini e 60 per le donne, a far data del 1° gennaio 2008. 3. Il regime previdenziale dei lavoratori non subordinati Già alla fine degli anni ’50 il legislatore istituì delle gestioni speciali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti e gli altri lavoratori a questi ultimi assimilati. Ex 35.1 Cost. La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, senza aggettivazioni. Alcune previsioni di ordine tributario e processuale nell’ambito della qualificazione dei rapporti di lavoro avevano individuato una categoria residuale nella quale far confluire prestazioni che, pur senza essere rese nell’ambito di un contratto di lavoro subordinato (2094), erano carenti dei requisiti propri delle forme di lavoro autonomo che trovano specifica regolamentazione di legge. Nell’ambito del contratto d’opera (2222) veniva quindi ad essere enucleata la speciale situazione di quei lavoratori che, pur al di fuori di un vincolo di subordinazione nella PAGE \* MERGEFORMAT 1 fase di esecuzione del contratto, si trovano ad effettuare una prestazione d’opera professionale prevalentemente personale, continuativa e coordinata. Si intendeva quindi alludere a soggetti che intrattengono con le imprese un rapporto di collaborazione stabile, caratterizzato però dall’assenza di controllo sul momento dell’esecuzione della prestazione lavorativa, al pari di quanto tradizionalmente avviene per gli agenti (1742 ss.). Bastava poco perché anche lavoratori che pur si trovavano ad operare alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro (secondo i dettami del 2094) venissero fatti passare per “collaboratori coordinati e continuativi”, allo scopo di un totale azzeramento degli oneri contributivi obbligatori. Per tali lavoratori infatti la legge nulla aveva disposto in passato. Il risultato è stato quello di una incontrollata crescita di tali figure. A tale situazione ha inteso porre rimedio il legislatore della riforma del 1995 istituendo presso l’INPS una ulteriore gestione, nella quale raccogliere sia i lavoratori autonomi che pur iscritti ad un albo professionale fossero privi di una specifica disciplina contributiva, sia tutti i rapporti di lavoro che si concretassero in una collaborazione coordinata e continuativa. Tale speciale disciplina trova applicazione non tanto in relazione ad un profilo soggettivo, e dunque con riguardo a quanti svolgano in via esclusiva attività di collaborazione (come per il caso di coloro che esercitino stabilmente l’attività di amministratori di condominio), ma in via oggettiva, imponendo l’iscrizione alla c.d. “quarta gestione” altresì a quanti, seppur occasionalmente, si trovino ad effettuare una prestazione lavorativa connotata dalle caratteristiche di continuatività e coordinamento. Attraverso le previsioni di cui al d. lgs. 276/2003 si è poi registrato un tentativo di chiarificazione della situazione di tali lavoratori, creando una nuova fattispecie sostanziale, quale il lavoro a progetto. Il d. lgs. 276/2003 ha previsto infatti che le collaborazioni coordinate e continuative dovessero essere ricondotte allo schema contrattuale del lavoro a progetto, qualificando tale fattispecie come una forma di lavoro autonomo in cui il lavoratore assume l’incarico di eseguire un progetto od un programma di lavoro, concordando col committente le modalità di esecuzione, la durata del rapporto, i criteri di esecuzione dell’opera ed i tempi di corresponsione del compenso. 3.1 Lavoratori agricoli, commercianti, artigiani Nell’ambito dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale sono state costituite tre gestioni speciali per l’assicurazione di invalidità, vecchiaia e per i superstiti per lavoratori che effettuano la loro prestazione al di fuori di un vincolo di subordinazione. A queste gestioni si è recentemente aggiunta una ulteriore (quarta) gestione, a carattere residuale. Alla gestione speciale sono oggi iscritti i coltivatori diretti, i coloni ed i mezzadri, nonché gli imprenditori agricoli professionali. Alla gestione degli artigiani possono iscriversi, oltre gli artigiani, anche i “familiari coadiuvanti”. Alla gestione per gli esercenti l’attività commerciale sono iscritti quanti esercitino un’attività commerciale, turistica od un’altra delle attività del terziario, oltre ai familiari “coadiutori”. La legge ha esteso l’obbligo di iscrizione a tutti i lavoratori autonomi che operino nel settore terziario e che svolgano la propria opera abituale e prevalente in attività organizzate di natura commerciale, turistica, di produzione, di intermediazione e produzione di servizi. La riforma del 1995 ha introdotto anche per tali lavoratori il metodo contributivo. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Nel sistema retributivo, la pensione di vecchiaia viene liquidata al raggiungimento dell’età pensionabile (65 anni per gli uomini e 60 per le donne) in presenza di un’anzianità contributiva di 20 anni; la pensione di anzianità spetta, oltre all’ipotesi di un’anzianità contributiva di 40 anni, ai lavoratori con un’età anagrafica di 58 anni, al raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 35 anni. Vengono altresì erogati trattamenti di maternità, nonché trattamenti di famiglia. 3.2 I liberi professionisti Già il codice civile nel definire il contratto d’opera intellettuale delineava uno status speciale per le professioni intellettuali, stabilendo che per l’esercizio di esse fosse necessaria l’iscrizione in appositi albi od elenchi, prefigurando indirettamente una speciale tutela previdenziale per tali soggetti. Le leggi che regolano le singole professioni intellettuali prevedono ai fini previdenziali l’obbligo dell’iscrizione ad una cassa di categoria per quanti esercitino in via abituale la professione regolata. Ogni singola Cassa è stata dotata di autonomia contabile ed organizzativa (c.d. privatizzazione). Un regime speciale è poi previsto per i soggetti che svolgono una attività autonoma di libera professione senza vincolo di subordinazione, per il cui esercizio sia necessaria l’iscrizione in appositi albi od elenchi, nel caso in cui non sia stata costituita un’apposita cassa di categoria. 4. Il regime previdenziale degli iscritti alla c.d. “quarta gestione” La l. 335/1995 ha previsto l’istituzione di un’apposita Gestione separata, presso l’INPS, per: α. quanti svolgano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo senza aver titolo per l’iscrizione ad alcuna delle casse istituite per i liberi professionisti; β. per i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e per gli incaricati alla vendita a domicilio. L’assicurazione, che ha carattere obbligatorio, si presenta come una forma di tutela per l’invalidità, la vecchiaia ed a favore dei superstiti (IVS), regolata da un sistema esclusivamente contributivo. L’aliquota di finanziamento, originariamente fissata nel 10% del reddito, era stata progressivamente incrementata con aliquote differenziate, in relazione alla posizione dell’assicurato ed in conseguenza dell’estensione dell’assicurazione alla maternità, alla malattia che comporti ricovero ospedaliero e del riconoscimento dell’assegno per il nucleo familiare. Dal 1° gennaio 2004 anche coloro che concludendo contratti di associazione in partecipazione si impegnano per l’apporto di solo lavoro devono iscriversi ad un’apposita gestione separata. L’obbligo non riguarda gli associati già iscritti ad albi professionali. La tutela previdenziale per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti è garantita per mezzo di un versamento pari a quello dei parasubordinati, ripartito in misura del 55% dall’associante e del 45% dall’associato. Con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto. Il ricorso a tale fattispecie era stato reso vantaggioso negli anni passati a motivo del fatto che, una volta intervenuto per le collaborazioni coordinate e continuative l’obbligo PAGE \* MERGEFORMAT 1 χ. si è prevista, nelle ipotesi di liquidazione con il sistema retributivo, l’estensione del regime della pensione d’inabilità; δ. nel caso di pensioni dovute per cessazione dal servizio per raggiunti limiti d’età, infermità o morte, ovvero a titolo di reversibilità, si dispone l’estensione della disciplina prevista per l’integrazione al minimo; ε. si è stabilito infine che le lavoratrici dipendenti da amministrazioni pubbliche potessero accedere al pensionamento di vecchiaia già al sessantesimo anno di età, allineando così la normativa sull’età pensionabile a quella prevista nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti. Per il resto la disciplina della riforma del 1995 ha realizzato una parificazione pressoché totale fra il regime applicabile ai dipendenti pubblici ed a quelli privati, applicando anche ai primi il metodo contributivo per quanti fossero stati assunti successivamente alla data di entrata in vigore della riforma. Tuttavia, è stata prevista l’applicazione di un metodo misto per il calcolo del trattamento pensionistico per tutti coloro che avessero già maturato un’anzianità contributiva di 18 anni, consentendo la facoltà di opzione fra i due sistemi a quanti vantassero un’anzianità di 5 anni. L’età pensionabile è fissata in 60 anni per le donne e 65 per gli uomini, ma numerose disposizioni consentono una prosecuzione biennale od anche quinquennale. L’anzianità contributiva richiesta è pari a 20 anni. La pensione di anzianità viene riconosciuta anche prima del raggiungimento dell’età pensionabile, purché si sia in presenza di un’età anagrafica, ora fissata in 57 anni, e di 35 anni di contribuzione, oppure di una certa anzianità contributiva, indipendentemente dal requisito anagrafico. Deve notarsi che ai fini dell’acquisizione del diritto alla pensione il dipendente civile dello Stato ha diritto alla pensione normale a fronte di 20 anni di servizio “effettivo”. Per servizio effettivo s’intende il periodo di tempo nel corso del quale vi sia stata attività lavorativa presso lo Stato e correlativa contribuzione, ma non solo: integrano infatti tale servizio anche attività espletate in un tempo anteriore alla nomina in ruolo dell’impiegato statale. (L’ammontare dei contributi necessari per il riscatto si determina con riferimento alla retribuzione percepita al momento della presentazione della domanda). Diverso dal servizio effettivo è il servizio valutabile: quest’ultimo viene in considerazione ai soli fini del calcolo del quantum della pensione, e non dell’an. Il servizio valutabile è dato dal servizio effettivo più gli aumenti previsti per il servizio utile, ossia periodi di tempo che vengono calcolati in relazione all’esercizio di mansioni particolari. Gli aumenti derivanti dal servizio utile valgono esclusivamente ai fini del calcolo dell’ammontare della pensione, e non anche ai fini della maturazione del diritto alla stessa. Il limite massimo del servizio utile è pari a 40 anni. 7. Il cumulo tra pensione e reddito da lavoro Uno dei nodi cruciali di ogni riforma del sistema pensionistico è dato dal problema del cumulo dei redditi da lavoro, autonomo o dipendente, con le prestazioni pensionistiche. Volendo tentare una sintesi delle norme attualmente vigenti, si deve tener presente che, per quanto concerne il cumulo della pensione di vecchiaia, liquidata esclusivamente col sistema contributivo, con i redditi da lavoro dipendente od autonomo, occorre distinguere a seconda dell’età dell’assicurato: PAGE \* MERGEFORMAT 1 α. per gli assicurati di età pari o superiore a 63 anni, i redditi da lavoro dipendente od autonomo sono cumulabili con la misura minima delle pensioni e col 50% del residuo importo della pensione (ipotizzando una pensione di euro 1.200.00 (con minimale pari a 600.00), il pensionato potrà trattenere il minimo (600.00) più il 50% del residuo (quindi il 50% di 600.00, pari a 300.00): in totale, 900.00); β. per i pensionati di età inferiore ai 63 anni, la prestazione liquidata col metodo contributivo non è cumulabile coi redditi da lavoro dipendente nella loro interezza, mentre è cumulabile col reddito da lavoro autonomo nella misura del 50% della parte eccedente il trattamento minimo, e comunque fino a concorrenza coi redditi stessi. Per la pensione di vecchiaia liquidata col sistema retributivo, è disposta la possibilità di un cumulo pieno con i redditi da lavoro dipendente ed autonomo. Per quanto concerne la pensione d’anzianità, si dispone la possibilità del cumulo totale in tre sole ipotesi: α. nel caso in cui il lavoratore abbia comunque raggiunto i 40 anni di anzianità contributiva; β. nell’ipotesi in cui l’età anagrafica sia superiore a 58 anni ed i contributi versati siano pari ad almeno 37 anni; χ. nel caso in cui il pensionato abbia raggiunto l’età della pensione di vecchiaia. In assenza di tali condizioni, la pensione di anzianità non può esser cumulata con redditi da lavoro dipendente, mentre è ammessa una cumulabilità parziale coi redditi da lavoro autonomo, nella misura del 30% della quota eccedente il minimo e comunque nei limiti del 30% del reddito da lavoro autonomo. 8. L’assegno (già pensione) d’invalidità La disciplina in precedenza vigente assumeva come elemento costitutivo necessario ai fini del sorgere del diritto una riduzione della capacità di guadagno in misura superiore a 2/3. Occorreva poi un periodo di almeno 5 anni di assicurazione ed altrettanti di contribuzione. Per capacità di guadagno si intende la capacità di continuare a svolgere la medesima attività lavorativa svolta in precedenza dal soggetto infortunatosi. Si noti la differenza col concetto della capacità di lavoro, operante nel campo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali: quest’ultimo criterio sta ad indicare la generica capacità del soggetto assicurato a svolgere un qualunque genere di attività lavorativa. In sintesi, α. l’INPS eroga la pensione in esame qualunque sia la causa della lesione, mentre l’INAIL eroga una rendita solo se l’infortunio avviene in occasione del lavoro; β. l’INPS richiede requisiti contributivi ed assicurativi di almeno 5 anni, mentre l’INAIL non ne pone (trova infatti piena applicazione il principio della automaticità delle prestazioni); χ. la percentuale d’incapacità richiesta dall’INPS è pari a più di 2/3 (e prendeva a base la capacità di guadagno), mentre l’INAIL eroga la rendita a fronte di una diminuzione superiore al 16% della capacità di lavoro; δ. per il calcolo dell’indennità l’INPS prende a base l’ammontare ed il valore dei contributi versati, mentre l’INAIL applica un sistema misto che prevede due elementi (uno a-reddituale in ragione della misura della lesione, in correlazione con l’età del PAGE \* MERGEFORMAT 1 soggetto, ed un altro dove le percentuali sono messe in rapporto con l’importo della retribuzione). Ai fini della concessione del trattamento pensionistico l’INPS doveva tenere in considerazione la situazione socio-economica della provincia ove risiedeva l’infortunato. Il legislatore è intervenuto prevedendo sul punto il diritto dell’assicurato a due distinte prestazioni: l’assegno ordinario d’invalidità e la pensione ordinaria d’inabilità; quest’ultima viene corrisposta all’assicurato solo se sia rimasto incapace nella misura del 100% e non nel caso di lesioni inferiori. La nozione di capacità presa a base non è più quella di guadagno, ma di lavoro. Infine i requisiti di assicurazione e contribuzione: sono sempre richiesti 5 anni, ma negli ultimi 5 anni di assicurazione si richiede una contribuzione non più di almeno un anno, ma almeno di tre. Si parla di rischio precostituito per il fatto che il grado d’incapacità viene raggiunto in epoca anteriore al sorgere del rapporto assicurativo. Se l’evento dannoso si verifica prima della stipulazione del contratto d’assicurazione, la conclusione dello stesso non risponde ad alcun interesse meritevole di tutela, e pertanto se ne afferma la nullità. Questa argomentazione era suffragata dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 163/1983) e di Cassazione, che però attentamente distingueva il caso del rischio precostituito, che di per sé non determina il sorgere del diritto, dall’aggravamento del rischio stesso. La legge opera un rimando, ai fini del calcolo dell’ammontare dell’assegno di invalidità, alle norme in vigore per la pensione di vecchiaia, con l’avvertenza che nel caso in cui l’assegno risulti inferiore al trattamento minimo garantito dalle singole gestioni viene integrato, sino al suddetto limite, da un importo pari a quello della pensione sociale, a carico del relativo fondo. Il diritto all’integrazione non sorge tuttavia nel caso di assicurati che siano titolari di redditi imponibili ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (escluso il reddito della casa d’abitazione) di importo superiore a due volte l’ammontare annuo della pensione sociale e, nel caso in cui l’assicurato sia coniugato e non legalmente separato, di importo superiore a tre volte l’ammontare suddetto. L’assegno de quo, diversamente dalla pensione d’inabilità, non è reversibile ai superstiti. Una delle peculiarità della prestazione in esame è la temporaneità: infatti l’assegno viene riconosciuto per un periodo di tre anni, decorsi i quali è onere dell’assicurato chiederne conferma e sottoporsi, a tal fine, ad una visita medica che accerti il permanere delle condizioni che hanno permesso il sorgere del diritto all’assegno; dopo tre riconoscimenti consecutivi, l’invalidità si considera permanente. La legge sancisce poi la possibilità, in costanza di percepimento dell’assegno, di una contribuzione (effettiva, volontaria, figurativa) che potrà rilevare ai fini della liquidazione di supplementi. Si dispone che al raggiungimento dell’età richiesta per il diritto alla pensione di vecchiaia l’assegno in esame “si trasforma” in pensione di vecchiaia. A tal fine, i periodi di godimento dell’assegno in corrispondenza dei quali non vi sia stata attività lavorativa vengono considerati utili ai fini della maturazione del diritto alla pensione stessa ma non per il suo ammontare. 