Scarica Programma letteratura greca quinto anno Liceo Classico. e più Appunti in PDF di Greco solo su Docsity! GRECO STORIOGRAFIA E TUCIDIDE Tucidide decide di partecipare alla vita politica e militare della sua città. L’autore fondamentale della sua formazione è Omero, conosce bene la retorica, la metodologia della medicina ippocratica e il pensiero filosofico, ha anche esperienza di politico con competenze militari che gli permette di concentrarsi su fatti politici e militari. Punto di svolta per Tucidide, è il suo metodo da storico. Per lui fondamentale è la ricerca della verità, che avviene combinando diversi tipi di fonti, selezionandole e interpretandole, al fine di trovare la verità storica così come fa un medico. Altri caratteri fondamentali sono l’analogia e il confronto tra gli eventi storici al fine di prevedere ciò che succederà. Per lui è molto ardua la ricostruzione dal passato a causa dell’indebolirsi del ricordo e per l’inattendibilità dei resoconti. Tutto ciò significa che nelle Storie sceglie eventi contemporanei con delle incursioni nel passato che possano far comprendere ancora di più la guerra del Peloponneso. Nel narrare gli eventi di questa guerra si limita però solo a fatti politici e militari mettendo in secondo piano gli aspetti sociali, geografici e culturali, tutto ciò poiché non aveva bisogno di meravigliare gli spettatori ma per lui l’obiettivo era l’utile, in modo da fornire ai lettori un possesso perenne affinché si possa comprendere il presente studiando il passato. LE FONTI Tucidide ha fonti perlopiù orali, presentando un’unica ricostruzione dei fatti, secondo la sua indagine. Ciò non lo limita nell’inserire dei discorsi all’interno dei suoi brani, consapevole che è impossibile riproporre la forma esatta ma capace di garantirne la plausibilità e la funzionalità nel chiarire gli eventi narrati. Nelle Storie, infatti ritroviamo tre tipi di discorsi: assembleare deliberativo, epidittico e giudiziario. LE CAUSE Tucidide analizza anche le origini degli eventi, distinguendo tra cause occasionali (αἰτίαi) e la causa più vera (αληθεστάτη πρόφασις). Le prime, sono più immediate ed evidenti e superficiali. Le seconde sono le ragioni profonde che scopre lo storico. Nel caso della guerra del Peloponneso, la causa superficiale è la successione di contrasti tra Atene e Corinto, la causa reale è il timore di Sparta e dei suoi alleati per la crescente potenza politica, economica e militare di Atene. LA LEGGE ALLA BASE DEGLI EVENTI È possibile scoprire nel divenire storico una costante, causata dalla natura umana, che identica in ogni tempo e luogo, fa sì che gli uomini posti davanti a situazioni analoghe reagiscano in modo simile e prevedibile. Una di queste leggi è che il più forte comanda sul debole (dialogo tra gli abitanti di Melo e gli Ateniesi). Altra legge fondamentale è la trappola di Tucidide, secondo la quale, ogni impero è destinato a perire e accade a causa di una nuova potenza che subentra in grado di spodestarlo. Per Tucidide quindi, le divinità non intervengono e l’unico protagonista della storia è l’uomo. L’unica cosa che può intervenire è la τυχη, cioè il caso. IDEE POLITICHE DI TUCIDIDE Tucidide diventa il portavoce di un’ideologia moderata, esprimendo commenti negativi nei confronti delle masse in quanto volubili, irruenti e incompetenti e per questo è necessario che ci sia una guida salda e intelligente (Pericle). ORATORIA GIUDIZIARIA AD ATENE E LISIA I processi come li conosciamo oggi derivano dalla Grecia antica. Nell’Italia contemporanea abbiamo 2 tipi di processi: civile e penale. Nel processo civile ci si occupa di cause in cui sono i diretti interessati, a cui è parso di essere lesi di un diritto, a denunciare e portare avanti la causa davanti a un giudice. Nel secondo, invece, è lo Stato che accusa i cittadini e ha l’obbligatorietà di pena, poiché questi illeciti vengono visti come pericolo per tutta la comunità. In Grecia c’era lo stesso discorso: c’erano due tipi di processi, le δίκή, che riguardavano i reati privati denunciati dalla vittima o dalla famiglia e le γραφή, che riguardavano i crimini pubblici e che ciascun cittadino poteva denunciare. Ogni processo era prima sottoposto a fase istruttoria, cioè una valutazione da parte di appositi tribunali per capire se il