9. La pensione ordinaria d’inabilità PAGE \* MERGEFORMAT 1 Si tratta di un trattamento reversibile che spetta altresì anche agli iscritti alla gestione separata. 12. La perequazione automatica delle pensioni Con l’istituto della perequazione automatica il legislatore ha inteso far fronte alla diminuzione del reale potere d’acquisto delle pensioni, scemato dagli aumenti del costo della vita. L’istituto ha conosciuto diverse modalità di applicazione. Inizialmente l’aumento avveniva secondo il criterio del punto unico di contingenza: tutte le pensioni venivano aumentate di una cifra fissa uguale per tutti in relazione ad ogni punto di contingenza. In seguito si stabilì una perequazione semestrale,che operava tramite la variazione percentuale semestrale della scala mobile dei lavoratori dell’industria. Successivamente è stato disposto che l’istituto abbia cadenza annuale, e che l’aumento sia calcolato sull’effettivo incremento del costo della vita, e non sul tasso d’inflazione programmato. La percentuale di aumento si applica per l’intero sull’importo di pensione non eccedente il doppio del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, per il 90 % per gli importi compresi fra il doppio ed il triplo, per il 75% oltre il limite del triplo. 13. Il minimale di prestazione e la quota sociale Il minimale di prestazione è l’importo minimo che si ritiene adeguato a garantire una capacità di sostentamento dell’assicurato, in conformità al parametro costituzionale dell’adeguatezza. La c.d. integrazione al trattamento minimo è l’integrazione, fino alla concorrenza di un certo ammontare, automaticamente disposta con riguardo ai trattamenti pensionistici che risultino di importo inferiore al detto ammontare minimo. L’onere economico dell’integrazione resta a carico delle singole gestioni pensionistiche. Tale prestazione però non è più prevista a beneficio delle pensioni calcolate secondo il metodo contributivo. Per quanti non riescano a maturare, al momento del raggiungimento dell’età massima per la pensione l’importo minimo previsto per quel sistema, non resta che l’intervento dell’assegno sociale. La maggiorazione viene ricollegata dal legislatore ad una situazione di effettivo bisogno. L’integrazione al trattamento minimo non spetta ai soggetti che posseggano: α. nel caso di persona non coniugata, redditi propri assoggettabili all’IRPEF per un importo superiore a due volte l’ammontare annuo del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti; β. nel caso di persona coniugata, redditi propri per un importo superiore a due volte l’ammontare annuo del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, ovvero redditi cumulati con quelli del coniuge per un importo superiore a quattro volte il trattamento minimo. Alcune norme speciali hanno disposto più favorevoli limiti di reddito o trattamenti di importo più elevato rispettivamente per es. per quanti possano vantare una certa anzianità contributiva od anagrafica, o per quanti siano sprovvisti di reddito annuo al di sopra di un certo limite stabilito dalla norma. 14. L’assegno (e la pensione) sociale PAGE \* MERGEFORMAT 1 L’assegno (già pensione) sociale costituisce attuazione del 38 Cost., concretizzandosi in un trattamento riconosciuto in caso di bisogno al singolo, indipendentemente da ogni requisito contributivo. La prestazione, originariamente prevista nella forma della pensione sociale, ha ora la denominazione di “assegno”. Il diritto all’assegno sociale spetta ai cittadini italiani effettivamente residenti in Italia che abbiano compiuto 65 anni. Analogo diritto spetta ai residenti cittadini di San Marino o comunitari che abbiano svolto attività lavorativa, autonoma o subordinata in Italia; ai rifugiati politici residenti; ai cittadini extracomunitari che hanno ottenuto la carta di soggiorno. L’erogazione della prestazione è subordinata, in tutti i casi, alla condizione che l’interessato non sia titolare di alcun reddito ovvero lo sia per un ammontare inferiore a quello della pensione sociale. Nel caso che l’interessato sia coniugato e non legalmente separato, ovvero in comprovato stato di abbandono, i redditi cumulati dei coniugi non devono essere superiori ai limiti stabiliti dalla legge. L’assegno è erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti. Il reddito che costituisce base per il riconoscimento dell’assegno viene ad essere determinato secondo regole particolari: alla formazione del reddito, infatti, concorrono i redditi, al netto dell’imposizione fiscale e contributiva, di qualsiasi natura, nonché gli assegni alimentari. Non si computano nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati, le anticipazioni sui trattamenti stessi, le competenze arretrate soggette a tassazione separata, nonché il proprio assegno ed il reddito della casa di abitazione. L’onere dell’assegno (e già della pensione) sociale è a carico della gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, il cui finanziamento viene integralmente assicurato dallo Stato. (La distinzione tra previdenza ed assistenza sociale è stata basata su diversi criteri: sul fatto che i soggetti destinatari delle prestazioni concorrano o meno alla ripartizione dell’onere economico derivante dalle stesse, sullo status di lavoratore o di semplice cittadino degli stessi, etc.). La prestazione è esente da imposizione tributaria e non è reversibile; inoltre essa non è né cedibile né sequestrabile o pignorabile. La legge dispone la riduzione dell’assegno, fino ad un massimo del 50%, nel caso in cui l’interessato sia ricoverato in istituti o comunità con retta a carico di enti pubblici. Parte II: Interventi di sostegno al reddito e a tutela dei lavoratori. Misure di carattere assistenziale Di questo capitolo si può saltare l’introduzione e iniziare a studiare direttamente la cassa integrazioni. Si può saltare anche la parte sul SSN e quella su povertà e emarginazione sociale. Domande possibili: - CIG / CIGS: area di applicabilità/ requisiti per la richiesta/ importo e durata massima dell’erogazione - Indennità di mobilità (requisiti, durata, importo) PAGE \* MERGEFORMAT 1 - Contratti di solidarietà (requisiti, durata, importo, differenza tra CdS difensivi ed espansivi) - Fondo di garanzia del TFR: quando interviene, cosa copre ecc.. - Congedo parentale e altri congedi coperti da indennità INPS (causale, durata, importo) - Indennità di malattia ordinaria 1. Introduzione: controllo della spesa pensionistica e tutela del lavoratore sul mercato del lavoro L’INPS, a differenza dei fondi di previdenza complementare, non utilizza accantonamenti patrimoniali: il pagamento delle pensioni avviene usando le somme che l’Istituto ritrae mensilmente. Di conseguenza, l’equilibrio economico del sistema pensionistico rimane fragile. Il legislatore dunque ha mirato a rendere più stabile il sistema pensionistico attraverso provvedimenti che si sono indirizzati verso l’obiettivo di un ampliamento della popolazione attiva. In questa direzione si è indirizzata anche la Comunità europea, che ha imposto a tutti i suoi Stati membri un’azione di contrasto alla disoccupazione, lungo le quattro direttrici identificate dalla strategia europea dell’occupazione: adattabilità, occupabilità, pari opportunità ed imprenditorialità. Un simile risultato è stato perseguito attraverso l’incentivazione all’emersione del lavoro nero, che è stata ripetutamente tentata sia attraverso programmi di regolarizzazione graduale, sia mediante l’intensificazione dei controlli. (Il legislatore ha previsto l’istituto della conciliazione monocratica in sede ispettiva: dalla qualificazione dei contributi come imposte discendeva in passato l’indisponibilità dell’obbligazione contributiva, mentre ora si consente che nelle ipotesi di intervento dei servizi ispettivi su richiesta di un lavoratore la DPL possa farsi parte attiva per definire una conciliazione). Il principale obiettivo perseguito dal legislatore però è consistito nel fare in modo che al finanziamento del sistema previdenziale partecipasse una base quanto più ampia possibile di lavoratori. In questa direzione si è cercato anzitutto di attirare le donne sul mercato del lavoro. Nel nostro come in altri Paesi europei le funzioni di “cura” (assistenza ai bambini ed agli anziani) vengono ancora stabilmente svolte dal sesso femminile: si sono dunque promosse misure specifiche di “conciliazione” ed individuati orari più compatibili con le esigenze familiari. (In questa direzione si collocano i congedi per maternità e paternità, nonché la legge sul part time). In secondo luogo si è ipotizzato di realizzare un ampliamento della base contributiva con un più attento governo dei flussi di lavoratori extra-comunitari. (Le politiche attuate nel volgere di brevi anni hanno oscillato fra due polarità spesso opposte). Nell’ambito dello sforzo diretto all’ampliamento della popolazione attiva si colloca altresì la tendenza a promuovere, nell’ambito del lavoro subordinato, forme contrattuali che intercettino la domanda di lavoro temporanea o discontinua. Al contempo si è mirato ad abbassare l’età dell’ingresso nel mondo del lavoro, coniugando insieme esigenze formative ed esperienze lavorative. Alcuni prospettano una profonda riforma del sistema delle indennità di disoccupazione (“ammortizzatori sociali”), nel senso di estendere i mezzi di protezione del reddito in PAGE \* MERGEFORMAT 1 La Cassa integrazione guadagni trova origine nel contratto collettivo 13 giugno 1941, avente efficacia erga omnes e riferito esclusivamente agli operai del settore industriale; per gli impiegati era infatti già prevista un’apposita forma di tutela, ex l. 262/1926, sull’impiego privato. Le previsioni del contratto collettivo del 1941 andavano a favore del datore di lavoro: si voleva infatti evitare che i lavoratori, in occasione di sospensioni od interruzioni dell’attività, abbandonassero il loro datore, lasciandolo privo di maestranze. Grazie all’intervento della cassa era invece reso possibile il mantenimento del rapporto, tramite una traslazione dell’onere retributivo a carico degli istituti previdenziali. Nella nuova realtà socio-economica il problema non consiste più nella difesa della produzione, e di riflesso dei datori, ma dell’occupazione e quindi dei lavoratori. Di qui l’opportunità di un intervento legislativo, che ne restringeva l’area di operatività soggettiva ai soli operai dipendenti da imprese industriali; la l. 223/1991 ha tuttavia esteso il trattamento ordinario anche agli impiegati ed ai quadri. L’integrazione salariale è dovuta nella misura dell’80% della retribuzione globale che agli operai sarebbe spettata per le ore di lavoro non prestate (nei limiti di un massimale fissato dall’INPS), comprese fra le zero ore ed il limite dell’orario settimanale fissato nei contratti collettivi, che viene comunque in considerazione in misura non superiore alle 40 ore. Nei periodi di cassa integrazione il lavoratore ha diritto alla contribuzione figurativa, calcolata sulla base della retribuzione cui è riferita l’integrazione salariale. Invece sulla retribuzione erogata per le ore di lavoro prestate nel caso di integrazione ad orario ridotto occorre pagare, secondo la regola generale, i relativi contributi effettivi. Sorgeva al riguardo in passato il problema della disparità di trattamento tra lavoratori messi in cassa integrazione a zero ore settimanali, rispetto ai quali l’INPS accreditava i contributi figurativi, ed i dipendenti dello stesso datore che lavoravano per un numero sia pure ridotto di ore alla settimana: questi ultimi si vedevano accreditare una contribuzione effettiva proporzionale alla retribuzione percepita. Per ovviare alla disparità di trattamento si è allora disposta la possibilità di un (eccezionale) cumulo tra contributi effettivi e figurativi, per le ore non lavorate, a favore dei lavoratori in cassa integrazione. 2.3 L’intervento ordinario e straordinario di integrazione salariale L’intervento di integrazione salariale può rivestire carattere ordinario o straordinario. In precedenza l’istituto trovava applicazione a fronte di situazioni temporanee e non imputabili al datore di lavoro, ed occorreva altresì che l’impresa non avesse operai in soprannumero. L’aspetto della temporaneità, in precedenza riferito alla sospensione degli operai dal lavoro, viene ora riferito all’evento che causa la sospensione, senza più alcun accenno ai tempi della riammissione. Anche la non imputabilità dell’evento viene riletta non più alla luce degli artt. 1218 e 1256, in forza dei quali il creditore (nel nostro caso il datore) è responsabile dell’inadempimento (nella fattispecie della mancata prestazione lavorativa dei dipendenti) fino al limite dell’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile (per es. incendio, terremoto, etc.), ma occorre solo che l’imprenditore abbia operato secondo i canoni dell’ordinaria diligenza (1176: Diligenza nell’adempimento). In origine la legge richiamava come presupposti dell’intervento ordinario situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili agli imprenditori o agli operai (pertanto non nei casi di sciopero, né di serrata), ovvero determinate da situazioni temporanee di mercato. PAGE \* MERGEFORMAT 1 L’intervento straordinario era invece concesso in caso di crisi economiche settoriali o locali, ovvero per ristrutturazioni, riorganizzazioni o conversioni aziendali. La prima ipotesi citata di intervento straordinario (crisi economiche settoriali o locali) è stata abrogata, ma alle fattispecie precedentemente contemplate se ne è aggiunta una nuova, consistente in specifici casi di crisi aziendale che presentino particolare rilevanza sociale in relazione alla situazione occupazionale locale e alla situazione produttiva del settore. La distinzione tra i due tipi di trattamento si coglie sotto diversi profili, quale il campo d’azione, che ricomprende nel primo caso l’industria (escluso il settore edilizio), e, nel secondo, oltre l’industria, anche l’edilizia, le unità organiche delle grandi imprese commerciali e le grandi imprese commerciali. Altre differenze rilevano sul piano della durata del trattamento: tre mesi, prorogabili eccezionalmente fino ad un massimo di 12, ed eventualmente senza limiti in caso di evento oggettivamente non evitabile nel caso di integrazione ordinaria. Nel caso di integrazione straordinaria il termine varia in relazione alle cause dell’intervento: un anno nell’ipotesi di crisi aziendale; due nell’ipotesi di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione; un anno in caso di procedure concorsuali. La legge prevede un tetto massimo di 36 mesi di intervento nell’ambito di un quinquennio, indifferentemente dalla natura ordinaria o straordinaria dell’integrazione salariale. Sul piano della procedura, l’intervento ordinario postula una delibera della Commissione provinciale CIG, a composizione tripartita, in seguito a domanda inoltrata alla sede provinciale dell’INPS. L’intervento straordinario richiede un decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. La domanda di ammissione viene vincolata alla presentazione di un programma, che deve costituire oggetto di esame congiunto con le rappresentanze dei lavoratori. Il provvedimento di ammissione al finanziamento della cassa ha natura amministrativa, di modo che eventuali ricorsi avverso la mancata concessione del provvedimento di integrazione, sia di tipo ordinario che straordinario, devono essere proposti avanti la magistratura amministrativa, nel rispetto del termine decadenziale di 60 giorni, previsto in generale per l’impugnativa degli atti amministrativi. L’imprenditore, prima di presentare domanda di integrazione salariale per i propri dipendenti, deve avviare una procedura di consultazione in ordine alla crisi dell’azienda coi sindacati. La domanda deve essere presentata entro 25 giorni dalla fine del periodo di paga in corso al termine della settimana in cui ha avuto inizio la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro. Il finanziamento dell’intervento ordinario grava sul solo imprenditore, laddove alla copertura dell’intervento straordinario provvede anche la contribuzione dei lavoratori ed il finanziamento a carico dello Stato. (Secondo un certo orientamento della Corte di Giustizia comunitaria, i trattamenti di integrazione salariale potrebbero configurarsi come ipotesi vietate in quanto aiuti di stato alle imprese beneficiarie). Sono sorti diversi problemi in ordine all’applicazione della l. 164/1975. Essa dispone che la procedura sindacale venga condotta con le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, con le organizzazioni sindacali di categoria dei lavoratori più rappresentative operanti nella provincia, ma la legge non offre i criteri della maggior rappresentatività. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Altre volte invece il legislatore, in riferimento a particolari fattispecie, ha disposto che debba tenersi conto della consistenza numerica del sindacato, dell’ampiezza e diffusione delle strutture organizzative, della loro partecipazione alla formazione e stipulazione di contratti collettivi di lavoro e della loro effettiva partecipazione alla trattazione delle controversie individuali, plurime o collettive, di lavoro. La questione della maggior rappresentatività del sindacato è stata affrontata anche dalla Corte costituzionale, sia pure in riferimento ad una norma diversa da quella in esame (l’originario 19 l. 300/1970). La questione nodale consisteva nella legittimità di una legge che accordasse un trattamento “di favore” (la possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali) solo a determinate organizzazioni sindacali. La Corte costituzionale rigettò l’istanza di incostituzionalità, sollevata in relazione agli artt. 3 e 39, primo e quarto comma. Con riferimento al 3 la Corte osservò che non viola il principio di eguaglianza, nella fattispecie tra sindacati, lo stabilire una disciplina difforme in relazione a situazioni di fatto diverse. In riferimento al 39.1 (L'organizzazione sindacale è libera), la Corte replicò che istituzionalizzare il concetto di sindacato maggiormente rappresentativo non significava violare la norma costituzionale: il 19 dello Statuto dei lavoratori, infatti, nella formulazione dell’epoca non agiva sul piano della libertà sindacale, ma in relazione ad un’altra situazione (quella di maggior rappresentatività), in corrispondenza della quale venivano assicurati determinati trattamenti di maggior favore. In relazione al 39.4, che attribuisce ai sindacati registrati e dotati di personalità giuridica la facoltà di stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes, la Corte rilevò come la norma costituzionale faccia esclusivo riferimento alla stipulazione dei contratti collettivi, disinteressandosi del problema della rappresentanza sindacale in azienda. La dottrina individua i criteri della maggior rappresentatività facendo riferimento al numero degli iscritti, alla diversità delle categorie rappresentate, al grado di diffusione sul territorio. Altri problemi particolari sono sorti in sede di concreta applicazione della normativa: ci si è chiesti se il lavoratore posto in cassa integrazione a zero ore abbia diritto ad entrare egualmente in azienda. Il potere del datore al riguardo deve ritenersi limitato dal diritto dei lavoratori che ricoprono cariche sindacali a svolgere l’attività sindacale stessa, ovvero a svolgere attività sindacali riconosciute a tutti i lavoratori, come nel caso di referendum od assemblee. Altro problema riguardava il diritto del lavoratore in cassa integrazione a zero ore all’indennità sostitutiva delle ferie; la Cassazione ha negato il diritto del lavoratore cassintegrato all’indennità sostitutiva sulla base del rilievo che, diversamente, verrebbe a godere di un trattamento più favorevole del lavoratore mantenuto in servizio, il quale avrebbe diritto alla sola retribuzione feriale, e non anche all’integrazione salariale, il che costituirebbe una manifesta disparità di trattamento. Un’altra questione consisteva nel dubbio circa la sussistenza di un obbligo, da parte del datore di lavoro, di anticipare ai lavoratori le somme corrisposte poi dall’INPS: sulla base della considerazione che il datore potesse erogare anticipazioni che si sarebbero ex post rivelate come ingiustificate nel caso di mancato accoglimento della richiesta di cassa integrazione, la giurisprudenza ha negato l’obbligo di anticipazione. Ma il problema principale consisteva nella scelta dei lavoratori da mettere in cassa integrazione. PAGE \* MERGEFORMAT 1 15 anni ed un’età inferiore di non più di 60 mesi (5 anni) rispetto a quella prevista per la pensione di vecchiaia, allorquando si tratti di lavoratori dipendenti da imprese che beneficino da più di 24 mesi del trattamento di integrazione salariale straordinario e che abbiano stipulato coi sindacati dei lavoratori maggiormente rappresentativi sul piano nazionale contratti collettivi che prevedano il ricorso al lavoro a tempo parziale. Nel momento in cui si convenga il passaggio al tempo parziale per un orario non inferiore a 18 ore settimanali, il dipendente potrà avanzare la domanda di prepensionamento, la quale resta però subordinata all’autorizzazione della Direzione regionale del lavoro. La legislazione ha gradualmente aumentato il costo a carico del datore dell’onere economico derivante dall’anticipata liquidazione del trattamento pensionistico, riducendo tuttavia sempre di più le ipotesi previste nella legislazione di settore. 2.6 I contratti di solidarietà e i fondi di solidarietà per il sostegno al reddito Il contratto di solidarietà difensivo è diretto ad evitare il licenziamento di una parte del personale di un’impresa attraverso una riduzione dell’orario individuale, in modo da ridistribuire fra tutti i lavoratori gli effetti conseguenti alla contrazione della produzione industriale. Nella sua originale formulazione normativa, il contratto di solidarietà si è dimostrato praticabile solo per le imprese e per quelle categorie (i dirigenti) per le quali non era previsto l’intervento di integrazione salariale. In seguito tale tendenza venne invertita: in particolare, oltre all’ampliamento delle categorie di impresa beneficiarie, all’aumento della misura del trattamento di integrazione concesso (dal 50 al 75%) ed alla corresponsione di un contributo ai datori, si prevedeva che i datori che stipulassero contratti di solidarietà con una contrazione dell’orario di lavoro superiore al 20% beneficiassero di una riduzione dell’ammontare della contribuzione previdenziale ed assistenziale nella misura del 25% (elevata al 30% per le imprese operanti nelle aree depresse). Nel caso in cui la riduzione dell’orario di lavoro fosse stata superiore invece al 30%, la legge comportava un abbassamento del 35% dei contributi dovuti (elevata al 40% per le aree depresse). La disciplina nelle originali intenzioni del legislatore doveva trovare applicazione solo fino alla data del 31 dicembre 1995, ma la l. 608/1996 ne ha anticipato la scadenza al 14 giugno 1995. Alcune disposizioni del testo abrogato sono comunque rimaste in vita: sono state mantenute senza limitazione di tempo, per le sole imprese direttamente destinatarie del trattamento di CIG, le incentivazioni in tema di contribuzione, vincolandone tuttavia la concessione alle effettive disponibilità finanziarie del fondo dell’occupazione. La funzione di sostegno a forme di solidarietà aziendale (o categoriale) sembra ora affidata ad una misura sperimentale diretta all’istituzione presso l’INPS di fondi dotati di autonomia finanziaria e patrimoniale, per l’erogazione di trattamenti di integrazione salariale a beneficio di quelle categorie o di quei settori di impresa esclusi dal campo di applicazione della disciplina della CIG. Anche in questa ipotesi si rimette alla contrattazione collettiva l’iniziativa per la costituzione di tali fondi. 3. La tutela nel caso della crisi di impresa: il fondo di garanzia del TFR Una speciale assicurazione sociale garantisce al lavoratore il pagamento del TFR. Questo costituisce un elemento retributivo obbligatorio per tutte le categorie dei prestatori di lavoro subordinato, che viene maturato nel corso della prestazione, in PAGE \* MERGEFORMAT 1 proporzione al salario dovuto al lavoratore, secondo una precisa formula, contenuta nel 2120 (Disciplina del trattamento di fine rapporto). La somma così accantonata viene poi in concreto corrisposta solo al momento dell’interruzione del rapporto di lavoro, indipendentemente dalla causa che lo abbia determinato, salvo che nell’ipotesi che ne sia stata richiesta l’anticipata corresponsione parziale, prevista dalla legge a determinate condizioni. (Ai sensi del 2120.1 il TFR si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. Il d. lgs. 252/2005 ha previsto un meccanismo di destinazione tacita ai fondi di previdenza complementare del TFR, in assenza di un’espressa volontà contraria del singolo. La legge ha altresì previsto che, in caso di mancata devoluzione alle forme di previdenza complementare, una quota parte del trattamento sia accantonata presso un apposito fondo costituito presso l’INPS, che provvederà alla liquidazione di una parte del trattamento stesso). Poiché l’accantonamento dei ratei annui ha natura meramente contabile, senza determinare un flusso finanziario effettivo, se non nell’ipotesi nella quale il TFR sia destinato a finanziamento dei fondi di previdenza complementare (il 2117 propone un’ulteriore diversa soluzione: esso, rubricato “Fondi speciali per la previdenza e l'assistenza”, dichiara che I fondi speciali per la previdenza e l'assistenza che l'imprenditore abbia costituiti, anche senza contribuzione dei prestatori di lavoro, non possono essere distratti dal fine al quale sono destinati e non possono formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dell'imprenditore o del prestatore di lavoro), può accadere che, nel caso in cui il datore di lavoro sia fatto oggetto di esecuzione in forma concorsuale, il lavoratore sia costretto per realizzare il proprio credito ad attendere la conclusione della procedura concorsuale. Sulla scorta di una direttiva comunitaria si è dato così vita ad un sistema assicurativo diretto alla più efficace tutela del credito, garantendo al lavoratore subordinato una prestazione di importo pari al TFR maturato, ogni qual volta il relativo debito sia stato accertato con l’inserimento nello stato passivo, o, comunque, tutte le volte che sia stata inutilmente intrapresa l’esecuzione forzata, nei confronti di quei datori di lavoro (privati, piccole imprese) che non sono soggetti alle procedure concorsuali. Il trattamento si estende altresì alle ultime tre mensilità di retribuzione, ove non siano state corrisposte. Il fondo destinato alla gestione di tale forma assicurativa è stato istituito presso l’INPS, che lo gestisce in regime di contabilità separata, ed è finanziato da un versamento contributivo a carico dei datori. Una volta accertato in sede giudiziale o concorsuale l’ammontare del credito, il fondo, dopo aver erogato il trattamento, si surroga al lavoratore, esercitando i diritti a lui spettanti. 4. Prestazioni a tutela della famiglia 4.1 L’assegno unico per il nucleo familiare L’assegno in esame si fonda sulla scorta del 36 Cost., che correla la misura della retribuzione dovuta al prestatore alle esigenze di vita non solo sue proprie ma altresì della sua famiglia. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Fino al 1988, il sistema di corresponsione si basava sull’erogazione di un importo fisso per ciascun familiare a carico; ora è previsto un assegno unico per il nucleo familiare unitariamente considerato. I parametri di determinazione della misura dell’assegno tengono conto di due variabili: il numero dei componenti e l’ammontare del reddito complessivo del nucleo familiare stesso. L’assegno per il nucleo familiare viene erogato dal datore di lavoro stesso per conto dell’INPS. L’onere contributivo grava in misura esclusiva sul datore di lavoro, in percentuale sull’ammontare delle retribuzioni corrisposte ai lavoratori, ancorché privi di familiari a carico. Il termine di prescrizione dell’obbligo contributivo e del diritto dell’assicurato all’erogazione degli assegni è pari a 5 anni. Nel nucleo familiare del lavoratore sono ricompresi il coniuge ed i figli legittimi ed equiparati, di età inferiore ai 18 anni compiuti. Possono ricomprendersi anche i figli legittimi (ed equiparati) maggiorenni che si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un lavoro. L’assegno viene ora corrisposto anche ai lavoratori dipendenti da amministrazioni pubbliche. Non hanno invece titolo per la corresponsione dell’assegno: α. i lavoratori subordinati che prestano la loro attività presso due distinti datori, nel caso che l’erogazione avvenga già da parte di uno di essi; β. i coniugi ed i figli del datore di lavoro, essendo nei loro confronti il datore già tenuto all’obbligo degli alimenti, nonché coloro che fanno parte dell’impresa familiare, ai sensi del 230 bis; χ. i lavoratori autonomi ed i pensionati da lavoro autonomo. L’assegno viene erogato in costanza di retribuzione, a prescindere dall’effettivo espletamento di attività lavorativa (per es. anche durante il mese d’agosto, in concomitanza delle ferie). Spetta altresì: nei periodi di cassa integrazione guadagni a zero ore lavorative; durante i periodi di assenza dal lavoro per malattia; nel caso di percezione dell’indennità sostitutiva del preavviso di licenziamento per il periodo corrispondente. Prestazione assimilabile all’assegno per il nucleo familiare, ed erogata dalla medesima gestione, è l’assegno per il periodo di congedo matrimoniale, spettante a determinate categorie di lavoratori. 4.2 La tutela della maternità e della paternità La legge prevede il diritto del lavoratore di astenersi dalla prestazione in relazione a tre distinte ipotesi: vi è, in primo luogo, un congedo di maternità che viene riconosciuto alla lavoratrice nei due mesi successivi la nascita (con un ulteriore prolungamento in caso di parto prematuro e con la possibilità di accrescere la durata del periodo post- parto a scomputo di quello di attesa). Un congedo sostanzialmente analogo viene riconosciuto al padre, in via alternativa rispetto a quello di maternità, nelle ipotesi in cui la madre sia impossibilitata a fruirne per i primi tre mesi di vita del bambino. Un ulteriore congedo, il congedo parentale, è riconosciuto ad entrambi i genitori e consente l’astensione di uno dei due genitori dal lavoro fino all’ottavo anno di vita del PAGE \* MERGEFORMAT 1 Il lavoratore assente per malattia è obbligato a comunicare al datore il motivo della sua assenza e la durata presunta della malattia, nonché a provvedere successivamente, entro due giorni dall’inizio dell’assenza, a trasmettere all’INPS e al datore copia di un certificato del medico curante. La ritardata trasmissione determina la perdita dell’indennità di malattia corrispondente ai giorni in cui il ritardo stesso si è protratto (la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di tale disposizione nella parte in cui non consente all’interessato di addurre e dimostrare l’esistenza di un valido motivo a giustificazione del mancato rispetto del termine). Il precetto di reperibilità è limitato a due fasce orarie giornaliere per una durata complessiva di quattro ore. La norma (l. 638/1983) che statuisce la perdita dell’intero trattamento economico di malattia per i primi dieci giorni a danno del lavoratore risultato assente ad un’unica visita di controllo è stata dichiarata legittima dalla Corte costituzionale, che tuttavia ha ritenuto incompatibile con la garanzia a mezzi adeguati alle esigenze di vita, di cui al 38 Cost., l’ulteriore previsione della perdita di metà del trattamento economico, a partire dall’undicesimo giorno e per tutta la durata della malattia, quando non sia subordinata ad un secondo accertamento di controllo. 