procedimento poteva continuare. Ogni reato aveva un tribunale prestabilito: l’Aeropago si occupava di omicidi premeditati o volontari, il Delfino si occupava di omicidio legittimo, il Palladio giudicava l’assassinio non volontario e non premeditato e il Freatto si occupava di crimini eseguiti da chi era esiliato. La giuria era composta da cittadini comuni che venivano sorteggiati che basavano la loro decisione sui sentimenti e su quello che ascoltavano. Per questo motivo, accusatore e imputato iniziarono a rivolgersi a professionisti della retorica, i logografi, che preparavano la tattica del dibattito creando un discorso persuasivo, insistendo sul fatto che chi è imputato oggi può essere giudice domani e viceversa. Per questo l’oratoria giudiziaria seguiva schemi precisi: -l’introduzione: la parte in causa presenta i fatti -la narrazione: si raccontano gli eventi -discussione e produzione di prove e testimoni: sviluppo dell’argomento e ragionamenti logici e di carattere giuridico -perorazione: la parte finale in cui il pathos ha il sopravvento per influenzare i giudici LA COMMEDIA NUOVA O BORGHESE E MENANDRO Il genere comico subisce dal IV secolo a.C. un’evoluzione che procede di pari passo con i mutamenti politici e sociali e si suddivide in tre fasi: la commedia antica con Aristofane, la commedia di mezzo e la commedia nuova con Menandro. Dopo la morte di Alessandro Magno, il suo impero si suddivide in tanti piccoli regni in cui non è più la democrazia la politica vincente e per questo motivo, uno dei tanti effetti collaterali è la cessazione del contributo in denaro che permetteva ai cittadini meno abbienti di assistere agli spettacoli teatrali, facendo alzare il livello sociale del pubblico. Così cambiarono anche i gusti: non si voleva più una comicità caricaturale e sboccata ma se ne preferiva una più raffinata, prediligendo scene verosimili di vita quotidiana. Si perde così il senso di politica dietro il teatro che diventa un motivo di svago. La commedia nuova ha caratteristiche ben precise: i temi sono incentrati su conflitti familiari e sentimenti intimi e personali, i personaggi sono individui comuni alle prese con i casi della vita quotidiana che rappresentano fedelmente l’umanità nelle sfaccettature psicologiche e gli intrecci contenuti riflettono con verosimiglianza le vicissitudini del pubblico. Le opere di Menandro sono articolate in cinque atti, separati da intermezzi corali di danza e canto e a livello tecnico conserva sia il prologo che l’esodo eliminando l’agone e la parabasi. Tutte le opere che ci sono giunte presentano la stessa trama essenziale: una coppia di giovani deve superare uno o più ostacoli per realizzare o ricomporre il proprio matrimonio. Menandro crea degli intrecci molto complessi in cui la Tuke interviene insieme all’intervento degli uomini, in positivo o negativo. Spesso avviene una duplicazione degli intrecci, infatti, la vicenda principale si concluse nel IV atto e l’antagonista avrà il tempo di redimersi e maturare nel V. A causa della complessità dell’intreccio, il pubblico deve essere già preparato tramite una divinità onnisciente che spiega l’antefatto, presenta i personaggi e ne preannuncia l’epilogo. I personaggi sono spesso del ceto medio-alto in cui è presente l’armonia familiare e il benessere economico. Al centro delle aspettative dei giovani, vi è sempre un matrimonio felice, mentre il mondo degli adulti è dominato da egoismo e avidità. Menandro attribuisce ai personaggi qualità fisico-psicologiche differenti dalle commedie precedenti. Ruolo fondamentale è quello dell’introspezione psicologica, che fa emergere nei personaggi una complessità caratteriale arricchita da motivazioni profonde che spingono gli individui a comportarsi in un determinato modo, rendendo possibile il loro reinserimento nel sistema dei rapporti civili. Il messaggio morale di Menandro è racchiudibile in “L’esperienza delle difficoltà fa crescere”, secondo cui l’uomo che riesce a reagire bene alle difficoltà che la vita gli pone davanti, viene premiato. BISBETICO: Sostrato, un uomo ricco, si innamora della figlia dello scontroso Cnemone. Con l’aiuto del fratellastro di lei, Gorgia, cerca di convincere il padre ma non ci riescono. Il vecchio cade in un pozzo e viene salvato da Gorgia, il vecchio cambia atteggiamento e affida il patrimonio al figliastro e anche l’incarico di trovare un marito alla sorella, la quale sposerà Sostrato. CALLIMACO Callimaco lavora nella biblioteca di Alessandria e ha accesso a infiniti testi letterari, delineando anche quelli che sono i compiti di un letterato alessandrino: raccogliere, catalogare e definire i testi. Questo studio intenso fa sì che i poeti alessandrini abbiano bene presente il lascito del passato e riconoscano l’eredità dei giganti che li hanno preceduti. Per questo, sono obbligati a cercare vie nuove ed originali per spiccare. Nei loro testi, prediligono la brevità in quanto si diffonde il fenomeno dell’arte per arte, cioè la raffinatezza e la finitura assoluta. Sono moltissimi anche i riferimenti e le allusioni alle letterature passate e sono molto difficili da cogliere proprio per enfatizzare ancora di più la loro cultura. Cambia anche il pubblico e il tipo di fruizione: il poeta si rivolge sia a un pubblico che fruirà solamente oralmente dei suoi versi negli agoni pubblici o in stanze private di corte, sia a un pubblico di lettori che si avvicineranno all’opera tramite i libri come li conosciamo oggi. Un esempio tra gli autori alessandrini è proprio Callimaco che compone gli Aitia, cioè una raccolta di elegie in quattro libri il cui filo conduttore è costituito dalle domande che il poeta rivolgeva alle Muse. Esempio importante della letteratura alessandrina è il prologo degli Aitia poiché presenta un contenuto esclusivamente metaletterario ed è il primo e più ampio stralcio della produzione greca in cui l’oggetto della trattazione è la poesia stessa. Gli Aitia vengono considerati una sorta di continuazione della Teogonia di Esiodo, in quanto laddove finisce quest’ultima, iniziano gli Aitia. Callimaco non scrive però in esametri ma predilige il distico elegiaco che permette di trattare tematiche più vaste. maniera rigorosa le cause profonde degli eventi, quanto di inquadrare gli aspetti emotivi che questi eventi ebbero sul popolo. La storiografia del IV secolo aveva inteso dunque subordinare l’indagine sulle motivazioni dei fatti agli effetti psicologici sul pubblico, che intendeva stupire. POLIBIO VITA L’unico autore di cui possediamo un numero discreto di testi è Polibio, che può essere considerato uno dei più grandi storici della letteratura greca insieme ad Erodoto e Tucidide. Nacque a Megalopoli, cittadina dell’Arcadia, sul fine del III secolo (205 a. C. circa) e morì a 82 anni. Suo padre, Licorta, fu stratega della Lega achea, fondata intorno al 280 a. C. in funzione antispartana e che poi continuò ad avere un ruolo in funzione antiromana. Licorta capeggiò, infatti, la fazione che aveva come obbiettivo il fermare l’espansionismo di Roma in Grecia. Fra il 170 e il 167 anche Polibio ebbe un incarico come ipparco (ruolo più importante dopo stratega) della Lega. Anche egli prese posizioni antiromane. La sua carriera politica si concluse dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.), con cui la Grecia passò definitivamente nelle mani di Roma. Allora Polibio, insieme ad altri mille, fu inserito nella lista degli oppositori politici e preso dai romani come ostaggio. Tuttavia egli fu ammesso nei salotti della famiglia di Scipione l’Emiliano, di cui fu precettore. Perciò la sua condizione di ostaggio fu privilegiata, anche perché il circolo degli Scipioni era famoso per essere filoellenico, si trattava di appassionati estimatori della cultura greca. Quando nel 150 a.C., insieme ad altri ostaggi, ottenne la libertà, ebbe il coraggio di chiedere di tornare in Grecia (la richiesta non fu però accettata): questo ci fa capire il livello di libertà di parola e pensiero di cui godeva. La sua posizione di protetto degli Scipioni, lo aiutò molto nella stesura della sua opera, infatti gli fu permesso di viaggiare insieme a loro, di vedere Cartagine e Corinto distrutte, nel 146, e Numanzia nel 133. Muore circa nel 118 a. C. OPERA Il suo nome è legato ad un’unica opera giunta fino a noi (non interamente): le Storie. Quest’opera era articolata in 40 libri di cui noi possediamo: i primi 5 libri per intero, parte del VI; e poi degli Excerpta (estratti/riassunti) antiqua anonimi dei libri dal VII al XVI e il XVIII; degli altri, ad eccezione del XL (40), abbiamo degli Excerpta historica, voluti