5.2 L’assicurazione contro la tubercolosi Sono assicurati contro la tubercolosi, oltre al lavoratore, anche i suoi familiari a carico. La gestione è di pertinenza dell’INPS, presso la quale sono assicurati anche dipendenti statali. L’ente previdenziale si limita ad erogare delle prestazioni di carattere economico, in quanto l’assistenza sanitaria viene attualmente garantita dal Servizio sanitario nazionale. Requisito necessario ai fini delle prestazioni è un periodo assicurativo e contributivo di un solo anno. Le prestazioni (“indennità”) sono di due tipi, sanatoriali o post-sanatoriali. L’indennità post-sanatoriale viene erogata, per un periodo non superiore a due anni, allorquando il ricovero abbia avuto una durata non inferiore a 60 giorni. È infine previsto un assegno mensile di cura e sostentamento, qualora la malattia abbia inciso sulla capacità di guadagno degli assistiti in misura superiore al 50%. L’assegno, erogato solo una volta cessata la corresponsione delle indennità, è riconosciuto per un periodo di due anni, rinnovabili senza limiti. In concomitanza coi periodi di corresponsione delle indennità spetta il riconoscimento d’ufficio della contribuzione figurativa. 5.3 Il servizio sanitario nazionale Il 32.1 Cost. dichiara che La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Un tempo la tutela era assicurata, ad opera di diversi enti pubblici, nei confronti dei soli lavoratori. La tutela veniva assicurata in riferimento a determinate malattie, e con un carattere di intervento meramente “curativo”, ossia successivo al sorgere del bisogno, e non anche preventivo. Infine il livello delle prestazioni medico-sanitarie variava sensibilmente da categoria a categoria, ossia in ragione dell’ente pubblico assicuratore. In un’ottica costituzionalmente orientata, occorre invece sottolineare come la tutela della salute costituisca obbligo dello Stato a fronte di un diritto fondamentale, che deve PAGE \* MERGEFORMAT 1 trovare protezione principalmente nell’interesse della persona: ne dovrebbe conseguire la generalità della stessa. Corollario del principio dovrebbe essere il carattere indifferenziato della tutela, nel senso quantomeno di un livello minimo di prestazioni da garantirsi a chiunque. Ulteriormente, il concetto di tutela della salute è più ampio di quello di cura delle malattie: ne consegue l’esigenza di una sua globalità che si estende non solo ad un intervento curativo, ma anche preventivo e, successivamente al decorso della malattia e se necessario, di riabilitazione. Alla stregua dei rilievi suesposti, con l. 833/1978 è stato istituito il Servizio Sanitario Nazionale. Il servizio coinvolge non solo lo Stato, ma anche le Regioni, e si apre altresì alla collaborazione con soggetti privati, che siano stati fatti oggetto di un’apposita procedura di “accreditamento”. Il nuovo 117 Cost. attribuisce alla legislazione concorrente di Stato e Regioni la materia della “tutela della salute”. I soggetti protetti dal SSN, ossia quelli aventi diritto alle prestazioni sanitarie, sono tutti i cittadini, compresi i lavoratori italiani all’estero. La tutela viene poi estesa agli stranieri residenti in Italia che ne facciano richiesta nonché, a particolari condizioni, ai cittadini stranieri presenti nel territorio italiano. Originariamente il SSN era alimentato dal fondo sanitario nazionale, finanziato e ripartito in sede di bilancio dello Stato e dalla tassa sulla salute. Inoltre il fondo era alimentato dalle somme corrisposte dai cittadini per avere accesso a determinate prestazioni (c.d. ticket). Successivamente il fondo nazionale è stato abrogato (e così anche la contribuzione a carico dei datori) per essere sostituito da un’imposta di nuova istituzione (l’IRAP, imposta regionale sulle attività produttive) che grava sulle imprese e sui lavoratori autonomi. Il sistema è stato ulteriormente modificato dalla l. 388/2000, che, abolendo i trasferimenti erariali a favore delle Regioni, ha dotato queste ultime di ulteriori nuovi cespiti, prevalentemente destinati al finanziamento della spesa sanitaria. L’evento generatore del bisogno è la malattia in senso soggettivo. Le prestazioni originate dall’evento sono di carattere sanitario ed economico. Le prestazioni di carattere economico vengono ora corrisposte dall’INPS, e sono anticipate dal datore di lavoro. Le prestazioni di carattere sanitario sono erogate per mezzo delle varie aziende sanitarie (ora ASL, già USL) disseminate sul territorio nazionale, ovvero da medici e strutture convenzionate con le medesime: si esauriscono in una serie di prestazioni di livello minimo garantite a tutti i cittadini. Prestazioni ulteriori possono essere garantite dalle singole Regioni. Ulteriormente, sono erogabili a richiesta dell’assistito dietro versamento del corrispettivo. Per garantire un grado di uniformità su tutto il territorio nazionale, nel rispetto del principio costituzionale di eguaglianza, lo Stato individua dei livelli essenziali di assistenza (LEA), come prestazioni minime da assicurare nell’ambito territoriale di ciascuna ASL. Le prestazioni erogate possono raggrupparsi secondo la finalità perseguita: un primo gruppo di attività è finalizzato alla prevenzione, in relazione a fattori di rischio di carattere epidemiologico ed ambientale, nonché alla prevenzione degli eventi morbosi, attraverso l’adozione di misure idonee a prevenirne l’insorgenza. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Un secondo gruppo è preordinato a garantire un’attività di cura, attraverso prestazioni mediche di tipo generico (mediante il c.d. medico di base, dipendente dal SSN o convenzionato con esso) o specialistiche, assicurate dalle aziende ospedaliere o, attraverso apposite convenzioni, da soggetti privati. Un terzo gruppo di prestazioni attiene agli interventi di riabilitazione ed un ultimo all’attività medico-legale, che si concreta in un’attività di accertamento o di certificazione. 6. Povertà ed emarginazione sociale Il settore dell’assistenza è stato tradizionalmente in Italia oggetto di scarsa attenzione da parte del legislatore, che ha concentrato i pochi interventi attuati a beneficio di specifiche categorie, come in primis gli invalidi civili, i non vedenti ed i sordomuti. Per queste categorie sono state approntate misure di carattere economico (come l’erogazione di trattamenti, sotto varie forme: pensioni di inabilità, assegno mensile per gli invalidi non collocabili al lavoro, etc.) o misure promozionali, dirette a facilitarne il collocamento sul mercato del lavoro. Mancava invece una modalità di intervento che fosse indirizzata ad assicurare misure di sostegno al reddito a soggetti che, pur dotati di una piena capacità lavorativa, si trovassero in situazioni di bisogno momentaneo. Infatti vi era sia una generale diffidenza verso sistemi improntati alla mera assistenza, sia il timore che attraverso interventi di sostegno siffatti si finisse per alimentare il mercato del lavoro nero. L’Italia s’è trovata priva di una rete di strumenti di assistenza e di contrasto alla povertà, lasciando spesso alle iniziative caritatevoli dei singoli il sostegno a soggetti in situazione di disagio (38.5 Cost.). Si tratta peraltro, come ha sottolineato la dottrina, di situazioni di povertà materiale spesso di difficile definizione attraverso le categorie consuete del diritto della previdenza sociale. Un indiretto contributo ad alleviare tali situazioni di povertà era derivato, attraverso l’imposizione ai singoli proprietari di beni immobili di un canone di locazione “equo” (l. 392/1978). Nello stesso senso un ruolo centrale è stato svolto da specifici enti pubblici, in attuazione di programmi urbanistici di edilizia popolare. Una nuova spinta allo sviluppo delle misure universali di “coesione sociale” è giunta dalle istituzioni comunitarie, nell’ambito del c.d. metodo di coordinamento aperto: esso è uno speciale sistema di consultazione periodica fra i venticinque stati membri, inteso alla definizione di un processo che attraverso la conoscenza delle buone prassi attuate negli stati più avanzati possa innescare un movimento di emulazione, diretto al riavvicinamento nel progresso delle condizioni materiali dei lavoratori europei. Un tipico esempio di siffatte misure è costituito dal reddito minimo di inserimento, istituito in via sperimentale dalla l. 499/1997 e prorogato fino alla l. 43/2005, che ne ha decretato l’estinzione: si trattava di una prestazione economica corrisposta dai comuni ai soggetti, che vantassero la residenza da almeno un anno, i cui redditi si collocavano al di sotto di una certa soglia. La l. 328/2000 predispone un sistema integrato di interventi e servizi sociali; la legge disegna una complessa architettura che coinvolge Stato, Regioni e Comuni, attribuendo all’ente comunale la principale responsabilità nell’erogazione dei servizi e dei trattamenti monetari. PAGE \* MERGEFORMAT 1 2. La prescrizione dell’obbligo contributivo dopo la riforma ex l. 8 agosto 1995, n. 335 La l. 335/1995 ha modificato in modo sostanziale i termini della prescrizione in materia previdenziale: in precedenza, la regola generale era nel senso della prescrizione decennale dei crediti contributivi, mentre oggi il termine generale di prescrizione è pari a 5 anni. La regola del termine quinquennale si applica anche alle contribuzioni relative ai periodi antecedenti all’entrata in vigore della norma. Resta però fermo il termine decennale nei casi di atti interruttivi della prescrizione già compiuti prima della data suddetta, ovvero nell’ipotesi di procedure iniziate nel rispetto della normativa previgente. In sede di applicazione giurisprudenziale, la disciplina della l. 335/1995 si interpreta nel senso che: α. per i contributi successivi alla data di entrata in vigore della legge (17 agosto 1995) la prescrizione resta decennale fino al 31 dicembre 1995, mentre diviene quinquennale dal 1 gennaio 1996; β. per i contributi relativi a periodi precedenti alla data di entrata in vigore della legge, la prescrizione diviene quinquennale dal 1 gennaio 1996, tuttavia il termine decennale permane ove, entro il 31 dicembre 1995, siano stati compiuti dall’istituto atti interruttivi, ovvero siano iniziate, durante la vigenza della precedente disciplina, procedure per il recupero dell’evasione contributiva; χ. nel caso in cui gli atti interruttivi siano effettuati nel periodo tra il 17 agosto 1995 ed il 31 dicembre 1995 risulta immune da prescrizione il decennio precedente alla data dell’interruzione o alla data di inizio della procedura. 3. Il principio di automaticità Nel caso di omissione contributiva il lavoratore assicurato può subire dei danni in ordine al quantum o addirittura all’an della prestazione per mancato raggiungimento del periodo contributivo minimo richiesto ai fini del sorgere del diritto. Per salvaguardare egualmente il diritto dell’assicurato alle prestazioni l’ordinamento previdenziale si informa al principio di automaticità delle prestazioni, autentico inveramento del 38 Cost.: il lavoratore ha diritto alla pensione quand’anche il datore non abbia versato i relativi contributi. Il principio, posto nei suoi termini generali dal 2116 (Prestazioni), è immediatamente operativo, ma è suscettibile di temperamento, posto che la stessa disposizione ammette che norme di legge possano disporre diversamente; secondo la Corte costituzionale il principio di automaticità opera anche qualora le leggi relative alle singole forme di assicurazione sociale non vi si adeguino, e rispetto allo stesso sono possibili deroghe solo se espresse. Così in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, di competenza dell’INAIL, il principio trova integrale applicazione. Nell’assicurazione generale per invalidità, vecchiaia e superstiti di competenza INPS il principio riceve invece applicazione attenuata: si stabilisce infatti che il requisito di contribuzione s’intende verificato anche quando i contributi non siano effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione decennale: quindi rileva in questo caso la distinzione tra periodo contributivo prescritto e non. La giurisprudenza è divisa sul punto se il principio di automaticità trovi applicazione solo per i periodi di omessa contribuzione essenziali al raggiungimento del requisito PAGE \* MERGEFORMAT 1 contributivo minimo, o se esso invece operi anche ai fini della determinazione della misura del trattamento pensionistico. Se il periodo non si è ancora prescritto, il lavoratore non dovrebbe subire il danno della mancata erogazione della pensione; l’INPS tuttavia non eroga alcuna prestazione finché non recupera i contributi omessi, e pertanto un danno in capo all’assicurato sussiste egualmente. Il limite del riferimento al periodo contributivo non prescritto è venuto meno nel caso in cui il datore sia assoggettato alle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero nel caso di amministrazione straordinaria. 4. La tutela contro le omissioni per il periodo non prescritto Sul datore grava l’obbligo di consegnare ogni anno al lavoratore un prospetto attestante l’avvenuto versamento dei contributi dovuti alle varie gestioni previdenziali e tutti i dati necessari per verificare l’esatta applicazione delle norme in materia di previdenza ed assistenza. Presso l’INPS è stato istituito il casellario centrale delle posizioni previdenziali attive. La comunicazione di notizie errate da parte dell’INPS è fonte di responsabilità dello stesso. In caso di inadempimento del datore di lavoro, l’assicurato può sollecitare l’intervento dell’ente previdenziale tramite una raccomandata che riveste natura di dichiarazione di conoscenza. Nel caso che i contributi in esame non siano prescritti, titolare del credito contributivo è l’istituto previdenziale, che pertanto è il solo soggetto legittimato ad agire per i recupero delle somme non versate. L’assicurato può esperire due azioni: contro l’INPS ovvero contro il datore di lavoro assicurante. Nel primo caso, agisce per attuare il principio di automaticità; a tal fine, l’assicurato dovrà dimostrare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, l’effettivo pagamento della retribuzione e la mancanza dell’impedimento che deriva dall’intervenuta prescrizione del credito contributivo dell’assicurante. In questi casi il datore di lavoro non è litisconsorte necessario nel processo, in quanto l’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro viene compiuto incidenter tantum, senza efficacia di giudicato. In caso di soccombenza, l’INPS agirà poi in sede di regresso per il recupero dei contributi omessi. In alternativa l’INPS potrà invece chiamare in causa il datore di lavoro proprio al fine di potergli opporre l’eventuale giudicato di condanna al pagamento nei confronti dell’assicurato. Nel secondo caso l’assicurato agirà per ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi evasi a favore dell’ente previdenziale, ossia per la regolarizzazione della posizione assicurativa. In questo caso, l’INPS non è litisconsorte necessario nel giudizio. Tale azione è possibile solo limitatamente al pagamento dei contributi non ancora prescritti, indipendentemente dal fatto che tale circostanza sia stata eccepita o meno. 5. La tutela per il periodo prescritto Con riferimento al periodo contributivo prescritto, l’istituto previdenziale non è più titolare del credito contributivo, tant’è che un eventuale pagamento da parte dell’assicurante non verrebbe accettato; permane però in capo all’assicurato il diritto al risarcimento del danno derivante dall’omissione contributiva in esame. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Il datore ed il lavoratore non possono accordarsi, né al momento della stipulazione del contratto di lavoro né nel corso di svolgimento del rapporto, per non adempiere o comunque eludere gli obblighi contributivi: quest’accordo sarebbe nullo ex 1418 [Cause di nullità del contratto] e 2115 [Contribuzioni]. Eppure il 2113 sancisce l’invalidità delle rinunce o transazioni aventi per oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili (di legge o di contratto collettivo), invalidità rilevabile a pena di decadenza nel termine di sei mesi: quindi una volta decorso il periodo di decadenza gli accordi suddetti sono efficaci. Il 2113 però non si riferisce alle transazioni aventi per oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili, ma al diritto al risarcimento che sorge dalla violazione dei diritti inderogabili suddetti. L’assicurato può transigere o rinunciare agli obblighi derivanti dall’omissione dei contributi, ma non all’obbligo del versamento degli stessi. Con riferimento al periodo prescritto viene in rilievo il 2116, in base al quale l’imprenditore è responsabile del danno che deriva al prestatore di lavoro nei casi in cui gli istituti previdenziali, per mancata od irregolare contribuzione, non sono tenuti a corrispondere in tutto od in parte le prestazioni dovute. Si tratta di un’azione di risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale, rectius da inadempimento di obbligazioni (1218: Responsabilità del debitore); infatti l’obbligo di contribuzione sorge come effetto di natura legale derivante dal contratto di lavoro. Ne consegue che la relativa causa ha natura lavoristica, e non previdenziale, e che non è richiesto l’intervento dell’INPS nel giudizio. Il risarcimento può avvenire condannando il datore di lavoro assicurante al pagamento di una somma di denaro direttamente nei confronti del lavoratore assicurato, ovvero in forma specifica mediante costituzione di una rendita sostitutiva della perdita del trattamento per effetto all’omissione suddetta. Il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria è decennale, secondo la regola generale del 2946, ma sorge a questo punto il problema di determinare il dies a quo della decorrenza della prescrizione. La giurisprudenza al riguardo si era dapprima espressa nel senso di far coincidere il termine dal momento in cui i contributi dovevano essere versati, ma in tal modo era facile che il lavoratore non si accorgesse per tempo dell’omissione, e quindi perdesse definitivamente i contributi; di seguito il termine venne pertanto identificato nel momento della cessazione del rapporto di lavoro, ma anche questo criterio venne rigettato per la considerazione che l’estinzione del rapporto lavorativo non coincide necessariamente con quella del rapporto contributivo, che può per es. proseguire in capo ad un nuovo datore. È stato infine accolto il criterio che fissa il dies a quo nel momento in cui l’assicurato matura i requisiti di età, contribuzione ed assicurazione necessari per il sorgere del diritto. L’azione risarcitoria del danno pensionistico può quindi essere esercitata nel momento in cui si verifica la perdita totale o parziale della prestazione previdenziale, ossia nel momento in cui la stessa avrebbe dovuto essere attivata. Questo criterio è stato ulteriormente corretto facendosi riferimento al momento in cui l’INPS o l’ente previdenziale di riferimento comunica all’assicurato il rifiuto di erogare la prestazione (od eroga una prestazione di ammontare inferiore a quello altrimenti spettante) a causa della mancata contribuzione dell’assicurante, sul presupposto che è solo grazie a quest’ultima circostanza che il diritto può essere concretamente esercitato (2935: Decorrenza della prescrizione: La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere). PAGE \* MERGEFORMAT 1 Oltre i tetti massimi del 40% e del 60%, qualora non si sia provveduto al pagamento integrale del dovuto, son dovuti gli interessi di mora al tasso legale (calcolati però sul solo debito contributivo). Le somme aggiuntive in questione possono essere altresì ridotte fino alla misura degli interessi legali, sulla base di criteri generali dettati dall’ente impositore, in ragione di oggettive e gravi ragioni di incertezza relative all’esistenza dell’obbligo contributivo, connesse a contrastanti o sopravvenuti diversi orientamenti giurisprudenziali od amministrativi; nel caso di aziende in crisi, riconversione o ristrutturazione di particolare rilevanza sociale od economica a fini occupazionali; etc. In precedenza il regime sanzionatorio era molto più gravoso: ne conseguono problemi di diritto transitorio. In linea generale, il regime in esame entra in vigore a partire dal 1 ottobre 2000. Per quanto concerne invece i crediti già in essere al 30 settembre 2000, vale a dire i crediti contributivi denunciati, riconosciuti unilateralmente od accertati, per i quali i contributi e le relative sanzioni non sono state ancora pagate al 30 settembre 2000, sarà dovuta una somma calcolata sulla base della l. 662/1996, ma la differenza tra quanto dovuto in base a quest’ultima norma e quanto sarebbe stato invece dovuto in base alla l. 388/2000 costituisce (ex l. 388/2000) un credito contributivo nei confronti dell’ente previdenziale, che potrà essere conguagliato nei confronti dell’ente previdenziale. Le sanzioni in esame sono espressamente definite come civili. Ne dovrebbe conseguire l’applicazione delle regole del diritto civile, per es. in materia di imputazione di pagamento, di trasmissibilità agli eredi, di possibilità di remissione da parte degli enti previdenziali. La giurisprudenza ribadisce come tali sanzioni servano a rafforzare l’obbligazione principale, al tempo stesso predeterminando l’importo del risarcimento: una tale funzione è simile in sostanza a quella prevista nell’ambito dell’autonomia contrattuale dalla clausola penale di cui al 1382. Permane il problema derivante dal fatto che una sanzione civile dovrebbe esser basata esclusivamente sul fatto oggettivo dell’inadempimento, inteso come mancata soddisfazione dell’interesse del creditore, mentre la modulazione della sanzione in esame avviene anche sulla base della condotta del debitore. 7. Le sanzioni amministrative e le ordinanze ingiunzione Le sanzioni amministrative connesse alle omissioni contributive sono state sostanzialmente abrogate. Secondo parte della giurisprudenza, in conformità ai principi di legalità, irretroattività e divieto di applicazione analogica previsti dall’1 l. 689/1981, il comportamento costituente illecito amministrativo è assoggettato alla legge del tempo del suo verificarsi: ne consegue l’impossibilità di applicare la disciplina successiva più favorevole, sicché la norma abrogata continua ad applicare i suoi effetti in ordine ai rapporti sorti durante il periodo di vigenza della medesima. Un diverso e più mite orientamento ritiene invece che la l. 388/2000 si incentri sulla potestas puniendi della pubblica amministrazione, e pertanto assume rilievo il momento della comunicazione dell’ordinanza ingiunzione da parte della pubblica autorità medesima. Le sanzioni amministrative permangono sostanzialmente per le violazioni di cui alla l. 689/1981. Si tratta delle violazioni che non consistono, di per sé, in un’evasione contributiva, per es. in materia di regolare tenuta dei libri obbligatori. PAGE \* MERGEFORMAT 1 L’accertamento della violazione avviene a seguito dell’esercizio di potere ispettivo, tramite appositi ispettori che, nell’esercizio delle loro funzioni, agiscono in qualità di agenti od ufficiali di polizia giudiziaria, e che godono di alcuni poteri di cui al Codice di procedura penale. Gli ispettori redigono appositi verbali dei fatti appresi. Ove risultino inadempimenti la cui violazione determina l’applicazione di una sanzione amministrativa, l’ispettore provvede a diffidare il datore di lavoro a regolarizzare le inosservanze, qualora sanabili, fissando a tal fine un termine. La diffida interrompe il termine di contestazione dell’illecito, che in linea di principio deve immediatamente essere contestato al trasgressore quando possibile, altrimenti deve essergli notificata nel termine di 90 giorni, o 360 se il trasgressore risiede all’estero. Il momento dell’accertamento deve intendersi non con riguardo al momento della rilevazione del fatto astrattamente contestabile, ma al momento della conclusione dell’accertamento. Se a seguito della diffida interviene la regolarizzazione della situazione, il datore di lavoro può estinguere la violazione contestatagli mediante il pagamento della sanzione amministrativa determinata in misura ridotta. Nel caso di violazioni aventi natura di contravvenzione penale, compete al personale ispettivo delle direzioni provinciali del lavoro, oltre al potere di diffida, anche un potere di prescrizione, ossia quello di determinare gli adempimenti specifici a cui è tenuto il datore di lavoro al fine di riparare all’illecito: in questo caso, fermo restando l’obbligo di trasmettere la notizia di reato all’autorità giudiziaria, il procedimento penale resta sospeso durante tutto il periodo nel corso del quale il datore ha la facoltà di ottemperare alla prescrizione suddetta. In caso di ottemperanza, il datore potrà altresì estinguere il reato pagando una somma pari fino ad un quarto dell’importo massimo previsto dalla norma penale violata. Ciò premesso, a fronte di una violazione non regolarizzata da parte del datore di lavoro viene in rilievo ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria lo strumento dell’ordinanza ingiunzione. L’ordinanza, che viene emessa dalla Direzione provinciale del lavoro, è suscettibile di opposizione in sede di giurisdizione ordinaria. L’opposizione si propone nella forma del ricorso, che deve contenere gli elementi di cui al 125 c.p.c. Il ricorso dev’essere depositato presso la cancelleria del giudice (o spedito, se presentato tramite servizio postale) entro 30 giorni (60 se l’interessato risiede all’estero) dalla notificazione del provvedimento, ovvero dall’esito dei ricorsi amministrativi, davanti al Tribunale del luogo in cui è stata commessa la violazione (l. 689/1981), a pena d’inammissibilità rilevabile d’ufficio. Sono parti necessarie del giudizio la Direzione provinciale del lavoro e l’autore della violazione contestata, mentre non è tale l’eventuale soggetto tenuto in solido con quest’ultimo al pagamento della sanzione amministrativa. Nel corso del procedimento le parti possono stare in giudizio personalmente. Inoltre il tribunale può esercitare in via autonoma poteri istruttori, tra i quali la citazione di testimoni, anche senza formulare appositi capitoli di prova. Il giudizio non si struttura come un’impugnazione della legittimità dell’atto amministrativo, bensì come un ordinario procedimento di cognizione sulla fondatezza della pretesa creditoria della Pubblica amministrazione: in sostanza, un’azione di accertamento negativo della stessa. Al riguardo, l’efficacia probatoria dei verbali redatti a seguito d’ispezione dipende dalla circostanza che dei fatti riportati l’ispettore abbia avuto o meno cognizione diretta: PAGE \* MERGEFORMAT 1 α. in ordine ai fatti di cui si è avuta cognizione diretta, il verbale ispettivo forma piena prova fino a querela di falso (quindi il giudice è tenuto a prestarvi fede); β. dei fatti la cui conoscenza sia solo indiretta, come per le conclusioni e valutazioni fatte dall’ispettore, il datore di lavoro può essere ammesso a provare liberamente (ossia senza il tramite della querela di falso, ma con tutti gli strumenti ordinari di prova) il contrario. Il verbale resta comunque decisivo al fine di stabilire il thema probandum. All’esito del giudizio il tribunale può valutare anche il merito del provvedimento della Direzione provinciale del lavoro: ciò si traduce nel potere di modificare l’ammontare della sanzione od annullare il provvedimento stesso. Il d. lgs. 40/2006 ha modificato il d. lgs. 689/1981, eliminandone l’esclusione ex lege dell’appellabilità delle sentenze di primo grado pronunciate in sede di opposizione. 8. Le sanzioni penali Le sanzioni penali sono integrate anzitutto dalla fattispecie di cui al 37 l. 689/1981 (Omissione o falsità in registrazione o denuncia obbligatoria). Un primo problema attiene alla portata della fattispecie. La stessa, in ordine alle registrazioni, punisce solo l’omissione delle stesse e non anche la loro falsità: quest’ultima può comunque essere sussunta sotto altre fattispecie penali (ad es. 478 e 479 c.p.). Occorre poi individuare quali siano le denunce o le registrazioni rilevanti, essendovi orientamenti sia a favore della rilevanza delle medesime solo se previste dalle norme previdenziali, sia a favore della tesi secondo la quale vengono in rilievo anche le registrazioni e le scritture previste dalla normativa civilistica (per es. il libro giornale) e fiscale (per es. registro dei corrispettivi e dei compensi a terzi). La fattispecie richiede quale evento conseguente alla condotta omissiva o di falsificazione un omesso versamento di contributi non inferiore al maggiore importo fra cinque milioni di lire (così l’originaria dizione della norma) mensili ed il 50% dei contributi complessivamente dovuti. Se per es. l’omissione ammonta a 5.000 € su un totale di 15.000 € di contributi effettivamente dovuti, la stessa non costituisce reato, perché il primo limite di tolleranza è superato (5.000 € è importo superiore a 5 milioni di lire), ma non anche il secondo (il pagamento omesso non è superiore a 7.500 €). I valori suddetti, integranti la c.d. soglia minima di consumazione del reato, costituiscono condizione obiettiva di punibilità e pertanto non è necessario che le stesse formino oggetto di dolo. Il reato si consuma con lo scadere del termine assegnato dalla legge per il compimento delle registrazioni e denunce, e si estingue nell’ipotesi di regolarizzazione. Una distinta fattispecie penale è prevista poi dal d.l. 463/1983, secondo il quale Le ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti [...] debbono essere comunque versate e non possono essere portate a conguaglio con le somme anticipate, nelle forme e nei termini di legge, dal datore di lavoro ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali ed assistenziali […], tranne che a seguito di conguaglio tra gli importi contributivi a carico del datore di lavoro e le somme anticipate risulti un saldo attivo a favore del datore di lavoro. Quest’ultima disposizione ha ingenerato diversi problemi sul piano applicativo. Ci si è chiesti anzitutto se vi sia o meno la necessità, ai fini dell’integrazione della fattispecie, dell’effettivo pagamento delle somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione da parte del datore. PAGE \* MERGEFORMAT 1 L’iscrizione deve avvenire, a pena di decadenza, per i contributi od i premi non versati dal debitore, entro il 31 dicembre dell’anno successivo al termine fissato per il versamento; in caso di denuncia o comunicazione tardiva di riconoscimento del debito, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello della conoscenza da parte dell’ente; per i contributi o premi dovuti in forza di accertamenti effettuati dagli uffici, entro il 31 dicembre dell’anno successivo alla data di notifica del provvedimento ovvero, in presenza di ricorso all’autorità giudiziaria, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui il provvedimento è divenuto definitivo. L’iscrizione avviene sul presupposto di un accertamento degli uffici degli enti pubblici previdenziali (ovvero in caso di decisione dell’organo amministrativo a seguito di impugnazione contro l’atto di accertamento dell’ente previdenziale); se l’accertamento è impugnato avanti all’autorità giudiziaria, l’iscrizione non è tuttavia possibile fino all’emissione di un provvedimento esecutivo del giudice. (La tempestività dell’impugnazione, idonea a precludere l’iscrizione a ruolo, è data dal deposito del ricorso. Si discute se nell’ipotesi in cui il ricorso del datore di lavoro sia depositato in cancelleria del giudice del lavoro dopo l’iscrizione a ruolo del credito ma prima della notifica della cartella esattoriale, ciò sia sufficiente a sollevare il datore dall’onere di impugnare nei termini la cartella esattoriale, ed a rendere illegittima per sé sola l’iscrizione a ruolo stessa. Secondo una prima tesi, poiché il ricorso preclude l’iscrizione a ruolo ma non anche la formazione della cartella esattoriale, si sostiene che non si verifica alcun effetto preclusivo: ne consegue la necessità di impugnare la cartella esattoriale nel termine previsto dalla legge. In senso contrario si osserva però che si è disposto che la cartella esattoriale debba indicare la data di iscrizione a ruolo del debito, ossia del momento a partire dal quale lo stesso è divenuto esecutivo. Più in generale, se pure era previsto dalla legge un termine entro il quale la cartella esattoriale doveva essere notificata al debitore, il problema era dato dal fatto che all’opposto nulla era stabilito con riguardo al termine entro il quale il ruolo dovesse essere consegnato al concessionario: la Corte costituzionale ha stabilito che il d.P.R. 602/1973 è illegittimo nella parte in cui non prevede detto termine. Il legislatore è pertanto intervenuto stabilendo che il concessionario debba notificare la cartella a pena di decadenza entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo per le somme dovute in base agli accertamenti dell’ufficio). Tale forma di tutela giurisdizionale si estrinseca in un’azione di accertamento negativo del credito dell’ente