da un imperatore bizantino, Costantino Porfirogenito, che nel X sec chiese di fare delle sintesi della storiografia antica. Polibio inizia la sua indagine dal 264 a. C., dunque dall’inizio delle Guerre Puniche, fino ad arrivare al 146 a. C., anno della distruzione di Cartagine. Si ritiene tuttavia che Polibio, non da subito avesse deciso il piano dell’opera, in un primo momento (si capisce dal proemio) egli aveva pensato di fermarsi al 168, anno della battaglia di Pidna. I primi due libri, che fanno da prologo all’intera opera, sono definiti prokatasteuè, qui egli riprende la narrazione dal punto in cui si era fermato uno storico precedente, Timeo, da lui per nulla stimato. Questi due libri descrivono in modo sintetico gli eventi dal 264 al 222. Egli stesso sottolinea che questa descrizione è necessaria per comprendere gli eventi che seguiranno. Sempre all’interno di questo prologo egli mette in luce il fatto di aver messo al centro della sua opera l’espansionismo di Roma, in quanto queto elemento coinvolgeva tutto l’οικουμενης (territorio abitato), non solo il mondo greco. Nel III libro, c’è tuttavia un secondo proemio in cui Polibio sottolinea di aver revisionato la sua idea e ritiene che sia opportuno continuare la narrazione anche dopo la conquista della Grecia da parte di Roma, poiché è opportuno conoscere il modo in cui i romani gestiscono la Grecia conquistata. Sicuramente questa visione la assume grazie al fatto che ormai viveva nel cuore del potere romano, presso gli Scipioni. METODO STORIOGRAFICO Come lui stesso più volte afferma, lo scopo di Polibio era quello di raccontare una storia pragmatica (πραγματική ιστορία): ovvero una storia che si fonda esclusivamente sui fatti (πραξεις), trascurando tutti gli aventi mitici, le fondazioni di città, che non servono a nulla, né aiutano l’essere umano a capire il senso della storia. Polibio ritiene infatti che la storia sia soprattutto utile (ωφήλεια, utilità, della storia): historia magistra vitae. Nel IX libro critica perciò gli storici contemporanei, di cui si ritiene migliore, perché il loro fine è il diletto e perché fanno troppe digressioni, criticando moltissimo Timeo. Timeo infatti ha inserito nella sua opera molti discorsi, inventati di sana pianta, per fare leva sull’emotività del lettore, senza preoccuparsi della veridicità di quanto scritto: per Polibio è un bugiardo. La sua posizione nei riguardi della storiografia si può avvicinare a Platone: egli ritiene che non solo lo storico debba essere un narratore degli eventi, ma anche un fine conoscitore della politica (Polibio è stato infatti un uomo politico). Un altro elemento metodologico che caratterizza storiografia di Polibio, è l’αποδεικτική, ovvero la storia dettagliata. Egli infatti racconta la storia racconta anno per anno, e utilizza più modalità (perché sia compreso da più persone) per scandire il tempo: le Olimpiadi, che erano ogni 4 anni; i magistrati della Lega dorica e Achea; i consoli romani. Un’obiezione che gli si potrebbe fare è che nei primi due libri egli riassume quasi 50 anni, tuttavia egli risponderebbe dicendo che si tratta di eventi propedeutici a comprendere il dopo che è più degno di essere raccontato. Questo metodo, di riassumere anni precedenti prima di descrivere brevemente gli eventi che davvero vuole, Polibio la riprende da Tucidide, che lo usa per la Pentecontaetia (Polibio tuttavia non lo cita mai). Polibio porta avanti la sua ricerca in maniera rigorosa: distinguendo προφασις, pretesto, causa appparente, e αιτία, causa vera (Tucidide invertiva i significati). La sua analisi, tuttavia, non è precisa e profonda quanto quella di Tucidide, Polibio è un po’ più meccanico e schematico, com’è anche il suo stile. L’attenzione che si è avuta nei confronti di Polibio, non si deve infatti alla sua descrizione degli eventi, quanto ad alcune riflessioni, anche metodologiche, che egli ha inserito nella sua opera. Mentre Tucidide ed Erodoto avevano una visione storica ellenocentrica, Polibio ha invece uno sguardo più universale. PENSIERO Polibio nel VI libro teorizza l’ανακύλωσις, ovvero l’andamento ciclico degli eventi nella storia. La sua esperienza gli ha insegnato che esistono tre forme di governo, che degenerano in altre tre: la monarchia degenera in tirannide, poi il tiranno