impositore. Una volta intervenuta l’iscrizione a ruolo, a cura del concessionario viene notificata al debitore la cartella esattoriale: si tratta di un atto analogo all’atto di precetto e finalizzato a portare a conoscenza il debitore dell’avvenuta iscrizione a ruolo e della data della stessa, dell’entità delle somme dovute e della causa delle stesse, nonché gli estremi del soggetto creditore e le modalità di pagamento. Il debitore viene altresì avvisato del fatto che qualora non adempia entro il termine di 60 giorni dalla notificazione della cartella, si procederà ad esecuzione forzata (oltre che ad iscrivere ipoteca legale o a disporre fermo amministrativo), nonché all’acquisizione stragiudiziale di notizie relative ai crediti vantati dai debitori presso i terzi; matureranno inoltre gli interessi di mora. PAGE \* MERGEFORMAT 1 La legge stabilisce che la notifica della cartella esattoriale debba avvenire entro l’ultimo giorno del dodicesimo mese successivo a quella della consegna del ruolo al concessionario. Avverso l’iscrizione a ruolo, il debitore qualora intenda contestare nel merito il credito vantato dall’ente di previdenza può proporre ricorso avverso l’ente impositore ed il cessionario del relativo credito al giudice del lavoro entro 40 giorni dalla notifica della cartella di pagamento. (Si discute della perentorietà del termine dei 40 giorni. Secondo un primo orientamento, la finalità del termine è quella di costituire in capo all’ente previdenziale un titolo esecutivo in tempi brevi: la conseguenza è che decorso detto termine non sarebbe più possibile contestare l’esistenza del credito contributivo tramite l’introduzione di un giudizio di accertamento negativo del credito; un diverso orientamento si basa invece sulla mancata qualificazione del termine in esame come perentorio, e sul fatto che l’iscrizione a ruolo non avviene sulla base di un accertamento giudiziale incontrovertibile, bensì sulla base della sola auto-dichiarazione dell’ente previdenziale medesimo). Il procedimento è regolato dalle norme sul processo previdenziale, ed il suo oggetto può vertere tanto sull’an che sul quomodo della pretesa previdenziale. Il ricorso spesso contiene un’istanza di sospensione dell’esecutività del ruolo, suscettibile di accoglimento in presenza di gravi motivi. Nel giudizio l’INPS si costituisce anche per conto della S.c.c.i., anche se non sempre in presenza di una procura speciale, per cui a rigore quest’ultima deve essere dichiarata contumace. Se invece il ricorso non è stato notificato alla S.c.c.i. (od alla Banca Monte dei Paschi di Siena) deve essere ordinata l’integrazione del contraddittorio, trattandosi di un’ipotesi di litisconsorzio necessario. Nel caso di opposizione spetta all’ente impositore la prova della doverosità del pagamento dei contributi omessi, trattandosi di un giudizio sul merito della pretesa creditizia dell’ente. Qualora vengano invece in rilievo vizi di regolarità formale della cartella, vengono in rilievo le ordinarie regole processuali in tema di opposizione, da introdursi con atto di citazione, agli atti esecutivi. Un problema particolare si pone nel caso in cui l’atto di accertamento contrasti con la qualificazione data al rapporto di lavoro in sede di certificazione del relativo contratto (si pensi per es. ad un verbale ispettivo che affermi la natura subordinata di un rapporto di lavoro, a fronte invece della certificazione di una natura difforme) In questi casi, fermo restando l’onere dell’ente previdenziale di formulare apposita domanda di accertamento della natura del rapporto, il punto è se sia possibile, prima ancora, iscrivere il credito a ruolo. Secondo una prima tesi, l’ente previdenziale non potrebbe iscrivere a ruolo il credito, e dovrebbe preliminarmente proporre un autonomo giudizio per fare accertare la vera natura del rapporto, mentre secondo una tesi difforme l’effetto della certificazione consiste solo nel precludere ogni attività esecutiva, almeno finché il giudice non confermi la legittimità dell’accertamento (difforme rispetto alla certificazione) operato sulla natura del rapporto, e dunque la conseguente legittimità dell’iscrizione a ruolo. A favore di tale ultima tesi si sostiene che diversamente opinando, poiché l’iscrizione a ruolo deve avvenire entro il 31 dicembre dell’anno successivo alla notifica dell’atto di accertamento, si determinerebbe di fatto la decadenza della stessa possibilità di iscrizione (perché l’ente impositore dovrebbe avviare un giudizio ordinario di accertamento della natura del rapporto). PAGE \* MERGEFORMAT 1 L’effetto della certificazione consiste tuttavia nella nullità di qualsiasi atto che presupponga una qualificazione del rapporto diversa da quella certificata, che sarebbe sostanzialmente elusa se l’INPS potesse iscrivere a ruolo il proprio presunto credito; inoltre il pericolo di decadenza non sussiste: infatti l’iscrizione deve avvenire, a pena di decadenza, in presenza di ricorso all’autorità giudiziaria, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui il provvedimento è divenuto definitivo. 5 – LA TUTELA CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO E LE MALATTIE PROFESSIONALI Di questo capitolo si può saltare la parte sul danno biologico e sulle azioni di surroga/ regresso dell’INAIL Domande possibili: - Nozione di infortunio - Nozione di malattia professionale e differenze con la malattia comune - Malattia professionale: sistema tabellare puro; intervento della corte costituzionale; sistema tabellare misto. - Tutela prevista in caso di infortunio o malattia professionale - Infortunio in itinere (requisiti per l’indennizzabilità e nozione di rischio elettivo) - Nozione di danno differenziale 1. Gli istituti assicuratori La tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali mette capo principalmente all’INAIL, il quale, analogamente all’INPS, gode di una competenza di tipo residuale. (I dipendenti civili dello Stato sono assicurati presso un’apposita gestione dell’INAIL per conto dello Stato. Il rapporto tra INAIL e Stato non è di natura assicurativa, ma si ritiene essere di mandato, con la conseguenza che in caso di infortunio derivante da fatto illecito del terzo compete allo Stato la legittimazione a rivalersi nei confronti del terzo). Il sostanziale monopolio attribuito dal legislatore italiano all’INAIL ha formato oggetto di una pronuncia da parte della Corte di giustizia delle comunità europee, in quanto nell’ambito dei principi comunitari di tutela della concorrenza l’attività dell’istituto assicuratore in esame è parsa di natura imprenditoriale ed integrare un sostanziale abuso di posizione dominante. Nel caso concreto, l’INAIL pretendeva il pagamento dei premi assicurativi, mentre l’impresa assicurante eccepiva la già intervenuta assicurazione in forma privata contro gli stessi rischi. La Corte ha ritenuto che non vi è contrasto tra il regime assicurativo degli infortuni sul lavoro e la normativa comunitaria. In particolare, la Corte ha rilevato che la gestione dell’INAIL è improntata a criteri di solidarietà, tali da negarne il carattere di attività economica, nonché dal fatto che la gestione finanziaria delle risorse dell’ente avviene prevalentemente mediante la ripartizione delle risorse. 2. I soggetti assicuranti ed i ricorsi esperibili PAGE \* MERGEFORMAT 1 Essendo la pericolosità presunta dalla legge in modo assoluto, non si può accogliere l’argomentazione di chi ritiene che ci si possa sottrarre all’obbligo assicurativo laddove esistono dispositivi di sicurezza che eliminino o scemino fortemente la possibilità di un effettivo pericolo. Le fattispecie finora esaminate postulano una pericolosità in considerazione dell’ambiente in cui si svolge il lavoro, in quanto caratterizzato dalla presenza di macchine, ma la pericolosità può essere intrinseca alla natura stessa dell’attività lavorativa, ossia al suo contenuto oggettivo. Il TU elenca tassativamente una serie di attività in costanza delle quali, pur mancando i requisiti sopra analizzati, ricorre l’obbligo assicurativo presso l’INAIL. Le attività in esame sono diverse: di costruzione, manutenzione, riparazione e demolizione di opere edili (n. 1); di scavo (n. 4); di trasporto per via terrestre (n. 7); di carico e scarico (n. 10); etc. Secondo il 4 TU 1124/1965, sono altresì compresi nell’assicurazione, in quanto non tutelati sulla base delle precedenti disposizioni, i soggetti ricompresi nelle nove fattispecie elencate; si tratta, ad es., α. di coloro che in modo permanente od avventizio prestano alle dipendenze e sotto la direzione altrui opera manuale retribuita, qualunque sia la forma di retribuzione; β. di coloro che anche senza partecipare materialmente al lavoro sovraintendono al lavoro di altri; χ. degli artigiani, che prestano abitualmente opera manuale nelle rispettive imprese; δ. degli apprendisti. In sintesi, l’assicurazione concerne tanto i lavoratori subordinati che autonomi, oltre ai lavoratori associati; ricomprende infine studenti e carcerati. In ambito agricolo, l’assicurazione è estesa in dipendenza dell’attività agricola stessa, e non di singoli tipi di lavorazioni, ed in base alla posizione dei lavoratori. Nel primo senso, è attività agricola quella diretta alla coltivazione dei fondi, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame ed attività connesse, anche se i lavori siano eseguiti con uso di macchine e non per conto e nell’interesse dell’azienda conduttrice del fondo; sono altresì considerate agricole le lavorazioni connesse, complementari ed accessorie dirette alla trasformazione ed all’alienazione dei prodotti agricoli, purché siano svolte sul fondo dell’azienda o nell’interesse e per conto di un’azienda agricola; infine, sono considerate agricole le lavorazioni alle quali si estende la tutela contro gli infortuni nell’industria quando siano svolte da un imprenditore agricolo ovvero siano svolte per conto e nell’interesse di aziende agricole e forestali. I lavoratori protetti sono tutti quelli fissi od avventizi, addetti ad aziende agricole o forestali, come pure i proprietari, i mezzadri, gli affittuari, i loro coniugi e figli che prestino opera manuale abituale nelle rispettive aziende, i sovrastanti ai lavori di aziende agricole e forestali che prestino opera retribuita, i soci di società cooperative conduttrice di aziende agricole e forestali. 4. L’oggetto dell’assicurazione: gli infortuni sul lavoro L’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte od un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni. L’evento rilevante è quindi la lesione della salute derivante dallo svolgimento di attività lavorativa (rischio professionale). PAGE \* MERGEFORMAT 1 Affinché l’assicurato abbia diritto alle prestazioni dell’INAIL in caso di infortunio devono quindi realizzarsi tre presupposti: causa violenta, occasione del lavoro, evento lesivo. La causa violenta è tale quando l’evento dalla cui verificazione discendono, anche a distanza di tempo, effetti dannosi, si verifichi con carattere di evidenza e repentinità. Il requisito in esame differenzia la fattispecie di infortunio sul lavoro rispetto alla malattia professionale, nella quale la stessa causa della lesione opera impercettibilmente ed in modo diluito nel tempo. (Malattie professionali ed infortuni sul lavoro sono assicurati cumulativamente). Ulteriore requisito è che l’evento si sia realizzato in occasione del lavoro: questa circostanza vale infatti a differenziare il rischio specifico che grava sul lavoratore dal rischio generico gravante sulla generalità dei consociati. Il problema si è posto soprattutto con riguardo al c.d. infortunio in itinere, ossia l’infortunio che colpisce l’assicurato nel corso di spostamenti che trovano motivazione nel rapporto di lavoro. Ferma restando l’indennizzabilità di quegli eventi che si verificano quando l’attività lavorativa debba svolgersi necessariamente in itinere (ad es. commessi viaggiatori), la regola della tendenziale irrilevanza dell’infortunio in itinere soffriva di una tassativa eccezione: si trattava dell’infortunio occorso al marittimo durante il viaggio compiuto per andare a prendere imbarco sulle navi al servizio delle quali è arruolato, o per essere rimpatriato – ma non per andare o tornare per le ferie o la malattia, perché l’eccezione è suscettibile di estensione analogica – nel caso in cui la dimissione dal ruolo abbia avuto luogo per qualsiasi motivo in località diversa da quella di arruolamento o da quella in cui si trovava al momento della chiamata per l’imbarco. Per affermare l’indennizzabilità dell’evento secondo la prevalente giurisprudenza occorreva riferirsi al concetto dell’aggravamento del rischio generico: l’infortunio in itinere era indennizzabile nel momento in cui sul verificarsi dell’evento abbiano inciso circostanze connesse con la prestazione di lavoro. Ipotesi tipiche erano per es. costituite dall’uso di mezzi di trasporto forniti o prescritti dal datore di lavoro per motivi di servizio, ovvero l’uso dell’unica via utile per recarsi al luogo di lavoro. (Secondo la Cassazione il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità delle persone, e comporta il grado minimo di esposizione al rischio della strada. La Cassazione ha però stabilito anche che è indennizzabile l’infortunio allorquando risulti certo che gli orari dei mezzi pubblici non sono compatibili con quelli del lavoro). Accanto a tale criterio, un altro criterio era rappresentato dall’individuazione nell’infortunio dell’elemento della necessità o finalità di lavoro, vale a dire dal fatto che il percorso sia stato imposto dall’una o dall’altra condizione: l’infortunio era indennizzabile quando vi era l’impossibilità, per adempiere gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro o più in generale per conseguire la finalità di questo, di sottrarsi ad un rischio, anche non collegato casualmente in senso proprio con l’attività lavorativa. (Secondo la Cassazione la violazione di norme fondamentali del codice della strada può integrare il rischio elettivo, che esclude il nesso di causalità fra attività protetta ed evento). In forza del d. lgs. 38/2000 la tutela contro gli infortuni è stata tuttavia estesa a tutti gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro se il lavoratore ha più rapporti di lavoro e, qualora non sia PAGE \* MERGEFORMAT 1 presente un servizio di mensa aziendale, durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti. La protezione viene estesa anzitutto a prescindere dal mezzo di locomozione utilizzato, salvo nel caso di utilizzo di mezzo privato che non appaia ragionevole. L’infortunato resta comunque privo di tutela in caso di deviazione od interruzione dal percorso del tutto indipendenti dal lavoro ovvero non necessarie. L’occasione di lavoro deve escludersi allorquando l’infortunio consegua ad un comportamento doloso del lavoratore medesimo, ossia in caso di autolesionismo. Nel caso di colpa, occorre distinguere a seconda che si tratti di un comportamento imprudente, negligente od imperito ma pur sempre connesso all’adempimento della prestazione lavorativa, dal caso in cui il comportamento sia del tutto estraneo all’esecuzione del lavoro. Il terzo elemento che deve ricorrere è dato dall’evento lesivo, ossia dall’alterazione in peius delle capacità psicofisiche dell’assicurato. Vengono in considerazione tre fattispecie: la morte dell’assicurato, la sua inabilità permanente in via assoluta o parziale, la sua inabilità temporanea ed assoluta. L’inabilità si considera permanente o temporanea a seconda che la mancanza di attitudine lavorativa si protragga apprezzabilmente nel tempo o meno, mentre la distinzione tra inabilità assoluta e relativa si determina sulla base di apposite tabelle. Il 10% di lesione costituisce il limite minimo al di sotto del quale non sussiste diritto a prestazione indennitaria alcuna, fino al limite del 100%, coincidente con l’assoluta inabilità. Nessuna tutela indennitaria spetta nel caso di inabilità parziale e temporanea. 