viene spodestato e al potere va l’aristocrazia, che degenera in un governo dei pochi, ovvero l’oligarchia, cui si ribella il popolo, dando vita ad un regime democratico, ma il popolo non è in grado di gestire il potere e dunque si degenera in oclocrazia (governo della massa), così il popolo si rimette nelle mani di un sovrano, e si ricomincia. Le motivazioni della grandezza di Roma, teorizzate anch’esse nel VI libro, partono da due presupposti: • moralistico: le città greche sono destinate a soccombere perché sono troppo attaccate al denaro, cosa che non appartiene a Roma; • analisi delle costituzioni: Polibio osserva che alcune forme di governo sono destinate a durare di più. Egli individua nella costituzione romana, che definisce μεμιγμήνη (mista), la costituzione perfetta e la più salda. La costituzione romana viene definita mista perché conserva aspetti che rientrano nel regime monarchico, tramite i consoli, aristocratico, attraverso il senato, e democratica, attraverso le assemblee popolari. Sono questi tre generi ad averne garantito una vita più longeva. L’IRRAZIONALITÀ IN POLIBIO Unico elemento irrazionale in Polibio è la Tyche, intesa come fortuna (o sfortuna, è una vox media). Un atteggiamento illuministico viene espresso da Polibio quando giudica positivamente l’impiego della religione a Roma: religio instrumentum regni. Egli resta ammirato di come i Romani abbiano saputo usare la religione come mezzo per tenere a bada la massa, e come elemento unificatore dello stato. STILE Polibio non presta molta attenzione al suo stile, che è arido e disadorno, semplice. La sua mancanza di cura viene sottolineata anche da Dionigi Di Alicarnasso. IL TRATTATO SUL SUBLIME La prima opera di critica letteraria giunta fino a noi è il trattato Sul Sublime. Il codice Parisinus Graecus 2036 del X sec. d. C., ci ha tramandato un trattato di 44 capitoli (si tratta solo di una parte dell’opera originale) intitolato Περὶ Ὕψους (Sul Sublime). Tutt’oggi la paternità rimane incerta: il testo ci comunica due nomi Dionisio e Longino: il primo secondo le nostre conoscenze si potrebbe riferire solo a Dionisio di Alicarnasso, autore vissuto nel I sec. a. C., che risiede per lungo tempo a Roma, ma la cui visione filosofica, retorica e oratoria risulta lontanissima da quanto espresso nel trattato; Longino si potrebbe identificare con un retore del III sec. d.C., Cassio Longino, ma sembra troppo tardo rispetto all’opera (nella parte finale dell’opera si parla infatti della questione della decadenza dell’oratoria, argomento in voga intono al I sec.). Dunque l’autore del trattato rimane anonimo. L’argomento dell’opera è il sublime, che cosa sia, come si raggiunge e chi lo ha raggiunto. Si capisce chiaramente dal testo, che il trattato fosse nato in risposta ad un altro, sempre sul sublime, di Cecilio di Calatte (di cui a noi non è giunto nulla). Secondo Cecilio di Calacte, il sublime nell’opera letteraria si raggiungeva tramite l’applicazione di regole che portassero alla persuasione. Secondo l’Anonimo, il sublime nell’opera letteraria si raggiungeva quando gli ascoltatori non venivano trascinati dalla persuasione ma dall’estasi: il sublime è «la risonanza di una grande anima», μεγαλοφροσύνης ἀπήχημα. Nella prima parte dell’opera l’autore si sofferma su quelle 5 doti (πηγαι, fonti) che deve possedere l’oratore per poter raggiungere il sublime: - alcune doti imprescindibili sono personali, e non vengono dallo studio, ovvero la capacità di concepire pensieri elevati (propria degli uomini etici) e l’emozione (pathos); - le altre tre fonti sono più tecniche e sono frutto di studio: l’utilizzo di figure retoriche, l’elevatezza dello stile e l’ingegno espositivo, ovvero la disposizione delle parole. Dopo questo, l’Anonimo fornisce alcuni esempi tratti dalla letteratura greca, latina, ebraica, di autori che hanno raggiuto nelle loro opere il sublime, e di altri che pur grandi non l’hanno raggiunto. Il metro di scelta degli autori è legato al concetto di classico, perché ciò che è classico è universale. Il sublime lo raggiungono: Omero, Saffo (Ode alla gelosia), la Bibbia (la genesi). Le citazioni di alcune opere da parte dell’Anonimo costituiscono il nostro unico modo per conoscerle. Il trattato si sofferma anche su Demostene e Cicerone, dove il primo ha