5. L’accertamento dell’evento È lo stesso infortunato a dover denunciare immediatamente l’infortunio all’assicurante (il datore). Quest’ultimo a propria volta deve inoltrare denuncia all’INAIL ed all’autorità locale di Polizia di Stato. Nel caso di infortunio mortale, occorre che sia effettuata telegraficamente entro 24 ore dallo stesso. Al fine di consentire l’apertura di un’inchiesta tesa a verificare la copertura assicurativa dell’infortunio, l’autorità di pubblica sicurezza inoltrava copia della denuncia al pretore. Si trattava di una deroga alla normale competenza del pretore in quanto giudice del lavoro. Il pretore se necessario, o su richiesta, svolgeva l’indagine sul luogo dell’infortunio in contraddittorio con gli interessati; in mancanza dell’infortunato o dei suoi rappresentanti disponeva la partecipazione all’inchiesta di due prestatori d’opera addetti ai lavori nell’esecuzione dei quali è avvenuto l’infortunio. All’inchiesta prendeva parte anche un funzionario dell’INAIL, il quale era in grado di evidenziare tutte le regole di sicurezza sul lavoro eventualmente violate. La partecipazione si spiega in considerazione del fatto che l’INAIL, che è tenuto ad erogare le sue prestazioni anche a fronte di un comportamento dell’infortunato gravemente colposo, non sopporta sempre l’onere economico delle stesse, attesa la possibilità di agire in regresso nei confronti del datore che sia considerato responsabile. Attualmente la procedura di accertamento non viene più svolta dal pretore, il cui ufficio è stato soppresso, bensì dal servizio ispettivo della Direzione provinciale del lavoro. 6. Le prestazioni e i ricorsi dell’assicurato PAGE \* MERGEFORMAT 1 β. per le malattie tabellate e provocate da lavorazioni tabellate, ma denunciate all’INAIL oltre i termini suddetti, occorre distinguere a seconda che l’assicurato possa dimostrare che la manifestazione della malattia sia avvenuta entro i termini suddetti o meno: nel primo caso fruirà della presunzione legale propria del sistema della lista, altrimenti dovrà provare la natura professionale della malattia; χ. per le malattie non tabellate e/o contratte in lavorazioni non tabellate, l’assicurato dovrà provare con i mezzi ordinari l’eziologia professionale della malattia. Anche nel caso di malattie professionali la possibilità di prestazioni economiche è subordinata al fatto che la riduzione permanente della capacità lavorativa sia superiore al 10%. 8. L’art. 10 t.u., l’esonero dell’assicurante dalla responsabilità civile e la Corte costituzionale In caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale ascrivibile ad un fatto illecito del datore di lavoro assicurante o dei soggetti dei quali lo stesso debba rispondere dal punto di vista civilistico, viene astrattamente in rilievo il 2087 [Tutela delle conduzioni di lavoro], che impone in capo al datore di lavoro un’obbligazione di protezione in favore dei suoi dipendenti. Il sistema della responsabilità civile viene però derogato in base al 10 TU 1124/1965, il quale stabilisce che L'assicurazione a norma del presente decreto esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro. Si verifica dunque un esonero da responsabilità civile, ma vi sono delle eccezioni, cioè salvo che nel caso di evento dannoso derivante da una condotta (propria o del personale da lui incaricato per la direzione e la sorveglianza del lavoro) che ha costituito oggetto di sentenza penale di condanna, ovvero in caso di estinzione del reato medesimo per morte od amnistia. In quest’ultimo caso l’assicurato danneggiato può chiedere la condanna dell’assicurante a titolo di responsabilità civile in ordine al danno differenziale (ossia quella parte di danno che non viene coperta dalle prestazioni economiche erogate dall’INAIL), e l’INAIL può per contro agire in regresso nei confronti di quest’ultimo per recuperare quanto erogato in favore dell’assicurato. La norma è il risultato di un compromesso; in taluni punti l’esito dello stesso si rivela tuttavia insoddisfacente, specie per quanto concerne l’ammontare delle prestazioni a favore di determinate categorie di assicurati i quali, per il fatto di godere di una retribuzione più bassa del normale (per es. gli apprendisti) ovvero di non godere di alcuna retribuzione in senso stretto (per es. gli studenti) si vedono riconoscere prestazioni del tutto insoddisfacenti. In questi casi l’impossibilità di ottenere un integrale risarcimento per la parte del danno non coperta dalle prestazioni dell’INAIL è stata da alcuni considerata contraria al 3 Cost., sulla base dell’assunto che l’assicurato infortunatosi ha diritto ad una tutela più ridotta di quella spettante al soggetto non assicurato che subisca un infortunio, il quale può agire in base alle ordinarie regole di responsabilità civile. La Corte costituzionale ha però rigettato l’istanza, sostenendo che se l’assicurato è svantaggiato rispetto al comune cittadino per il motivo esaminato, a differenza di questi è avvantaggiato sotto due profili: dal punto di vista processuale perché non ricade su di lui alcun onere probatorio per ottenere l’indennizzo, e dal punto di vista sostanziale perché il suo diritto alle prestazioni non viene meno neppure nel caso in cui l’infortunio sia dovuto a sua colpa, anche grave. PAGE \* MERGEFORMAT 1 (Nel caso l’infortunio sia derivato da dolo dell’assicurato accertato con sentenza penale, l’INAIL ex TU 1124/1965 può agire in regresso verso lo stesso per recuperare le prestazioni erogate). Vantaggi e svantaggi pertanto vengono a compensarsi, considerata altresì la vigenza del principio di automaticità delle prestazioni, ad ulteriore garanzia dell’assicurato. Tuttavia la tenuta del sistema era destinata a vacillare non appena le fattispecie di responsabilità del datore aumentino: in questo caso infatti egli verrebbe sempre più esposto al costo del danno derivante dall’infortunio nei confronti dell’assicurato, quantomeno per la parte che non risulta coperta dall’INAIL (c.d. danno differenziale). Si consideri poi che per quanto riguarda le somme erogate dall’INAIL, il TU 1124/1965 prevede la possibilità dell’ente di agire in regresso verso il datore a fronte dell’erogazione di prestazioni previdenziali nei casi in cui sia prevista la responsabilità civile di questi. La Corte costituzionale ha ampliato la responsabilità civile del datore in tutti i casi in cui il danno sia causato da un comportamento costituente reato perseguibile d’ufficio, posto in essere dal datore assicurante ovvero da persone delle quali egli debba rispondere a norma delle leggi civili. Detto accertamento, peraltro, è divenuto possibile anche in via incidentale davanti al giudice civile. In questi casi l’assicurato gode del diritto ad un integrale risarcimento del danno e, specularmente, l’INAIL può agire in regresso per le somme versate. Così si è dapprima sancita l’illegittimità costituzionale del 10 TU 1124/1965 nella parte in cui limita le fattispecie di responsabilità alle ipotesi nelle quali il fatto di reato all’origine dell’infortunio sia imputabile esclusivamente ai dipendenti incaricati della direzione o sorveglianza del lavoro, e non anche agli altri dipendenti del cui operato il datore di lavoro debba comunque rispondere a norma del codice civile (il riferimento è al 2049, rubricato “Responsabilità dei padroni e dei committenti”). Inoltre si è dichiarato incostituzionale il 10 TU 1124/1965 nella parte in cui non prevede che in ipotesi di prescrizione del reato permanga il potere del giudice civile di accertare se il fatto dell’infortunio abbia egualmente costituito reato. La Corte costituzionale ha poi dichiarato illegittima la preclusione dell’INAIL ad agire in regresso nei confronti del datore qualora il processo penale intentato nei suoi confronti o di un suo dipendente per le ipotesi supra evidenziate si sia concluso con l’assoluzione e l’istituto non sia stato posto in grado di partecipare al detto procedimento. (La stessa Corte ha ritenuto incostituzionale che l’accertamento dei fatti materiali riguardanti l’infortunio, avvenuto in sede penale, possa spiegare efficacia in sede di procedimento civile nei confronti del datore che non sia stato posto in condizione d’intervenire in sede penale). Ne è conseguito che l’INAIL, se non ha potuto prendere parte al processo penale, può sempre agire in sede civile contro il datore per fare accertare una responsabilità penale del quale egli debba rispondere. (Si discute se l’INAIL possa iniziare il processo civile prima del passaggio in giudicato della sentenza del giudice penale, ovvero prima dell’estinzione del reato nel caso in cui la notitia criminis non sia mai pervenuta all’attenzione del p.m.). 9. Il problema del danno biologico e il d. lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 Il problema della tenuta costituzionale del modello assicurativo postulato dal 10 TU 1124/1965 si era ulteriormente aggravato perché a partire dagli anni ’70 la PAGE \* MERGEFORMAT 1 giurisprudenza aveva iniziato a riconoscere quale diritto suscettibile di autonomo risarcimento in caso di lesione il danno biologico. Oggetto di quest’ultimo non sono le conseguenze economiche di carattere negativo, sotto la specie di danno emergente e lucro cessante, verificatesi in capo all’assicurato a seguito dell’infortunio, ma più radicalmente la stessa alterazione delle qualità psicofisiche dell’individuo o la sua salute, tutelata dal 32 Cost. in quanto tale. Essendo la salute diritto fondamentale dell’individuo, la lesione della stessa comporta necessariamente un obbligo risarcitorio a favore dell’assicurato a carico dell’assicurante che ne fosse civilmente responsabile: dunque il datore assicurante era tenuto civilmente al risarcimento senza alcun esonero. La questione poi era ulteriormente complicata dal fatto che anche la lesione della capacità lavorativa era indennizzata dall’INAIL senza riferimento all’incidenza dell’infortunio o della malattia sul patrimonio dell’assicurato danneggiato. Ne conseguiva che se il danneggiante-assicurante veniva escusso dall’INAIL in sede di regresso e poi dal danneggiato-assicurato con l’azione risarcitoria ordinaria, poteva eccepire a quest’ultimo l’intervenuta estinzione dell’obbligazione risarcitoria. Se poi a venire in rilievo erano lesioni di rilievo ridotto, tali da non determinare alcun danno patrimoniale (e quindi a legittimare il danneggiato ad agire solo per i danni non patrimoniali), si verificava che l’INAIL, una volta erogato l’indennizzo, tramite l’azione surrogatoria nei confronti del responsabile civile finiva per incamerare l’intero risarcimento. Infatti il sistema delineato dal d.P.R. 1124/1965 si basava sulla tendenziale irresponsabilità civile del datore di lavoro nel caso di danno subìto dall’assicurato, a meno che lo stesso derivi da un comportamento costituente reato del quale egli sia tenuto a rispondere a norma delle leggi civili. L’INAIL in questo caso, e nel caso di responsabilità civile di terzi soggetti distinti dall’assicurante (che in quanto tali non godono di alcun esonero dalle ordinarie regole di responsabilità) può agire per il recupero delle somme erogate a titolo di prestazioni economiche a favore dell’assicurato nei confronti del datore di lavoro assicurante (azione di regresso: 11 TU 1124/1965) ovvero del terzo responsabile (azione di surroga: 1916 (Diritto di surrogazione dell'assicuratore); veniva in rilievo spesso la l. 990/1969). L’azione di regresso presuppone la responsabilità civile del datore derivante da un fatto di reato del medesimo o dei suoi collaboratori, del cui operato debba rispondere, e che il reato sia perseguibile d’ufficio: circostanze accertabili incidenter tantum dal giudice civile. Ciò premesso, occorre rilevare che l’INAIL erogava una rendita in caso di infortunio o di malattia qualora togliesse per tutta la vita l’attitudine al lavoro. Si trattava secondo la dottrina di un danno la cui entità prescindeva dal reddito del danneggiato. Nel momento in cui è sorta la figura del danno biologico (ossia del danno derivante da lesione del diritto alla salute, a prescindere dalle ripercussioni patrimoniali dello stesso), è sorto il problema derivante dalla somiglianza tra i due tipi di danno. Se poi il danno all’assicurato era di entità tale da essere trascurabile sul piano patrimoniale, e dava àdito solo al risarcimento del danno biologico, l’INAIL, una volta erogato l’indennizzo ed agito in via surrogatoria nei confronti del datore di lavoro, finiva per incamerare l’intero risarcimento dovuto. La Corte costituzionale ha quindi precluso all’INAIL di esercitare l’azione surrogatoria nei confronti dell’assicuratore del responsabile civile con pregiudizio del diritto del danneggiato al risarcimento del danno biologico: pregiudizio derivante dall’incapienza PAGE \* MERGEFORMAT 1 Circa l’oggetto della surroga, la Corte costituzionale ha precluso all’INAIL di surrogarsi nel danno biologico o nel danno morale spettante all’assicurato; non di meno la stessa ha lasciato àdito a dei dubbi ritenendo che parte dell’indennità erogata dall’INAIL avvenga a tale ultimo titolo. La Cassazione ha però ritenuto possibile solo la surroga avente ad oggetto il danno patrimoniale, ma al fine di valutare quest’ultimo sono sorti due orientamenti: α. il primo valuta il danno alla capacità lavorativa specifica in base a criteri medico- legali, e procede poi alla capitalizzazione dello stesso tenendo conto della retribuzione dell’assicurato; β. il secondo richiede invece all’INAIL la prova, più rigorosa, dell’effettivo danno patrimoniale subìto dall’assicurato medesimo. Un altro orientamento invece ritiene che nell’ambito della rendita vi sia una componente di danno biologico, che è stata quantificata nella misura di un terzo, ovvero rimettendone la valutazione ad un consulente tecnico d’ufficio. Il diritto di regresso postula l’ammissione dell’assicurato alle prestazioni erogate dall’INAIL, e l’esistenza della responsabilità civile del datore di lavoro derivante da un fatto di reato perseguibile d’ufficio commesso dallo stesso datore o da personale dipendente del cui operato egli debba rispondere. Sono perseguibili d’ufficio i reati di omicidio colposo, le lesioni personali colpose gravi (ossia quelle con malattia di durata superiore a 40 giorni) o gravissime commesse con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro, e tutte le lesioni che abbiano cagionato una malattia professionale. Il regresso, a differenza della surroga di cui al 1916 (Diritto di surrogazione dell'assicuratore), è un diritto che sorge autonomamente in capo all’INAIL per effetto dell’erogazione delle prestazioni economiche da parte dello stesso e nei casi in cui l’assicurante non è esonerato da responsabilità civile. Si tratta quindi di un’azione che inerisce per sua natura al sistema previdenziale, e pertanto esercitabile nelle forme del processo del lavoro, entro un periodo massimo di tre anni. 6 – I RICORSI AMMINISTRATIVI E GIURISDIZIONALI Capitolo che viene chiesto solo in generale: bisogna solo sapere il giudice competente, il tipo di rito e la condizione di procedibilità. A volte viene chiesto il problema del silenzio dell’amministrazione. 