raggiunto il sublime, il secondo, pur grande, perché segue il modello del primo, non ce l’ha fatta. L’Anonimo sottolinea tuttavia, che la grandezza non è data mai dalla perfezione, ma può essere anzi legata all’imperfezione. Perciò viene svalutata dall’Anonimo, perché eccessivamente curata, tutta la letteratura ellenistica. Esempio di Sublime per l’Anonimo: nel IX dell’Odissea, Odisseo scende dell’Ade e, quando incontra Aiace gli chiede se prova rancore per il fatto che le armi di Achille non siano state assegnate a lui, Aiace non risponde, ma lo guarda e va via. Nell’ultima parte dell’opera, l’autore entra in merito della polemica sulla decadenza dell’oratoria: secondo lui la decadenza dell’oratoria si lega alla decadenza dei valori morali, un oratore meschino non può essere grandioso, non può concepire pensieri elevati. Per quanto riguarda la polemica tra apollodorei e teodorei, egli si schiera con questi ultimi. Tuttavia lo stile e la lingua che lui usa sono più vicini allo stile puro, con una sintassi semplice, e perciò più vicina ad Apollodoro. PLUTARCO Possiamo definirlo un autore moderno. È un autore di età imperiale (50-120 d.C.), che ci lascia numerosissime opere e un grande contributo per la nostra comprensione del fenomeno dell’integrazione della letteratura greca con quella latina. Il suo nome è legato a due importanti capisaldi della letteratura di età imperiale: Vite Parallele e Moralia. Nacque in Beozia, a Cheronea ma viaggiò anche a Roma. Sappiamo da fonti indirette che ebbe ruoli consolari sotto gli imperatori Traiano e Adriano. Da lui stesso sappiamo che fu sacerdote presso il santuario di Delfi, per il quale riuscì a ottenere dei finanziamenti per riportarlo ai fasti dell’epoca passata. Fu un autore molto prolifico, infatti a noi sono stati tramandati titoli di più di 200 opere, tramite il Catalogo di Lampria e il lessico Suda. VITE PARALLELE (Βίοι Παράλληλοι) Si tratta di un’opera biografica, in cui Plutarco mette a confronto, a coppie, la vita di uomini illustri romani e greci. È composto da 21 coppie, e una doppia coppia, ovvero quella dei due re di Sparta, Agide e Cleomene, confrontati a Tiberio e Gaio Gracco. Ci sono inoltre quattro vite fuori dalla coppiata: Galba, Otone, Artaserse e Arato. A rendere interessante l’opera, è anche il fatto che nel corso della narrazione, l’autore ci fornisce delle indicazioni metodologiche, che spiegano il tipo di lavoro da lui compiuto e le motivazioni dietro le scelte. Nella Vita di Alessandro, la prima vita, egli spiega che non si concentrerà sui grandi eventi (πραξεις), ma darà più importanza agli aneddoti, alla vita privata dei personaggi, in quanto il suo intento non è scrivere la storia (come era quello di Polibio), ma delineare i caratteri dei personaggi. Plutarco dimostra, tuttavia, di conoscere molto bene anche gli eventi storici perché gli fa spesso cenno, senza entrare nei particolari, e mostra anche di prestare grande attenzione alle fonti, da cui attingeva le informazioni. Come egli stesso afferma, la sua è una impostazione che fa sì che, dei personaggi, venga fuori l’aspetto etico e morale, e dunque anche un suo giudizio. Perciò egli non trascura gli aspetti negativi dei personaggi scelti, alcuni dei quali totalmente negativi: Plutarco descrive la natura umana tutta. Questa caratteristica dell’opera emerge, ad esempio, nel confronto tra la vita di Demetrio e quella di Antonio. Nell’introduzione alla Vita di Demetrio, infatti egli scrive che descrivere personaggi negativi ha valenza didattica: il lettore (la civiltà aurale è sparita) conosce così quali sono i comportamenti da cui tenersi a distanza. In quest’opera, non ci si può aspettare costante coerenza e confronti particolarmente attenti: infatti le motivazioni che hanno portato al confronto di due personaggi sono spiegate solo all’inizio e spesso non vengono sviluppate, per il resto le vite si muovono parallelamente. Solo alcune vite presentano nel finale una συγκρισις (ovvero un confronto finale). Desiderio di Plutarco è rendere eterni i valori che il mondo greco ha diffuso, ritrovandoli anche nel mondo romano. Infatti pur essendo forte il messaggio di integrazione egli rimane più legato al mondo greco, a cui Roma deve tanto. Il mondo greco viene infatti, pur in decadenza, esaltato per i suoi valori.