1. I ricorsi amministrativi I ricorsi amministrativi sono delle dichiarazioni di volontà attraverso le quali il titolare di una situazione giuridica soggettiva ritenuta lesa da un provvedimento amministrativo si rivolge all’autorità amministrativa affinché questa, ex auctoritate sua, riveda il proprio operato. A seguito della presentazione del ricorso, l’amministrazione adìta è tenuta ad avviare un procedimento di natura amministrativa volto a riesaminare il proprio operato (potere di autotutela). In caso di controversia con l’ente previdenziale, l’esperimento dei ricorsi in esame si pone come condizione necessaria per accedere alla tutela giurisdizionale. Il difetto della domanda amministrativa di erogazione delle prestazioni previdenziali determinerebbe del resto l’assoluta improponibilità della domanda giudiziale di tutela, PAGE \* MERGEFORMAT 1 determinandosi in tal caso una temporanea carenza di giurisdizione, rilevabile in qualsiasi stato e grado del giudizio. I ricorsi amministrativi hanno ad oggetto gli atti coi quali l’istituto previdenziale neghi il diritto alle prestazioni. Quando l’assicurato ritiene di aver maturato il diritto ad una prestazione previdenziale, deve farne istanza all’istituto previdenziale, ma poiché la prestazione viene erogata su domanda dell’interessato, che integra allora un requisito sostanziale di fattispecie, se nel caso concreto la stessa non è stata presentata si dice che l’autorità giudiziaria eventualmente adìta in via diretta dall’assicurato manca in via assoluta e permanente della possibilità di conoscere della controversia. In questi casi il processo instaurato dall’assicurato si interrompe definitivamente. Occorre che l’ente assicurante si pronunci sulle istanze dell’assicurato: in relazione a tale esigenza, la l. 533/1973 dispone che in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie la richiesta all’istituto assicuratore s’intende respinta, a tutti gli effetti di legge, quando siano trascorsi 120 giorni dalla data di presentazione senza che l’istituto si sia pronunciato: è la procedura del silenzio-rigetto. A fronte di un provvedimento di carattere negativo espresso o di un silenzio ad esso equiparato, non è tuttavia ancora possibile per l’assicurato adire immediatamente l’autorità giudiziaria ordinaria: la tutela avanti all’autorità giudiziaria è subordinata infatti all’esperimento di un ricorso amministrativo. Il 3 l. 241/1990 prevede che l’ente di previdenza ha l’onere di indicare nel provvedimento di rigetto della prestazione previdenziale i termine e l’organo avanti al quale è possibile ricorrere. Anche nel caso di ricorso è stato previsto che, decorsi i termini fissati dalle leggi speciali per la relativa decisione o decorsi comunque 180 giorni dalla data della presentazione, l’azione giudiziaria diviene proponibile. Sui rapporti fra il termine per la decisione del ricorso amministrativo e la decadenza sostanziale dal diritto alle prestazioni, la Cassazione dice che la presentazione di un ricorso tardivo non consente lo spostamento in avanti del termine di decadenza, e tale principio va esteso all’ipotesi di tardivo provvedimento di rigetto nel merito da parte dell’istituto previdenziale. Dal mancato esperimento del rimedio amministrativo discende che la domanda proposta avanti all’autorità giudiziaria non è procedibile: il giudice deve quindi sospendere il processo. Tuttavia l’improcedibilità deve essere rilevata esclusivamente entro la prima udienza di discussione. Qualora la causa d’improcedibilità sia rilevata, il giudice deve fissare un termine perentorio di 60 giorni per la presentazione a carico dell’attore del ricorso in sede amministrativa (l’attore avrà poi l’onere di riassumere il processo entro 180 giorni dalla cessazione della causa di sospensione). Ne consegue che il ricorso può esser presentato per es. all’INPS anche dopo diverso tempo dalla pronuncia del provvedimento di rigetto, anziché entro il termine generale di 90 giorni, posto che secondo la giurisprudenza l’onere del ricorrente è solo quello di esperire un tentativo obbligatorio di conciliazione che si pone come causa di mera improcedibilità dell’azione, e non anche di improponibilità della stessa: il che presuppone che il termine di 90 giorni non sia perentorio. Da ciò si desume che non si può parlare di veri e propri ricorsi amministrativi. Inoltre non assumono rilievo nel successivo giudizio avanti all’autorità giudiziaria i vizi, le preclusioni e le decadenze che si sono verificate nelle procedure amministrative relative alla materia previdenziale. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Il d. lgs. 124/2004 prevede la competenza di un apposito comitato presso la Direzione regionale del lavoro per i ricorsi avverso gli atti di accertamento e le ordinanze- ingiunzioni delle direzioni provinciali del lavoro ed avverso i verbali di accertamento degli istituti previdenziali ed assicurativi che abbiano ad oggetto la sussistenza o la qualificazione dei rapporti di lavoro. Negli altri casi permane la competenza dell’INPS. La competenza a decidere sui ricorsi relativi alla sussistenza od alla qualificazione del rapporto di lavoro spetta alla Direzione provinciale del lavoro. In materia di ricorsi in ambito contributivo, la stessa è invece ripartita tra diversi organi dell’INPS. In materia di classificazione dei datori ai fini contributivi, viene in rilievo la competenza del consiglio di amministrazione dell’INPS. La materia delle prestazioni forma invece oggetto della competenza dei comitati provinciali dell’INPS. Esistono poi appositi comitati per le gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali a favore dei coltivatori diretti, mezzadri e coloni, degli artigiani, dei commercianti. A monte dei ricorsi in materia di contribuzione si pongono poi i ricorsi del datore avverso il suo inquadramento ai fini previdenziali. L’onere di esperire il ricorso amministrativo avverso il provvedimento previdenziale di rigetto è venuto meno in relazione al riconoscimento dei benefici relativi all’invalidità e la cecità civile, il sordomutismo, l’handicap e la disabilità i fini del collocamento obbligatorio al lavoro: in questi casi, l’assicurato deve proporre direttamente domanda giudiziale entro sei mesi dalla data di comunicazione del provvedimento amministrativo di diniego. 2. La tutela davanti all’autorità giudiziaria ordinaria Esperiti i ricorsi di carattere amministrativo, le controversie in materia previdenziale possono sfociare innanzi all’ordinaria giurisdizione civile. In tale sede il giudice valuterà non il provvedimento di rigetto emesso dall’ente previdenziale, ma il diritto dell’assicurato alla prestazione. L’ordinamento prevede una serie di termini (decorrenti dalla comunicazione del provvedimento finale del ricorso amministrativo o dalla data di scadenza del termine entro il quale il provvedimento deve essere adottato), entro i quali l’azione civile deve essere iniziata a pena di decadenza. (Secondo la Cassazione, in tema di decadenza dall’azione giudiziaria per il conseguimento di prestazioni previdenziali, il mancato adempimento, da parte dell’istituto previdenziale, dell’obbligo di comunicare al richiedente il provvedimento adottato sulla domanda di prestazione con le prescritte indicazioni, ovvero la mancanza del provvedimento amministrativo conclusivo del procedimento, impedisce il decorso del termine di decadenza sostanziale, rimanendo irrilevante che non si preveda alcuna sanzione per l’inadempimento di tale obbligo). Per le prestazioni pensionistiche il termine è di tre anni, mentre per le prestazioni non pensionistiche (per es. indennità di disoccupazione) il termine è di un anno. (In tema di integrazione al minimo della pensione, vale però la prescrizione decennale. Secondo la Cassazione, in tema di integrazione al minimo di pensione a carico dell’INPS il termine decadenziale di 10 anni per l’esercizio del diritto alla prestazione previdenziale decorre dalla decisione del ricorso amministrativo o dalla scadenza dei termini previsti per la decisione, oppure, nel caso di mancata o tardiva proposizione del ricorso, dall’insorgenza del diritto ai singoli ratei. PAGE \* MERGEFORMAT 1 Gli istituti di patronato e di assistenza sociale legalmente riconosciuti, su istanza dell’assistito, possono in ogni grado del giudizio rendere informazioni ed osservazioni orali o scritte tramite un loro rappresentante, ed il giudice deve tenerne conto in sede di giudizio. I patronati sono enti collettivi legittimati a svolgere attività nei confronti dell’ente previdenziale per conto dell’assistito. Sono chiamati a prestare attività di assistenza gratuita nei confronti di tutti coloro che ne facciano richiesta e non solo ai propri iscritti, e sono finanziati dallo Stato in base al numero di pratiche svolte. Le sentenze emanate nelle controversie di cui al 442 c.p.c. sono provvisoriamente esecutive; tuttavia l’immediata esecutività delle sentenze di primo grado è divenuta regola generale del processo civile. Il 431 c.p.c. consente di iniziare l’esecuzione sulla base della sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per depositare la sentenza. Avverso le sentenze rese nelle materie di cui al 442 c.p.c. è ora previsto l’appello alla Sezione lavoro della Corte d’appello, e non più del Tribunale su base distrettuale. Nelle controversie in materia d’invalidità pensionabile deve essere valutato dal giudice anche l’aggravamento della malattia, nonché tutte le infermità comunque incidenti sul complesso invalidante che si siano verificate nel corso tanto del procedimento amministrativo quanto del processo giudiziario. Si tratta di un’eccezione al regime delle preclusioni vigente in ambito processuale, per il quale la controversia deve essere esattamente delimitata e delineata nel corso della prima udienza. Nel caso pendano avanti al medesimo tribunale diversi procedimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza, connessi tra di loro anche solo per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, in tutto od in parte, gli stessi devono essere riuniti, salvo nelle ipotesi in cui la riunione non renda eccessivamente gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo. Il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non è assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non sia manifestamente infondata e temeraria. La disposizione era stata abolita, ma tale abrogazione è stata ritenuta incostituzionale. La stessa è stata però modificata: il legislatore esclude dal privilegio dell’esonero dalle spese processuali i soggetti più abbienti. (Un ambito peculiare di controversie in materia di prestazioni previdenziali riguarda l’ipotesi in cui l’istituto assicuratore abbia erroneamente erogato delle prestazioni non dovute agli assicurati: già l’80 r.d.l. 1422/1924 attribuiva rilievo alla buona fede dell’assicurato nella percezione della prestazione previdenziale al fine di escludere il diritto alla ripetizione dell’ente previdenziale, in deroga alla disciplina ordinaria, nella quale la buona fede dell’accipiens vale solo a modulare l’obbligo di corrispondere gli interessi sulla somma indebitamente percepita, fermo restando l’obbligo di restituzione della stessa. L’80 r.d.l. 1422/1924 ha quindi natura eccezionale, e non si applica oltre i casi considerati. Una regola analoga a quella dell’80 r.d.l. 1422/1924 è stata estesa al settore del pubblico impiego. Di seguito si è stabilito che le pensioni a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, delle assicurazioni generali sostitutive o integrative dell’assicurazione generale obbligatoria e delle gestioni speciali possono essere in ogni momento rettificate dagli PAGE \* MERGEFORMAT 1 enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della pensione; inoltre se a seguito del provvedimento modificato sono state riscosse rate di pensione risultanti non dovute, non si fa luogo al recupero delle somme corrisposte, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’assicurato. Il carattere eccezionale della disposizione in esame rispetto al sistema delineato dagli artt. 2033 ss. ha indotto la giurisprudenza a ribadire che l’ambito applicativo della fattispecie è riferito ai soli casi previsti dalla legge: la stessa non trova quindi applicazione ai casi relativi all’erogazione di prestazioni quali il trattamento speciale di disoccupazione, la cassa integrazione guadagni, gli assegni familiari. Di seguito, esigenze di cassa hanno indotto a circoscrivere ulteriormente detta eccezionalità: la legge ha sancito che l’eccezione opera solo nel caso in cui le somme siano state corrisposte sulla base di un formale e definitivo provvedimento che risulti affetto da errore imputabile alla pubblica amministrazione, quando di tale provvedimento sia stata data comunicazione all’assicurato; inoltre per escludere la ripetizione occorre altresì che l’errore della p.a. non sia stato causato da un’omessa od erronea comunicazione dell’assicurato medesimo in ordine a fatti incidenti sul diritto o sulla misura a pensione). 3. I processi in materia di assistenza sociale Il diritto all’assistenza sociale è previsto dal 38 Cost. a favore dei cittadini che non siano solo inabili al lavoro, ma siano anche sprovvisti dei mezzi necessari per vivere. Lo stesso compete allo Stato, alle Regioni e agli enti locali. Anche in materia di assistenza sociale l’erogazione delle prestazioni è subordinata ad una domanda amministrativa da parte dell’assistito nei confronti dell’ente. Secondo la Cassazione la domanda amministrativa avente ad oggetto l’indennità di accompagnamento, al pari dei requisiti sanitari, integra un elemento costitutivo del diritto all’indennità medesima. L’indennità di accompagnamento decorre dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della relativa domanda. Quest’ultima non può per es. ritenersi implicitamente ricompresa in quella diretta all’accertamento delle condizioni di invalido civile, posto che il riconoscimento dello status di invalido può avvenire a diversi fini, quali per es. l’iscrizione nelle liste speciali previste in tema di assunzione obbligatoria. Circa la prova da parte dell’assistito del requisito reddituale, la Cassazione ha ritenuto che la dichiarazione sostitutiva di certificazione sulla situazione reddituale è idonea a comprovare detta situazione nei rapporti con la pubblica amministrazione nell’ambito dei procedimenti amministrativi; per contro la stessa non ha alcun valore probatorio, nemmeno indiziario, in sede di procedimento civile. La prova della situazione reddituale grava sull’assistito anche in caso di revoca della prestazione. Il beneficio assistenziale è erogato previo accertamento dei presupposti sanitari ad opera di apposite commissioni mediche presso le Asl; accertata la sussistenza dei requisiti di legge, il provvedimento di ammissione alla prestazione assistenziale è di competenza delle Regioni; la fase di erogazione è infine di competenza dell’INPS. Al Ministero dell’economia e delle finanze compete invece il ruolo di verificare la permanenza dei requisiti richiesti per avere diritto alla prestazione. Nel caso di eventuali verifiche su soggetti già dichiarati invalidi con il vecchio e diverso sistema di valutazione in vigore prima dell’emanazione delle attuali tabelle, la diversa valutazione delle patologie potrebbe comportare la revoca del beneficio. PAGE \* MERGEFORMAT 1 L’onere di esperire il ricorso amministrativo avverso il provvedimento assistenziale di rigetto è venuto meno in relazione al riconoscimento dei benefici relativi all’invalidità civile: in caso di provvedimento amministrativo negativo in materia di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità ai fini del collocamento obbligatorio al lavoro, l’assicurato ha l’onere di proporre direttamente domanda giudiziale entro sei mesi dalla data di comunicazione del provvedimento amministrativo di diniego. Il legislatore ha previsto il trasferimento all’INPS, già titolare del Fondo per l’erogazione delle prestazioni economiche in favore degli invalidi e mutilati civili, di tutte le competenze in materia di invalidità civile che residuavano dopo il trasferimento alle Regioni in capo allo Stato; tuttavia anche nel caso di completo trasferimento permarrà la legittimazione congiunta del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’INPS. In caso di nomina di un consulente tecnico, si prevede inoltre che alle relative indagini debba prender parte anche un componente delle commissioni mediche di verifica indicato dalla Direzione provinciale, su richiesta del consulente nominato dal giudice, che dev’essere formulata a pena di nullità. La nullità peraltro sanziona solo l’omessa richiesta del consulente, non anche la mancata nomina del componente delle commissioni mediche di verifica o la mancata partecipazione dello stesso alle operazioni peritali. Circa la consulenza tecnica d’ufficio, per gli appositi accertamenti tecnici il giudice nomina uno o più consulenti tecnici scelti in appositi albi, e che nei casi di particolare complessità il termine di cui al 424, pari a 20 giorni, può esser prorogato fino a 60 giorni. Nonostante l’importanza della c.t.u. il giudice non ne rimane vincolato, perché può sempre discostarsi dalle conclusioni del proprio ausiliario se ricorre un’adeguata motivazione. La giurisprudenza di legittimità ritiene che la nomina di un consulente tecnico sia obbligatoria per il giudice di primo grado e facoltativa per il giudice d’appello, tenuto a disporre la consulenza solo se questa è stata omessa in primo grado. (La Cassazione dichiara altresì che la nomina del consulente tecnico in appello sia facoltativa tranne che nei procedimenti concernenti domande di invalidità pensionabile in cui vengano in rilievo l’aggravamento delle malattie denunciate od accertate, e l’insorgenza di nuove infermità, e l’assicurato deduca e documenti che dette situazioni non siano state tenute presenti dal primo giudice, o che si siano verificate nel giudizio di appello). La valutazione dell’invalidità non può esser compiuta in base a criteri equitativi. Occorre individuare la decorrenza dell’invalidità, basandosi se possibile su circostanze oggettive. La tutela accordata a fronte di una riscontrata invalidità presuppone altresì una certa stabilità nel tempo del quadro clinico, nel senso che la riduzione delle capacità dell’invalido non deve essere transitoria od emendabile con le opportune terapie mediche. La permanenza va però esclusa solo quando vi è la certezza della reversibilità dello stato invalidante. 7 – LA PREVIDENZA COMPLEMENTARE Capitolo importantissimo: viene chiesto quasi sempre. Domande possibili: PAGE \* MERGEFORMAT 1